Cara Angela, sarebbe bello se il tuo retino provasse a catturare un po’
di PIOGGIA, soggetto a me particolarmente caro. Essa è inafferrabile: non si
può imbrigliare la pioggia, come non si possono contenere le parole. Ma cos’è
la poesia se non un flusso incessante di sensazioni che ci attraversano e ci
affascinano come un’odorosa pioggia estiva o un rovescio primaverile ubriaco di
sole? La pioggia si fa sempre epifania di un racconto unico e irripetibile. Assolti i tre presupposti della “nominazione” (e la pioggia ha un nome
bello che sa di qualcosa che cade copiosamente e fa rumore, ma che è anche
suono, musica, canto, danza), della “derivazione”
o “ricerca-azione”, indagine sulle sue radici e sulle sue
foglie (e sappiamo che deriva dal latino, ma che anche ha dilatato via via i
suoi rami attraverso le varie dominazioni che ne hanno ferito e inciso il
tessuto originario, compresi gli innumerevoli dialetti della nostra lunga
penisola), e della “significazione”,
che tanta parte ha nella Pioggia di Francesca e nei miei due volumi (a cui se
ne aggiungerà nel 2021 il terzo e conclusivo) del mio romanzo Le piogge e i ciliegi, scopriamo che in
questa parola ci sono tutti i volti delle piogge: la pioggia, che calma e
rasserena e porta allegria e salva, e la pioggia che distrugge, testimone di
perdite e lacrime, di disperazione e allontanamento, incomprensione e devastazione,
di perdita si sé e delle stesse parole. La pioggia, con tutte le sue
contraddizioni e le sue dispersioni: infatti, purifica e infanga, distrugge e
fa sperare in nuovi domani, isola e unisce, nasconde e rende visibile una pena.
Ma è anche soffusa di malinconia o attanagliata di nostalgia. Pittori e poeti, artisti, registi,
cantautori l’hanno vissuta e la vivono spesso in maniera esaltante. Fonte perenne
di ispirazione, si ferma nelle pagine della letteratura, emozionando la penna di
chi l’ha vista semplicemente venire giù dal cielo, o mentre riflette il cielo
nelle pozzanghere, magari riaccendendolo di stelle. Per molti è semplice
fenomeno atmosferico, ma per chi ha una mente creativa è forza
della natura che si carica di mistero. E la creatività ci restituisce questo
mistero con sfumature diverse, accendendolo persino d’azzurro e di luce (come fa
Garcia Lorca), anche se la giornata è grigia e monotona per la fitta pioggia
che viene giù. E la mente va subito a “La pioggia nel pineto” di D’Annunzio,
una poesia ricca di suoni, sinfonie, canti ed incanti panici che l’ironia di
Eugenio Montale, nella sua poesia “Piove” (da Satura II, 1970) distrugge: la
sua pioggia è soltanto uno stillicidio monotono che caratterizza una vita
noiosa, disillusa e pessimista, in un mondo senza profondità culturale ed
emotiva. La “natura” non rientra negli interessi degli uomini del suo tempo. È l’anello
mancante perché l’uomo contemporaneo riscopra la sua umanità al di là della
retorica dannunziana, che creò il mito negativo del “superuomo” con le nefaste
conseguenze che sappiamo. E qui occorrerebbe fare un riferimento anche a
Nietzsche… ma ne verrebbe fuori un trattato fuori tema. Opportunamente desisto. Francesca mi scrive ancora: Sono tantissime le poesie sulla pioggia che
mi stanno a cuore, a cominciare dai versi di Lorca contenuti nel tuo bellissimo
romanzo. Te ne potrei citare un’infinità… ma mi limito a questa, per me
immensa, del grandissimo Octavio Paz “Come chi ascolta piovere” (traduzione di
Ernesto Franco) da Albero interiore (1976-1987 in Octavio Paz Il fuoco di ogni
giorno, Garzanti, 1992… PS.: la musicalità che ha in lingua originale è ineguagliabile. Come dice Paz, la parola poetica può rivoluzionare il mondo! La trascrivo così come mi è stata da
Francesca inviata per godere insieme della sua bellezza:
“Ascoltami come chi ascolta piovere”
“Ascoltami come chi ascolta piovere”
Ascoltami come chi ascolta piovere,
né attenta né distratta,
passi lievi, pioviggine,
acqua che è aria, acqua che è tempo,
il giorno non finisce di andarsene,
la notte non arriva ancora,
figure della nebbia
nel voltare l’angolo,
figure del tempo
nell’ansa di questa pausa,
ascoltami come chi ascolta piovere,
senza ascoltarmi, ascoltando ciò che dico
con gli occhi aperti verso dentro,
addormentata con i cinque sensi svegli,
piove, passi lievi, rumore di sillabe,
aria e acqua, parole che non pesano:
ciò che fummo e siamo,
i giorni e gli anni, questo istante,
tempo senza peso, pesantezza enorme,
ascoltami come chi ascolta piovere,
lampeggia l’asfalto umido,
il vapore si alza e cammina,
la notte si apre e mi guarda,
sei tu e il tuo sembiante di vapore,
tu e il tuo volto di notte,
tu e i tuoi capelli, lento lampo,
attraversi la strada ed entri nella mia fronte,
passi d’acqua sopra le mie palpebre,
ascoltami come chi ascolta piovere,
l’asfalto lampeggia, tu attraversi la strada,
è la nebbia errante nella notte,
è la notte addormentata nel tuo letto,
è l’ondeggiare del tuo respiro,
le tue dita d’acqua bagnano la mia fronte,
le tue dita di fiamma bruciano i miei occhi,
le tue dita d’aria aprono le palpebre del tempo,
sgorgare di apparizioni e resurrezioni,
ascoltami come chi ascolta piovere,
passano gli anni, ritornano gli istanti,
senti i tuoi passi nella stanza vicina?
Non qui né là: li senti
in un altro tempo che è proprio ora,
ascolta i passi del tempo
inventore di spazi senza peso né luogo,
ascolta la pioggia scorrere per la terrazza,
la notte è ormai più notte fra gli alberi
fra le foglie si è annidato il fulmine,
vago giardino alla deriva
- entra, la tua ombra copre questa pagina.
E vale la pena di fare un rapido commento critico-poetico: innanzitutto occorre rilevare, già nel titolo che anaforicamente si ripropone in tutta la poesia, la poco frequente figura retorica del poliptoto molto suggestivo (ascoltami… ascolta…), che si traduce subito in accorata preghiera verso la persona amata, vissuta attraverso la stessa pioggia. Poi: l’uso esclusivamente della virgola per tutto il componimento poetico a ri-creare lo stesso ritmo cadenzato della pioggia da ascoltare in tutte le contraddizioni spazio-temporali che essa trascina con sé nella caduta e nella mente visionaria del poeta che sembra far sua, anche lui!, la teoria del prisma di Borges, a cui abbiamo dedicato un incontro col mio “retino delle parole”. E, come si può notare, anche le parole catturate nel retino, grazie anche a voi, subiscono la rifrazione prismatica tanto da moltiplicarsi non in una sequela di specchi, ma con innumerevoli sfaccettature che sarebbe bello e utile analizzare, anche perché è una teoria che mi affascina e che cerco di praticare da quando sono “maggiorenne” nella mia scrittura in prosa e in versi... Ma, tornando ai versi di Octavio Paz (tra l’altro, Premio Nobel per la Letteratura nel 1990, e una serie interminabile di altri Premi tra cui quelli riguardanti la Pace, la Libertà, la rinnovata Umanità ecc. ecc.), di grande suggestione stilistica ed emotiva è la reiterata contraddizione che rende tutto vero e visionario nello stesso tempo (ascoltami come chi ascolta piovere,/ senza ascoltarmi, ascoltando ciò che dico/ con gli occhi aperti verso dentro,/ addormentata con i cinque sensi svegli,/ piove, passi lievi, rumore di sillabe,/ aria e acqua, parole che non pesano:/ ciò che fummo e siamo,/ i giorni e gli anni, questo istante,/ tempo senza peso, pesantezza enorme…) e azzera spazio e tempo e li fa rinascere nell’“attimo” che non muore e si fa eterno (questo istante). E le personificazioni e le fascinose diversificazioni della visione delle dita della donna amata (le tue dita d’acqua bagnano la mia fronte,/ le tue dita di fiamma bruciano i miei occhi,/ le tue dita d’aria aprono le palpebre del tempo,/ sgorgare di apparizioni e resurrezioni…), ciò che appare in un lampo e che fa rinascere, fino all’ascolto dei passi e allo scorrere dell’acqua in una percezione quasi onirica di dati visivi e uditivi, che rendono reale e dinamica una pioggia così contraddittoria che annulla e ripropone e salva. Fino all’ultima preghiera che è un inno alla donna e alla scrittura e all’amore ( - entra, la tua ombra copre questa pagina.).
Con l’unico punto posto alla fine, quasi a dare il signum della veridicità dell’ascolto… Come tacere di fronte a tanta bellezza? E mi piacerebbe ricevere altri commenti interpretativi su cui riflettere e di cui fare tesoro. Non a caso, Peppe Sblano, riportando il discorso della parola a “coscienza” e poi alla “pioggia” mi suggerisce:…
Quando pronunci la parola la dedichi all'altro. La coscienza della parola è di natura relazionale, tant'è che San Giovanni il Battista per umiltà paragonò sé stesso ad una "voce che grida nel deserto". Cosa c'è di più inutile del pronunciare una parola in un deserto? La coscienza presuppone la relazione con chi contestualmente ti ascolta e ti interpella. COSCIENZA e Relazione sono due parole interconnesse e inseparabili. Purificare sé stessi sotto la pioggia presuppone l'inseparabilità delle parole acqua e pioggia. Ma sulla parola Relazione sarebbe utile un discorso a parte. Un abbraccio, Peppe
Sono decisamente d’accordo con lui. La
parola presuppone sempre una Relazione, come ho puntualizzato anche in
precedenza sul mio blog, altrimenti sarebbe inutile e sterile. Mi auguro che si
possano insieme approfondire, ora a distanza e poi da vicino, queste tematiche
così ampie, complesse e affascinanti, che da più parti mi si sollecita ad
affrontare. Lo fa con una bellissima lettera anche Vito Di Chio (ometto
volutamente titoli accademici perché ritengo che nel mio retino e nel mio blog
siamo tutti PERSONE perlopiù amiche che amano confrontarsi, approfondire,
appassionarsi al bello e al vero):
Carissima Angela, (…). È proprio vero, il tuo atteggiamento di fondo in questa delicata operazione del “Retino delle parole” continua a rivelarsi “esploratore”, proprio come suggeriva il grande T.S. Eliot: “Gli uomini (le donne incluse! – nota mia!) di età hanno da essere esploratori” (Old men ought to be explorers). È quella che tu chiami “azione di ricerca” e che tu consegni ai giovani, a quanti ti ascoltano e ti leggono. Non è però un semplice “passaggio di consegne”, non un “pacchetto di belle conoscenze” o di “belle parole” da affidare alle nuove generazioni, ma è ciò che io sento come “fuoco interiore della ricerca” fatta assieme a chi si mette in cammino con te e che sa apprezzare questo nostro “essere l’uno con l’altro”. L’io non scompare, ma – come osserva Carlo Ossola – l’io si fa “plurale” con le parole-tenda. E qui si riferisce al nostro grande comune amico e mago della Parola, il poeta Paul Celan, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. Nella poesia “Anabasis” egli evoca così questo passaggio dall’io al Noi: Visibile, udibile liberante Parola-tenda: insieme “Dal momento in cui cominciamo a munirci di ‘parole-tenda’ – commenta Carlo Ossola - immediatamente la realtà disegna in noi un ‘io plurale’, dove l’ego deve far tenda con altri, dove l’io diviene altrui”. I tuoi stimoli, le tue motivazioni a confrontarsi con le parole e con il Logos che le anima vanno in questa direzione. Grazie. E cosa è la Relazione se non tutto questo? A Vito ho risposto: Hai colto pienamente il mio pensiero, derivato proprio da Carlo Ossola che citerò ancora. Vado in quella direzione: il “tu” non sminuisce l’“io”, anzi lo rafforza nella piena consapevolezza che, se non c’è dialogo non c’è confronto, e non sopravviene il senso di responsabilità di ogni nostra azione nei confronti degli altri… Grazie. Ne riparleremo. E davvero mi preme mantenere queste promesse. Speriamo solo di averne il tempo e la possibilità… Ma, intanto, per oggi non posso continuare a parlarvi di letteratura, di pioggia, di libri e autori, così come mi piacerebbe fare, né posso riportare gli stralci della poesia di Lorca sulla pioggia appunto, come promesso. Non mi sembra giusto tediarvi così a lungo (e lo dico veramente e non per strappare consensi o applausi a scena aperta: tra di noi vige il senso dell’autenticità del nostro “camminare insieme”), ma domani continuerò a scrivere nella speranza che abbiate un po’ di tempo e di spazio, nell’arco della giornata, per la vostra poetologa. Grata sempre. A domani. Con un abbraccio.
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