mercoledì 31 marzo 2021

Mercoledì 31 marzo 2021: ancora da SUD…ario di V. Mastropirro e G. Fioriello…

 E continua la mia Prefazione, che ci fa rivivere, nostalgicamente, la Settimana Santa di ieri e ci evidenzia, amaramente, quella dei nostri giorni:

Vincenzo Mastropirro ha fatto del suo dialetto un fascio di nervi e di sangue per mettere a nudo le piaghe del passato e quelle del nostro tempo, i suoi dolori e le sue passioni, i suoi ricordi e le sue emozioni, con un linguaggio ardito, ricco di metafore e, in alcuni casi, sentenzioso, ironico, duro e mai rassegnato. Notevoli le sue raccolte di poesie in dialetto (Tretippe e Martidde, 2009; Poèsìa sparse e sparpagghiote, 2013; Timbe-condra-Timbe, 2016) che hanno portato la sua e la nostra anima in giro per l’Italia, mietendo allori dappertutto, e portando con sé anche i suoi inseparabili strumenti a fiato, il flauto traverso in particolar modo, altra passione incoercibile della sua vita. Questa volta, però, ha preso a pretesto la Settimana Santa che, nei nostri paesi del Sud, si veste ancora di riti e di preghiere e chiede al cielo clemenza per i vivi e per i morti. La prima poesia è quasi una introduzione amara a tutta la raccolta perché canta tristemente di un mondo rovesciato, quello dei nostri giorni, che egli guarda dalla cima delle scale di una chiesa deserta, in cui resistono al tempo solo statue “de criste e madunne”, che si sono stancate anch’esse di attendere che qualcosa cambi in meglio. E si nascondono per la vana attesa “jnde a re nicchje aschiure”. Scuro è anche il cuore del poeta nel vedere il cuore della sua gente “sbiadire” sempre più. Pensieri disperati si agitano nella sua mente. Ed ecco il miracolo improvviso e inatteso: le statue, anch’esse addolorate per tanta indifferenza e desertificazione dei sentimenti di umana pietà, escono dai loro nascondigli e dalla stessa chiesa per sedersi accanto a lui sul sagrato e insegnargli a pregare. Tenerissima conclusione: un atto di Carità da parte di Gesù e sua Madre perché rinasca nel poeta la Fede, e la Speranza. È da questo nuovo monte degli Ulivi che parte, dunque, la Via Crucis di Vincenzo. E la prima stazione è “la pregissiàune”: un rito antico, mai spento, nonostante il buio del nostro tempo. Il ritmo lento del suo passare per le strade del paese è reso vivo e vero dalla cera che si scioglie, mentre anche la banda suona nenie funebri che commuovono fino al pianto. La gente, consapevole di essere ben misera cosa al suo cospetto, alza il volto verso il volto martoriato di Cristo e s’accorge del Suo amore mai capito nella sua immensità: “pezzecatìdde de meddica sfritte/ pe’ cunzò laghene scuotte” (pezzettini di mollica sfritta per condire la pasta scotta). E la sua Sua infinita solitudine, mentre segue, con tutti gli altri, la scia delle candele liquefatte lungo le strade da percorrere, e segna “il tempo del lamento del flicornino”. Ci pervade una tristezza senza fine per il vano sacrificio di Dio, che si è fatto carne per essere riconosciuto dagli uomini. E, in questa vana attesa, ha “sprecato” anche il suo amore per l’umanità. Il prenderne coscienza da parte nostra, è il secondo miracolo, a cui questa Via Crucis di permette di assistere. A questo proposito, mi vengono in mente alcuni meravigliosi versi di Giorgio Bàrberi Squarotti: “Forse questo è riuscito a fare ieri/ il vecchio curatore delle cose/ del mondo antico, sempre più sbrecciato/ e maculato: ha anche rivestito/ il corpo tanto candido e ferito/ l’ha posato con cura nel suo vero/ eterno, gli ha perfino per lui scelto/ la margherita rosa e bianca come/ augurio che rivolse a sé, piangendo,/ nello spreco infinito dell’amore”. (G. B. Squarotti, Le voci e la vita, SECOP edizioni, 2016).

“E il ‘vero eterno’ è l’infinito amore, l’infinito dolore di un Dio fallibile nella sua infinita umanità, ma infinitamente divino nella sua indiscussa metafisica spiritualità (…) profondità abissale dell’amarezza di Dio di fronte alla inaspettata e forse inarginabile proliferazione del Male nel mondo”. Così scrivevo allora nella prefazione alla raccolta poetica del grande e compianto critico letterario e poeta torinese. E potrei, senza ombra di dubbio, sottoscrivere le stesse parole per i versi di Vincenzo Mastropirro, che ci sta trasportando in un’atmosfera mistica e misteriosa, attraverso la visione di un Cristo umano e divino insieme, verso la riscoperta della Fede e della Redenzione. Anche nella terza poesia assistiamo ad un miracolo: quello dello storpio che, al comando di Dio di alzarsi e camminare, lo fece “col coraggio addosso” e a lungo camminò. Strabilianti versi che ripercorrono il dolore antico “sulle strade impolverate del Sud”, dove “le case si accendono addosso”. Verso superbo, quest’ultimo, di fiamma viva a ridare colore e calore alla nostra mediterraneità, che sa del profumo in cui ogni “suono affonda” (“e il naufragar m’è dolce in questo mare”: ci pare di sentire Leopardi e l’infinito che la sua anima si prefigura e contiene).

E le anafore e le allitterazioni creano un ritmo incalzante e martellante quasi a inchiodarsi al ricordo della Potenza e dell’Amore di Cristo. Al suo miracolo. Non così è la stazione del “dolore”. Qui non c’è miracolo che tenga. La perdita di un figlio è il dolore più straziante e inarrestabile nella sua infinita durata nel tempo: “u core sckatte addavère” (il cuore scoppia veramente). E i poveri genitori, morti con il figlio, si riconoscono per lo sguardo spento nel “niente” che è meno di un vuoto. Solo le lacrime, il sangue e le bestemmie sono vivi per sempre. È lo stesso dolore di Dio e della Vergine Addolorata per quel figlio ingannato, tradito, martoriato, ucciso? Non tutti si direbbero d’accordo. Ma il mistero della morte supera ogni umana comprensione e il dolore si rifugia nella preghiera o nella imprecazione. Per restituirsi/restituirci alla vita. Il dolore si fa spine, si fa solitudine, si fa sangue che scorre. E non c’è partecipazione, non c’è comprensione, non c’è pietà nel cuore impietrito degli uomini del nostro tempo: pollastri privi di sentimenti. Pensieri vuoti, dove non alberga alcun senso profondo della vita, dove non si scorge lo scorcio azzurro di un cielo rabberciato di pietà e di fratellanza. Solo la corona di spine, conficcata su quel capo sanguinante e umiliato, conosce il dolore umano di quell’Uomo divino, ad espiare da solo i mali dell’intera umanità. Così i giorni della Passione scorrono lenti, Cristi e Madonne si alzano, scuotendosi di dosso la polvere del tempo e mischiandosi alla folla, che ama ricordare più per tradizione che per fede e si rivolge soprattutto a “Criste-skjevettòte/ Criste-murte, proprje Idde u cchjù sofferiénde/ u cchjù sìule e u cchjù astemòte da tutte (Criste-schiodato/ Cristo-morto, proprio Lui, il più sofferente/ il più solo e il più bestemmiato da tutti)”. Lo accompagnano “le crestudde”, cioè i bambini vestiti come Lui. Ma per loro è una festa in contrasto con la sofferenza e la morte, da cui per fortuna non vengono toccati. Anche per Vincenzo era giorno di festa nei giorni della sua infanzia innocente e leggera. Ma, soprattutto, verso il Calvario lo accompagna la Madre, emblema di tutte le madri con lo strazio nella carne e un accenno di speranza negli occhi. Per un mondo migliore da restituire a tutti i piccoli che vengono al mondo e hanno diritto a vivere una vita serena. Di Pace. Questa è, invece, per tanti di noi, la Via Crucis di tutti i giorni: andare “avanti e dietro”, come fanno re statuìre (coloro che fanno a gara per portare le statue in processione) per le nostre strade, forse per cercare un impegno di lavoro o qualcos’altro da fare; salire e scendere le scale altrui (Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale: la profezia rivolta a Dante dal suo trisavolo Cacciaguida nel XVII canto del Paradiso) per evitare di ridursi a poveri mendicanti, ignorati quasi sempre dai frettolosi passanti. Sono versi, questi, di Vincenzo Mastropirro, davvero di una drammaticità straziante, se pensiamo ai nostri emigranti di ieri (partene e bastimènte pe tèrre assài luntàne…) e alla triste realtà degli immigrati di oggi, in arrivo da altre terre martoriate su barconi di fortuna per andare spesso incontro non a una nuova vita, ma perlopiù alla morte in mare. Nel “nostro” mare Mediterraneo. E l’indifferenza domina sovrana. La diffidenza anche. E l’egoismo, padre di tutti i mali. Ma il padrone assoluto è il dio denaro, che si affianca continuamente al dio potere e quest’ultimo al dio-sopruso-odio-violenza. Violenza di un popolo contro l’altro, di un popolo sull’altro. Una sorta di trinità del Male, che domina il nostro tempo, come ogni altro tempo. Ma oggi ci sono “casse di risonanza” a livello mondiale, sconosciute fino a soli cinquant’anni fa.

E i chiodi lunghi e arruginiti della Croce di Cristo somigliano a quei bambini emarginati solo per il colore della pelle o per la povertà tra le mani e negli occhi, che spesso volutamente ignoriamo. Le ultime poesie sono “stazioni” dolorose di “visioni” terribili su quanto male possa fare il rifiuto, la separazione, il divieto. Lo stesso mare diventa l’inconsapevole nemico della salvezza, in un destino di onde a sommergere e negare il futuro a tanti bimbi che non hanno colpa né di essere venuti al modo né della crudeltà degli uomini o della stessa natura. Perché anche la natura sa essere crudele.

Versi drammatici, sia in dialetto che in italiano, che ci riportano alla mente immagini di corpicini lasciati alla pietà della sabbia e al pianto “cementato” delle madri senza più lacrime. Versi che avvolgono, stringono al petto, versano lacrime. A che servono le genuflessioni di chi va in chiesa a battersi il petto senza pregare?

È il grido di Vincenzo di fronte a tanto strazio, a tanta inveterata ingiustizia che sembra ormai normalità. Il poeta non può tacere l’orrore di tutti i Calvari del mondo. Lo urla con il linguaggio dei suoi padri. Quello che non tradisce mai. E Vincenzo Mastropirro, per salvarsi e per salvarci, lo ripropone come Canto antico di rinnovata Speranza. Il ricordo dolcissimo dell’antica Via Crucis si ripropone così, in questi versi di tenera pietà ma anche di lacrime e sangue per aiutarci a rivivere quel mistero di morte e di resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del cuore, come esigenza di rinnovato perdono (…) Ma il poeta non sollecita lacrime, commozione, preghiere, incanto, come da tradizione, per la festosa Pasqua. Si ferma al Calvario perché, per il momento almeno, non vede spiragli di salvezza. E gli uomini-belve continuano ancora oggi a mangiare l’agnello “sulla carne di Cristo”… E non possiamo dargli torto se l’amarezza si fa denuncia e accusa. Ma un miracolo Cristo continua a farlo: si immola ancora perché la Via Crucis sia uno spiraglio di luce per quanti credono nella Resurrezione, almeno come anelito dell’anima alla vera Vita. E noi, compreso l’Autore, siamo fra quelli.

                                                 Angela De Leo

U munne sotte-saupe

Assèise ‘ngope a re scole de la chisje

tremìénde u munne sotte-saupe.

Inde, stuonne statue de criste e madunne

ca s’onne stangote de danne adìénzie

Da-ffore, u munne cange a chelaure ogn-e matèine

ma u core de la gìénde sbiadisce sìémbe de cchjue.

Mo, me vìédene desperòte e ìéssene chione-chione

s’assidene au custe e m’ambàrene a dèisce re reziìune.

Il mondo sottosopra

Seduto in cima alle scale della chiesa

guardo il mondo sottosopra.

Dentro, stanno statue di cristi e madonne

che si sono stancati di darci retta

e si nascondono in nicchie oscure.

Fuori, il mondo cambia colore ogni mattina

ma il cuore della gente sbiadisce sempre di più.

Ora, mi vedono disperato ed escono piano piano

si siedono a fianco e m’insegnano a pregare.

 Alzati, cammina e stai zitto!

 Questo disse Cristo allo storpio

che si alzò senza piangere e senza paura

che s’alzò col coraggio addosso per camminare

che camminò il più a lungo possibile

sulle strade impolverate del Sud

dove il mondo cambia colore

dove le case si accendono addosso

dove il suono affonda nel profumo.

 U delàure

Se more de crépacòre

ce u delàure te sckatte ‘mbitte.

Ce u delàure se chiome figghje

figghjemèje figliomio

u core sckatte addavère.

Acchessèje onne murte

attone e mamme ca tìénene ùocchjere

‘nzeppote de larme, sanghe e astàime.

Se recanùoscene da cume te tremìéndene.

Tremìéndene ‘ndìérre e àvetene re nudde

tremìéndene u vegnàune e aspìéttene pacendìuse

aspìéttene ca crìésce linde-linde pe’ po’devendò àrue

sènza sapaje ca suotte stuonne radèisce seccote

sènza sapaje ca chire vegnìune nascene murte pe’ sìémbe.

 Il dolore

Si muore di crepacuore

se il dolore ti scoppia nel petto.

Se il dolore si chiama figlio

figghjemèje figliomio

il cuore scoppia davvero.

Cosi sono morti

padri e madri che hanno occhi

inzuppati di lacrime, sangue e bestemmie.

Si riconoscono da come ti guardano.

Guardano a terra e abitano il niente

guardano il virgulto e aspettano pazienti

aspettano che cresca lentamente per poi diventare albero

senza sapere che sotto ci sono radici secche

senza sapere che quei virgulti nascono morti per sempre.

 

. Re spèine

… ‘nge vole coragge a tremìénde re spèine.

La corone de spèine ca stè ‘ngope a Criste

u coragge u tène. Cure ca nan tenèime niue.

Sèime quatte pullastre sènza facce

abbandenòte a re chiacchjere vacande.

Pullastre sènza lìéngue e sènza penzìre

ca ‘ngandene sotte u sanghe ca scuorre

inde u sguarde de ce patisce delìure.

Assalìute chèra corone u sope

ca affùonne saupe a nu ùomene assiule.

Selariule, nasce ‘mmìézze a preghire e velène

alla-niute, alla-scalzòte, cu le chjuve arrezzenèite

e u fiòte spezzòte da re resote de la gìénde.

 Le spine

… ci vuole coraggio a guardare le spine.

La corona di spine che è in testa a Cristo

il coraggio ce l’ha. Quello che non abbiamo noi.

Siamo quattro pollastri senza faccia

abbandonati alle chiacchiere vuote.

Pollastri senza lingua e senza pensieri

che s’incantano sotto il sangue che scorre

nello sguardo di chi patisce dolori.

Solo quella corona lo sa

che affonda su un uomo solo.

Solitario, nasce tra preghiere e fiele

nudo, scalzo, con i chiodi arrugginiti

e l’alito spezzato dalle risate della gente.

Ma è solo qualche esempio del valore incommensurabile di un libro che ci prende il cuore e ci strazia l’anima, la quale avverte dentro tutto di sé tutto il subbuglio del bisogno di ritornare a credere nella possibilità, mai del tutto ignorata, dispersa, cancellata, della nostra resurrezione con la Resurrezione di Cristo, immolatosi sulla Croce per la nostra salvezza. Peccato che io non sia riuscita ad inserire le suggestive e preziose opere di grafica che avvolgono con immagini commoventi questi versi che sono chiodi, spade e coltelli a trafiggerci... Buona Pasqua di Resurrezione e di Pace a tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 30 marzo 2021

Martedì 30 marzo 2021: la settimana santa nel ricordo…

La settimana santa era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva, quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino, suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una chiesa gremita e penitente (adoramus te christe et benedicimus tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…) mi ero riconciliata anche col latino lingua di Dio… Tu e la nonna seguivate con profondo trasporto tutte quelle riflessioni e preghiere, che si dilatavano tra le navate in una sorta di cantilena ipnotizzante. Alla fine anche i fedeli più fedeli erano stremati tanto che alle Litaniae Sanctorum la folla, dopo un po’, cominciava a rispondere non più “ora pro nobis”, ma “nobìs” e, infine, “bìs”, pur non avendo alcuna intenzione di bissare… (kyrie eleison… kyrie eleison… christe eleison… audinos… exaudinos… sancta maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix… ora pro nobis… sancta virgo virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs… sancte paule… nobìs… … sancte andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte vincenti… bìs… …). Io mi annoiavo. Mi chiedevo che efficacia potessero avere quelle preghiere smozzicate di cui nessuno capiva un’acca. Vagavo con i pensieri, andavo lontano, fantasticavo, mi consolavo. Qualche volta mi distraevo sui volti dei vicini di banco. Cercavo d’indovinarne pensieri e colpe per capire il motivo di tanta sfibrante espiazione. Durante la mattina del giovedì santo, poi, le strade del paese erano percorse dalla processione del “Misteri” con tutte le statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù durante la via crucis. L’accompagnava la banda con le dolcissime nenie funebri di Carelli, Delle Cese, di Pasquale La Rotella, tutti i grandi musicisti del nostro paese; nenie, che creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la passione di Cristo si compisse.

Il rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al crepuscolo dello stesso giorno ed era un rito che mi piaceva molto: si andava in giro per le strade in un percorso che comprendeva almeno sette chiese da visitare in misteriosa e mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era il sepolcro con vasi colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di germe di grano, illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato, le cui fiammelle rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi d’ombre guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’. Il tempo di guardarmi intorno intimidita e incuriosita, persa nell’ammirazione della bellezza di quei vasi e di quelle luci in una disposizione artistica che differiva da chiesa a chiesa, secondo l’estro del sacerdote, del fioraio e delle bigotte che avevano provveduto all’allestimento. Le donne fuori dalle chiese commentavano: “Madónnə, cə jèjrə béllə cùssə ànnə u səbbùlcrə də sàn Səlvìstrə e pórə cùrə də rə  Vìrgənə”… (“Madonna, quanto era bello, quest’anno, il sepolcro della chiesa di san Silvestro e pure quello delle Vergini…”). “A mè na’ m’è piaciótə pə nnùddə cùrə də sànd’Andre’, asséjə misirìnə chə dùə strìppuə səccàtə scəchìttə”… (“A me non è piaciuto per niente quello di sant’Andrea, così misero con quei due rami secchi soltanto”…).

Dal venerdì, poi, si entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola che coprivano tutte le nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti gli specchi (in cui di sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna Angelina, derivatale da secoli di medioevo) nelle nostre case. La mia vanità subiva un feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio maggiore era non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio (jìndə au spécchiə stèjə u diàvuə e tu sì scəchìttə ‘na məndòsə ca nàn zàpə pənzà a nnùddə àltə… à dà scè drìttə drìttə au ‘mbìrnə…) (nello specchio c’è il diavolo e tu sei solo una vanitosa che non sa pensare a niente altro… devi andare dritto dritto all’inferno…). Ma mi consolavano di tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della mattina e quella del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo silenzio delle campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a intervalli da “rə tərròzzuə” (quei particolari arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare nell’aria con il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico suono cupo e greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili) fino allo scampanio a distesa della mezzanotte del sabato santo. Le due processioni erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede. L’Addolorata era bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e intriso di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo scultore, ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo ringraziava per tanta bellezza con le parole: “‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?” (“in Cielo mi hai vista ché in terra mi hai scolpita?”). Eri stato proprio tu a raccontarmi questa delicata leggenda la prima volta, lasciandomi incredula e incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno la bellezza di quel volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La Desolata”. Mi piace anche rivivere con te il racconto tenerissimo, che non conoscevo e che non so se faccia parte della tradizione popolare o della tua fertile fantasia: sta di fatto che raccontavi come, nella tristissima notte “du Scəvədìa Sandə”, il peregrinare della Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del figlio, avesse momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in quanto, uscendo dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il corpo di un giovane: quello di Giuda, il traditore di suo figlio, e con delicatezza gli si avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano...

Quale perdono più grande, dunque: quello di un Dio immenso, che lascia crocifiggere suo figlio, fattosi uomo per redimere l’umanità, o quello di una madre del tutto “umana”, trafitta da tutto il dolore del mondo, che pure bacia con gesto delicato la mano di colui che proprio con un bacio aveva tradito Suo Figlio? Lei, minuscola donna come tante, con un cuore immenso più dell’immenso Suo Dio... (Probabilmente è per questo che noi tutti ci rivolgiamo a Lei perché interceda in nostro favore presso il Padre e il Figlio. Lei: Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile ed alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio..., come recitano i primi versi della preghiera di San Bernardo alla Vergine nel Paradiso dantesco).

<Nella mente si affollano ricordi, lacerti d’infanzia, spaccati di vita paesana, parole in vernacolo in disuso, ma straordinariamente colorite e dense di significato, tradizioni da salvare, da valorizzare perché fanno parte di noi, del nostro sangue e della nostra anima, della nostra cultura contadina e della nostra fede. Della nostra stessa vita. Fatta anche di paura. Quella paura che serpeggiava nell’anima di tutti noi bambini quando entravamo nelle chiese con “scarsa luce e poca aria”, ma piene d’incenso, di lumini rossi, di lupini appena in germoglio. (…) la paura del buio delle chiese con le statue dei santi coperte con i panni viola della penitenza spesso era vinta dallo stupore. Meno piacevole, invece, era la sensazione della “bocca amara di digiuno” durante i riti della Settimana Santa.

“Eri bella come rosa...”: richiamo antico, che mi attanaglia il cuore, ancora oggi, al ricordo di quel volto come petalo lacerato che intensamente aspettavamo di guardare con un misto di venerazione, di pena e di curiosità per quella antica leggenda che voleva quel volto bellissimo causa della morte del suo scultore>.

(eri bella come roosa,/ là di Gerico sul praato./ Or sì mesta, sì pietoosa,/ dal sembiante scolorato/ sembri al suol reciso fioore,/ ricoperto di pallore! …). E Vitino, ormai diventato il prof Pasculli, da tutti amato e apprezzato, ne era diventato il direttore musicale, ma io non ero più riuscita ad incontrarlo dopo i nostri anni in via Maggiore angolo via De Rossi. A mezzanotte, infine, c’era la processione “du VenerdìaSàndə chə la nàchə d’òrə də Crìstə mùrtə” (“del Venerdì Santo con culla dorata di Gesù morto”), “də l’Addóloràtə” (“della Vergine in pianto”) nella vana ricerca del figlio, e “du Légnə Sàndə” (“del Legno Santo”), tutto luci e fiori. La piazza alberata, antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era illuminata solo dai falò nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal pomeriggio portavano da casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a quella triste rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con camicia, guanti bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza perché le tre statue non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel quadrilatero. Dopo ogni simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava musiche dolcissime e tristissime come lo Stabat Mater, canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del nostro Tommaso Traetta, e altre sinfonie. Anche io e Lizia portavamo le sedie per tempo perché tu e la nonna poteste stare comodi fino alla fine della lunghissima processione. Qualche volta anche al riparo dal vento freddo, intabarrati in cappotti e sciarpe per l’atteso inevitabile gelo (dicevate) di ogni venerdì santo, difficilmente riscaldato dal sole (u vənərdìa Sàndə fàcə sémbə brùttə tìmbə, da quànnə ‘mbrè crìstə sòpə a la cròcə…) (ad ogni venerdì santo, da quando è morto cristo sulla croce, è sempre brutto tempo…).

Lacrime commozione preghiere incanto tradizione.

(continua il racconto tratto dal primo volume de Le piogge e i ciliegi)

Ma mi giungono sul nostro blog bellissimi messaggi che vale la pena riportare. Ci aiutano a vivere insieme tormenti, paure, preoccupazioni, sofferenze fisiche e spirituali, ma anche gioie e sorprendenti raggi di sole a regalarci una incipiente quanto attesa primavera… Ecco il primo da parte di Caterina De Fusco con la sua consueta “penna ardente e traboccante amore”: Cara Angela, grazie per aver pubblicato un mio scritto ancora caldo perché nato il 21/03/2012. Probabilmente proprio l'amore incondizionato di Giovanni Gastel, elargito a piene mani a coloro che si sono trovati sul suo percorso è stato segno nel permettere la pubblicazione, con mia somma meraviglia, del mio scritto “Napoli-Venezia”. Sorpresa, stupore ed incanto (mi avete letteralmente "sorpresa") è il sapore di questo dono che mi avete elargito così, naturalmente. Ve ne sarò grata per sempre. È proprio un per sempre, "forever", che lega due anime appena incontrate, eppure sorelle da sempre, così io "sento" la tua anima, mia fraterna amica Angela. Una fratellanza che appartiene alla Volta Celeste così che mi sento a voi collegata. Un meraviglioso dono del Cielo a cui sarò per sempre grata... ed ecco "la gratitudine" del Retino delle parole della sensibilissima Angela De Leo. Con amore. Caterina (Riflessioni circa lo stupore nel leggere il mio testo pubblicato sul tuo blog). Poi, ancora di Caterina una intensa testimonianza: Angela fai riaffiorare tanti ricordi specie rispetto al tuo esordio... mia madre Rosita per Pasqua faceva il pane bucellato (pan dolce) a forma di bambolina, che teneva in grembo l'uovo, o a forma di papera che recava... nel dietro l'uovo, come lo covasse… una volta tirate fuori dal forno, ma ancor prima, la casa s'inebriava di un soave profumo e, appena fuori, la mamma le spennellava con il tuorlo d'uovo, per renderle lucide... erano una meraviglia ed erano ottime sia a colazione sia per accompagnare salumi, il cui sapore forte ben si coniugava con il dolce del pan buccellato. Bei tempi, mia madre, con i suoi sorrisi e lavori in cucina, inondava la casa che si riempiva di profumi. Io però non ho memoria di giaculatorie e astinenze. Proprio no per fortuna e, ho, poca memoria di uova pasquali; la memoria fa capolino invece a proposito della bontà di un coniglio, proveniente da Milano che la nostra famiglia ricevette in dono e che giunse nella nostra casa già tutto maciullato pronto solo ad esser mangiato. Nella memoria giacciono ancora i tailleur di mia madre costituiti da abito attillato e giacchettino o il morbido chiffon in seta specie di un abito di mamma che, da sopra il seno e nelle maniche, lasciava vedere la sua tremula trasparenza. Fattami più grande ricordo giornate di Pasqua a mangiare in zona flegrea, da me molto amata, sul mare o di quando ci raggiunsero miei allievi per sorseggiare un caffè insieme a tutti i miei familiari. Era bello che la primavera scaldasse le nostre spalle e con esse i nostri cuori. Caterina De Fusco

Come non dirti grazie, Caterina? Bellissimi e teneri ricordi dei nostri anni verdi come la speranza. E l’amatissima Rita Vecchi mi conforta e gratifica col suo grande cuore e con la modestia che la caratterizza: Come sempre leggerti è un Dono immenso! Grazie! r.v.

Ma il Retino ha catturato altri testi che riguardano la domenica delle Palme e la settimana santa:

“Domenica delle Palme 2021” di Lizia De Leo: Arrivasti all’ora di pranzo./ Fresca di parrucchiera./ Di buonumore.// Mi abbracciasti dicendo:/ “Noi staremo sempre in pace./ Nulla potrà dividerci.”// Invece è arrivata la morte/ a tessere i suoi fili tragici/ di separazione.// Ma oggi è Domenica delle Palme!/ E io ti abbraccio/ come l’anno scorso/ sicura della tua presenza.// La felicità è sempre altrove…

E non ci sono commenti. Ritengo che l’amore superi persino i confini del Cielo.

E, a questo punto, mi sembra doveroso proporre il libro particolarissimo di Vincenzo Mastropirro con le poesie in dialetto ruvese-italiano, e di Giuseppe Fiorello con le opere di grafica abbinate ai testi poetici: SUD…ario – Passio Christi-Passio hominis (SECOP edizioni, 2017). E vorrei proporvi la mia prefazione al libro. Mi sembra che rispecchi le meravigliose quanto amare pagine del libro, ma anche l’atmosfera di questa nostra difficile e… “distanziata” Settimana Santa: SUD…ario è la nuova, intensa, urlata raccolta di poesie in dialetto ruvese (con traduzionein italiano) di Vincenzo Mastropirro. Quasi un poema di quindici nenie funebri che si snoda lungo le 14 stazioni della Via Crucis, dal Getsemani al Golgota, in una riproposizione in chiave contemporanea delle terribili tribolazioni di Cristo prima di morire sulla Croce. Ma il titolo ci prende per mano e ci fa percorrere le strade del nostro Sud, che oggi più che mai è una sorta di sudario, panno che copre il volto di tanti conterranei, intriso di sangue, lacrime e sudore, come il velo della Veronica percorso di dolore. E l’immagine di copertina, opera del grande incisore bitontino Giuseppe Fioriello, ne definisce, con nocche al fazzoletto per non dimenticare, la triste verità del nostro tradimento verso l’enorme rinuncia di Dio alla sua Onnipotenza per Amore dell’umanità. E con gocce di sangue da raccogliere, perché non se ne disperda il senso e il significato fino ai nostri giorni e oltre. Con rapidi e densi tratti di inchiostro di china, l’Artista ci offre tavole grafiche che accompagnano i versi in tutta la loro drammaticità. E la parola si fa immagine e l’immagine s’incarna nella parola in un processo osmotico sorprendente, che ci coinvolge, ci turba, ci commuove. I tratti neri sul foglio bianco raccontano un mistero di luci e di ombre, checi affascinano e ci sconvolgono per la veridicità, plastica e dolente, della loro consistenza umana e divina. E ritroviamo paradossalmente le nostre radici in una tessitura grafica e poetica essenzialmente contemporanea. In qualche tavola ho ritrovato la ricchezza frantumata e polisemica di “Guernica” di Picasso, ma anche l’essenzialità del segno e del senso di alcuni pittori contemporanei, come Antonio Sanfilippo o Pepita Simon in alcune loro vibranti opere in china, essenziali e raffinate. Le tavole del nostro pittore sono, pertanto, ricche di suggestivi chiaroscuri, ora trasparenti come acqua di fonte, ora cupi e profondi come il peccato che c’imprigiona. L’esergo è un capolavoro di denuncia sociale e umana, un grido di dolore e di rabbia che squarcia il silenzio dell’omertà e dell’indifferenza:

… ci nasce au Sud se zezzàisce de passiàune

e cunnànne l’àneme all’ètérnetò.

… chi nasce al Sud s’insudicia di passione

e condanna l’anima all’eternità.

vm

Si tratta di due versi che racchiudono parole di grande forza e veemenza, che s’innalzano fino al cielo non come un senso di liberazione, ma come il macigno di una condanna all’eternità in una condizione di atavica rozza passione, che non si riesce a vincere per restituire alla nostra gente, come meriterebbe, dignità e libertà. E i termini nel dialetto antico sono una scudisciata in pieno viso: zezzàisce, passiàune, cunnànne. Ed è un dialetto duro, imperioso, sanguigno, che mal si addice alla bellezza incantata della poesia, e che pure è Poesia.dell’anima. Non può che essere poesia. È la lingua che abbiamo ascoltato sin da quando siamo venuti al mondo, sussurrata con amore da nostra madre quando ci teneva al seno. È quella della ninnananna con cui nostra nonna cercava di farci addormentare. È la lingua dei primi giochi. Delle prime tenerezze. La lingua del cuore. Quella che riscopriamo dentro di noi ogni volta che una emozione ci sorprende, un dolore ci opprime, una gioia ci fa mettere le ali. È la nostra rabbia. Il nostro rancore. È il nostro ricordo. La nostra nostalgia. È il mondo sotterraneo che ci portiamo dentro e che affiora nei momenti difficili della nostra vita quando, senza maschere o convenevoli sociali, ci consegniamo agli altri nella nostra autenticità, nel nostro stupore di essere paradossalmente nudi eppure non riconosciuti nella nostra pelle, nella parte più scoperta e più vera, che è comunque, a ben vedere, anche la parte più intima e più oscura di noi. Quella che affonda le radici nell’humus fecondo dei nostri antenati, del loro modo di vivere, di esprimersi, di manifestare o contenere sentimenti, emozioni, pensieri. Una sorta di contenitore rustico, fatto di sarmenti intrecciati come le “sporte” che un tempo i contadini portavano in campagna per colmarle di tutto quanto la terra produceva e sapeva di buono: il profumo inebriante dei frutti delle nostre campagne mescolato con quello più aspro e forte dell’olio dei nostri ulivi. E da quel contenitore, simile al cilindro di un mago, noi tiriamo fuori, improvvisamente, la nostra antica storia che sa di zolle, di alberi e di germogli, di fiori e di foglie, di fatica e di sudore, di magri raccolti e di fiducia nella bontà divina o nella buona sorte. La nostra storia di neve mescolata la vincotto, mangiata intorno al braciere acceso nelle lunghe sere d’inverno. E, con i rosoli di diversi colori, u grattamariànne all’angolo della strada negli assolati pomeriggi estivi. Basta un richiamo. Una parola. Un gesto. Uno sguardo. Una ruga in più su un volto che ci sembra millenario e il mondo di oggi cede i suoi scenari vorticosi e spesso disumani a quelli più sofferti, ma forse anche più rassicuranti di un tempo solo apparentemente perduto, ma radicato nell’anima, scritto nei nostri comportamenti atavici, di cui, se siamo molto giovani o appena adulti, non conserviamo memoria. Eppure ci appartengono. Sono la storia dei nonni e dei bisnonni. Sono le loro voci, i loro proverbi (rә dәttériә), con cui si semplificavano la vita, da percorrere lungo carreggiate già segnate, e da indicare alle nuove generazioni per impedire loro di perdere la via maestra o il battuto sentiero e magari di imboccare scorciatoie a volte pericolose e fuorvianti. Le loro parole in dialetto sono la meta certa e il sicuro ritorno. Sono la casa, il focolare, il paiolo, le fave e le cicorie, la cena frugale e il ragù della domenica. Le strade col pietrisco e i carri con muli o cavalli e il cane che abbaiava al primo chiarore dell’alba. Sono la preghiera del mattino e il requiem per i morti recitato di sera, quando più acuto era il ricordo e più intenso il dolore, in un latino biascicato e incomprensibile che non era latino e neppure volgare o italiano, ma era una strana lingua, che oggi può farci anche sorridere, divertiti per tanta ingenua fiducia nelle parole apprese di bocca in bocca e ritenute intoccabili e sagge, degne di un miracolo o della benevolenza del Creatore. Il dialetto è la lingua che racconta la fede e l’affidarsi a Dio dei nostri vecchi. Ci è stata trasmessa con le parole imparate nella culla e cucite nel cuore per poterle ritrovare lì, dove l’amore le ha conservate e nascoste per ricordare a noi, che le abbiamo apparentemente dimenticate, chi realmente siamo. Solo il loro recupero potrà restituire alle nostre parole nuove il senso profondo delle cose, quella matericità che abbiamo perduto con l’astrazione dei nostri discorsi, fondati sui concetti e non più sulle esperienze, perché solo queste racchiudono significati antichi da ripercorrere a ritroso fino a ritrovare, intatta e vera, la storia dell’umanità…

Continuerò nei prossimi giorni. Vi abbraccio. E a più tardi con il nostro Retino e la diretta de Il Sentimento della Scrittura. A dopo. Ciao.

domenica 28 marzo 2021

Domenica 28 marzo 2021: le Palme... la Pace... la Poesia...

 È una giornata particolare che ho molto a cuore perché mi riporta al passato, ai riti della quaresima vissuti con i nonni con grande partecipazione emotiva e ricca di genuina fede. Ma prima di ricordare quei riti, ho bisogno di fare una doverosa correzione a quanto scritto una settimana fa parlando di “gratitudine” e di salutare percorso per imparare a praticarla con consapevolezza di sé e con gioiosa e sincera riconoscenza verso gli altri, la stessa vita e il suo Creatore. Ebbene, per quanto riguarda le “intelligenze multiple”, mi riferii a Popper che non c’entra un bel nulla, essendo un matematico e un filosofo che ha affrontato magnificamente il problema del “fallibilismo” persino delle scienze, ma certamente non quello delle diverse intelligenze umane, la cui paternità occorre farla risalire a Howard Gardner e ai suoi vari saggi tra cui Formae mentis, in cui ha teorizzato ben nove forme di pensiero: 1. Intelligenza Linguistica; 2. Intelligenza Logico-matematica; 3. Intelligenza Musicale; 4. Intelligenza Visuo-spaziale; 5. Intelligenza Corporeo-cinestetica; 6. Intelligenza Interpersonale; 7. Intelligenza Intrapersonale; 8. Intelligenza Naturalistica; 9. Intelligenza Esistenziale. Con altre sottocategorie che definiscono meglio la molteplicità della intelligenza e le interconnessioni che la sostengono e la differenziano. Ecco, finalmente mi sento risollevata. Sorprendendomi, infatti, per il numero elevato dei lettori sulla pagina specifica, sono andata a rileggere quanto scritto, rilevando immediatamente l’errore, dato che per oltre trent’anni ho masticato queste teorie, essendo stata preparatrice di Concorsi per il reclutamento dei docenti e dei dirigenti scolastici nella scuola di ogni ordine e grado. Ho dovuto constatare amaramente che la mia proverbiale memoria di ferro comincia a fare abbondantemente cilecca, e così vi chiedo venia. Cercherò di fare più attenzione da ora in poi. E, ancora una volta, cercate di perdonarmi: l’età non perdona. Quando rilevate i miei errori, cercate correggermi, ve ne prego. Altrimenti non si migliora mai. Ed ora, rinfrancata, passiamo ai ricordi di tempi più verdi in tutti i sensi…                       

Dunque, i riti pasquali. E la prima persona cara che mi torna alla mente, risalendo dal cuore, è zia Maria, la moglie di zio Michele, fratello amatissimo di mia nonna Angelina.

… Zia Maria, a Pasqua, era solita regalarci “rə scarcéddə”: bamboline, coniglietti, campane, angeli, gallinelle di pasta dolce con uovo sodo al centro e tanti minuscoli confettini bianchi, argentati, rossi, rosa, azzurri, dorati a ricoprirle. Una voluttà! Io le mangiavo con gli occhi e me ne tornavo a casa felice per quel ricco bottino. Ma era la Pasqua vissuta nella nostra casa che ricordo con grande nostalgia dopo tutto il magro e triste periodo della quaresima, fatto di digiuni, rinunce, via crucis, preghiere, silenzi per purificarci del divertimento sfrenato (!) del Carnevale e diventare degni del perdono di Cristo risorto. E ancora prima della Pasqua la Settimana Santa. Ho ricordi vividissimi della Settimana Santa e dei suoi riti perché ero già più grandicella e perché rendono presente ai miei giorni la fede certa, tua e della nonna. La vostra fede di straordinaria umanità. Fede generosa e pura. Ricordo dolcissimo che si ripropone nelle nostre sporadiche o quotidiane chiacchierate. Dialogo mai interrotto tra me e te sul nostro paese, le case, le cose, il colore, il profumo, il sogno, le credenze, che caratterizzavano la nostra terra di quegli anni: quasi un canto antico, recupero di parole, di modi di dire, di voci mai spente. La voce della nonna che ci esortava ad andare in chiesa per la messa delle sette per il primo venerdì del mese (con indulgenze plenarie annesse) (amà sciè alla mèssə də rə séttə ca jèjə la prìma mèssə u prémə pənzìrə àva jéssə a crìstə…) (dobbiamo andare alla messa delle sette che è la prima messa il primo pensiero deve essere rivolto a gesù cristo…).

“Ma è mai possibile che pure quando è festa a scuola ci devi costringere ad alzarci presto?”

“Ècchə jè sémbə jèddə ch’avà parlà cə sə nòn nàn ‘zə séndə chəndéndə, sò dìttə a rə séttə e a rə séttə amà stà jìndə a la chièsjə… pə guadagnànnə u paradèsə…” (“Ecco è sempre che lei deve parlare altrimenti non è contenta, ho detto alle sette e alle sette dobbiamo essere in chiesa per guadagnarci il paradiso”…).

Poi si doveva andare in chiesa per la via crucis, per i “sepolcri” e per tutti gli altri riti della santa Pasqua, attesa non soltanto per sfoggiare l’abito nuovo, inno alla primavera (trionfo di gonna a campana di panno-lenci azzurro come la lacca del cielo d’aprile e di gonna plissettata di un verde prato da far impallidire le siepi del nostro

giardino e camicette bianche come leggere nuvole di orli ricamati), ma anche per rivivere quel mistero di morte e di resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del cuore, come esigenza di rinnovato perdono. Per i veri cristiani la Pasqua era davvero una rinascita d’amore. Un atto di umiltà nella certezza del perdono. (Oggi il rito delle ceneri è per me solo un ricordo lontano. Una riflessione più o meno amara sulla nostra precarietà. Tutto passa, appunto. Il bene e il male. La gioia e il dolore. Considerazione banale ma non troppo. Oh se tutti pensassimo alla nostra precarietà e alla nostra fragilità, al nostro essere granelli di sabbia infinitesimali

nei tanti multiversi che ci comprendono per lo spazio di un lampo appena… saremmo tutti migliori e affratellati in un unico credo: la solidarietà che è di per sé sinonimo di Pace! Di Alleanza tra Dio e gli uomini. E degli uomini tra gli uomini. E invece…).

Squarcio di festosa serenità era la Domenica delle Palme con gli ulivi benedetti e il bacio affettuoso di autentica rappacificazione. Tu portavi in chiesa, sempre alla messa delle sette, un gran fascio di rami d’ulivo per farli benedire e per poi distribuirli a parenti, amici, conoscenti, vicinato (la pace sia con voi… e con il tuo spirito!, ad ogni

scambio di bacio con rametto di ulivo benedetto…).

Nell’aria c’era il profumo di peschi, mandorli e ciliegi in fiore in netto contrasto con l’intenso odore d’incenso che respiravo nelle chiese: fuori, esplosione di sole e di vita a mettermi una pazza allegria nelle vene; in chiesa, la penombra silenziosa e incombente di un Dio punitore che piegava in ginocchio i miei pensieri di libertà.

E fiati di donne e uomini che il digiuno rendeva pesanti. I miei atroci peccati? Qualche bugia detta a nonna Angelina per andare a giocare con le amiche o, più tardi, per poter uscire con gli amici, magari per andare al cinema oppure per fare quattro salti alla buona, così, tra noi ragazzi; i rari litigi con Lizia; “i pensieri cattivi” che cominciavano a frullarmi per la testa e, ancora, il disinteresse totale per la scuola e molti atti di vanità e presunzione che mi riconoscevo (sono bella finalmente capisco tutto non c’è bisogno di studiare tanto le cose ormai le so...), tante impennate di ribellione (non mi alzo non ci vado non lo faccio non te lo dico non studio non studio non studio…). Per quel perdono barattavo la mia libertà con una settimana santa densa di genuflessioni e giaculatorie e rosari. Ma era sempre nonna Angelina a sollecitare i miei pentimenti…

Stralcio tratto dal mio romanzo Le piogge e i ciliegi, vol. I (SECOP edizioni, 2018), una trilogia ferma al secondo volume, ma che sto completando perlopiù di notte perché è una promessa che ho fatto a me stessa e ai miei Angeli che ancora mi proteggono (ciascuno di noi ha le sue nicchie di rifugio, di sopravvivenza, di salvezza…).

Continuerò nei prossimi giorni a ricordare. Mi fa stare meglio in questo periodo difficile, in cui anche la salute mi sta dando qualche problema. Ma non voglio affliggervi. Pensiamo piuttosto a questi giorni di quaresima e di attesa della Pasqua e della rinascita primaverile e spirituale. Se avete componimenti (prose, poesie…) mandatemele. Le mettiamo in queste pagine. Che ne dite? Io sono sempre possibilista.

Serena domenica delle Palme e che la Pace sia dentro e fuori di noi. Vi abbraccio con un rametto virtuale di ulivo benedetto.

venerdì 26 marzo 2021

Venerdì 26 marzo 2021: sentore di gratitudine nell'aria e nelle azzurre acque...

carissimi amici,

mi sono giunti alcuni testi molto significativi su argomenti vari che però hanno un sentore di primavera anche se quest’ultima tarda a rallegrarci col suo sorriso e il suo tepore. Hanno soprattutto sapore di mistero, di qualcosa di irrisolto, di sospeso nell’aria, quasi d’attesa, una speranza. con gratitudine. il primo è della mia carissima amica Caterina De Fusco, che veleggia tra Venezia e Napoli da una vita.  Ve li propongo:

Cosa lega due città come Napoli e Venezia?

Innanzitutto il mare, immediatamente dopo l'essere centri di scambi commerciali con il Mediterraneo. Quest'ultimo fu la culla delle più importanti civiltà antiche, a partire dall'Egitto per poi proseguire con il mondo greco e romano.

Apparentemente può sembrare che Venezia, tessendo importanti relazioni commerciali con l'Oriente, sia dissimile da Napoli ma, per conoscere l'invisibile, bisogna saper “scrostare muri”.

Entrambe le città presentano molteplici angoli dalle mura scrostate pur se Venezia, sorgendo sull'acqua, presenta tali ferite causa erosione da parte di quest’ultima.

Tutte e due le città hanno come elemento d'elezione l'acqua e la Luce.

Forse è questo il motivo che, inconsapevolmente, guidò una giovane donna a tessere fila per entrare nel mistero di cosa veramente coniugasse le due città.

Napoli, con Filangieri e Galiani, Venezia, con Ludovico Antonio Muratori, gettarono le basi per la libertà dell'uomo. Non meno l'esoterismo che lega e accomuna entrambe le città.

Fu quest'ultimo, l'esoterismo, a guidare la giovane donna a intraprendere la via del mare che la portò, nell'esperire conoscenza, alla consapevolezza.

Rendersi consapevoli: questo chiede la via esoterica per lasciare andare quelle inutili zavorre che resero la navigazione incerta ed instabile.

 Incertezza e, dunque, cagionevole equilibrio caratterizzarono la via della donna che mai si arrese di fronte ad alcuno ostacolo.

Il leitmotiv che la spingeva a cercare era il desiderio di svelare, di strappare via il velo dell'illusione per giungere alla Verità.

Ma qual era questa Verità che guidava l'incedere del cammino della donna?

Togliere ambiguità di significato al vivere e al morire per giungere a quella realtà aspaziale e atemporale che porta all'Unità che non teme Luce ed Ombra.

La dualità in cui l'essere umano è immerso fa perdere, talvolta, segno e significato al percorso, ma non per coloro che hanno compreso che l'ombra è semplicemente l'altra faccia della Luce.

L'alternanza di questi due elementi è fondamentale per approdare… e ciò accade soltanto quando la “conoscenza” si è servita del dolore.

Solo svelando sé stessi si può lasciare andare l'illusione.

Fu così che la giovane donna si inoltrò nello studio della vita di Antonio Corradini, scultore che già lega le due città, essendo nato a Venezia nel 1668 e morto a Napoli nel 1752.

Quell'artista fu il senso che fece trovare senso alla ricerca del significato intrinseco del vivere e morire.

Corradini utilizzava il velo come leitmotiv in molteplici suoi pezzi scultorei. La giovane donna lavorò con costanza e determinazione per carpire la motivazione del reiterato scolpire veli da parte dello scultore.

Nel frattempo la vita della giovane donna scorreva portando con sé esperienze nutrite di delusioni e improvvisi risvegli.

Ad ogni risveglio la donna avanzava di un passo che, unito a quelli successivi, costituirono tasselli, tasselli di un puzzle che solo al quarantunesimo anno giunse a farla approdare al senso di quella ricerca.

La domanda iniziale era cosa mai può congiungere due città come Napoli e Venezia oltre al mare e alla Luce.

Avevamo detto che entrambe le città diedero i natali a figure storiche che parlavano di uguaglianza, libertà e fratellanza, parole che tutti hanno creduto essere di marca francese.

Furono invece Napoli e Venezia le terre che diedero vita agli ideali rivoluzionari attraverso gli storici sunnominati, Filangieri, Galiani e Muratori, che, strenuamente, lottarono per giungere al senso esistenziale del vivere.

L'essere umano non può vivere senza sentirsi libero eguale e fratello.

Fratelli siamo perché tutti discendenti dall'Uno e liberi diventiamo solo se intraprendiamo la strada dello scavo nella “conoscenza” per giungere a comprendere che la realtà in cui viviamo è solo una grande illusione.

Quella giovane donna costruì molteplici collegamenti all'interno della vita del Corradini e furono quelli a guidarla, inconsapevolmente, a togliere lentamente il soverchio; tirando via quei pesi che avevano ostacolato il suo cammino e l’avevano resa, solo apparentemente, fragile ed in disequilibrio.

Giunta alla meta attraverso “una strenua ricerca”, la giovane donna raggiunse la consapevolezza che l'essere umano nasce libero, libero di scegliere e di navigare serenamente se intuisce che quell'orizzonte, che si sposta ad ogni passo un po' più in là, è la meta.

La meta dell'essere umano è l'infinito, quella Volta Celeste che ci ricopre e alla quale tutto il Creato ritornerà.

Furono la semplicità, l'umiltà e la fede, un quantitativo grande di fede a permettere alla donna di toccare quel Cielo e illuminarsi di Grazia e Benedizioni. Caterina De Fusco

Mia carissima Caterina, questo tuo bellissimo percorso di autorealizzazione, che parte dalla conoscenza per giungere alla consapevolezza di sé e del nostro fine ultimo, è la perfetta sintesi di quanto io abbia detto e scritto nel mio blog sulla parola “gratitudine” e su come si possa operare, attraverso i libri e alcune figure di mentori a darci una mano, una guida amorevole e sicura, per giungere ciascuno alla propria meta, che alla fine diventa la meta di tutti, perché tutti ci accomuna e ci rende fratelli. Grazie per le azzurre acque veneziane e napoletane su cui hai fatto volare il tuo sofferto ma appagante percorso di libertà e di fede. Percorso, che ti ha permesso di illuminarti di Cielo. Luminoso esempio per tutti noi.

E Mariateresa Bari mi ha inviato tre messaggi, il primo risalente al 12 marzo e che si riferisce alle poesie riguardanti la donna, di cui prendersi cura ogni giorno per la sua forza, la sua dignità, il suo coraggio. Quella donna siamo tutte noi nella rivendicazione della nostra femminilità, che va ben oltre il femminismo degli anni Sessanta del secolo scorso. Mariateresa scrive: Angela cara, quante belle voci, altre da me, da noi... non posso che farmene attraversare per saziare i sensi assetati. Un abbraccio!

Bellissima testimonianza della nostra coralità. E il 19 mar 2021 scrive: Straziante ma necessario. Doloroso ma salvifico. Questo è per noi poveri che restiamo, parlare di chi la varcato la soglia. Parlare di Loro è parlare con Loro. Il ricordo è un luogo d'incontro! Grazie Angela per queste lacrime di commozione. Un abbraccio.

E si parlava di Giovanni Gastel e del suo affascinante “istante eterno”, reso luminoso fino alla fine dalla carezza di Dio. E non ci sono più parole oltre le lacrime.  Poi ieri, in riferimento alla parola “gratitudine”: Cara Angela, come non esserti grata? Ecco i versi scaturiti stanotte dalle tue riflessioni! “Nel debito di un credito”: S'annoia il sé,/ spossato depone la sua corona/ smilzo di cuore e si prepara all'esodo./ L'alito assassino non più appaga./ Il lampeggiare di finestre nel buio/ delle sue frequenze troppo acute,/ stride e si fa strada./ Lo guardiamo trapassare lo specchio/ e lambire solitarie rive/ col suo foulard di tedio al collo. M. Bari

Mia cara Mariateresa, ancora una volta mi offri una sintesi preziosa della volontà/necessità di fare spazio alla gratitudine contro ogni male di vivere, e persino contro la noia quotidiana che strangola di solitudine chi non si dona agli altri gratuitamente…

Ed ecco il messaggio di Vito Di Chio ad apportare nuova linfa a quanto da me detto nel Retino e scritto sul blog: Grazie Angela per le tue riflessioni sulla “GRATITUDINE”. Ti sono molto grato. Anche i miei pensieri vanno in questa direzione. Ecco alcuni spunti “germanici” sulla relazione tra “pensare” e “ringraziare”. Pensare e ringraziare sono due parole affini; diciamo grazie alla vita, ripensandola. È una citazione attribuita a Thomas Mann (1875 – 1955), scrittore tedesco, premio Nobel per la letteratura, da cui prendono lo spunto i più disparati siti della rete, per le loro riflessioni sul tema della Dankbarkeit (riconoscenza). In realtà è stato Paul Celan, nella sua “Allocuzione in occasione del conferimento del Premio letterario della Libera Città Anseatica di Brema”, a introdurre così la sua concezione poetica: “Denken (pensare) e Danken (ringraziare) hanno nella nostra lingua la stessa identica origine. Chi ricerca il loro significato si porta nel campo semantico di: gedenken (richiamare alla memoria) eingedenk sein (essere memori), Andenken (pio ricordo), Andacht (devozione). Mi permettano di prendere le mosse da qui, per ringraziare”. È una riflessione profonda che caratterizza tutta l’opera di Celan. In realtà nella lingua tedesca pensare (Denken) e ringraziare (Danken) scaturiscono dalla stessa matrice linguistica: il ponderare, il dare peso, il percepire la cosa che conta. D’altronde anche l’italiano pensare deriva da pensum (peso, compito): pensare in latino vuol dire appunto ponderare, ricambiare …È bene approfondire questa correlazione sorprendente che c’è tra il pensare e il ringraziare, ogni tanto fermarsi e dire grazie, imparare a dirlo, farne un esercizio, uno stile di vita. Perché, è proprio vero: la riconoscenza non sgorga automaticamente dal patrimonio e dalle capacità del cuore umano, - bisogna lentamente impararla ed esercitarsi, in qualche modo, nell’atteggiamento di gratitudine, scoprire soprattutto l’armonia interiore che c’è tra il pensare e il ringraziare. (cfr. Bisogno di Maestri…). Un saluto carissimo. Vito dc

È proprio questo confronto che mi/ci arricchisce di nuovi sensi e significati da dare alle parole, soprattutto quando la profonda conoscenza della letteratura mondiale e delle lingue straniere ci offrono l’opportunità di scoprire nuovi abbinamenti, nuove risorse linguistiche per scoprite nuovi orizzonti da attraversare e nuove motivazioni per esercitarci “nell’atteggiamento di gratitudine”, per “scoprire soprattutto l’armonia interiore che c’è tra il pensare e il ringraziare”. E vale davvero la pena di leggere o rileggere quello scrigno di saggezza, bellezza, verità, poesia che è il saggio di Vito Di Chio Bisogno di maestri (Armando Editore 2010)

E così anche oggi ci salutiamo con gratitudine reciproca e grande gioia per questa comunione d’intenti e di anime. Grazie. E il Retino ci attende. Ciao.

mercoledì 24 marzo 2021

Mercoledì 24 marzo 2021: nel Retino la parola GRATITUDINE...

Mi piace riproporre qui la parola “gratitudine” per ampliare quanto detto nel Retino di ieri. Una parola su cui occorre riflettere molto per non provare sensi di inadeguatezza o di colpa. Solo per imparare a conoscersi meglio e a trovare le vie giuste per diventare persone migliori.

La parola: GRATITUDINE

dal latino gratitudo: parola forse mai realmente praticata nella storia dell’umanità e forse men che mai sentita e vissuta nella società contemporanea. Forse del tutto assente oggi. Ma non bisogna mai generalizzare. Peccheremmo di presunzione. Solo forse...

La gratitudine, intanto, presuppone un sentimento di affettuosa riconoscenza per un dono, un beneficio o favore ricevuti e di sincera appagante disponibilità a contraccambiarlo. Già Cicerone definì la gratitudine: “madre di tutte le virtù”… In realtà, essa presuppone una buona dose di consapevolezza di sé, delle proprie reali capacità e potenzialità, dei propri limiti. Di molta umiltà e di vera “sapientia cordis” (saggia tenerezza del cuore). È nella natura umana, in linea di massima (ma naturalmente ci sono le eccezioni), mettersi al centro del mondo e avere di sé l’immagine ideale e non quella reale. Ciò sarebbe, a mio avviso, la causa principale di molteplici errori di valutazione di sé e degli altri. E ciò comporterebbe l’eterna “arroganza” sociale di non sentirsi mai in debito ma sempre in credito con gli altri, anche quando i fatti dimostrano il contrario: non sentiamo mai in cuor nostro di dire grazie a nessuno perché sono sempre gli altri che traggono profitto e vantaggio dal nostro indiscusso valore. Anche in virtù del fatto che riconoscere di aver ricevuto un beneficio e il dover ringraziare con gratitudine comporta il riconoscere superiore a noi chi ci ha beneficato. E questo ci mette nella condizione di dover ammettere in qualche modo il nostro stato di inferiorità, il che difficilmente rientra nel pensiero e nel comportamento umano. Oggi, la meccanica quantistica ci insegna che ogni uomo ha una percezione soggettiva della realtà anche se la osserva nelle identiche condizioni e situazioni degli altri. Banalmente si è soliti dire “nessuno è secondo a nessuno”. Quanto sarebbe più opportuno guardarsi con realistica percezione di sé e riconoscere il valore degli altri e i propri limiti senza sentirsene sminuiti anzi decisamente rafforzati nella propria personalità. Tutto questo ci porta all’“esperienza dell’io” (Fromm): una più ampia e profonda consapevolezza di sé che comporta una maggiore consapevolezza dell’altro da sé, degli altri. Senza confondere con nessun altro l’identità dell’“io sono”, ma comprendendo ogni altro diverso da sé. Perché, come Fromm sostiene, “io sono te senza perdere me stesso, anzi rafforzandomi nel mio io”. E mi rafforzo nella “capacità di accettare il conflitto” e la tensione che inevitabilmente l’incontro dell’“Io” con l’altro “Io” comporta. “I conflitti sono la fonte della meraviglia, dello sviluppo della forza, di quello che una volta si soleva chiamare <carattere>”. L’accettazione del conflitto, dunque, è un atto creativo perché ci pone verso l’altro e la stessa vita, non con il nostro “Io” che deve vincere, ma con un “Io” che, per il solo fatto di scoprire ed accettare l’altro “Io” diverso da noi o la nostra vita, diversa dalle nostre aspettative, ci dà la possibilità di sperimentare e accettare l’esistenza di una realtà sconosciuta fino a che il nostro “Io” non l’abbia guardata con occhi non più suoi. Cosa veramente quasi del tutto impossibile. I latini dicevano a giusta ragione: Tot capita, tot sententiae! E, invece, sono proprio gli altri che riconoscono e valorizzano le nostre peculiarità come Persona in tutte le sfaccettature del vivere quotidiano, offrendoci il nostro giusto peso sociale, affettivo, lavorativo, amicale nella comunità e la nostra giusta dimensione nell’operare in tutti i diversi settori della nostra esperienza umana. E ciò fa la differenza. La gratitudine nasce da questo riconoscimento che sollecita la “riconoscenza” (ri-conoscimento: ritorno su quanto ho conosciuto prima per avere conferma della prima impressione o mutarla, ma il ripetere una conoscenza dà maggiori garanzie della autenticità di chi abbiamo imparato a conoscere; ri-conoscenza: è il riproporre quanto detto prima). Solo dopo la ripetizione di questi due atti, tutto si potrebbe tradurre in reciproca gratuità. Gratitudine e gratis hanno lo stesso etimo. Purtroppo, però, a mio parere, spessissimo la gratuità di un dono, di un beneficio, di una particolare attenzione, di un prendersi cura dell’altro con sollecitudine e affetto o impegno, invece di essere considerato un dono prezioso viene svilito proprio perché gratuito (non ci è costato niente né in perdita di tempo né in perdita di denaro né in perdita di illusione), perché ci è stato facilmente elargito. Per questo non viene ri-conosciuto come tale e, quindi, non meritorio di ri-conoscenza, di un “grazie”, che guarda caso ha lo stesso etimo di gratitudine e gratis. Eppure, riconoscimento e riconoscenza sono alla base della gratitudine. E anche queste due parole hanno la stessa radice, sia pur con significati diversi ma affini. Di qui anche l’attenzione alle affinità? Secondo me, sì. Solo le persone affini si riconoscono negli stessi intenti, valori, comportamenti. C’è un’intesa che altrimenti non si avverte né si può costruire. Si tratta di quei neuroni a specchio che tanta parte hanno nelle nostre scelte e nei rapporti empatici che si vengono a instaurare sorprendentemente e con molta sintonia. Alcune volte, però, la gratitudine rimane avvolta nelle spire della stessa persona, che si sente appagata e grata verso sé stessa per la personale realizzazione di sé e del sé. Non deve niente a nessuno. Superare questo stato di solipsismo comporta affermare realisticamente i propri limiti e la necessità di aprirsi agli altri. Ma possiamo anche non rivolgerci agli altri per pudore, per timidezza, perché non ne avvertiamo il bisogno o non ne sentiamo l’urgenza perché sappiamo che possiamo cavarcela anche da soli, e quindi, la gratitudine non c’entra più. Ma questo comporta, ancora una volta, la consapevolezza che il buon Dio o Madre Natura (per chi non ci crede) non ha fatto discriminazioni, come siamo soliti pensare, in quanto democraticamente ha distribuito i talenti nei vari settori del nostro essere e operare. Karl Popper ha studiato e ci ha prospettato le “intelligenze multiple”, in base alle quali ciascun essere umano può realizzarsi al meglio di sé. Occorre solo scoprirle in tempo, ossia dai primissimi anni di vita, per evitare inutili e dannose perdite di tempo nel processo di apprendimento e di formazione di ciascun bambino. Ciascuno di noi, infatti, ha un particolare tipo di intelligenza: chi è provvisto di capacità di astrazione e afferra subito i concetti e chi invece ha una intelligenza pratico-organizzativa, chi ha una mente filosofica e chi è portato per le attività manuali e pratiche, chi ha il pallino per le scienze e chi per la poesia e via dicendo (sto naturalmente semplificando). Il processo di coscientizzazione precoce aiuta per tempo a scoprire la natura della propria intelligenza e gli eventuali talenti in uno o più campi d’azione. Si definisce, così, la propria motivazione ad apprendere e ad avviare il personale processo di autorealizzazione (Maslow), attraverso la iniziale curiosità per la scoperta del mondo in cui viviamo. La curiosità suscita l’interesse e la conseguente ricerca, fino al raggiungimento della conoscenza e anche della capacità di reagire a ostacoli fisici, e sensoriali, e ai condizionamenti interni ed esterni con lo sviluppo della capacità di “compensazione” (Adler). Naturalmente, in questo meraviglioso processo di autoaffermazione sono coinvolti i genitori, la famiglia, gli insegnanti e quanti sono preposti, a più vasto raggio, nella comunità di appartenenza e oltre, alla formazione delle nuove generazioni. Ci deve essere sempre qualcuno che si prenda cura con amore di chi si dischiude alla vita attraverso una ri-nascita interiore che segue alla nascita biologica in un ambiente accogliente o meno. “Nessuno si salva da solo”, come ben sappiamo. Ma è sempre l’amore che fa miracoli in ogni trasformazione, in ogni evoluzione da uno stato all’altro in tutto l’Universo che continuamente si rigenera. Almeno questo è il mio “pensiero magico”, a cui è improntata tutta la mia vita di perenne sognatrice. Non bisogna mai perdere la strada dei sogni fino all’ultimo respiro se vogliamo continuare a salvarci. e, questa volta, forse anche da soli. Forse...

Si passerebbe, così, soprattutto se si nasce in un ambiente ostile e privo di calore, dai sentimenti negativi di sfiducia, di mancanza di autonomia e di iniziativa personale per paura di sbagliare; di ripiegamento su sé stessi o di rabbia e ribellione, come anche spesso accade; di illusione/delusione, diffidenza/chiusura, senso d’inferiorità/frustrazione, gelosia/invidia/ipocrisia… a sentimenti positivi di autostima, forza, determinazione, coraggio ad osare e a mettersi in gioco, a superare, come già detto ma è bene ribadirlo, anche i possibili ostacoli di natura fisica o sensoriale, i vari condizionamenti endogeni ed esogeni che creano notevoli problemi alla nostra maturazione psico-fisica. Sarebbe più facile, conquistando via via sempre più l’autostima, aprirsi agli altri con fiducia e simpatia, serenità, gioia di vivere; provare rispetto e cura per la natura; appagamento per la propria autorealizzazione; desiderio di vivere per gli altri, e di donare agli altri, con gratitudine verso la vita, dono meraviglioso che spesso diamo per scontato, un po’ di sé per amore con AMORE.

Almeno io la penso così. Voi? Mi piacerebbe confrontarmi con i vostri suggerimenti, le integrazioni, le rivisitazioni e quant'altro. Grazie.