Oggi è il 1° marzo e nell’aria c’è già primavera con un tiepido sole e le gemme dischiuse del mandorlo e dell’albicocco nel giardino. Nelle aiuole, narcisi, fresie, tulipani, screziati di rosso e di giallo, e i primi girasoli ancora bambini e le gerbere ridenti di petali moltiplicati. Un tripudio di colori caldi che bevono i raggi dorati e si vestono di calore, di allegria. Pure, nell’aria c’è ancora odore di pioggia che sicuramente verrà… Marzo è pazzerello, si sa, e già sta divorando l’azzurro per pennellare il cielo, complice il vento, di nuvole sparse e arcipelaghi di piume leggere. Eppoi, io ho voglia di riprendere tra le mani e nel cuore i versi di Raffaella, mia figlia, che parlano di pioggia e di poeti e di amicizia e di parole che contengono nuvole e vita. Mi piace molto. Ne assaporo l’anastrofe (“Della pioggia l’odore”) di ogni verso anaforico che ha cadenza capovolta di pioggia, di ritmo e sentimento. Discreto, della pioggia. Come l’ospite che giunge in anticipo e non osa disturbare quelli di casa, che hanno ancora qualcos’altro da sistemare prima dell’atteso incontro. E, nell’attesa, l’odore ha volute di danza, lievità di sogno ancora avvolto nel silenzio. Anche per questo appartiene ai poeti che ne avvertono il sentore istintivamente (come i cani che braccano la volpe). Preludio alle gocce che potrebbero già sopraggiungere, ma potrebbero anche tardare sulla soglia di ogni attesa o decidere di rimandare la caduta, “avvinghiandosi”, quale divergente e illuminante idea, “alla pelle come alla penna”, e vestendosi di malinconia, che non ha suono, ma è già tumulto di parole che lente precipitano sul foglio e si fanno poesia, in un ossimoro psicologico (“lenta e tumultuosa”) di immensa significazione: quelle singole lettere, a guisa di gocce, si compongono sulla pagina vergine nel tumulto dei sensi e nella lentezza della loro sedimentazione nel nodo del cuore, e prendono vita e suono e armonia e incanto e si fanno immortali per il solo fatto di essere nate (mirabile miracolo della creazione della parola come “divina incarnazione”), mentre l’odore è ormai di casa, nella casa dei poeti, ed è l’ospite d’onore alla mensa della creatività che tutto rigenera perché niente muoia mai del tutto…
Della pioggia l’odore/ nasce prima/ come l’ospite in
anticipo/ che bussa senza insistere./ Va danzando spandendosi/ nell’aria in
silenzio./ Della pioggia l’odore/ appartiene ai poeti/ che lo sentono arrivare/
alle narici golose/ subito/ come i cani che braccano la volpe./ Della pioggia
l’odore/ è la porta d’ingresso/ che già bagna la terra./ Della pioggia l’odore/
è già malinconia./ Poi la pioggia/ potrà passare senza cadere/ ma l’idea di lei
si avvinghia/ alla pelle come alla penna/ e sul foglio è già caduta/ lenta o
tumultuosa/ versando parole./ Della pioggia l’odore/ nasce prima e rimane/ a
pranzo nella casa/ dei poeti. (Raffaella Leone)
Avevo dedicato questa poesia a Francesca Pice, che della
pioggia sente l’odore e il battito vitale in ogni piega della sua anima,
sperando che ne traesse motivo per un commento. So che Francesca ha una vita
professionale, familiare e socio-culturale intensissima e molto probabilmente
non ha avuto, purtroppo, neppure il tempo di leggere il mio blog. Assente
giustificata. Ma il mio Retino ha catturato proprio in questi giorni sulla sua
pagina una stupenda poesia dedicata alla pioggia della grandissima quanto sfortunata
Amelia Rosselli, quasi in risposta ai versi precedenti ed eccola qui: Soffiati
nuvola, come se nello stelo/ arricciato nelle mia bocca/ fosse
quell’esaltazione d’una primavera/ in pioggia,/ che è il grigio che ora è/ era
appeso nell’aria…/ … E se paesani zoppicanti sono questi versi/ è perché siamo
pronti per un’altra storia/ di cui sappiamo benissimo faremo/ al dunque a
meno,/ perso l’istinto per l’istantanea rima/ perché il ritmo t’aveva al
dunque/già occhieggiata da prima (Amalia Rosselli, da Impromptu,
1981).
La nuvola è un fiore che sboccia dal soffio che la poetessa
imprime allo stelo “arricciato” nella sua bocca, quasi “esaltazione d’una
primavera in pioggia”, il cui grigio presente era già prima nell’aria (il suo
odore?). Umilmente, Amelia definisce i suoi versi “paesani zoppicanti” perché
incompiuti, anticipando, a metà del loro cammino, altre storie che
probabilmente mai più saranno, ma che nell’aria ritmavano una musica che
aveva già sentore di primavera. E non mi sembra più un caso, ma il segno di
quella misteriosa corrispondenza che porta i poeti ad un sentire comune, ad
abitare insieme la casa delle parole, cibo di cui si nutrono per riconoscersi e
viaggiare insieme, a volte senza saperlo, e giungere alle stelle e andare
oltre…
Ed è così che mi vengono incontro i versi di Maria Pia
Latorre tra lo “stridore di stelle cadenti”, che riportano gli astri in caduta
libera verso la terra per accendere un sogno negli occhi di chi sa ancora
guardare il cielo e si scopre un tutto nel Tutto che ci abita e ci
contiene, trasformando il sogno di uno sguardo nel sogno di un faggio che viene
guardato: “SOGNO DI UN FAGGIO” è la poesia che contiene questo prodigio che è
un inno panico e misterico alla natura nella sua imperfetta perfezione: Stridore
di stelle cadenti/ t’acquieti silente/ nell’ostro d’oriente/ il buio mannaro/
ti sfiora all’addiaccio/non piange la foglia/ aerea si posa/ e il muschio di
seta/ t’abbraccia la scorza/ Così anch’io/ abbraccio il tuo viaggio/ Che sogni,
amico mio faggio?/ Un nido di bachi danzanti/ o tarli dorati ubriachi?/ La
giostra notturna di assioli?/ Che sogni? Puoi dirlo?/ Intanto bulbose/ le
braccia nel suolo/ catturano rocce/ fermentano vita perenne/ nel sonno del
bosco silente/ T’abbraccio di slancio/ mi lancio nel verde/ ti stringo più
forte/ la scorza mi è pelle/ stridore di stelle.
E sorprendente è anche il fondersi e il confondersi nella
loro stessa reiterazione delle parole classiche come “silente”, “ostro”,
“addiaccio”, “acquieti”, “giostra” in un avvilupparsi di sensazioni corporee e
di emozioni della mente e del cuore (continui e voluttuosi enjembement) che
s’inarcano, senza soluzione di continuità, ad abbracciare “il buio mannaro” e
la luce del plenilunio, il gelo della stagione invernale e la foglia leggera che
sa di primavera, “il muschio di seta” che sfiora di tenerezza le mani e la
ruvida “scorza” dell’albero che ferisce la pelle, il “nido di bachi danzanti” e
“i tarli dorati ubriachi”, in un concerto armonioso e dissonante di rime
baciate, alternate, ad incastro, che si fanno giostra da capogiro di fusione
totale e smemorante con la natura, e sinfonia di suoni melodiosi e stridenti, a
rendere omaggio alla imperfezione di ogni realtà che il bosco materializza e
nasconde tra le radici che s’incuneano nel suolo e le rocce che le proteggono.
Nell’essere tutti in un insieme che è, ancora una volta, abbraccio di pelle e
“stridore di stelle”…
“Insieme” è una parola che mi piace, è un avverbio che ha in
sé il senso della compagnia, del fare gruppo, di essere amici. Ed è anche per
questo che ho catturato su FB una insolita poesia (che è anche prosa poetica)
di Rita Vecchi, sempre molto cara al mio cuore: “VIGILIA DI COMPLEANNO”: Renditi
dono per gli altri/ e non avrai bisogno di orpelli/ Vivi il rinnovamento
costante/ e non sarà necessario/ ricordare la data del tuo compleanno/ Apprezza
ogni giorno le tue mancanze/ per ricercare invece quello che già possiedi,/ non
considerandolo mai scontato.// Ritieniti straniera nei tuoi vestiti/ ma accogli
nelle tue scarpe/ anche i passi degli altri./ Conserva quel tuo sorriso a volte
dimesso,/ tra il malinconico e lo scanzonato./ Permettigli di celebrarsi
nell’ironia/ degli occhi/ e non farlo affogare mai nel disincanto./ Accoglilo,
purificato e arguto,/ e lascialo volare, di leggerazza amica./ Domani
l’anagrafe segnerà una nuova età./ Abbracciala e ospitala nel cuore:/ c’è
ancora spazio/ per altre stagioni/ e misericordia per i futuri errori,/ che
certamente ci saranno.
È una esortazione a sé stessa e alla sua anima di poesia.
Già l’esordio, infatti, rivela una sensibilità sociale e poetica non comune.
“Renditi dono per gli altri”: è il dono rafforza già il significato del “darsi”
del verbo “rendere” che è già di per sé un restituire, quasi un essere in
debito con gli altri, accentuato oltre ogni dire dal riflessivo “rendersi”. E
la reiterata esortazione investe la necessità di farsi “agente di cambiamento”
per poter rinnovare il mondo migliorandolo. La necessità di non spaventarsi di
fronte alle “mancanze” che contengono in sé il senso di ciò che manca e che
crea inevitabilmente un “vuoto”, ma di “apprezzare” quello che “possiedi” che
quel vuoto colma ed è esso stesso un dono per sé stessa e per gli altri. Ma il
verso che lascia uno stupore di meraviglia e di inimitabile poesia è: “accogli
nelle tue scarpe anche i passi degli altri”. E ci potremmo fermare qui tanto è
umile e grandioso il senso “degli altri” nel suo e nel loro andare insieme, ma
Rita non finisce mai di sorprenderci, tra la malinconia del suo dimesso sorriso
e l’arguta, ironica sua personalità sempre alla ricerca di sé per mettersi in
ombra più che in vetrina, nella esasperata consapevolezza della immancabile
umana imperfezione che ogni possibile errore sottolinea ed evidenzia,
confidando nella misericordia divina… In Rita tutto questo è segno di umiltà e
coraggio che le fa onore, ma non le rende il dovuto merito che i tanti suoi
lettori, per fortuna, le riconoscono. Sarebbe questo rivendicarsi come Donna
nobile e fiera e delicata nonchè forte scrittrice e poetessa l’esortazione più
giusta che Rita dovrebbe imparare a fare a sé stessa e alla sua poesia…
Per quanto mi riguarda, mi sento confortata dai vostri
messaggi che mi confermano il nostro cominciare a sentirci e ad essere
veramente “insieme” nel riconoscerci e nel riconoscere gli altri nelle nostre
peculiarità e nelle nostre salutari e arricchenti “diversità”. Ecco un
significativo messaggio di Mariateresa Bari in riferimento al mio blog di due
giorni fa: La chiusa con l'amato Luzi toglie il fiato, Angela. Ma anche
le tue riflessioni sul valore incommensurabile dell'amicizia. Che condivido.
Anch'io continuo, nonostante le clamorose smentite (per usare le Tue parole) a
sostenere la mia funzione ostativa. Da sempre e per sempre. Ecco alcuni miei
versi di qualche giorno fa... “Se il cielo rovina”: Se il
cielo rovina e non consola/ supina ai piedi del muro,/ di questo muro taciturno
che è l'attesa, io guardo./ Minuscole particelle d'estasi/ frizzante assaporo
nell'orizzontale. Sono prato che prega/ sentiero che conduce/ onda che pia
sfiora/ e sommessa piange. Guardo e non mi do per vinta. (M. Bari)
Tutta da leggere e rileggere per riflettere su questo nostro
tempo avaro di sguardi, di sorrisi, di abbracci, ma ricco di germogli e gemme,
che annunciano con squilli di tromba di un mattino che è promessa di luce, la
primavera tanto attesa. Preceduta ieri da rami fioriti di mimose che una
giovane amica ha portato nella nostra casa a illuminare il giorno. Buon 1°
marzo. Con tanto profumo di delicata femminilità nell’aria…
Grazie Angela, non potevo meglio cominciare questo mese di Marzo se non con questo tuo corposo e meraviglioso scritto nel quale la parola poetica "naviga", come tu dici in un'aria leggera carica di promesse.Grazie anche alle poete da te scelte portatrici di grande luminosità, e alla prossima.
RispondiEliminaE per me giostra da capogiro la tua analisi. Angela, hai questo dono straordinario di penetrare le parole! Entri nella profondità del testo e nel sentimento di chi scrive con una naturalità che continuamente sorprende. Lo stupore che viene dalle tue parole, dalla tua sensibilità è nel mio cuore. Grazie!
RispondiEliminaE per me giostra da capogiro la tua analisi. Angela, hai questo dono straordinario di penetrare le parole! Entri nella profondità del testo e nel sentimento di chi scrive con una naturalità che continuamente sorprende. Lo stupore che viene dalle tue parole, dalla tua sensibilità è nel mio cuore. Grazie!
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