lunedì 1 marzo 2021

Lunedì 1° marzo 2021: alcune poesie da scoprire o "riscoprire"

Oggi è il 1° marzo e nell’aria c’è già primavera con un tiepido sole e le gemme dischiuse del mandorlo e dell’albicocco nel giardino. Nelle aiuole, narcisi, fresie, tulipani, screziati di rosso e di giallo, e i primi girasoli ancora bambini e le gerbere ridenti di petali moltiplicati. Un tripudio di colori caldi che bevono i raggi dorati e si vestono di calore, di allegria. Pure, nell’aria c’è ancora odore di pioggia che sicuramente verrà…  Marzo è pazzerello, si sa, e già sta divorando l’azzurro per pennellare il cielo, complice il vento, di nuvole sparse e arcipelaghi di piume leggere. Eppoi, io ho voglia di riprendere tra le mani e nel cuore i versi di Raffaella, mia figlia, che parlano di pioggia e di poeti e di amicizia e di parole che contengono nuvole e vita. Mi piace molto. Ne assaporo l’anastrofe (“Della pioggia l’odore”) di ogni verso anaforico che ha cadenza capovolta di pioggia, di ritmo e sentimento. Discreto, della pioggia. Come l’ospite che giunge in anticipo e non osa disturbare quelli di casa, che hanno ancora qualcos’altro da sistemare prima dell’atteso incontro. E, nell’attesa, l’odore ha volute di danza, lievità di sogno ancora avvolto nel silenzio. Anche per questo appartiene ai poeti che ne avvertono il sentore istintivamente (come i cani che braccano la volpe). Preludio alle gocce che potrebbero già sopraggiungere, ma potrebbero anche tardare sulla soglia di ogni attesa o decidere di rimandare la caduta, “avvinghiandosi”, quale divergente e illuminante idea, “alla pelle come alla penna”, e vestendosi di malinconia, che non ha suono, ma è già tumulto di parole che lente precipitano sul foglio e si fanno poesia, in un ossimoro psicologico (“lenta e tumultuosa”) di immensa significazione: quelle singole lettere, a guisa di gocce, si compongono sulla pagina vergine nel tumulto dei sensi e nella lentezza della loro sedimentazione nel nodo del cuore, e prendono vita e suono e armonia e incanto e si fanno immortali per il solo fatto di essere nate (mirabile miracolo della creazione della parola come “divina incarnazione”), mentre l’odore è ormai di casa, nella casa dei poeti, ed è l’ospite d’onore alla mensa della creatività che tutto rigenera perché niente muoia mai del tutto…

Della pioggia l’odore/ nasce prima/ come l’ospite in anticipo/ che bussa senza insistere./ Va danzando spandendosi/ nell’aria in silenzio./ Della pioggia l’odore/ appartiene ai poeti/ che lo sentono arrivare/ alle narici golose/ subito/ come i cani che braccano la volpe./ Della pioggia l’odore/ è la porta d’ingresso/ che già bagna la terra./ Della pioggia l’odore/ è già malinconia./ Poi la pioggia/ potrà passare senza cadere/ ma l’idea di lei si avvinghia/ alla pelle come alla penna/ e sul foglio è già caduta/ lenta o tumultuosa/ versando parole./ Della pioggia l’odore/ nasce prima e rimane/ a pranzo nella casa/ dei poeti. (Raffaella Leone)

Avevo dedicato questa poesia a Francesca Pice, che della pioggia sente l’odore e il battito vitale in ogni piega della sua anima, sperando che ne traesse motivo per un commento. So che Francesca ha una vita professionale, familiare e socio-culturale intensissima e molto probabilmente non ha avuto, purtroppo, neppure il tempo di leggere il mio blog. Assente giustificata. Ma il mio Retino ha catturato proprio in questi giorni sulla sua pagina una stupenda poesia dedicata alla pioggia della grandissima quanto sfortunata Amelia Rosselli, quasi in risposta ai versi precedenti ed eccola qui: Soffiati nuvola, come se nello stelo/ arricciato nelle mia bocca/ fosse quell’esaltazione d’una primavera/ in pioggia,/ che è il grigio che ora è/ era appeso nell’aria…/ … E se paesani zoppicanti sono questi versi/ è perché siamo pronti per un’altra storia/ di cui sappiamo benissimo faremo/ al dunque a meno,/ perso l’istinto per l’istantanea rima/ perché il ritmo t’aveva al dunque/già occhieggiata da prima (Amalia Rosselli, da Impromptu, 1981).  

La nuvola è un fiore che sboccia dal soffio che la poetessa imprime allo stelo “arricciato” nella sua bocca, quasi “esaltazione d’una primavera in pioggia”, il cui grigio presente era già prima nell’aria (il suo odore?). Umilmente, Amelia definisce i suoi versi “paesani zoppicanti” perché incompiuti, anticipando, a metà del loro cammino, altre storie che probabilmente mai più saranno, ma che nell’aria ritmavano una musica che aveva già sentore di primavera. E non mi sembra più un caso, ma il segno di quella misteriosa corrispondenza che porta i poeti ad un sentire comune, ad abitare insieme la casa delle parole, cibo di cui si nutrono per riconoscersi e viaggiare insieme, a volte senza saperlo, e giungere alle stelle e andare oltre…  

Ed è così che mi vengono incontro i versi di Maria Pia Latorre tra lo “stridore di stelle cadenti”, che riportano gli astri in caduta libera verso la terra per accendere un sogno negli occhi di chi sa ancora guardare il cielo e si scopre un tutto nel  Tutto che ci abita e ci contiene, trasformando il sogno di uno sguardo nel sogno di un faggio che viene guardato: “SOGNO DI UN FAGGIO” è la poesia che contiene questo prodigio che è un inno panico e misterico alla natura nella sua imperfetta perfezione: Stridore di stelle cadenti/ t’acquieti silente/ nell’ostro d’oriente/ il buio mannaro/ ti sfiora all’addiaccio/non piange la foglia/ aerea si posa/ e il muschio di seta/ t’abbraccia la scorza/ Così anch’io/ abbraccio il tuo viaggio/ Che sogni, amico mio faggio?/ Un nido di bachi danzanti/ o tarli dorati ubriachi?/ La giostra notturna di assioli?/ Che sogni? Puoi dirlo?/ Intanto bulbose/ le braccia nel suolo/ catturano rocce/ fermentano vita perenne/ nel sonno del bosco silente/ T’abbraccio di slancio/ mi lancio nel verde/ ti stringo più forte/ la scorza mi è pelle/ stridore di stelle.

E sorprendente è anche il fondersi e il confondersi nella loro stessa reiterazione delle parole classiche come “silente”, “ostro”, “addiaccio”, “acquieti”, “giostra” in un avvilupparsi di sensazioni corporee e di emozioni della mente e del cuore (continui e voluttuosi enjembement) che s’inarcano, senza soluzione di continuità, ad abbracciare “il buio mannaro” e la luce del plenilunio, il gelo della stagione invernale e la foglia leggera che sa di primavera, “il muschio di seta” che sfiora di tenerezza le mani e la ruvida “scorza” dell’albero che ferisce la pelle, il “nido di bachi danzanti” e “i tarli dorati ubriachi”, in un concerto armonioso e dissonante di rime baciate, alternate, ad incastro, che si fanno giostra da capogiro di fusione totale e smemorante con la natura, e sinfonia di suoni melodiosi e stridenti, a rendere omaggio alla imperfezione di ogni realtà che il bosco materializza e nasconde tra le radici che s’incuneano nel suolo e le rocce che le proteggono. Nell’essere tutti in un insieme che è, ancora una volta, abbraccio di pelle e “stridore di stelle”…

“Insieme” è una parola che mi piace, è un avverbio che ha in sé il senso della compagnia, del fare gruppo, di essere amici. Ed è anche per questo che ho catturato su FB una insolita poesia (che è anche prosa poetica) di Rita Vecchi, sempre molto cara al mio cuore: “VIGILIA DI COMPLEANNO”: Renditi dono per gli altri/ e non avrai bisogno di orpelli/ Vivi il rinnovamento costante/ e non sarà necessario/ ricordare la data del tuo compleanno/ Apprezza ogni giorno le tue mancanze/ per ricercare invece quello che già possiedi,/ non considerandolo mai scontato.// Ritieniti straniera nei tuoi vestiti/ ma accogli nelle tue scarpe/ anche i passi degli altri./ Conserva quel tuo sorriso a volte dimesso,/ tra il malinconico e lo scanzonato./ Permettigli di celebrarsi nell’ironia/ degli occhi/ e non farlo affogare mai nel disincanto./ Accoglilo, purificato e arguto,/ e lascialo volare, di leggerazza amica./ Domani l’anagrafe segnerà una nuova età./ Abbracciala e ospitala nel cuore:/ c’è ancora spazio/ per altre stagioni/ e misericordia per i futuri errori,/ che certamente ci saranno.

È una esortazione a sé stessa e alla sua anima di poesia. Già l’esordio, infatti, rivela una sensibilità sociale e poetica non comune. “Renditi dono per gli altri”: è il dono rafforza già il significato del “darsi” del verbo “rendere” che è già di per sé un restituire, quasi un essere in debito con gli altri, accentuato oltre ogni dire dal riflessivo “rendersi”. E la reiterata esortazione investe la necessità di farsi “agente di cambiamento” per poter rinnovare il mondo migliorandolo. La necessità di non spaventarsi di fronte alle “mancanze” che contengono in sé il senso di ciò che manca e che crea inevitabilmente un “vuoto”, ma di “apprezzare” quello che “possiedi” che quel vuoto colma ed è esso stesso un dono per sé stessa e per gli altri. Ma il verso che lascia uno stupore di meraviglia e di inimitabile poesia è: “accogli nelle tue scarpe anche i passi degli altri”. E ci potremmo fermare qui tanto è umile e grandioso il senso “degli altri” nel suo e nel loro andare insieme, ma Rita non finisce mai di sorprenderci, tra la malinconia del suo dimesso sorriso e l’arguta, ironica sua personalità sempre alla ricerca di sé per mettersi in ombra più che in vetrina, nella esasperata consapevolezza della immancabile umana imperfezione che ogni possibile errore sottolinea ed evidenzia, confidando nella misericordia divina… In Rita tutto questo è segno di umiltà e coraggio che le fa onore, ma non le rende il dovuto merito che i tanti suoi lettori, per fortuna, le riconoscono. Sarebbe questo rivendicarsi come Donna nobile e fiera e delicata nonchè forte scrittrice e poetessa l’esortazione più giusta che Rita dovrebbe imparare a fare a sé stessa e alla sua poesia…

Per quanto mi riguarda, mi sento confortata dai vostri messaggi che mi confermano il nostro cominciare a sentirci e ad essere veramente “insieme” nel riconoscerci e nel riconoscere gli altri nelle nostre peculiarità e nelle nostre salutari e arricchenti “diversità”. Ecco un significativo messaggio di Mariateresa Bari in riferimento al mio blog di due giorni fa: La chiusa con l'amato Luzi toglie il fiato, Angela. Ma anche le tue riflessioni sul valore incommensurabile dell'amicizia. Che condivido. Anch'io continuo, nonostante le clamorose smentite (per usare le Tue parole) a sostenere la mia funzione ostativa. Da sempre e per sempre. Ecco alcuni miei versi di qualche giorno fa... “Se il cielo rovina”: Se il cielo rovina e non consola/ supina ai piedi del muro,/ di questo muro taciturno che è l'attesa, io guardo./ Minuscole particelle d'estasi/ frizzante assaporo nell'orizzontale. Sono prato che prega/ sentiero che conduce/ onda che pia sfiora/ e sommessa piange. Guardo e non mi do per vinta. (M. Bari)

Tutta da leggere e rileggere per riflettere su questo nostro tempo avaro di sguardi, di sorrisi, di abbracci, ma ricco di germogli e gemme, che annunciano con squilli di tromba di un mattino che è promessa di luce, la primavera tanto attesa. Preceduta ieri da rami fioriti di mimose che una giovane amica ha portato nella nostra casa a illuminare il giorno. Buon 1° marzo. Con tanto profumo di delicata femminilità nell’aria…

 

 

 

3 commenti:

  1. Grazie Angela, non potevo meglio cominciare questo mese di Marzo se non con questo tuo corposo e meraviglioso scritto nel quale la parola poetica "naviga", come tu dici in un'aria leggera carica di promesse.Grazie anche alle poete da te scelte portatrici di grande luminosità, e alla prossima.

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  2. E per me giostra da capogiro la tua analisi. Angela, hai questo dono straordinario di penetrare le parole! Entri nella profondità del testo e nel sentimento di chi scrive con una naturalità che continuamente sorprende. Lo stupore che viene dalle tue parole, dalla tua sensibilità è nel mio cuore. Grazie!

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  3. E per me giostra da capogiro la tua analisi. Angela, hai questo dono straordinario di penetrare le parole! Entri nella profondità del testo e nel sentimento di chi scrive con una naturalità che continuamente sorprende. Lo stupore che viene dalle tue parole, dalla tua sensibilità è nel mio cuore. Grazie!

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