giovedì 10 ottobre 2024

Giovedì 10 ottobre 2024: un ritorno difficile da affrontare con coraggio…

Probabilmente qualcuno di voi, che mi seguite con tanto affetto sul nostro blog, si sarà chiesto il perché di un così lungo silenzio. Ebbene, ho avuto un altro momento drammatico della mia vita: quindici giorni vissuti tra la vita e la morte per via del COVID, che non ha voluto risparmiarmi e, con me, tutta la mia famiglia, con cui vivo a Corato (Bari) da circa 24 anni. Io, la più fragile per età e per altre perdite che hanno segnato profondamente i passati giorni, nonostante tutte le precauzioni, sono andata a finire prima al pronto soccorso del mio paese e poi, per direttissima, di notte, all’ospedale di Altamura, dove mi hanno immediatamente “accolta” nel reparto allestito per i malati di COVID per le prime cure del caso. Ho sottolineato “accolta”, e lo ribadisco, perché, per la prima volta, in una struttura sanitaria pubblica (di ospedali e cliniche private, in Italia e all’estero: Lione, Belgrado ecc. ho fatto, mio malgrado, la mia seconda casa nell’arco della mia lunga vita), mi sono sentita in un ambiente decisamente accogliente e protettivo, grazie soprattutto ad una équipe medico-sanitaria altamente qualificata, e mi riferisco non soltanto ai medici e alle dottoresse, ma anche agli infermieri e infermiere, alle Oss, fino ai semplici inservienti: tutti, dico tutti, ciascuno nel proprio settore e con le specifiche competenze, o mansioni, ha dato il massimo di sé  e molto di più, quasi fosse, il loro, non un semplice servizio, ma una vera e propria missione umanitaria H 24! 

Struttura all’avanguardia, pur nella semplicità delle suppellettili, con monitor e quant’altro, e farmaci di ultima generazione per chi, come me, è allergica a tutto: antibiotici, analgesici, cerottini anallergici, e così via. Se non fosse stato per tutto questo, ora non sarei qui a parlarvene, grata al buon Dio per avermi, ancora una volta, protetta e grazie a una Madonnina col Suo Cuore Grande, acceso d’Amore per l’umanità sofferente, e uno sguardo di benevola consolazione che si slargava in un tenero sorriso. Più in là, minuscolo, forse ricavato da un po’ di legno teak, un crocifisso che mi commuoveva nella sua marginalità, quasi a fare spazio a tutte le altre divinità, a cui ogni essere umano può affidarsi, soprattutto in un luogo di sofferenza e di dolore. 

Ma il mio lato romantico e poetico non può omettere di parlare della grande vetrata che mi permetteva di sera di guardare le stelle enormi sulle Murge incantate e molto probabilmente lontane dall’inquinamento luminoso dei centri abitati tale da comprometterne l’affascinante visione. Io di notte parlavo con le stelle quasi fino all’alba, quando Sirio rimaneva ad attenderla, più luminosa che mai, e le allodole sfidavano il sorgere dell’aurora con i loro voli in libertà verso il sole. E stridii e giravolte come gioia di vivere e di essere al mondo e di allietarlo. 

Alle 6,30, puntuali come silenziose ombre leggere gli infermieri e le infermiere cominciavano il loro turno: febbre, pressione, emogasanalisi arteriosa sistemica per misurare le quantità di ossigeno e di anidrite carbonica presenti nel sangue e provvedere, in caso di bisogno, alla mascherina per l’ossigeno; flaconi di farmaci da immettere nelle vene: magnesio, potassio, calcio, acido folico… Inevitabile il paragone con il garrire frenetico degli uccelli oltre la vetrata e il silenzioso compito quotidiano per supplire a valori nutrizionali ancora piuttosto bassi per stare bene. Tutto questo ha comportato il mio cercare di “sentirmi viva”, scrivendo sul mio cellulare pensieri, poesie, riflessioni. 

Ecco qualche esempio, con un pizzico di follia la “Ballata di fine settembre”: La fine di settembre che incalza/ di piogge e nuvole innevate/ mi fa ciao ciao questo pomeriggio/ dietro la grande vetrata dell’ospedale/ sesto piano di un paese che sembra/ toccare il cielo che cade giù più giù/ e sembrano stringersi la mano/ come quel tale Peppino garibaldino/ che al re galantuomo fece nietemeno/ un inchino a Teano, non al villano./ (che sempliciotto non era perché lui era/ “di scarpa grossa e cervello fino”/ e pioggia non pioggia cade non cade/ a casa lui ritorna come cavalla storna)./ E chi c’era e chi non c’era/ non ebbe mai una statua di cera/ come oggi accade nel Museo/ di ogni metropoli che si rispetti/ con onore e affetto ai propri miti/ ed eroi e donne ardite ne abbiamo/ anche noi e molti non capiranno/ (e, udite udite, sotto la pioggia/ mai stanno e non lo sanno/ e non se ne fa mistero c’ero non c’ero/ vero o non vero, sincero non sincero…)./ Poi si scopre che molti erano e sono/ guerrafondai, assassini, dittatori/ hanno trucidato popoli e fratelli/ sventrato il mare, fatto a fette la luna./ Si sono improvvisati attori e non vanno/ mai un galera, non ne hanno fatto bene/ UNA, poi di colpo perdono la testa./ Mai una guerra come se non avessero/ una Mamma una Figlia, una foto ricordo…/ (Ma i nostri benpensanti scrittori poeti/ giornalisti gli agguerriti della penna/ e dei social imperversano e vomitano/ giudizi e volgarità, sacri malumori/ perché così si scrive)./ Gettando nella disperazione i disperati,/ nel marasma i dispersi, nel vuoto/ i giovani e ragazzi allo sbaraglio/ che non si salvano più manco per sbaglio./ Prendiamo il mare mettiamolo via./ facciamo il cielo a pezzi non serve più,/ fu un inganno di stelle ridicole/ già morte milioni d’anni fa,/ rompiamo il passato quel che è stato è stato./ E le stelle di Vecchioni, il profondo mare di Dalla,/ l’azzurro di Conte e tanto De André/ e tu e io e noi che ancora ci crediamo/ e sotto le stelle facciamo/ casa e nido?/ (ma s’incantano i miei occhi al gioco della fantasia/ che COVID signore/ alla grande acuisce e restituisce:/ e vince le guerre la paura la codardia)./ Non cade la pioggia sale come lo jojo/ della mia infanzia magica e dorata/ con i bimbi che rimbalzano sulle reti/ spaccariccioli che volano più su più su./ C’è persino un cuoricino istoriato/ come sottile vetrata di chiesa cupola/ d’altare e vetri cilestrini di campanile,/ con una coda lunga sinusoidale,/ che sale che sale e non si fa mai male/ (perché porta un messaggio d’Amore/ creato da un folletto innamorato/ che, senza alcun peccato, è volato/ dalla sua bella sempre quella quella)./ Nel silenzio della pioggia il suo segreto/ privo di parole, il segreto non parla/ conserva, racchiude in una sola goccia/ grande come una boccia di biliardo:/ trasparente, non è bugiardo./ È azzurrina la bolla di pioggia/ come bolla di sapone, non sussurra,/ non racconta, tace ridente di mille colori:/ è solo amore immenso amore/ che supera ogni dolore e disperazione./ Salvifica è la danza sotto la pioggia/ che sale con me e siamo in tre:/ danza io e pioggia e noi, sì, noi nell’IMMENSO/ non ci perdiamo, ci teniamo per mano/ e ridiamo./ Il rumore, voce della pioggia/ è la nostra risata, ci credi o non ci credi/ la vedi o non la vedi/ e ridi con tanto cuore/ non più danza delle ore, ma dell’amore/ (intanto il cielo di Dante si è acceso di stelle/ si sono svegliate a mille a mille/ con le loro centomila faville/ hanno spento la pioggia acceso i Sogni)./ Ri-nascita non è solo Amore è FUTURO…    

Poi, ecco una poesia beneaugurale per il compleanno di un mio carissimo amico: Un’alba di mandorla chiara/ e un residuo di stelle mi regala/ Sirio tra le mani che a migliaia/ hanno raccolto stanotte/ per farne dono all’amico geniale,/ che dono mi fa del suo cielo stellato./ E brividi di nostalgia sotto una cupola/ accesa di stelle, che sanno di una notte/ di pura magia e mille ricordi… / E sfrecciano nel cielo dell’alba allodole/ in libertà a portare il oro canto/ e incanto all’amico geniale in dono./ (e sarà il nostro inno all’amicizia/  alla creatività e alla felicità condivisa. Sempre…).

A Matteo per il suo compleanno! Sii felice! Angela 

Ed era il 5 ottobre. Ma il 2 ottobre per la giornata degli Angeli Custodi e per la Festa dei Nonni sono riuscita a scrivere “Quando volano le ali”: Ci sono angeli al nostro fianco…/ dicevate in un racconto di noi/ - Angelo di Dio che sei il mio Custode, illumina,/ custodisci, reggi e governa me,/ che ti fui affidata dalla pietà celeste. Amen -/ Così da bambina i miei nonni. Ed era Luce!/ Così da bambina mamma accanto ai nostri lettini/ di bimbe senza padre,/ volato in guerra e prigioniero./ Ed era protezione./ E volavano ali per vivere un sorriso/ strette tra i nonni in preghiera,/ dolcissima preghiera dell’alba/ e del tramonto, preghiera della sera./ Ed era guida silenziosa di tenerezza antica./ Dietro i vetri contavamo le stelle,/ le più belle, per sentire nel cuore/ una ninnananna di luna e di attesa,/ intesa tra noi e il paradiso,/ vicino,/ lontano, terreno, divino…/ (con le ali toccavamo il cielo con un dito, / toccavamo il mistero e il suo canto)/ - Angioletto del mio Dio che fai tu vicino a me?/ Che fai tu vicino a me? - / - Sono l’Angelo del Signore/ sto vicino al tuo cuore/ quando vegli e quando dormi/ sempre sempre sto con te/ sempre sto vicino a te -/ (e nel canto fiorivano i nostri sogni con le ali…) 

Ai miei nonni. A mia madre…    

Oggi, infine, è 10 ottobre, mio fratello Mimmo compie 74 anni, essendo nato il 1950, a metà secolo. A lui dedico questi brevi versi: appartenersi è miracolo che si rinnova/ ad ogni incontro d’anima/ distanti noi nello spazio/ che più non ci appartiene/ uniti nel ricordo e nella nostalgia:/ bimbo tu di marzapane e zucchero filato,/ a distanza ci riconosciamo/ e sappiamo di esserci l’uno per l’altra/ sempre/ nelle risate mai spente/ nelle lacrime taciute./ Dono immenso è riconoscersi/ nella ruga profonda che ci regalò la fronte/ di nostro padre,/ negli occhi grandi d’immenso amore/ tenerezza mai spenta di nostra madre./ E viverci in famiglia con la stessa attesa/ d’incontrarci ancora/ come da bambini ad ogni estate/ (che mai muore e sempre ci appartiene)  

E da tre giorni sono finalmente a casa: stanca, debilitata, ma pronta a ricominciare. 

Un abbraccio a tutti. Angela/lina

domenica 22 settembre 2024

Domenica 22 settembre 2024: Una Maestra ma non Troppo: ancora qualcosa da dire...

Con l’equinozio di settembre siamo in pieno autunno. Da domani i giorni saranno sempre più brevi. Sento l’autunno come tempo di ritorni e non so spiegarmi perché. E, per non pensarci più di tanto,   ritorno a scrivere del libro di Raffaella perché mi piacciono tantissimo le storie che racconta, rendendo protagonisti i suoi alunni che, in ogni tempo, hanno vissuto sulla propria pelle “fatti e misfatti” nella scuola, ma prima ancora nella famiglia, nella comunità di appartenenza, nell’intera società.

E parto dalla parola Handicap che, nel suo libro, assume significati diversi e sempre nuovi.

Handicap:

Hai con me

Ali

Nuove

Da

Inventare

Come

Aquiloni

Per volare

Mamma mia, che rivoluzione! Ho cambiato

persino il significato di una parola.

Che disastro!

Il fatto è che i vocabolari sanno tutto, ma

insegnante

Io e te

Noi

Siamo

Entusiasti

Gioiosi

Nonché felici di

Apprendere facendo

Nuove

Trionfanti

Esperienze

Raffaella è nella terra dei vocabolari, dove ogni parola ha un suo preciso significato che non ammette la creatività, l’immaginazione, la fantasia. È quello e basta. I vocabolari non hanno il suo stesso entusiasmo nel cercare il significato delle parole: non te lo sanno comunicare con entusiasmo, con una piccola vibrazione, un afflato. Eppure, ci sono gli esempi, i sinonimi e i contrari, l’etimologia, i vari utilizzi, i contesti, ecc., ma tutto è offerto in modo asettico, da sala operatoria. Purtroppo, le regole mi sono sempre state strette, non ne trovo mai della mia taglia, proprio come i vestiti! Le definizioni dei vocabolari sono nate per chiarire o così dovrebbe essere, se non hai bisogno come me di fare giochi con le parole per cercare altri suoni, altri gusti.

Mi piacciono le certezze, ma credo sempre nell’azione benefica del dubbio, che scompagina e ti mette altra strada da fare sotto i piedi. I vocabolari, invece, per natura eliminano i dubbi e stabiliscono i confini dei termini. Ogni parola, lemma, vocabolo ha il suo territorio. Abita un contesto preciso. Significa esattamente qualcosa. Non ci sono margini di errore. Gli errori nascono dall’uso sbagliato dei vocaboli. Possono essere sbagliati i contesti, le circostanze, in cui le parole si adoperano. La loro esposizione può essere poco chiara o poco coerente, ma il loro significato è preciso, dettagliato, studiato in ogni suo aspetto. Possiamo dire che ci sono parole belle e altre decisamente brutte, ma abbiamo la certezza che ognuna ha il suo ben preciso scopo comunicativo

Una volta cercavo di dare ad un mio meraviglioso alunno la possibilità di ampliare il suo lessico, perché la sua povertà lessicale, appunto, lo costringeva in un isolamento sociale e scolastico notevole. E così ogni giorno gli proponevo liste di nomi a cui attribuire aggettivi adatti, per non usare sempre i tre termini che conosceva. Quella fu la volta, dopo lunghe trattative in cui mentre gli prospettavo l’opportunità di cambiare le parole che lui mi indicava con altre più idonee, alla parola maestra lui associò il termine “cattiva” e prima ancora che io potessi chiedergli di cambiarlo, lui mi bloccò la mano e, in dialetto, mi chiese senza possibilità di replica di lasciarlo così com’era. Lo scopo comunicativo era stato perfettamente raggiunto, e la parola non aveva altri sinonimi o poteva essere sostituita da altre. La maestra era cattiva punto e basta.

Domenico era intelligentissimo e mi ha regalato punti di vista o di svista sulle cose, le persone, gli avvenimenti assolutamente unici e originali, come quando nel desiderio di giustificarsi per le sue difficoltà di apprendimento, mi disse: “Che vuoi da me io sono nato in dialetto”.

A lui e al ricordo del mio mitico professor Sossi ho dedicato poi il racconto che vi faccio leggere, mentre cammino tra le parole della Lingua Italiana, qui nella Terra dei Vocabolari:

Dragongomma

Io in terza elementare mi vedevo ancora. Cioè, mi spiego: io mi vedo sempre, sono gli altri che non mi vedono più. Tutta colpa di Dragongomma. È lui che mi sta cancellando, un po’ per volta, fino a quando, ne sono certo, non mi farà sparire del tutto. Dragongomma è un drago mostruoso, che vive nascosto nel mio borsellino. Tutto è cominciato quel giorno che, all’inizio di novembre di quest’anno scolastico, sono andato a comprarmi una nuova gomma per cancellare. La signora della cartoleria mi stava dando una di quelle solite gomme bianche e blu, ma sullo scaffale più polveroso, io ne vidi una molto più grossa delle altre, verde con una striscia rossa al centro. Mi sembrò bella. Che ne potevo sapere io che era anche cattiva! Beh! Non ho prove per dire che Dragongomma sta facendo tutto da solo, ma non ho più molto tempo per scoprirlo, ormai. Di sicuro, però, il giorno dopo che ho comprato quella gomma infernale, la maestra mi ha cambiato di posto. Mi ha messo da solo. Ero così triste di aver perso il mio unico compagno di banco che, quasi quasi, mi mettevo a piangere. Ho strizzato gli occhi così forte che ho cacciato le lacrime indietro ma poi, quando li ho riaperti, ho visto quella gommaccia che si muoveva. Lo so che le gomme non camminano, ma sono pronto a giurare che, da quel momento, quella gomma verde con la striscia rossa è diventata un drago. Dragongomma, come lo chiamo io. Io non so cosa gli ho fatto, ma lui ce l’ha con me. E da quel giorno mi cancella, come uno che si vuole prendere il mio posto. Prima che arrivasse lui, la maestra mi mandava a fare le fotocopie o mi chiamava per distribuirle, oppure mi faceva raccogliere i quaderni per la correzione, dopo, invece, piano piano ha incominciato a non chiamarmi più. Ora, io lo so che ci sono gli altri bambini e che tutti dobbiamo fare qualcosa, però, io non ci sono più, neanche quando la maestra interroga. La maestra, in prima, seconda e terza, qualche volta quando alzavo la mano, mi faceva pure a me le domande. Lo so che non rispondevo bene e che non dicevo tutte le cose. Un po’ me le scordavo, qualche volta rispondevo con eee, mmm. Oppure le dicevo solo in mente, ma dalla mia bocca non usciva niente. Ma è che io, però, ci ho un problema… e… em… Vabbè: io sono nato in dialetto. A casa mia parliamo la nostra lingua. E che comunque non è che parliamo tanto... comandiamo. Mia nonna comanda a mio padre, mio padre a mia madre e mia madre a me. Io non tengo nessuno da comandare e sto sempre zitto. Forse la maestra si è accorta che noi stiamo come in un mondo a parte, però lei, prima, mi diceva “Corrado, devi studiare un po’ di più. Mi raccomando”. Ora, anche se io alzo la mano, lei non mi chiama più. Io avrei tante cose da dire! Prima di tutto vorrei chiedere a lei: - Perché mi hai spostato dal mio amico Gianni, che io ancora non l’ho mica capito? - Io sono uno che non parla mai e Gianni mi capisce lo stesso. Ora non posso più chiedere aiuto a nessuno. Io a Gianni l’ho sempre avuto dalla prima. Lui è come una linea che mi unisce agli altri. E poi ci ha la pazienza d’impararmi l’italiano. E poi vorrei anche dire: - Perché non mi vedi più, maestra? E soprattutto, perché non comandi a Dragongomma di lasciarmi in pace? Prima, alzavo un dito e lui l’ha cancellato. Poi ho aperto tutta la mano e lui l’ha cancellata. Così ho alzato tutto il braccio più in alto che potevo e la maestra non mi ha visto neanche e ho capito di aver perso anche il braccio. Il fatto è che ora più si cancellano parti di me, più diventa grosso lui. La mia cartella è diventata pesantissima e la mattina proprio non ce la faccio a portarla fino sopra. Così un giorno, Tommaso, il bidello, mi ha detto dietro: - Ma cosa porti in quello zaino? Io gli volevo gridare: - DRAGONGOMMAAAA! - ma non lo posso dire a nessuno che nel mio zaino tengo un drago di 45 chili, che prima era una semplice gomma ed ora è pronto a divorarmi. La mattina è sempre più difficile per me andare a scuola, anzi faccio tanti capricci per non andarci e invento un sacco di scuse: mal di pancia, mal di denti, mal di gola. E mentre mamma non mi crede, io sento che Dragongomma mi ride addosso. Mia madre a scuola mi manda sempre, pure che ci ho novanta di febbre! Perché dice che a scuola si deve andare per forza, altrimenti vengono i carabinieri, come erano andati a suo padre, nonno Ciccio, che stava in campagna a raccogliere le olive e sono andati a prenderlo. Mio nonno, poi, quando ha finito di andare a scuola è andato di nuovo a raccogliere le olive e si è dimenticato tutto. Anche se le poesie le sa ancora e a Natale le diciamo insieme. Io le mie e lui le sue. Prima di Dragongomma, io tenevo solo il problema del dialetto. Adesso, invece, non so più cosa fare. Se non mi vedranno più per niente a scuola penseranno che sto a raccogliere le olive! Ma ditemi se sbaglio, se a scuola non mi vede nessuno, che ci vado a fare? La maestra non si accorge neanche che è da tanto tempo, ormai, che non prende i miei quaderni per correggere. Lo so che si stancava a segnare tutto rosso, ma almeno io capivo che avevo sbagliato. Adesso il quaderno è tutto bianco, neanche un po’ di rosso e neppure nero, perché da quando c’è Dragongomma che mi cancella, manco mi sforzo di scrivere. La maestra era l’unica adulta che pure se non capivo tutte le parole che diceva, la capivo lo stesso. Maestra, sono ancora qui, per poco, non sono completamente sparito o non ancora, almeno, perché una volta mi è sembrato che Carlo, un compagno di classe, mi stava sorridendo. Volevo chiedergli: - Allora tu mi vedi? - ma dalla mia bocca non mi è uscito niente. Forse Dragongomma mi ha già cancellato la lingua. L’altro giorno poi, entrando nel portone, per errore ho fatto cadere il cartellone degli avvisi. E Tommaso si è messo a gridare: - Chi è statooo? Ma come chi è stato? Sono stato io! L’hanno visto Tutti! Maccè! Non mi ha visto nessuno! E allora sarà proprio giunto il mio momento! Oggi non volevo venire a scuola, ieri non ho fatto i compiti. Non li voglio fare più! Salgo le scale che un vecchietto di cento anni le fa prima, mi trascino. Dragongomma, ormai, sarà diventato almeno di 450 chili! Uff! Sto per sparire e mi dovevo pure caricare sto bestione di drago! Ho cercato di buttarlo tante volte nel cestino, ma ogni volta non riuscivo a trovarlo. Quello si nascondeva. Quando entro in classe non se ne accorge nessuno. Mi siedo da solo nel mio banco all’angolo. La maestra, ormai come ogni mattina, comincia a parlare con tutti tranne che con me. Addio, mondo! Appena apro lo zaino Dragongomma mi farà sparire anche la testa! Con un ultimo colpo di coda mi cancellerà tutto. Sono l’ultimo ad arrivare e per forza ho salito a 1 all’ora! La maestra non c’è. In classe stanno facendo chiasso… Mi siedo e aspetto l’ultima scancellata definitiva. - Ehi tu? - una voce maschile entra nell’aula - Tu, nell’angolo! - Chi? Io? Mi sono girato verso la porta - Sì tu, come ti chiami? - mi ha domandato un uomo alto alto con la barba e una giacca rosa. - Mi chiamo Corrado - ho risposto appena. - Senti, Corrado, vieni qui, fammi una cortesia. Vai a chiamarmi il signor Tommaso, per favore. Digli che il supplente non ha firmato il registro e se mi fa la cortesia di portarmelo, posso firmare ora, così non vi lascio soli. - Sì, vado subito! - gli ho risposto felice. Sono andato spedito come un fulmine. LUI MI HA VISTO! LUI MI HA VISTO! Penso, ma poi mi è presa la paura di Dragongomma. E se, quando torno, mi cancella di nuovo? Ho paura. Ritornato, mi fermo un po’ dietro la porta semiaperta. Fermo, che mi tremano le gambe ad entrare dentro. Il nuovo maestro sta dicendo - Aspettiamo che torni Corrado e poi vi spiego cosa faremo in questi giorni che staremo insieme. Cosa? Mi vuole aspettare? Ho guardato bene prima di entrare e non ho visto Dragongomma. Così, entro e il maestro alto alto con la barba gentile mi ha sorriso - Grazie, Corrado, puoi sederti. E a proposito sposta il banco accanto agli altri. Gianni, allora si è alzato e ha detto - Maestro, si può mettere vicino a me? - Certo, perché no? - gli ha risposto lui, alto alto, con la barba gentile e con la giacca rosa. Sono confuso. Ho spostato il mio banco... forse mi vedevano di nuovo. Gianni mi sorride e mi dice in silenzio che è contento di avermi di nuovo accanto a lui. Andrea che sta vicino a Gianni, dalla parte della porta, mi ha dato una pacca sulla spalla, guardandomi negli occhi. Elisa che sta seduta dietro di noi, mi ha fatto il cuore con le dita. È che a me lei è sempre piaciuta sin dalla prima. Mi sento più coraggioso ora! Apro il borsellino e… Dragongomma è… È sparito! Sono tornatoooooooooo. Ben trovato, mondo!

Quanti bambini si perdono nell’invisibilità di occhi poco attenti, di occhi indaffarati a cercare la conclusione di una strada, quella in cui c’è scritto: finito il programma! Ma quale programma? Eppure, anche nella Scuola Primaria, dove si lavora con tante esigenze formative diverse, si insegue l’arrivo ad una identica meta. Sentirete sempre un gran numero d’insegnanti che dicono di essere indietro, di non farcela a finire, di avere una mole di programma ancora da svolgere. Ma chi arriva alla meta? Tutti o qualcuno? E chi arranca? Resta indietro e forse alla meta non arriverà mai? Intanto mi ritorna in mente il COME di cui parlavo prima, oggi, più che mai ci serve molto di più il come s’insegna rispetto al COSA s’insegna. E andare a rilento rispetto a un come significa, appunto, non lasciare nessuno lontano dalla possibilità di apprendere, mentre andare a rilento rispetto a un cosa significa, obtorto collo, non perdere tempo a seguire tutti. Tutto si gioca tra un come e un cosa e nel mezzo ci sono un mare di opportunità per essere migliori, migliorabili, più felici sicuramente! Intanto, ritornano le parole e il loro specifico significato e il loro preciso scopo. Sono loro che ci determinano. Sostanziano le nostre azioni, ci differenziano, ci rendono capaci di rimodularci, ci portano verso la ricerca di riflessione, verso la conquista del valore aggiunto, verso la possibilità di comprensione, di chiarezza, di scoperta. Prima di lasciare la Terra dei Vocabolari, voglio fare un ultimo giro nei pressi di un altro termine che mi è particolarmente caro e che verso Consapevolezza mi sembra giusto andare a rileggere: Talento. talènto1 s. m. [dal lat.talentum, e questo dal gr. τάλαντον]. - Nella Grecia antica, unità di misura di massa e peso […], 2 Ingegno, predisposizione, capacità e doti intellettuali rilevanti, spec. in quanto naturali e intese a particolari attività: avere molto, poco t.;essere dotato di grande t. […] La predisposizione è fondamentale e si va a posizionare proprio in mezzo a come e cosa, migliorando il primo e mortificando il secondo. Tutto si può imparare, ma bisogna fare i conti con la predisposizione e un mucchio di altre cose che non posso analizzare ora, perché il capostazione sta fischiando, si riparte. Risalgo sul treno con mille parole che gironzolano libere alla ricerca di definizioni. Possibilmente un po’ sparigliate come le increspature del mare quando s’infrange sugli scogli, ma non ne aveva ancora voglia. Guardo dal finestrino: i prati, le case, gli alberi corrono con me e trovo che l’albero insegni all’erba che per arrivare al cielo non sempre servono fusto e rami; che le case si sostengano a vicenda senza starsi addosso, e tutto appare uguale ma diverso allo stesso tempo, e il peso delle cose difficili appartiene a tutti, come il fiume ora in piena e subito dopo in secca.

Sono nel posto giusto per cercare libri, sull’argomento che sto cercando di approfondire. Così, vado a cercare la mia amica Alma, la libraia. Eccola è lì, ve la presento…

Alma, la libraia, né bella né brutta né giovane né vecchia né alta né bassa né magra né grassa né bionda né bruna magari un po’ bionda e un po’ bruna, a volte castana, forse rossa, ma di sicuro mai fuxia, era una donna normale. Media, direi, banale. Forse uguale. Beh, almeno simile... molto simile a tante altre persone. Ovviamente, se la guardavi di giorno, perché già di pomeriggio fiabe sulle guance. Un vento d’avventura tra le ciglia. Un filo bianco di paura tra i capelli. Polvere di leggenda sulle palpebre. Imperlate di filastrocche alle orecchie. Un indaco poetico sulle labbra. Profumo di favole sotto i tacchi degli stivali. Appariva più saggia e molto, molto più misteriosa. I suoi abiti diventavano più romantici e si riempivano di tante, tantissime tasche. Tasche storiche, geografiche, scientifiche, musicali. Fiorite, profumate, scucite o abbottonate, con merletti o a quadretti. Alcune erano a righe o di carta. Altre di stoffa. Alcune di bosco. Di pianeti e di stelle. Le più grandi erano case per i sogni: quelli già sognati, ancora da sognare o in attesa di un sognatore. Tasche colme e tasche ancora da riempire. Per ogni cosa esistente al mondo, ma anche per ogni cosa che al mondo non esisteva ancora. Chi l’aveva, così, trasformata? Il vento? Il sole? La magia? La verità sul suo aspetto cangiante era semplice e affascinante: dipendeva dai libri. Tutti i libri da lei letti e riletti e fatti leggere. I libri amati, ma anche studiati e venduti. Quelli descritti e quelli cercati. Anche quelli spolverati, sistemati o riordinati. Tutti i libri della sua libreria, tutti i libri che riempivano la sua mente e il suo cuore. Quando tornava a casa, Alma, la libraia, si trasformava ancora: piano piano svuotava quelle strane magiche tasche sulla sua piccola scrivania di vecchio ciliegio; prendeva una scatola di penne di tutti i colori e una pila altissima di fogli di carta di ogni forma; si sedeva sulla sua vecchia sedia di quercia millenaria e... diventava una scrittrice. E scriveva scriveva tante, tantissime storie. Nate dai libri e pronte a diventare altri libri. Altri libri per altri lettori, altre librerie e altri librai. Storie un po’ vere, ma anche fantastiche, realistiche, verosimili o sognate. Piccole o infinite. Tristi o tristissime, con una lacrima o cento. Oppure divertenti, molto divertenti, divertentissime con mille risate e un maldipancia. Storie di persone, di popoli, ma anche di personaggi, di animali e di oggetti e paesaggi. Di luoghi, di sentimenti o emozioni, di sensi e pure sensazioni. Di cieli e di mare, di acqua e di fuoco, terra e vento e neve, ma anche senza neanche un po’ di bianco. Storie di colori, quelli che tutti vedono e quelli dei gatti e dei cani, ma anche quelli delle formiche e tutti quelli non ancora inventati. Storie già adulte o ancora da cullare. Storie con tutti i denti o neanche uno, con tutti i capelli o con gli occhiali. Storie per bambini, bambine, mamme e papà e pure per nonni e persino per dottori, per i signori che non fanno nulla e per tutti quelli che sanno pescare. Storie senza confini, ma anche brevi che stanno in una tazza da caffè o così corte che assomigliano a briciole di pane. Dolci come le fate e verdi e fresche di zucchine e fiori d’arancio. Storie da ogni stagione e ogni borsetta. Rotonde da pallone o a rombo aquilone, ma anche quelle da rettangolo per ogni porta e ogni angolo. Storie senza date e con tanti numeri, con tante lettere oppure una soltanto, con tanti nomi e verbi e avverbi, ma anche tanti aggettivi e molti moltissimi punti interrogativi. E con quelle storie riempiva fogli di fogli su fogli fino all’alba, senza stancarsi, senza avere né sonno né fame. Fino all’ultima storia, l’ultima parola, l’ultima lettera, l’ultimo punto, finché, quando il sole entrava nella stanza, e lei non tornava ad essere … né bella né brutta né giovane né vecchia né alta né bassa né magra né grassa né bionda né bruna, forse un po’ bionda, o un po’ bruna, a volte castana, ma anche rossa, ma certamente mai fuxia. Una donna normale. Media, direi. Banale. Forse uguale. Beh, almeno simile... molto simile a tante altre persone. Ovviamente se la guardavi di giorno, perché già di pomeriggio cambiava e verso le otto di sera era proprio un’altra. Diversa, anzi diversissima

 E, infine, ecco una perla meravigliosa:

Ogni racconto parla di un bambino o una somma di bambini. Il mio diario è un annotare nell’annotare. Un racconto nei racconti, che all’improvviso vengono a sedersi tra i miei pensieri e non se ne vanno finché non li scrivo. Il mio diario è un bambino che ha i vestiti di tanti bambini. È un volto che fa la somma di tanti volti. Ci sono tutti. In un modo o nell’altro i miei alunni sono in queste pagine e mi ricordo di ognuno. Sono vissuti vivi che mi hanno dato tanto e li porto con me nei racconti come nelle poesie come questa dedicata alla mia dolcissima alunna che ogni giorno mi chiedeva di diventare la sua mamma, lei che di mamme ne aveva troppe.

 Arianna tante mamme

Arianna tante mamme

ha una mamma vestito stretto stretto

e una mamma vestito largo largo

e neanche una mamma

da indossare.

Arianna tante mamme

ha una mamma grande grande

che ai suoi occhi

di rovo e bosco

non sa arrivare.

Arianna tante mamme

ha una mamma piccola piccola

che le sue mani

vuoto carezze

non sa cercare.

Arianna tante mamme

ha una mamma inverno

parole di ghiaccio

silenzio assordante

neve che cade.

Arianna tante mamme

ha una mamma primavera

parole di vento

ronzio incessante

pioggia che cade.

Arianna tante mamme

ha tante sorelle

e neanche un fratello

gioco bambino

canto di more.

Arianna tante mamme

ha tante mamme

e neanche un papà

regola fiaba

voce sicura.

Arianna tante mamme

ha una frangetta corta corta

forbici e squadre nette nette

capelli troppo lunghi

per pensieri troppo brevi.

Arianna tante mamme

ha tanti sogni e non sa sognare

canta e balla

sotto l’albero Fato

cuore di legno orecchio annodato.

Arianna tante mamme

è goccia di cielo

strappata dalla nuvola caso

carta stropicciata

bimba sospesa corsa senza fiato.

Arianna tante mamme

ha tante mamme

e un sogno bambino

che dice piano

quando cresco e

divento grande

sarò una sola madre

per il mio piccino

da chiamare piano

senza parole

che saprà a memoria

solo il mio nome.

Non ho voluto, con i miei interventi, interrompere il flusso magico dei racconti di Raffaella. Solo qualche esempio tra i tanti che arricchiscono di sapidità e di motivi di riflessione questo libro, ma ho sentito forte l’impulso di farlo per accendere di luce questo giorno autunnale, che mi mette malinconia perché lo sento presagio di inverno, la stagione che meno amo per via del freddo, del buio che aggredisce i giorni, degli alberi spogli che spogliano anche i sorrisi, delle notti lunghe che allungano anche la mia insonnia e il conto dei miei lunghi anni. Ma… non mi dilungo. Mi fermo qui. Sottolineando il punto fermo con un abbraccio. Ma non finisce qui, lo sappiamo. Autunno o non autunno, è bello ogni volta scoprirci insieme. E tanto basta! Alla prossima. Angela/lina

 

 

 

venerdì 13 settembre 2024

Venerdì 13 settembre 2024: settembre senza più mare e un ritorno che sa di scuola...

Ed eccomi qui, non più a fine agosto, ma con i primi temporali di settembre, simili a quelli estivi, brevi ma intensi, con subito un raggio di sole a regalarci l’arcobaleno e un sorriso del cielo, dopo la scomparsa della luna blu che ha riempito i nostri occhi di meraviglia e di sogno. Stamattina un cielo di panna ha salutato alcuni uccelli in volo. Subito ho scritto su Note del mio cellulare per non perderne l’incanto: Settembre/ ombre lunghe s’affacciano/ sul tempo del ritorno/ in una fuga di rondini verso il sole/ e malinconico ricordo di mare./ La promessa azzardata di un ultimo saluto/ si è infranta sulle ali di un gabbiano perso/ chissà dove/ nelle lantane aggrovigliate dei pensieri/ sulla strada della monotonia di giorni/ in debito con l’estate dal sapore d’autunno/ con piogge e temporali e foglie di lacrime e sangue/al trionfo di grappoli tra le mani./ E un richiamo allarmato di ore di scuola/ mute delle voci dei bambini in attesa/ dell’allegria della campanella/del compagno da ritrovare/ del mare al tramonto da raccontare/ come fosse uva rossa a riflettersi nel lago o tra i monti/ e negli occhi che sanno l’arrivederci/ e il suo sorriso/ (ci sono fondali di corallo a ricordare il sogno/  e tramonti brevi a salutare la sera/   imminente nella fragilità del giorno).

I ricordi di scuola si affacciano prepotenti nella mente: scolara difficile e senza parole… ragazzina consapevole di amare la scrittura e di detestare la scuola, con i suoi voti, le sue regole, i suoi richiami inutili e demotivanti… insegnante, mio malgrado, in una scuola che mi voleva tuttologa e da cui fuggire appena possibile… docente di scuola per preadolescenti in cerca di una identità provvisoria prima di scoprire, tra crisi e turbamenti, il primo amore e fughe da modelli poco amati di insegnanti restii al cambiamento… io alla ricerca di una dimensione di ascolto dei giovanissimi allievi in cerca di essere compresi e guidati con dolcezza e coraggio per affermarsi nella libertà di scegliere il proprio percorso di conoscenza e di socializzazione, per scoprire intese affettive ed emotive, per riconoscersi, realizzarsi, tra facili errori e dubbi, tra faticose conquiste e poche certezze di sé e del sé. E classi difficili da affrontare quotidianamente e singoli alunni da ascoltare singolarmente per aiutarli nella crescita e maturazione in tutte le direzioni della vita.

Ho, ancora oggi tantissime perplessità sulla mia attività di insegnante, e conservo ancora oggi la consapevolezza di non aver mai amato la scuola, ma di aver amato tutti i miei alunni, uno per uno, singolarmente, dialogando col ciascuno, per aiutarli ad affrontare il mondo e la vita con i propri mezzi, le proprie inclinazioni, le proprie passioni. Ancora di più questo è stato possibile come preparatrice, per oltre un trentennio, dei candidati ai vari Concorsi per entrare di ruolo nella scuola di ogni ordine e grado e… persino per dirigenti scolastici. Un controsenso? Sì, certamente, nella consapevolezza, però, di comunicare le mie conoscenze pedagogiche, metodologico-didattiche e matetiche con continui approfondimenti per trasmettere, con tutta la passione possibile, la necessità e la gioia di svecchiare l’istituzione scolastica e renderla sorridente, accogliente e concretamente inclusiva, realizzando con i miei allievi un rapporto affettivo molto forte ed empatico al di là di quello professionale che non va oltre il periodo della stessa preparazione. Rapporto che dura ancora oggi. E di cui vado fiera, come mi avessero appuntato sul petto una medaglia al valore.   

Non ho mai voluto prendere, però, una specializzazione come insegnante di sostegno perché convinta di non essere in grado di affrontare situazioni di disagio di alunni con particolari problemi di apprendimento, comportamentale e, quindi, anche di socializzazione. In realtà, spesso mi sono trovata a gestire, mio malgrado, casi molto difficili in collaborazione con le insegnanti di sostegno presenti nella mia classe. Ma è acqua passata. Oggi è mia figlia Raffaella “Una Maestra ma non Troppo”, come si è autodefinita, essendo insegnante di sostegno in una scuola primaria del nostro paese (Corato-Bari), in un suo recentissimo libro, con questo titolo straordinario, suggeritole, senza saperlo, da due suoi alunni molto curiosi, attenti, e dall’intelligenza acuta e sorridente. E, come mamma-ex docente, mi piace parlarne.

È un libro particolarissimo oltre che simpaticissimo, che già dalla grafica di copertina ci invita a sorridere del precario equilibrio che comporta essere, appunto, “una maestra ma non troppo”, sempre alle prese con mille difficoltà dentro e fuori la stessa istituzione scolastica che, dopo oltre cinquant’anni dalla Legge n. 118/1971 e la successiva Legge 517 del 1977 fino alla Legge 104 del 1992, non ha risolto, in tutte le loro sfaccettature, i molteplici problemi che l’inclusività ancora oggi comporta. 

Lo fa Raffaella Leone già con una dedica tutta particolare: Ai miei alunni/    senso vero/ del mio essere maestra/ senza farlo… A tutte le insegnanti e gli insegnanti/ che ogni giorno sono e fanno la differenza… A chi desidera diventare insegnante/   con convinzione e entusiasmo

Poi, ecco una sorta di Prefazione:

Nella mia vita sono andata a scuola due

volte: la prima da alunna, la seconda non è

ancora finita.

Da alunna ho imparato che per imparare

avevo bisogno di capire i meccanismi interni

ad ogni fonte di conoscenza. Le cose stanno

tutte una dentro l’altra, anche le più lontane

tra loro e tutte si possono comprendere.

Da maestra ho imparato che per insegnare

ho bisogno di capire i meccanismi interni

ad ogni stile di apprendimento di ciascun

bambino e tutti, ma proprio tutti, i bambini

si possono comprendere

Con una logica stringente Raffaella comincia il suo racconto, partendo dalla sua esperienza di scolara che scoprì che “per imparare” aveva “bisogno di capire i meccanismi interni ad ogni fonte di conoscenza”. Con la loro consequenzialità, che ne favorisce la comprensione. E dalla sua esperienza, ancora in atto, di maestra che ha scoperto da sola che “per insegnare” aveva “bisogno di “capire i meccanismi interni ad ogni stile di apprendimento di ciascun bambino…”, sapendo che non si può mai scindere la “didattica” (scienza e arte dell’insegnamento) dalla matetica (scienza e arte dell’apprendimento) per poter poi applicare la “metodologia” (ossia l’arte di scegliere i metodi più opportuni in riferimento alle aree di forza e di debolezza di ciascun alunno, comprese le individuali inclinazioni, per scegliere insieme il percorso o i percorsi per giungere alla conoscenza “motivata e desiderata” a sempre più vasto raggio. Percorsi personalizzati, di gruppo, collettivi. Per imparare insieme, maestri e alunni, in una pluralità sempre più inclusiva di presenze e di voci interne ed esterne alla scuola. Seneca ha scritto: C'è un vantaggio reciproco (nell'insegnare), perché gli uomini, mentre insegnano, imparano. (L. A. Seneca, Lettere a Lucilio)

Poi, ecco un modo originalissimo per definire i capitoli che, oltre alla dicitura iniziale, si snodano attraverso i racconti di vita scolastica o di classe, vissuta con gli alunni o con i colleghi in un ipotetico viaggio che li porta a cercare di raggiungere il Paese di CONSAPEVOLEZZA.

I suoi improvvisati mentori (ma non troppo) Gabriele e Federico, compagni di banco, curiosi, attenti, intelligenti, l’hanno dapprima messa in crisi con le loro osservazioni pertinenti e impertinenti sul suo essere, in qualità di insegnante di sostegno, “maestra ma non troppo” e poi, le hanno regalato su di un “vassoio d’argento” il titolo del libro che ho tra le mani. E scopro anche che Gabriele e Federico sono quelli che le hanno comprato e donato due biglietti e sono diventati i suoi compagni di viaggio, insieme a tutti gli alunni, tutti proprio tutti: quelli di oggi e di ieri, ciascuno con una storia raccontata (da raccontare). E ogni capitolo ci regala una sorpresa, un imprevisto, un bisogno o un sogno, che gli occhi visionari (ma non troppo) di Raffaella (sa essere anche razionale, quando occorre) vedono e prevedono, “nel fatale andare”. Ma anche tanti dubbi, tante incertezze, tante amarezze. Tante voci registrate, come un colpo al cuore: essere insegnante di sostegno cosa significa idealmente e cosa comporta realmente? L’ascolto non sempre è facile tra tante voci discordanti che perlopiù ignorano il vero senso e significato di essere, appunto, INSEGNANTE DI SOSTEGNO: come, dove, quando, perché. Anni di studio, esami, confronti continui con varie Commissioni, punteggi, immissione in ruolo… E poi? Quelle voce e l’amarezza che ne consegue. Bisogna fare i conti solo con l’ignoranza di alcuni o dei più? Bisogna imparare a gestire anche tutto questo e il viaggio è ancora lungo. Disperde e aiuta. I ricordi anche. Ma la gratitudine è sempre presente nell’Autrice che, soprattutto in passato ha avuto dei bravi Maestri in famiglia (vedi Zia ANNA MARIA), e nella scuola (ANNA PESCE, nella Scuola dell’Infanzia, e RAFFAELLA PAGONE, nella Scuola Elementare), fino all’indimenticato LIVIO SOSSI, “dall’inconfondibile voce, immenso esperto di Letteratura per l’Infanzia e dell’Illustrazione”. E, insieme alla gratitudine, ecco i racconti salvifici che ricordano le amate figure, e le relative voci, della famiglia: “Nonna Arina”, tra le tante.

E, infine, una maestra, e in particolar modo la maestra di sostegno, deve avere, per saper guardare lontano e anticipare il futuro: “uno sguardo lungo”, “uno sguardo atipico”, uno sguardo asimmetrico”… perché? A questo punto sono io a fermarmi, altrimenti il lettore cosa altro dovrà scoprire? Ci sono persino tanti errori lasciati con nonchalance qua e là… perché? A voi le tante ipotesi di soluzione. A me Non resta che augurarvi Buona e Proficua Lettura! E… alla prossima. Angela/lina.

 

 

 

 

  

venerdì 2 agosto 2024

Venerdì 2 agosto 2024: Un SALUTO A TUTTI voi prima di sfiorare con gli occhi il mare...

Amo visceralmente il mare. E mi viene in mente, in questo periodo estivo di vacanze, una ballata che ho scritto alcuni anni fa e rimasta inedita per tante vicissitudini negative a lungo vissute, prima di poter ritornare con maggiore serenità a riabbracciare le sue onde, dimenticando anche le ballate. Ma ora voglio scriverla per voi. Si intitola proprio “La ballata della lunga onda”: Un’onda m’avvolse dorata/ verde chiara, tenera quasi rugiada/ m’avvolse di ricordi biancospino/ frizzanti bicchieri colmi

di vino./ Vino invecchiato oltre trent’anni/ con tutti i miei amori i miei affanni./ Con lo splendore delle cose passate/ con il dolore delle carezze negate./ Vieni a salvarmi portami un ramo/ di mandorlo in fiore noi due siamo/ vento di mare e canzone di nostalgia/ siamo forse amore o solo malinconia/ siamo campane a festa siamo violino/ siamo silenzio muto e luce del mattino./ siamo distanza vuoto ansia disperazione/ ma siamo anche filo dello stesso aquilone./ Siamo tanto siamo tutto forse solo niente/ ma siamo noi due e siamo soli tra la gente./ Vieni a consolarmi portami del buon vino/ brinderemo al sogno gettato nel cestino./ Vallo a recuperare amore fammi sognare/ non gettare l’ultimo sogno in fondo al mare/ (avremo almeno un sogno da ricordare)

E tra qualche giorno mi portano al mare. Non più nel Salento, come da sempre abbiamo vissuto il mare per lunghe stagioni e tanto amore, ma nelle vicinanze di Roma, dove i fondali non sono limpidi e luminosi come le “Maldive” salentine, ma sono ugualmente belli da guardare e disperdere sulle acque pensieri, ricordi, tristezze e sorrisi. Qualche giorno fa, mio figlio Giuliano mi ha detto che vuole vedermi sorridere ed io “ubbidisco” soprattutto per fargli piacere, ma anche perché sono circondata da tanto amore che sarei un’ingrata se non lo facessi. “Un giorno senza sorriso è un giorno sprecato”, mi ha detto salutandomi perché doveva già andare via. E mi pare che abbia proprio ragione. A lui hanno fatto eco tutti gli altri di casa e le altre figlie che vivono a Roma e sono in attesa di riabbracciarmi con una manciata di mare tra le mani. Non porto con me il computer, ma solo il cellulare. Non potrò scrivere sul blog. Ho fatto al mare una promessa: riempirmi gli occhi del suo azzurro splendore. E ai miei figli di chiacchierare per vivere davvero “INSIEME” questa vacanza. Ritornerò a casa verso la fine d’agosto. E prometto di riprendere a scrivere per essere anche noi di nuovo “INSIEME”. Ma questo periodo di silenzio servirà, credo, a ritemprarci, a fare spazio tra le parole (sempre troppe) che avete letto, con interesse oppure stancamente, perché diventi più motivante il “vuoto” da riempire. Spero di mancarvi almeno un pochino. A me mancherete sicuramente, e tanto. La scrittura è una delle mie principali ragioni di vita. Una risorsa meravigliosa a cui non riesco a rinunciare. Mi mancherà! E, di riflesso, mi mancherete tutti voi. Egoisticamente forse, ma non solo…

E, allora, così come ho cominciato, vi lascio con un profumo di mare tra le dita… e lo sguardo perso nel cielo anche perché oggi si festeggia nel mio paese (Bitonto) e in altri paesi viciniori la Madonna degli Angeli, per cui tutte noi che ci chiamiamo ANGELA facciamo riferimento a LEI, come nostra protettrice e Suo richiamo al volo e a mettere le ali per volare sempre più in alto per trovare l’azzurro anche nel cielo/Cielo, mentre una vela sfiora un’ala di gabbiano e si fa sogno di rinascita per me che ormai vivo in carrozzella.

E ringraziare vorrei dal profondo del cuore la carissima Francesca Pice che, senza saperlo, mi saluta con “l’ondosa azzurrità…”. Grazie e ancora grazie ad Antonio Castellano che ha fatto una doviziosa, colta, attenta, amorosa descrizione della MADONNA DEGLI ANGELI, citando le varie Chiese pugliesi in cui si venera anche con affreschi molto belli e suggestivi ad opera di GASPAR HOVIC, a Ruvo di Puglia, Bitonto, e nel Convento dei PP. Cappuccini di Altamura. E grazie di vero cuore a quanti (tantissimi) mi hanno fatto dono di attenzione, stima, affetto!

Grazie infinite a tutti e buone vacanze! Ci ritroveremo a fine agosto. Ci sarete? Spero di sì!

“QUANDO ANDRAI Al MARE”: non dimenticare i miei occhi/ a riempire panieri di onde/ fiorite di lapislazzuli e stelle marine/ per gl’inverni che verranno./ L’abbraccio di sale sulla pelle di sole./ Il tempo che rimane/ è quello che sogni di conchiglie/ ed echi di mare ha trascinato/ con la sua rete di frodo./ La nenia delle barche il rombo dei motori./ Le mani a nido sul volto levigato/ e gambe a falce tra spruzzi di panna/   a navigare allegria.   / Oggi abisso di rimpianto è il mare/ di piedi nudi disuguali e una scia/ d’azzurro senza la libertà di osare/ eppure gli occhi sono ancora/ approdi d’oceani alla sconfitta dei giorni/ su passi dimentichi ella riva/ (faro e conchiglia per rinascere schiuma di mare)

Ancora INSIEME appena possibile. Angela/lina.

 

martedì 30 luglio 2024

Martedì 30 luglio 2024: SESSANT'ANNI da ricordare...

Verrà il tempo/ in cui, con gioia,/ ti saluterai arrivando/ alla tua porta, e nello specchio/ ognuno sorriderà alla presenza dell’altro.// E dirai, siediti qui. Mangia./ Amerai di nuovo lo straniero che eri./ Offrigli vino. Offrigli pane. Riconsegna il tuo cuore/ a te stesso, allo straniero che ti ha amato/ per tutta la tua vita, che hai ignorato/ per un altro, colui che ti conosce profonfamente.// (…). Siediti. Celebra la tua vita. (Derek Walcott, Premio Nobel 1992)

La notte tra il 27 e il 28 luglio, presso una location molto suggestiva e accogliente, siamo stati in SESSANTA (tra parenti, amici, cantanti, disc jockey, responsabili della bellissima struttura, e del ricco e invitante catering) a festeggiare i SESSANT’ANNI di PEPPINO PIACENTE, Editore della SECOP edizioni e Direttore responsabile dell’Associazione culturale FOS insieme con Nicola Piacente, Graphic Designer delle stesse, impaginatore e autore delle splendide copertine delle pubblicazioni dei nostri Libri e Riviste cartacee: NEDA e CORRELAZIONI UNIVERSALI.

La festa è stata voluta e minuziosamente organizzata dai figli di Peppino: Nicola e Anna Paola, con la consulenza silenziosa e costante di Raffaella Leone, sua moglie da oltre trent’anni. Ne è venuta fuori una notte simpatica, divertente, allegra, ricca di particolari soliti, insoliti, creativi, come la maglietta di cotone su cui sono state scritte per Peppino dagli ospiti, col pennarello, tante parole ed espressioni connotanti il festeggiato nelle sue caratteristiche più salienti. Ne è venuto fuori un vivacissimo, veritiero, megagalattico ritratto che i ragazzi hanno portato a casa come “sacra reliquia” da appendere al muro a imperitura memoria.

Si è ballato instancabilmente come foto e video testimoniano. Persino io sono stata portata in pista da Nicola e Anna Paola per farmi vorticare come una perfetta ballerina “disabile”, ma con le ali negli occhi e nel cuore.

A fine serata, dopo la squisita torta, ancora interventi per rendere omaggio a Peppino con rinnovati auguri, battute affettuose e divertenti, nuove parole per meglio definirlo. Personalmente, con tanta commozione sono riuscita a pronunciare solo tre parole: “pragmatico”, “romantico”, “altruista”, riservandomi di chiarirle meglio scrivendo di lui nel blog, come sto facendo: “pragmatico”, perché Peppino è uomo pratico, concreto, organizzatore nato e determinato di eventi di ogni genere, anche difficili e problematici da risolvere perlopiù da solo con il suo innato “modus operandi” costi quel che costi; “romantico” potrebbe sembrare in netta contraddizione con il primo termine, in realtà, incredibile a dirsi, Peppino è un sentimentale “senza se e senza ma” (si commuove davanti alle storie d’amore, ai film romantici, alle travagliate situazioni familiari di difficile soluzione). Basti pensare che quando si sposò, mentre Raffaella, padrona delle sue emozioni, recitò tranquilla la formula di rito “io prendo te come mio sposo…”, lui scoppiò in lacrime e ci volle del bello e del buono perché riuscisse a completare la frase, facendoci commuovere fino alle lacrime; “altruista” è una connotazione fondamentale della sua personalità. Peppino in famiglia, ma anche con tutti gli altri che conosce, si prodiga in maniera totale. Vengono sempre prima gli altri. A tavola deve servire prima me, poi Raffaella, Anna Paola e Nicola. Poi prepara il suo piatto, preoccupandosi di dare agli altri commensali tutto quello, a portata di mano, che desiderano. Lo stesso avviene con i parenti e gli amici.

Ma Peppino è molto di più di queste tre parole. Ne sanno qualcosa in Italia e all’estero, dove per anni è stato il mio accompagnatore ufficiale nei vari Congressi e Convegni culturali a cui abbiamo partecipato. Mi ha sempre accompagnato, anche con le stampelle o in carrozzella, con devozione di figlio più che di genero. Ed io non l’ho mai considerato mio genero, ma sempre figlio da quando l’ho conosciuto tanti anni fa. Né per lui io sono sua suocera. Nelle varie strutture ospedaliere in cui ho spesso, purtroppo, “soggiornato”, in Italia e all’estero, tutti pensavano fosse mio figlio perché era quotidianamente al mio fianco. Non a caso, proprio per il compleanno dello scorso 28 luglio gli dedicai la seguente poesia: Dove la luna ha incontrato il mare,/ ha incontrato il cielo,/ ha incontrato mille nuvole nere/ che d’azzurro continuo/ ad inchiostrare perché nuovi voli/ negli occhi possa tentare,/ la tua premura di figlio/ ho incontrato/ in quotidiana ansia/ d’allevare i miei affanni/ più veloci del vento veloce/ degli anni pesanti da portare./ Silenziosa cura che il ricordo assorda/ del rosso fragore/ il tonfo delle ossa frantumate/ il pianto muto/ che seppe il prodigio/ di lacrime non versate./ E la preghiera fu promessa/ di ritrovati legami e rinnovate intese/ ad acquietarmi il cuore./ Il mio tempo è ora una vela ammainata/ che ti ostini a dispiegare/ perché il sole/ possa ancora ascoltare/ il mio canto/ (la vita che ti devo è sussurro/ lieve di inosata carezza/ stretta nel palmo delle mani). Buon compleanno, Peppino! (28 luglio 2023).    

Ma non finisce qui. Oggi è la Giornata Mondiale dell’AMICIZIA e io non posso fare a meno di pensare all’altra sera e ai tanti amici a fare corona al festeggiato con sincero e grande affetto. Amici, con cui condividere racconti di noi, simpatiche esperienze e sintonie.  Per me personalmente, sospensione da tutto e soprattutto dal dolore, pur sempre in agguato in questi ultimi mesi sempre in bilico tra nuvole nere e rari momenti di luce e di speranza. Con mille ansie e nessuna certezza; ma gli amici virtuali e reali tra battute e risate hanno reso più vivibile la mia pena, insostituibile la nostra amicizia.

Nella nostra casa, da tempi remoti, abbiamo sempre avvertito il bisogno di sentirci “insieme”. E questo modo di vivere lo abbiamo continuato sia nella nostra casa con Peppino, Raffaella, i ragazzi, sia nelle case dei miei figli che vivono a Roma. L’amicizia è sacra. Riccardo, il compagno di Ombretta, ha amici che frequentavano con lui le scuole elementari e che sono diventati miei amici grazie alla loro frequentazione amicale mai venuta meno nell’arco di tutti questi anni. Lo stesso avviene con gli amici di Daniela e con quelli di Viviana, divenuti amici di Giuliano e, in alcuni casi, anche miei. Non sono mai stata da sola in nessuna circostanza della mia vita. “Essere insieme” è per me forza e conforto. O, quantomeno, “sapermi insieme”, pure nella solitudine della mia casa e del mio lavoro, che ancora oggi mi impegna a trecentosessanta gradi. E anche questo lo devo a Peppino. La nostra casa a Corato è sempre piena di voci e di persone amiche a farci compagnia. Lo stesso avviene nelle case dei miei figli a Roma. Diciamo che è un salutare “vizio di famiglia” che si perpetua nel tempo. Oltre il tempo e lo spazio. Ci sono amici che si sono trasferiti al nord o addirittura all’estero. Con tutti l’amicizia continua anche attraverso le possibilità che oggi offrono i vari social, le videochiamate, i messaggi su Messenger, whatsapp e così via. La vera amicizia rivendica sempre il diritto all’incontro, virtuale o reale, al saluto, all’abbraccio, a un “ciao, come stai?”. Del resto, tutto passa e tutto ritorna nell’incessante movimento dell’esistere. Ma come faccio a non ricordare anche la mia prima caduta  il 29 maggio dell’anno 1993, anno in cui Peppino e Raffaella avevano deciso di sposarsi il X agosto, nella notte delle “stelle a migliaia”. La mia caduta ad una festa e il tac del femore spezzato. Oh, se non ci fossi mai andata a quella presentazione di un libro di poesie, a cui Primo non avrebbe voluto partecipare. Insistetti. L’autrice era una mia cara amica che ora non c’è più. Non volli darle un dispiacere. Ancora oggi sconto pesanti e dolorose conseguenze per quell’appuntamento con il Destino o Karma a cui non seppi sottrarmi. Una brutta frattura solo da me immediatamente avvertita, mentre ben cinque luminari della medicina e chirurgia, ignari della mia resistenza al dolore, mi fecero alzare con la gamba ciondoloni. Mi fecero camminare: tentativo inutile, dolorosamente da me assecondato, per obbedire a chi ne doveva sapere più di me che, invece, sapevo e mi raccomandavo ai santi, senza un solo lamento, per non svenire. (Ma il dolore guardato e non vissuto non si vede e non si sente. Si può solo intuire dalla mimica del volto sofferente. Dalla postura sbagliata, dalla difficoltà del respiro o di un movimento, ma l’intensità del tormento fisico e la resistenza alla sofferenza sono appannaggio solo di chi le prova e fa immediatamente i conti con sé stesso). Mi caricarono sulla macchina di Pinuccio, spingendo dentro la gamba che non obbediva… Giungemmo come Dio volle o non volle (non me lo chiedo più) al primo ospedale e lì finalmente diagnosticarono una frattura del femore sotto capitata e scomposta con immediato ferro come proiettile e senza anestesia a trapassare il ginocchio e immobilizzare la gamba. Intervento non corretto. Firma e fuga al CTO del capoluogo e intervento con viti canulate per salvare il mio femore ed evitare la protesi. Peppino sempre presente, attento, attivo, nella illusione di poter risolvere il problema in poco tempo perché lui e Raffaella stavano preparando il loro matrimonio e mancava poco più di un mese alla cerimonia, che dovettero organizzare da soli e tra mille difficoltà. Alle loro nozze mi presentai con le stampelle a reggere una gamba enorme e tutte le spente speranze, riaccese di verde negli occhi di Peppino, unico immenso amore di Raffaella. E fu una notte di stelle, che solcarono il cielo in una pioggia di sogni che avrebbero colorato anche i giorni dei difficili passi e dei rimandati sorrisi. E, in quella pioggia di stelle, io ferita nel corpo e nell’anima, intravidi il suo preoccupato sorriso, quasi una consolazione di ogni perdita di ogni inganno di ogni muto dolore. Quanti sogni scoprii nella luce dei loro occhi sotto la pioggia luminosa di quel cielo d’agosto!… E quante delusioni! Quante! Solo tre mesi dopo sotto un Cielo dal respiro breve e incerto, interrotto dalla perdita del padre del giovane sposo. Solo tre mesi dopo. Anche per me perdita del suo saluto mattutino alla luce di canti e incanti affettuosi tra consuete sue geometrie (essendo un conosciutissimo ingegnere a Bitonto) di progetti di multipiani da realizzare e mie poesie da condividere in un intreccio di sintonie culturali molto belle. Perdita dei suoi aneddoti, veri poemetti, nel nostro dialetto duro e imperioso, che connotavano tutti i paesani con “rə sopannòmərə (i nomignoli), che meglio identificavano una persona, la sua famiglia, il ceppo d’appartenenza, lavoro, professione, modi di dire o di essere, difetti e rare qualità. Qualche anno prima, sempre il papà di Peppino aveva dedicato una tenerissima poesia nel nostro dialetto a Raffaella, a cui Primo aveva aggiunto un ritratto con inchiostro di china in un abbraccio di capelli e di sogni. Mani protettive e tenere ad avvolgerla tutta.

Seguirono giorni difficili e amari per tutti noi, a partire, almeno per quello che mi riguardava, dalla necrosi del femore spezzato e riattaccato. alcuni mesi prima sembrava tutto superato, con due ortopedici supervisori venuti dalla Francia. Primo pianse di gioia. E mi accarezzò con gli occhi di tenere lacrime. Ma io non mi attenni alle regole. Ripresi a lavorare piegata sull’unica arteria che alimentava la testa del femore, che andò in necrosi, dopo circa due anni. 1995. Ricerca affannosa del nuovo chirurgo per il nuovo intervento. E sotto il cuore di Raffaella a battere un nuovo cuore… Me lo dissero dopo una ulteriore visita ortopedica presso un luminare francese venuto da Saint Etienne nella Capitale; visita brevissima che mi lasciò l’amaro in bocca. Il luminare non era più in grado di operare. Nulla di fatto sul versante protesi. Ma quel segreto mormorato a fior di labbra quasi fosse sogno fu subito felicità. Poi, la corsa a Lione, con Peppino, Raffaella e Nicola a pulsare sotto il cuore di sua madre (ormai le ecografie all’utero erano in grado di evidenziare il sesso del nascituro), per la nuova speranza di camminare come un tempo, in una clinica privata di lusso che prometteva prodigi col verde di giardini fioriti per ogni camera/suite e tanto felpato tepore di mani esperte ad alleviare la sofferenza a coltivare sorrisi e laute mance. E nessuno a salvarmi dai madornali errori del famoso chirurgo, ma tutti pregarono perché ne uscissi viva. Il ritorno fu incanto di Costa Azzurra tra merletti di mare in una Montecarlo che ci affascinò per la sua abbagliante bellezza, e il palazzo del re a frastagliarsi di scogli e la corsa automobilistica di Formula 1 nel serpente di larghe strade e stretti tornanti. E, come d’incanto, due mesi dopo, s’affacciò al nostro mondo quotidiano, per farsi amare, il nostro bambino già viaggiatore: NICOLA. Col nome del nonno paterno che non era riuscito ad attenderlo. Un nome che aveva anche echi lontani di giovane sposo e padre innamorato, rimasto nel cuore di tutti noi. Bambino benedetto, nato di notte, fiore di rossa estate nel prato verde del panno a coprirlo neonato, per la gioia delle nonne (io e nonna Anna) a mangiarlo di meraviglia e di baci. La vita riprese a sperare. Riprese a vivere.

L'inizio di nuova vita che si intrecciò ben presto con un nuovo germoglio nella nostra casa: ANNA PAOLA (1999). E fu nuova magia quel germoglio di rinnovate promesse. La sua nascita nel giorno in cui rinasce primavera. Tripudio di fiori. Luce di sorrisi. Nuovi giorni da vivere tra progetti e rimpianti. Giochi e attese. Impegni e viaggi. Passi ritrovati sempre grazie alle premure quotidiane di Peppino e dei piccoli di casa a farmi tenera compagnia sulla terrazza della nuova casa per aiutarmi a camminare senza stampelle, una villa nei pressi di Corato, dove scegliemmo di abitare insieme, e dove ancora abitiamo. Sono così passati gli anni. L’anno scorso abbiamo festeggiato insieme il trentesimo anniversario del matrimonio di Peppino e Raffaella. Ancora una volta una mia poesia con dedica. Eccola: D’AMORE/ palpitano mani febbrili/ di tenerezza nel portarvi doni/ d’infinite stelle nel giardino/ che questa notte anch’io/   ho sfiorato   / con dita di pianto per i lunghi/ giorni persi nel dolore/ della casa insonne d’intense cure/ e d’infinito amore./ Ma luci a migliaia/ questa notte abbiamo acceso/   INSIEME   / con la follia di giovani folli/  d’indomiti sorrisi  / a far ballare sedia a rotelle/ e sogni e nuvole e aerei/ di un cielo capovolto/ sui vostri   TRENT’ANNI/ già vissuti da vivere con un solo/   CUORE   / in una moltiplicazione di sogni/ che sono ancora tanti/ ancora vostri ancora colmi/ di infinite stelle e il loro canto… (Per Peppino, Raffaella, Nicola, Anna Paola da nonna Lina con immensa gratitudine e tanto tanto cuore…). Il resto e storia di due giorni fa. Peppino è tutto questo e tanto altro ancora. Ho ragione a dirvi che è mio figlio a tutti gli effetti?