martedì 24 giugno 2025

Lunedì 24 giugno 2025: ROSSELLA PICCARRETA E LA SILLOGE POETICA “CARNE SACRA”…

 

E oggi mi sembra opportuno parlare di Rossella Piccarreta e della sua silloge poetica la CARNE SACRA… che sarà presentata oggi a Trani come vi sarà sicuramente capitato di leggere nelle Pagine dell’Editore Peppino Piacente della SECOP edizioni di Corato-Bari.

Rossella Piccarreta CARNE SACRA (Prefazione di Pierluigi Balducci e Postfazione di Mariella Medea Sivo, SECOP Edizioni, Corato-Bari).

Avverto la necessità di scrivere le mie emozioni nel rileggere le poesie di Rossella Piccarreta. Intanto, un richiamo commosso alla Prefazione del grande musicista Pierluigi Balducci, per la tenerezza che si avverte nel sentire profondamente la musica interiore, promanata dai versi della nostra Autrice, e per la sacralità scoperta nelle sue parole che si velano continuamente di mistero e sembrano danzare “tra gli Opposti” quasi a spiccare il volo verso l’Infinito che le palpita dentro e si spiritualizza nel “divino” che ci appartiene. E rinascono paure e timori, desideri e incanti, sogni e nuove sorgenti di vita e di amore.

Scopriamo tutto questo nella silloge di Rossella, di cui Mariella Medea Sivo ha scritto la Postfazione, con un incipit insolito, colto, stravagante, eccezionale, da cui emergono tutto l’affetto e la sincera ammirazione che nutre per la straordinaria poetessa, sua amica.

Non posso che condividere e cercare i punti di congiunzione, scoperti da entrambi, per entrare con loro in sintonia nei vari testi poetici.

Fondamentale è la sintonia, che ci permette di scoprirci nello stesso suono, di vibrare con la stessa musica. Di assecondare lo stesso movimento che ci rende unici nella nostra identica identità ed eternamente cangianti. Fatti, dunque, di coralità e di individualità insieme.

E prendo subito ispirazione dal “Prologo” che dà un senso a tutta la raccolta perché indica a chiare lettere l’urgenza che avverte la poetessa di “scrivere poesia”: dono che giunge da lontano e che si fa “voce”, che lei segue “muta e rapita” come ferita d’amore incisa sulla pelle, come “graffio o carezza”, che può condividere, sicura di essere compresa e accolta, solo da “chi sa vedere”. Fondamentale è essere “consonanti”.

Anche negli “Smarrimenti”, come suggerisce il primo spazio di liriche o la prima sezione. Rossella Piccarreta è, infatti, una donna che, come tutti gli esseri umani, vive la contraddizione e di contraddizioni, ineludibili in ciascuno di noi, e ancora di più nelle persone particolarmente sensibili, non come sconfitta della propria logica, ma come vittoria sulle fragilità che accompagnano la nostra esperienza esistenziale, in quanto è il cuore che risorge da ogni debolezza e da ogni smarrimento, perché è sempre colmo di “tenerezza”, palpita sempre d’amore dato e ricevuto, anche se, a ben guardare, gli uomini sono purtroppo impastati anche di violenza, invidie, rancori micidiali, che decretano carneficine, guerre, lutti, dolore, senza più un’etica a salvaguardare la nostra uguale umanità. Eppure lontano/ un suono: il mare./ Uguale per te e per me./ Eppure in alto l’azzurro./ Uguale per me e per te (“Snake of war”. Ma anche “snake of war in the soul”, pp. 13-14).

E i versi si inazzurrano come la nostra anima. Solo per poco, perché “stormi neri” incombono e a nulla valgono “urla contro il cielo”. Presagio di morte e distruzione, come già in Giosuè Carducci (in San Martino) o in Paul Celan, in una commovente poesia, in cui descrive la disumanità della Shoah, in lingua tedesca a eterna vergogna della sua terra d’origine.

Forse occorrono preghiere per sventare ogni timore, reso realisticamente vero e spaventoso dalle “ali giganti/ nere e pesanti”. Non a caso, ancora la contraddizione ad allarmare la voglia di vivere e di amare. In eterno contrasto.  Vita e Morte. Eros e Thanatos. Origine e Fine. Odio e Amore. Tutto e Nulla.

Simone Weil ha studiato a fondo l’inevitabilità della contraddizione persino nell’apparente pacifico quotidiano. Ne ha fatto una teoria filosofica, psicologica ed etica, pur essendo partita dalla matematica, da una scienza esatta che non ammette il contrario.

Rossella cerca di vincere le innumerevoli contraddizioni che la abitano e la agitano, tra “lo strazio del niente./ Il soffio del tutto”, alla ricerca di un equilibrio che dia leggerezza ai pensieri e ai giorni come in Italo Calvino. Una leggerezza pensosa, certo, alla ricerca di un maggiore equilibrio, di una serenità mai vissuta prima e che sempre più le sembra una necessità dell’anima, perfettamente consonante con le inevitabili dissonanze della vita, dovute innanzitutto alla nostra natura umana, e alla nostra arroganza nell’affermare senza mezzi termini l’individualismo con il vivere continuamente, tra sincerità e ipocrisia, realtà e finzione, libertà e catene, di cui spesso non si riesce a fare a meno.

La seconda sezione “Eros, Anteros, Himeros” è meraviglia di occhi innamorati, ritorni concentrici di desideri, accesi spenti ritrovati spenti, nel giardino più o meno segreto, in cui Rossella coltiva rose e cerca di occultare le spine in una danza, che è recupero di amore carnale e divino perché sacro è l’amore in tutte le sue espressioni e manifestazioni. È “traccia chiara/ di una segreta divinità”. E di “innocenza”. Ma continuano anche qui smarrimenti e paure, dubbi e contraddizioni, assenze e vuoti di presenze desiderate: attese, rimpiante. Ma rinasce sempre l’amore in ogni luna attraversata. Ed è pacificazione di cose e di anime, unite per sempre. “Malgrado tutto”.

E le contraddizioni, man mano che sono passati gli anni, sono aumentate, spenti i bollenti spiriti della passione, in un crescendo di perdita di sé e dei sogni. Ora tutto sembra inventato, persino l’amore che pure un tempo era stato vero.

Fugge il tempo, purtroppo, portandosi con sé amori, illusioni, “ardore e tenerezza”. Gli stessi “eterni ritorni” nei “valzer degli addii”.

Rossella conserva, però, nelle sue mani tutte le meraviglie di Alice e testardamente crede nei sogni e nell’amore e a tutto ciò che è stato o non è stato, ma potrebbe ancora essere.

Osa continuamente scendere negli abissi della disperazione e risalire con nuova fioritura di poesie e di preghiere, che fanno bene al cuore esacerbato e stanco, ma sempre pronto a rinascere anche “nel buio di un frammento” per continuare a cantare “all’infinito”. E il poeta è salvo. E con lui anche Rossella perché c’è in lei il respiro della Poesia. Un ritrovarsi sempre e comunque.

Ecco perché la terza sezione tratta di “Ritrovamenti”. E tra questi è sempre il cuore in primo piano. Poi il cielo con il suo azzurro e le sue nuvole, e la carezza forte/dolce delle parole poetiche, che abitano il “Tempio Sacro della Poesia”, mai del tutto perso e in cui è bello e salvifico rifugiarsi. Non importa se, alla fine, rinascere sia un tornare a ridere ancora di un “tutto/ fatto di niente”. E ripercorrere le stagioni: metafora della vita stessa. Sempre ossimorica.

La quarta sezione è fatta di “Notturni” ed è un inno al pensiero femminile che germoglia nella notte perché carica di mistero che solo il buio genera, sa e conosce. Il pensiero maschile, invece, è fatto della chiarezza del giorno, è fatto di cose pratiche e di problemi da risolvere nella comunità di appartenenza, nella società, nel mondo politico. Niente è oscuro, velato, misterioso. Non a caso, Rossella scrive: Epifania del sonno/ è un segreto/ nascosto tra le stelle,/ un rantolo nel buio,/ un’inquietudine lieve/ celata dal lungo frenetico/ frinire del giorno,/ un’apnea sospesa/ nel silenzio nero della notte… (p. 77). Ma anche dalla notte si emerge alle prime luci dell’alba e al bagliore del sole che tutto risana e ci restituisce alla realtà del giorno. E alle sue verità.

La quinta sezione si intitola “Memento mori”, in cui tutto si fa ansia di vivere, sia pure nelle mille contraddizioni che la vita ha insegnato alla poetessa giorno dopo giorno. Disperante è per lei, e probabilmente per tutti, “la vanità”, l’inconsistenza delle cose a cui ci aggrappiamo come incoercibile anelito alla vita. Ma Rossella Piccarreta ha versi d’amore per tutti, segno di grande umiltà e di immensa forza d’animo: per le donne e per ciascuno di noi, facendo appello, con tutte le sue forze, all’ac-cor-darci, cioè a mettere il nostro cuore insieme, per vincere il male che si annida in questo mondo così difficile da vivere ai nostri giorni e sempre, e per fare trionfare il bene e la speranza in un mondo migliore, in una prospettiva salvifica per tutti: siamo fratelli sotto lo stesso cielo che ci vede nascere e morire.

Ho i denti che battono/ e identiche ferite/ e identico sole sul capo./ Riempiamo d’oro le crepe/ facciamo un sogno nuovo./ Restiamo umani.

                                                                   Angela De Leo

lunedì 23 giugno 2025

Lunedì 23 giugno 2025: ANCORA NOI TRA PERCORSI D’ANIMA A FERIRCI A SALVARCI…

 La vittoria delle vittorie

È la perdita di tutto.

Non si possiede in eterno

Ciò che si è perduto?

(Brand di Ibsen)

Non so se stamattina, nei nostri percorsi d’anima, sia più giusto pensare alle perdite o al possedere in eterno ciò che non si è mai perduto, fare silenzio o gridare per il tuo apparente silenzio che conta un anno, mia amatissima sorella. Ma fai un rumore assordante che è impossibile ignorare. C’è una canzone del cantautore Diodato, che sta vincendo in questi ultimi anni parecchi premi importanti, secondo me meritatissimi, “Fai rumore” (ha vinto al Festival di Sanremo 2020), dal cui testo estrapolo qualche verso che mi rimanda immediatamente a te: Che fai rumore qui/ E non so se mi fa bene/ Se il tuo rumore mi conviene/ Ma fai rumore, sì/ Chè non lo posso sopportare/ Questo silenzio innaturale/ Tra me e te… E la tua assenza è presenza più che mai. E tu lo sai. Non da oggi, ma da sempre. Io e te avevamo urgenza di stare insieme per piangere e ridere insieme. È stato così sempre. Da quando nascesti al mondo e al mio amore. E anche stamattina, adesso sei venuta a salutarmi come una credenza popolare vuole: “se viene una farfalla gialla nel giardino è il saluto di una persona cara che non c’è più”. E la farfalla gialla è una presenza costante nel mio giardino, che guardo dalla finestrella della mia camera da letto e guardo dalla finestrella di fronte alla mia scrivania, dove sono seduta in questo momento. Lo so qualcuno/a scettico/a sorriderà a queste mie fanfaluche, ma non importa, l’importante è crederci e il dolore si stempera, si addolcisce. La stessa cosa mi accade di notte, nelle lunghe ore di dormiveglia che ho sempre vissuto e vivo per una atavica insonnia che vinco guardando e parlando con le stelle. Ebbene, ce n’è una che attendo con ansia perché non manca mai di brillare tra le foglie cuoriformi che vibrano nell’aria e crea giochi di luce luminosi che i giapponesi sintetizzano in una parola “komorebi”. Quella luce mi fa compagnia, mi conforta, mi aiuta a sopravvivere alla solitudine notturna. E, cosa più importante, in quella stellina luminosa abbraccio te, Anna Maria mia, e il tuo primo amatissimo compagno di vita per un tempo molto breve, Nicola, e mamma con babbo, e Primo e le mie due suocere con mio suocero, i nostri nonni materni e paterni… Siete tutti insieme a farmi compagnia. Siete il mio “tempio sacro” degli affetti più cari e tenaci che sopravvivono al tempo e allo spazio. Fate parte di me. Vivete con me. In me.

Poi, ecco anche qualche lucciola vagante, solo qualcuna in verità: altra luce a farmi compagnia. Ho bisogno di luce, sempre. E le lucciole mi hanno sempre incantata come se dal cielo piovessero stelle e andassero ad abitare la siepe, illuminandola anche del mio stupore. E anche le lucciole mi riportano a te. Ti ricordi di quando ogni anno andavamo a Chianciano noi sorelle accompagnate da Gianni e lungo il viale che dal nostro albergo ci portava direttamente alla piazza centrale del paese? C’erano tante lucciole nelle siepi che percorrevano con noi il lungo viale, smentendo quanto Pasolini avesse preconizzato nei primi anni Settanta del secolo scorso, dicendo che per l’inquinamento atmosferico le lucciole a breve sarebbero sparite, e invece erano davvero tante e noi ci fermavamo incantate ad osservarle. Io sistematicamente ne ricavavo simboli e segni, che univano la terra al cielo attraverso la luce stellare delle lucciole. La luce che portano sulla coda non gli serve per illuminare la via che hanno davanti a sé, ma per lasciare una scia perché gli altri possano seguirle e scoprire tutte le bellezze delle siepi e dei boschi e dell’intero Creato con il suo incanto, il sogno, l’armonia di tutta la natura. E Gianni spegneva il mio enfatico entusiasmo poetico con la sua razionalità e le sue conoscenze scientifiche: portano la luce sulla coda per favorire l’accoppiamento d’estate che è per oro la stagione degli amori. Va bene, ribadivo io, purché ci sia di mezzo l’amore. E si rideva del mio romanticismo esagerato e, per lui, esasperante. Si rideva. Ma poi cosa ti vado a scoprire nei cassetti della memoria? Una sua poesia intitolata “Il buio della lucciola”. Eccola: Esposte al vento/ petali di astragole fluttuano/ rincorrendosi tra le braccia/ riarse dei mandorli// - qui c’erano fiori - dice il vento spezzando un ramo.// Ma i petali non ascoltano/ affranti contemplano la lucciola morente/ che ieri illuminò la notte/ offrendo la sua luce/ al buio. Bellissimi versi dal sapore amaro, come è nelle corde di Gianni Brattoli, ma con una chiusa generosa che oggi mi fa pensare a te. E, del resto, la memoria è fatta di ricordi. E il ri-cor-do ha al centro il “cor”, cioè il “cuore”, all’inizio il rafforzativo “ri” e alla fine il “do” che io interpreto come “dono”. Dunque, nella poesia di Gianni ciò che ferisce risana. Ed è una speranza, anche se lui non lo confermerà mai. Io e te, invece, sappiamo o vogliamo che sia così. Vogliamo che oggi sia un giorno di ri-cor-do che ci prenderà tutti per mano perché sia cantata non la fine, ma l’inizio, non il buio della notte, ma la carezza del giorno. E carezze d’anima sono le parole che i tuoi nipoti di Roma, che non potranno essere presenti, ti desiderano darti: C’è un silenzio che fa più chiasso di mille parole di mille persone… È il silenzio del tuo “Ombrettina bella!” quando mi sapevi da mamma e venivi a trovarmi con un regalino, una focaccia o semplicemente con il tuo sorriso più bello che per me era il regalo più prezioso! C’è il silenzio dei tuoi teneri e gioiosi commenti sotto i miei racconti che ti facevano tanto ridere… C’è un silenzio, nel cuore e nell’anima, della tua risata che faceva eco alla mia… delle tue espressioni buffe… del tuo modo di raccontare le cose con ilarità anche quelle più tragiche! Ho sempre pensato di aver ereditato da te questa autoironia che ci caratterizza e che condividevamo, nei nostri incontri, a dispetto delle circostanze e dei nostri anni… “Zia, che volevi scrivermi con il tuo Bszzzmm?” e giù a ridere… “Zia, ma da dove le ricicci tutte le foto dei periodi dove sono più brutta che mai?”… e il tuo “Sei sempre stata bellissima!”… E tu, zia, sei stata e sarai sempre bellissima nella voce di chitarra che tanto amavo… bellissima nelle tue esplosioni di risata… bellissima nei racconti… nelle tue torte dei compleanni… nella tua pazzesca creatività che ti rendeva unica ai miei occhi. Mi manchi… ma sono certa che le nuvole e il tramonto e l’alba la luna la pioggia e l’azzurro del cielo ridono e cantano con te… e questo mi rende felice. (Ombretta).

È già passato un anno da quando ci ha lasciati, eppure il suo sorriso continua a vivere nei nostri cuori come se fosse ieri. Zia Anna Maria, presenza dolce e luminosa, capace di portare serenità anche nei momenti più difficili. La vita non le ha risparmiato il dolore, ma non ha mai smesso di sorridere, di ridere, di incitare a farlo in una esplosione di canto e di allegria. La seconda mamma di tutti noi, i suoi nipoti che trovavamo sempre rifugio sicuro a casa sua… Zia Anna Maria ci ha insegnato che la forza non si misura con il rumore, ma con la capacità di affrontare la sofferenza con grazia e amore. Gentilezza autentica, la sua presenza un dono. Continueremo a portarti con noi, zia cara, in ogni gesto buono, in ogni sorriso donato, proprio come facevi tu. Tuo nipote Giuliano.

Orme d’infanzia mi attraversano il cuore. La tua casa era il nostro rifugio sicuro, tempio di risate a crepapelle, di giochi inventati e profumo di pandispagna sempre ‘appena sfornato’. Conoscevo a memoria tutte le tue canzoni, adoravo il tuo modo raggiante e ruggente di afferrare la chitarra e la vita. La tua la più bella risata mai conosciuta, a contrastare la malinconia e la durezza, a volte spietata, della vita. Grazie per il tuo coraggio, che volava come piuma nonostante fosse armatura. Grazie per essere stata sempre presente nonostante le distanze di tempi e di spazi. Grazie per i tuoi racconti interrotti e risolti in risata dirompente e fragorosamente coinvolgente. Grazie per tutta la leggerezza e la forza e la passione con le quali riempivi le nostre vite. Grazie per essere stata la sorella speciale di mamma, grazie per la vostra meravigliosa complicità. E grazie per aver portato zio Gianni anche nella mia vita, per me un ‘nuovo’ papà. Sei scolpita nel cuore, zia Anna Maria. (manchi tanto, ma questo lo sai già…). Daniela

Piango. Non sono forte come te. Tu mia roccia, mio sostegno, mio faro luminoso in mezzo a flutti e marosi, con la tua generosità con la tua forza e la tua allegria, mi vieni incontro sempre e mi salvi…

E, se stasera, non avete impegni, e volete ricordare con noi Anna Maria a Bitonto nel cortile dei gelsi e delle rose, in via Generale Montemar 25, siete i benvenuti. Sarà una festa più che una commemorazione, e lei sarà felicissima con tutti noi… vi aspetto in tanti. Angela/lina

domenica 22 giugno 2025

Domenica 22 giugno 2025: ACQUERELLI - Racconti per Immagini di FRANCESCO SCOTTO...

E, come promesso, veniamo alla serata di due giorni fa. Parlare di serata magica non rende l’idea. Peccato che non ci sia stata la possibilità di riprendere la Presentazione del Libro per via di un Peppino Piacente, Editore della SECOP, continuamente chiamato di qua e di là da altri nostri Autori venuti a dare un saluto, una rapida occhiata a causa di altri impegni, e così via. Menomale che è riuscito a immortalare l’evento con un paio di fotografie a testimoniare l’avvenuta presentazione. Ma le foto non offrono purtroppo la possibilità di ascoltare la superba introduzione alla serata di Raffaella Leone (in veste di PR. della SECOP), che è partita con la lettura del meraviglioso racconto “Il sogno di Vincent” con chiaro e suggestivo riferimento a Van Gogh. E subito dopo ha illustrato tutta l’opera del nostro grande Francesco Scotto con particolari degni della sua notevole capacità affabulatoria, interrotta di tanto in tanto da mie scherzose incursioni per arginare il fiume in piena delle sue parole. Poi, la prima domanda a me, una domanda da me ignorata perché avevo urgenza di fare una distinzione tra “narrare” e “raccontare”, due verbi che sono apparentemente dei sinonimi, ma che hanno significati diversi in quanto il racconto quasi inevitabilmente contiene un messaggio “informativo”, che dà perlopiù delle notizie, quasi una cronaca, tra ciò che è accaduto, accade o presumibilmente accadrà. Crea, perciò, una sorta di distacco tra autore e lettore. La narrazione, invece, è “emotiva” ha una voce che vibra e fa vibrare di emozioni creando una “tensione” empatica a volerne sapere di più nell’ascoltatore, ma anche nel lettore. I tedeschi usano la parola “spannung” che significa appunto “acme”, punto più alto della narrazione in cui l’azione culmina nella esaltazione o precipita… In pratica prelude ad un “colpo di scena risolutivo”, come accade in tutti i racconti di Francesco e come è accaduto nella narrazione di Raffaella. Di qui già la prima magia della serata di ieri.

La narrazione, tra l’altro, ci riallaccia alla tradizione orale e, quindi, spesso ci riporta indietro nel tempo, quando era quest’ultima a tramandare il pensiero, gli usi e i costumi dei nostri antenati, con una sorta di resistenza al cambiamento che, inevitabilmente, le nuove generazioni richiedevano a viva voce, con le ribellioni e le rivoluzioni che ben sappiamo. Ma io amo la narrazione anche perché è essa stessa “voce, suono, respiro, tono”, come scrive Fabio Genovesi in <La Lettura>, “ed è un suono da dare agli altri…”. Certo, avviene proprio questo quando si narra qualcosa. I 50 racconti di Francesco Scotto, infatti, mirano a coinvolgere gli altri col suono, che palpita in ogni parola che è quella e non può essere che quella, perché è quel suono che risuona nell’anima dello scrittore; col disegno, che evoca, racconta, ironizza, inventa, inverte, contraddice, mistifica, riscopre una realtà che non è mai uguale a sé stessa; con la scrittura, che incanta con la sua eleganza stilistica e che cattura, richiama e sorride con complicità al lettore; con vari tipi di rammemoramento che, spesso onirici e visionari, riaccendono il passato per fare luce sul presente e si affacciano al futuro in una realtà che c’è e non c’è… (seconda magia)

L’emozione ci prende, ci coinvolge, ci sconvolge nella ricerca della Bellezza in ogni particolare delle storie narrate, in ogni battuta fulminea, sorprendente, mai prevista, ma trattata e vissuta dall’Autore con grande amorevolezza con gli altri e per gli altri. (terza magia)

Mariapia Galluppi, molto opportunamente, in una sua profonda, attenta, analitica, dettagliata, minuziosa lettura, che è una vera e propria Recensione dei 50 racconti, scrive: Sono spesso anime deluse quelle disegnate, solitudini fragili che cercano altrove sussulti emotivi, attimi di tregua (con pericolose e spesso anche dannose conseguenze, aggiungo io), come accade ai protagonisti di “Amori misteriosi” (p. 7) o come, nel racconto “Ex voto” (p. 27), in cui Amanda, con un cuore ‘staterello pulsante’, vede risarcita una vita segnata da delusioni e frustrazioni con una serie di cuori d’argento, inviatale da sconosciuti ammiratori”. E sempre la Galluppi continua: “Storie tenere, delicate e malinconiche, animate da una grazia gentile e da significati mai banali come l’incontro tra una principessa affamata d’amore e i colori di lui, un giovanr writer, una favola triste che si stempera in un finale dolce e promettente (“Favola notturna”, p. 29). O come in “Le venature d’amore”, l’arcobaleno a fare da cornice ad un racconto tra il malinconico e rassegnato che sfuma nella soave tenerezza di due manichini di legno tarlato che si concedono una notte di passione a dispetto del tempo che li priverà di una gamba (lui) e delle braccia (lei).

E, allora, pensando a questi misteriosi e favolosi racconti di Francesco scotto, rivisitati anche attraverso le annotazioni di Mariapia Galluppi, credo di poter dire, con Mauriche Blanchot, “scrivere vuol dire farsi eco di ciò che non può cessare di parlare”. Nel nostro caso, ci sono le parole a ricordarcelo; le immagini, che nascono dalla fertile immaginazione dell’Autore; le situazioni oniriche e visionarie che prendono corpo da una fantasia senza limiti; le costruzioni di personaggi, situazioni, condizioni, pensieri, problemi, soluzioni che solo la creatività può assicurare a chi insegue la Bellezza, la Consonanza, l’Armonia in tutto quello che scrive e che realizza con la mente, col cuore, con l’anima.

Occorre una “mente intelligente”, che parta dalla testa per illuminare il cuore. È quanto accade leggendo questi racconti, che non si fermano alla scrittura e ai disegni acquerellati, ma spaziano dappertutto fino ad abbracciare il Teatro, la drammaturgia, che gli ha offerto grandi possibilità e affermazioni, non ultimo il meritatissimo PremioGIUSEPPE BEPO MAFFIOLI Edizione 2025, MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA POPOLARE a “IL SOFFIO DEL SUGGERITORE” di Francesco Scotto appunto. E riporto testualmente: Il Premio Giuseppe Bepo Maffioli celebra la drammaturgia contemporanea italiana, omaggiando la figura poliedrica di Giuseppe Maffioli, protagonista della cultura teatrale, cinematografica ed enogastronomica veneta (…). La competizione, unica nel suo genere, coinvolge una giuria tecnica di esperti e una giuria popolare, offrendo un dialogo vivo tra   autori, pubblico e operatori culturali”. (quarta magia).  

Queste notizie sono state date ieri sera quasi in un sussurro, all’interno delle risposte che Francesco ha dato brillantemente alle domande incalzanti e intelligenti di Raffaella. La splendida serata volge al termine. Staremmo ancora per ore ad ascoltarlo estasiati, ma il tempo tiranno non ce lo permette. Raffaella conclude come ha cominciato, con un’altra lettura, non importa più quale, perché si tratta di un altro racconto emblematico e simbolico, letto a metà per lasciare ancora un po’ di spazio all’emozione e di tempo per la riflessione. Ne approfitto per sottolineare una caratteristica della personalità di Francesco: la dedica in una delle primissime pagine non ancora numerate in un angolino in basso a destra “a Carla”, una dedica che nessuno potrebbe notare, ma… ecco espandersi piano piano, poi sempre più veloce dalla periferia al centro e, in breve, occupare tutto il foglio fino a smarginare, andare oltre. Oltre il tempo e lo spazio. Oltre. In una sorta di umiltà e orgoglio, di unità e molteplicità, di alterigia distaccata e snob e di semplicità voluta per evitare il vuoto che potrebbe derivarne se cercasse l’ombra amando la luce. Si solleva un venticello leggero ma infreddolito e impaziente. Occorre andare verso il solstizio per bloccare il sole, per convincerlo a non declinare impercettibilmente verso il primo giorno più breve. Ci salutiamo per ritrovarci tra breve a riparlarci tra di noi. Con un colpo di coda geniale da cavaliere d’altri tempi ci offre un dono appena accennato prima e perciò quasi inaspettato. Ci regala, a me e Raffaella due splendidi ventagli acquerellati delicatamente dalla sua mano e firmati tra i mille colori sull’arancio ramato il primo (che va a Raffaella) e gli acquerelli che si inazzurrano cielo-mare con riverberi di violetto e turchese che tocca a me che faccio dentro salti di gioia. Ci rende felici e felici lo ringraziamo. (quinta magia).

Un ultimo accenno alla bellezza del suo libro e del disegno di copertina rielaborato con sapienti soluzioni dal nostro Graphic designer Nicola Piacente. (sesta magia).

Poi probabilmente la stanchezza lo vince o altri pensieri periferici che abbracciano i suoi cari, ed ecco che con raffinata eleganza si defila. Nell’aria rimangono a fluttuare le sue parole preziose, come il pulviscolo che tanto sempre mi sorprende e mi stupisce perché invisibile al buio diventa danza di corpuscoli nell’aria di una intera stanza se per caso un fascio di luce illumina quel buio. Ecco. Le parole di Francesco Scotto rimangono sospese nell’aria in quel fascio di luce che deriva da ogni sua parola… (ultima magia? Tutti speriamo di no!)  

 E io concludo qui con il mio solito abbraccio di cuore e anima a tutti noi. Angela/lina

 

venerdì 20 giugno 2025

Venerdì 20 giugno 2025: ACQUERELLI-Racconti per Immagini di FRANCESCO SCOTTO... (prima parte)

Mi sembra opportuno oggi farvi conoscere, se già non lo conoscete, un medico, mago non solo nel campo scientifico ma anche nella scrittura, nella pittura e nei sogni che il Teatro regala, FRANCESCO SCOTTO, un genio che fa del colore una poesia e della poesia un arcobaleno di colori.

Egli stesso scrive in quarta di copertina: Come in un gioco di specchi, gli acquerelli si riflettono nei racconti, amplificando le suggestioni che entrambi evocano. La narrazione, infatti, al pari dei sentimenti che li racchiude, è sempre intrisa di colori, a cui la leggerezza e la trasparenza degli acquerelli fa assumere il carattere di una realtà possibile, auspicata o forse solo sognata. Ma a pagina 5 c’è una nota introduttiva dello stesso Autore che ci offre l’antefatto che ha motivato quanto da lui affermato sul retro-copertina: quant’è bello ‘o culore d’ ‘e pparole/ e che festa addiventa nu  foglietto,/ nu piezzo ‘e carta…

Le parole di una celebre poesia di Eduardo De Filippo -  ‘O culore d’ ‘e pparole - costituiscono il recondito significato di questi racconti. Perché le parole sono intrise di colori: quelli dei sentimenti e dei risentimenti. Se poi il colore ha la luminosità, l’immaterialità e la trasparenza degli acquerelli, ecco che le parole volano leggere, da una pennellata di poche righe a un disegno più articolato di alcune pagine. E, come in un gioco di specchi, le immagini si riflettono nello scritto e viceversa.

E qui si potrebbe fare riferimento alla Teoria degli specchi del grandissimo Jorge Luis Borges, in seguito tramutata in Teoria del Prisma, le cui sfaccettature offrono una molteplicità infinita di immagini che rendono molto più vera, anche se più complessa e visionaria, la realtà. Nella Teoria degli specchi, invece, il risultato è duplice, ma anche imprendibile perché lo specchio offre una immagine ribaltata della realtà, dunque mai vera mai falsa. Sono teorie affascinanti su cui si potrebbe scrivere un trattato anche sulla contraddizione che è sempre presente nella natura umana e di cui Simone Weil ha elaborato la necessità di confrontarsi continuamente con le contraddizioni e i contrasti per comprendere la natura umana, la realtà e la stessa vita.

Ma io forse partirò da qualcosa che riguarda la “narrazione”, prendendo spunto dal termine “narrazione”, usato non a caso dallo stesso Francesco Scotto. Stasera dipenderà anche dalla introduzione e coordinazione di Raffaella che, pur essendo mia figlia e abitando nella stessa casa, si rifiuta categoricamente di fare anticipazioni. Non aggiungo parole. Ma qualche parola voglio ancora scriverla e riguarda Francesco Scotto che oso paragonare al grande Emilio Tadini, pittore, scrittore, giornalista e traduttore, che ha riempito di sé e della sua Arte tutto il Ventesimo secolo, essendo stato, tra l’altro, presidente dell’Accademia di Belle Arti di Brera dal 1997 al 2000 con dei favolosi quadri di “ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA”, come Google mi informa. Francesco è, a mio parere, il suo degno discepolo del XXI secolo, o del nuovo Millennio che dir si voglia.

Questa sera, pertanto, per chi vive a Bitonto (Bari) e dintorni, e non ha altri impegni o problemi di altra natura, il libro magico di Francesco Scotti sarà da me presentato presso la Libreria del Teatro di Gianluca Rossiello (nello spazio antistante al Teatro stesso). La serata, ribadisco, sarà coordinata da Raffaella Leone PR della Casa editrice SECOP edizioni di Corato-Bari di Peppino Piacente, come molti di voi già sanno.

Mi piacerebbe anticipare qualcosa, come ho già fatto abbondantemente, ma non sarebbe corretto nei riguardi del nostro Autore. Magari il resoconto lo faremo domani, dopo la serata…Vi saluto, allora, con tutto il mio affetto come sempre, in attesa di un vero abbraccio stasera alle ore 19. Grazie e a stasera. Angela/lina

 

domenica 15 giugno 2025

Domenica 15 giugno 2025: ANCORA NOI TRA PERCORSI D'ANIMA A FERIRCI A SALVARCI... (seconda parte)

E siamo giunti a metà giugno in un percorso velocissimo che tiene costantemente conto di quelli che abbiamo visto andare via senza possibilità di ritorno e di quelli che si sono affacciati alla vita, come mia figlia Ombretta. Ma so, per esempio, che nei giorni scorsi di alcuni anni fa è nata una bimba, oggi ragazzina, Nicole, che porta il nome del nonno Nicola, primo amatissimo marito di mia sorella Anna Maria. Una bimba da me subito amata perché ci scambiavamo baci da lontano appena fu in grado di capire questo nostro primo gioco d’amore. Poi, via via che è cresciuta, l’ho sentita sempre più fragile e forte, sensibilissima e desiderosa di piccole confidenze, forse anche di rassicurazioni. Per lei, nata di giugno, ho scritto “In presa diretta col cuore”: Tu che mi vieni incontro/ con i tuoi occhi di luna/ raccogli ad una ad una/ fresie e giunchiglie/ che profumano i nostri giorni/ d’intese/ sempre attese/ sempre vive anche a distanza./ Non ne possiamo fare senza./ Siamo ogni giorno/ in presa diretta con il cuore/ dove sono sigillati baci di ciliegie/ e sorrisi di papaveri in festa/ per il sogno che non muore/ per l’amore che resta/oltre gli anni, il tempo, la cesta di ogni sorpresa/ mai vuota e sempre di meraviglie accesa./ (ci attendono ancora/ nuovi giorni insieme/ per non dimenticare/ quanto sia bello amare)

E ancora una culla in questo giugno che si spegne e rinasce. Si tratta di un cugino che vive nel paese dei miei suoceri nel Salento, Surbo (Lecce): Aureliano, il figlio più giovane di zia Margherita (per tutti Tita), sorella minore di nonna Uccia, e zio Armando. Gli altri due figli: Claudio (il maggiore, che purtroppo non c’è più) e Ada, bravissima scultrice, artista dalle mani d’oro. Aureliano ha compiuto gli anni ieri e non ci incontriamo da anni, ma siamo sempre in contatto e intenzionati a ritrovarci in un abbraccio. Per lui ho scritto pochi ma sentiti versi per l’affetto che mi lega da anni a tutta la famiglia. “La nostra giovane gioia”: Ci inseguiva la nostra gioia giovane/ nel nostro incontrarci d’estate/ tra case che in una stessa strada/ si abbracciavano/ bastava farsi ciao con un saluto condiviso/ e un sorriso di benvenuto in tutte le case/ di famiglia, in quella Via Manzoni/ di tanti anni fa./ Oggi ogni cosa il silenzio avvolge/ e accesi ricordi e nostalgie sconvolge/ (come organo di chiesa vibra il nostro cuore/ in ogni fibra che si fa anima/ e ci unisce ancora come allora)

E urna e culla ho incontrato nel giorno che non avrei mai voluto salutare, il 23 giugno di un anno fa. Anno e giorno che non riesco a perdonare perché mi ha rapinato della sorella tanto amata. Peccato per il compleanno di Michele, il marito di Isabella, figlia di Anna Maria e papà adorato di Nicole e Francesco. A lui andrà il mio pensiero il giorno 23, ma sarà purtroppo abbinato a un dolore che non ha fine. A lui voglio dedicare alcuni versi come risarcimento e con tanto affetto. “Di te non so”: Non so di te pensieri e sogni/ cuore pulsante in equilibrio/ testimonianza silenziosa della geometria   dell’esistenza./ Di te non so/ l’architettura dei giorni passati/ e dei mondi attraversati/ prima dell’incontro con una donna/ provata dal dolore da bambina/ e segnata nell’anima più d’ogni altro segno./ Non so di te/ quello che hai provato/ ad accoglierla tra le tue braccia/ per asciugarle lacrime e ridarle un sorriso/ di figlia, di madre, di compagna di vita./ Eppure so dei tuoi silenzi/ che mi raccontano storie del passato/ oggi nei tuoi occhi ritrovato…  

Del dolore che non passa non riesco ora a parlare. C’è e rimarrà. Ma tra i fogli ritrovati qualche giorno fa c’è un’accorata lettera che l’anno scorso mia figlia Raffaella dedicò a sua zia. A sua insaputa, la voglio trascrivere perché è una lettera d’amore che descrive ancora di più e ancora meglio cosa sia stata e chi per tutti noi Anna Maria: Ho conosciuto la prima volta il dolore a sei anni. Eravamo andati a comprare i grembiulini per l’imminente inizio della mia prima elementare, e, rientrando a Bitonto, allora non c’erano nemmeno i telefonini, scoprimmo la tragedia che aveva colpito la nostra famiglia e vidi piangere mio padre per la prima volta: zio Nicola non c’era più e tu, mia splendida zia di soli 28 anni, eri diventata di colpo vecchia. Avevi Nicoletta in pancia e Isa in braccio, poi un mare di gente che piangeva ad ogni angolo di casa. Venni ad accovacciarmi ai tuoi piedi e ti dissi che non ti avrei mai lasciato, mai. Sei stata la mia mamma in seconda e a volte in prima, quando venivo a rifugiarmi su da te nei momenti dei tormenti adolescenziali che intuivi, capivi, lenivi in perfetta corrispondenza d’amore. La tua casa sempre aperta ai momenti di vita, da quando riuscisti a risalire, con la forza di una leonessa indomita, dal buco nero in cui l’indicibile dolore ti aveva scaraventata. Eri tornata di nuovo a quella vita vitale attiva dinamica che ti eri ripresa e che ti aveva portata a ricostruire tutto da capo con una forza sovrumana. Casa come cuore aperto a noi di casa e di cuore, ma anche a chi finiva per diventare di casa e di cuore. Tu eri tornata alla vita e alle feste alle canzoni all’allegria al chiasso alle risate, tante. Sei stata sempre un punto di riferimento, il volo di una canzone con la tua voce unica ineguagliabile. Fino a quando sono cambiati gli anni e le nostre età e inevitabilmente i nostri ruoli e io per fortuna c’ero per te con piccole cose che tu sapevi trasformare in dono di straordinario valore: come il set di trucchi che ti regalai ad un compleanno e tu ogni mattina ti facevi bella e mi ringraziavi come se ti avessi preso a palloncino la Luna. Dalle torte alle tovaglie, dai libri ai giochi, mi hai insegnato una infinità di cose. Sei stata la maestra che poi ho imparato ad essere e nel libro che avrei dovuto presentare domani te lo avevo scritto: eri il mio faro speciale che mi aveva spiegato che giocare era per i bambini fondamentale, l’esperienza per eccellenza, la cosa più seria del mondo. E tanto è stato perché avevi alunni felici che ti amavano. Avrei dovuto portarti il libro, ma ero convinta che anche questa volta, dopo le innumerevoli volte che la vita ti aveva strattonata in malo modo, ce l’avresti fatta ancora e avrei potuto dedicarti il libro a casa tua, magari sotto il pergolato. L’amore è folle e cancella l’evidenza dei fatti. Io non speravo, ero certa e tu dopo aver letto la dedica mi avresti detto ancora una volta: “Grazie, amore mio”.

Ma tra i fogli venuti fuori all’improvviso sono emerse dal passato alcune poesie, che Anna Maria scrisse parecchi anni dopo la perdita del suo amatissimo Nicola. Sono le prime poesie di una rinascita da lei voluta a denti stretti per amore delle sue figlie, Isabella e Nicoletta. Più tardi ebbe la forza di trasformarle in canzoni. Eccole. “Svegliarsi al mattino”: Svegliarsi al mattino/ i sogni sul cuscino/ intorno una tristezza/ nessuna tenerezza./ In un letto troppo grande/ rotolare coi pensieri/ che non ti sembrano veri/ le ferite sono tante.// E sai/ che non si può fermare il mondo/ sul tuo uomo senza domani./ E puoi pure contare i giorni/ tanto lui non tornerà/ tanto lui non tornerà.// Svegliarsi e capire/ non sai più soffrire/ e ti arrendi alla realtà/ tanto niente cambierà./ In una sorta di emozione/ sai trovare la maniera/ aspettare che si faccia sera/ di regalarti una canzone.// La  la  la  la…// Svegliarsi ogni giorno/ e inventare un nuovo sogno/ e la vita passa via/ e con lei la tua poesia/ e con lei la tua poesia!!!

E, ancora, per la Giornata della Donna. “DONNA”: Donna,/ non hai più/ quel vestito che sa/ di schiavitù.// Ma, donna,/ resta per te/ la sofferenza che fa/ decidere.// Ma tu volevi/ un mondo che/ non condannasse/ a scegliere/ un ruolo che/ non fa per te/ nella tua vita/ di donna.// Donna,/ chi mai saprà/ quanto sa d’amaro/ la tua libertà.//  Ma donna,/ io credo in te/ nella tua idea più bella/ ESISTERE.

E, infine, ecco un inno salvifico. “TU PUOI RICOMINCIARE”: E ti aspetterà il silenzio nella tua casa/ e ti accorgerai che c’è la neve in ogni cosa/ e ti ritroverai indifferente e senza fiori!// E brillano le stelle/ nascono i bambini/ ogni sorriso è un segno…/ puoi dire basta al tuo dolore!// E ti guarderai in ogni piega del tuo cuore/ e ti accorgerai che hai mani grandi per l’amore/ e ti ritroverai a volere un’altra storia!// E s’accende il fuoco/ rinascono speranze/ e col nuovo giorno/ tu puoi,/ tu puoi RICOMINCIARE!

(Anna Maria De Leo è nata a Bitonto-Bari, dove vive e insegna nella Scuola Elementare. Ha composto e musicato numerose canzoni. Ha anche musicato testi poetici di autori italiani e iugoslavi).

E, per oggi, mi fermo qui. Non posso continuare. Piango di commozione. Alla prossima con tutto il mio amore. Angela/lina

lunedì 9 giugno 2025

Lunedì 9 giugno 2025: ANCORA NOI TRA PERCORSI D'ANIMA A FERIRCI A SALVARCI...

Oggi è San Primo e sono 17 anni che non lo festeggiamo più. Un tempo festeggiavamo l’onomastico del capofamiglia nel favoloso villaggio di Alimini 1 nel Salento (vicino Otranto), dove avevamo una multiproprietà, costituita da un appartamento su due piani con solarium per sei persone per un periodo di un mese e mezzo. Luogo bellissimo con vacanze bellissime. Rimpianto e nostalgia. Ma questa mattina, magicamente, nello scartabellare antichi fogli di poesie perdute nel tempo, ecco piovermi tra le mani e gli occhi alcune nostre poesie fortemente rammemoranti. Emozione e commozione. E urgenza di trascriverle qui per condividerle tra di noi, per rendere omaggio a lui, mio marito, ma anche a tutte le voci mai perdute perché radicate nell’anima. In giugno, del resto, ho perso lui, Primo, e mia sorella Anna Maria, così vicina al mio cuore, ma è nata Ombretta (18 giugno) e abbiamo sempre festeggiato, in quel magico villaggio, onomastici e compleanni.

Oggi, è per me un riandare indietro nel tempo per riannodare ricordi…

Ma comincio da una poesia scritta all’alba di questa mattina e intitolata non a caso “9 giugno: San Primo”: Urne e culle e santi ha il cielo di giugno,/ nei nostri cieli che un cinguettio/ di rondini rende vicini e inazzurra,/ oltre le ombre di nuvole e ali/ nel cortile dell’antica casa che aspetta/ e saetta di gelsi e di rose la memoria./ E vive di misteri, di magie e di dolore/ che non muore e di canto alla vita./Infinita dietro le porte della stagione/ d’estate, il suo solstizio a fermare sole/ e rimpianti, ad accendere canti perduti/ nei nostri lunghi viaggi con noi/ senza noi e in cerca di noi./ E di impotenza il senso delle parole/ rimane, e delle spine a bruciare mani/ e sorrisi sempre più lontani nel tempo/ (ma forse faremo in tempo/   ad abbracciarci ancora nella dolcezza/ di una carezza che può bastare/   a salvarci il cuore)  

E di Primo ecco “TRASPARENTI APPARENZE”: Come aria improvvisa che muove teneri rami trasparenti di cielo…/ e di orizzonti d’erba…/ queste situazioni di attesa sospese tra fughe e ritorni hanno apparenze inespresse…/ quasi gesti involontari tracciati su polvere di luna/ Trasparenti segnali di poesie della memoria/ di poesie della non memoria/ da scrivere da cancellare con pensieri indecenti trasparenti e presenti Apparizioni apparenti… disegnano parole ferite… colpite a morte/ Dalla convenienza inespressa/ per rinascere trasparenti immagini/ Di un sogno in bianco e nero…/ e lo schermo è sempre la stessa strada…/ lo stesso treno che insegue sé stesso…/ Trasparenti apparenze di noi proiettati nel fascio di luce delle illusioni…/ volute di fumo non volute…/ nella trasparenza del buio…/ Rifugiarsi in fondo alla memoria è una strategia che non risolve… il frastuono del silenzio è il nemico da abbattere… Fragile come una eclissi…

E ancora “LUNA DI TUTTE LE MEMORIE”: Le strade della memoria/ Non sono autostrade/ Veloci… affollate… illuminate…/ Sono impervie… tortuose…/ Con segnali nascosti/ Antiche e bianche di luna/ - luna di tutte le memorie - / quelle ormai sepolte/ e quelle dei sogni che verranno…/ Sono strade mai stanche di luna/ Mai stanche di ricordi/ A volte brevi… appena accennate… scavate a viva forza… quasi a scolpire notturni chiarori… oppure senza fine… a perdersi nella notte di tempi ormai finiti. Sono le strade di una luna che ci appartiene come la nostra pelle… come un insopportabile peso nel mezzo di un cuore che ci conta i respiri e ci distrugge i sogni…

La mia poesia di oggi, dunque, è quasi un risarcimento di tutti i nostri sogni infranti con il passare degli anni e delle stagioni, come accade nella vita, tra esaltazioni e delusioni, tra voli e abissi, tra ferite e rinascite. Quest’ultima insolita e originalissima poesia di Primo è, tra l’altro, il preludio a una silloge che stava scrivendo “Le strade della luna che dorme” e che, purtroppo, non ha più avuto il tempo di pubblicare. Quasi sicuramente, se ne avrò io il tempo (e purtroppo è una lotta impari contro il tempo che velocemente scivola tra le mani), potrei provare a pubblicarla. Mi piacerebbe.

Ed ora ecco le poesie mie, perdute allora e ritrovate in questi giorni. Forse vale la pena trascriverle. 

I. “TORNERANNO LE PIOGGE”: Torneranno le piogge improvvise/ nel vialetto del tuo mesto sorriso/ ma non ci saranno i tuoi baci/ farfalle morenti sul finire del giorno./ Rimarrà insaziato dolore/ sul quadrante di ogni stagione/ /e sarà mio e degli altri tuoi nati)/ Vuoto il giorno dell’ora negata/ la carezza sul tuo volto lunare/ è impossibile ritorno a ieri/ quando contavi le lancette del tempo/ tra richiamo d’altri pensieri/ e nostalgia di passi perduti./ Ti stremava un affanno senza tregua/ un intervallo di parole prive d’incontro/ cui opponevi la forza silenziosa del distacco/ imbavagliata difesa da un respiro/   che fa male   / Era questa la distanza che ponevi/ tra te e il mondo ovattato di pianto/  questo l’enigma della tua partenza/ oltre i confini del tuo corpo disabitato/ Nella stanza spenta di te/ una geometria di silenzio raccolto/ ignora preghiere e le invoca/ oltre il “muro d’ombra”/ che tutto respinge e incontra/ accoglie.

II. “UN VUOTO DI COSE”: Senza di te un vuoto di cose/ che il silenzio non può riempire/ (vuoto di parole significati/ vuoto che tace nega cancella)/ vuoto che devasta e distrugge/ Rimanda alla notte/ al tuo respiro che si è fatto anima/ al nostro andare ormai soli/ (senza più noi stessi)/ lungo strade che non sapranno/ più riconoscerci/ perché non ci sarai tu/ a chiamarci per nome/ (la nostra identità nel tuo amore)

III. “PURE”: hai lasciato orme di stelle/    nel tuo andare/ perché il buio non vinca mai/ sulle nostre ferite. (voglio ricordare che i fogli ritrovati portano la data di settembre 2001, e avevamo perso alla vista nostra madre il 1° aprile dello stesso anno).

Invece, è solo di qualche ora fa quello che ho scritto per Ombretta che fra nove giorni dovrà fare i conti con un nuovo anno di vita e con altri sogni e progetti, così come all’alba di questa mattina ho sognato. I versi hanno come titolo “e poi sei arrivata tu”: dal mare e con la fretta di raggiungermi/ sei arrivata della prima alba lambendo la riva/ con la spuma che in rose si trasformava,/ quasi  tuo omaggio al mio amore/ allo scadere di mezzogiorno/ ti sei presentata carica di fiori./ Di mangiare tutti avevano tanta fretta/ quasi quanto la tua di salutarmi/ nel silenzio-frastuono/ e nel vuoto-pieno delle nostre braccia/ a difenderci dal mondo/ noi due tutto il mondo/ fino ai confini dell’Universo/ che non abbiamo mai perso./ Dimentiche di torti e di ragioni/ della casa e dei suoi tanti frastuoni/ insieme io e te con i tuoi buffi capelli/ che sembravano ali di gabbianella/ e neppure bella./ Ma eri mia, mia soltanto in quel vuoto-pieno di silenzio/ che subito ci appartenne, solo per poco/ poi fosti gioco e parole sbagliate/ e tante risate e occhi d’incanto./ I miei, incatenati ai tuoi lunghi capelli/ e ai nostri sogni più belli/ sognati in due/ e tante fiabe inventate, le mie le tue.// Musa incontrastata dei pennelli/ e dei versi di tuo padre in ogni dove/ in ogni sempre./ (ma noi due siamo nel “per sempre”/    che fa di due cuori un cuore solo/ noi due che anche da lontano/   siamo lo stesso volo).  

Ma giugno non è ancora finito e bisogna percorrerlo fino in fondo perché incalzano altre voci e sussurri d’anima a ferirci, a salvarci… grazie. Angela/lina 

venerdì 6 giugno 2025

Venerdì 6 giugno 2025: LE ORE INVISIBILI di FRANCESCA PALUMBO...

E oggi mi sembra giusto portare alla vostra attenzione, amici carissimi, Francesca Palumbo e la sua Poesia. La nostra conoscenza risale, se non ricordo male (la memoria purtroppo mi fa continui attentati), a parecchi anni fa, ospiti entrambe del Salone del Libro di Torino, una vetrina meravigliosa per tutti quelli che hanno la passione della scrittura e della lettura. Io in qualità di scrittrice e poetessa, lei appartenente allo straordinario gruppo degli uomini-libro che recitavano a memoria interi passi di libri per salvarli dalla distruzione di una società sempre più alla deriva, come accade nel film Fahrenheit 451 (1966) di Francois Truffaut, tratto dal libro omonimo di Ray Bradbury, in cui, in forma romanzata, si parla di una società distopica, in cui i libri sono proibiti e sistematicamente bruciati. Entrambe, dunque, amanti dei libri da scrivere e da leggere. Il mio editore Peppino Piacente, della SECOP Edizioni di Corato-Bari ha incontrato quest’anno Francesca proprio al Lingotto di Torino, in veste di autrice di un nuovo libro Le ore invisibili, dopo i romanzi Il tempo che ci vuole (2010), Le parole interrotte (2015), La tua pelle che non c’è (2018), Hai avuto la mia vita (2021). Per queste opere, tutte pubblicate con la Casa Editrice salentina Besa-Muci, Francesca ha ricevuto prestigiosi premi.

Francesca Palumbo è, però, nata a Bari, dove ancora oggi lavora come Docente di Lingua e Letteratura Inglese, e dove ha fondato la Piccola Scuola di Scrittura Creativa e Autobiografica INCIPIT. “Scrive articoli e recensioni per riviste online e giornali locali”.

A me è pervenuta in dono, tramite Peppino, la sua ultima silloge poetica Le ore invisibili, appena pubblicata con una dedica bellissima: Ad Angela con immenso affetto e stima. Francesca. Ho immediatamente letto il libro e, altrettanto immediatamente, ho sentito l’impulso di scrivere qualche mia riflessione, in veste di recensione, che qui trascrivo:

<Ho tra le mani la silloge poetica di Francesca Palumbo Le ore invisibili (besa/muci editore, pp. 141, 16,00 £). Francesca, nel presentare il suo libro dice: “Ogni Poesia è un piccolo atto di fiducia nell’enigma”. Che ben presto, a mio parere, si fa mistero. Già il titolo è di per sé misterioso nella sua imprendibilità. Le ore sono una nostra convenzione per scandire il tempo di un giorno e quest’ultimo nel tempo di un anno e via via nel tempo senza tempo dei millenni fino all’aurora del mondo. se, poi, alle “ore” aggiungiamo “invisibili”, il mistero s’infittisce, reclama una dispersione totale del reale in funzione di ciò che reale non è. l’invisibile alimenta la contraddizione del “non è” rispetto a ciò che è. E nella contraddizione e di contraddizione vive e si nutre la poesia di Francesca, ma non solo. Anche la stessa immagine di copertina esprime una materia duttile, accartocciata, che sovrappone il non essere all’essere. È un oggetto materico indubbiamente, ma è soprattutto qualcosa che si aggroviglia come il nostro pensiero mai stanco di pensare ed è già qualcosa di volatile, che occupa la nostra mente, e ci impedisce di vedere, in tutta la sua realtà, la materia in bianco e nero che inizialmente si offre al nostro sguardo. Luci e ombre contemporaneamente. E la luce appare scontornata dalle ombre perché appaia in tutta la sua pienezza che rischiara il buio dentro e fuori di noi. In questo caso, dell’Autrice.

Non così l’immagine del retro-copertina a colori solari molto forti, il girasole ne è l’emblema contro il volto della poetessa, che ha occhi chiusi, quasi ebbri di sole, per inspirare luce, calore, profumo, i quali, a loro volta, si infiltrano tra i capelli scompigliati dal vento, come grano maturo, dimentico dell’azzurro della veste che pure è e scompare. Il tutto è meravigliosa sintesi della poetica di Francesca, che vive di opposti e si nutre di contrasti: desiderio e rinuncia, Arte come aspirazione al bello e al vero (“A verità condusse poesia” dice Clemente Rebora, poeta mistico dei primi del Novecento) e, nello stesso tempo, un franare negli abissi di una discesa senza fondo e senza senso (vedi Poesia “E se li senti” a p. 11). C’è sempre un qualcosa, dunque, a interrompere la meraviglia che nei suoi occhi si dipinge ogni volta che è rivolta a guardare il cielo, a ricordare un amore, a scolpire un sogno. Succede in “Meteo” e in tante altre poesie in sospensione tra terra e cielo: Avere il cielo come tavolino/ bere il caffè/ guardare in su./ Sfogliare app/ meteorologica degli umani/ ansia/ umori/ paure/ e altri uragani.

Ascoltare la musica interiore e quanto meglio un poeta possa fare per appropriarsi del linguaggio materno che pulsa nel suo cuore e imprime uno stile tutto suo e tutto nuovo ai versi. Franco Buffoni, uno dei più grandi poeti contemporanei, ne parla con cognizione di causa e commozione. Anche Vittorino Curci, nei suoi “Quaderni dell’Arte poetica”, afferma la stessa necessità: di appartenenza, ma anche di estraneità al testo. L’appartenenza fa casa, protezione, solidarietà, il prendersi cura dei luoghi e delle persone; la distanza significa non trattenere per sé il verso, ma lasciarlo andare incontro agli altri e, in primis, al lettore, ultimo destinatario e depositario della parola scritta.

Ecco un esempio con “Intorno”: Giorni così/ che passano ignari/ del nulla e del tutto/ che fa quotidiano./ Protesa/ verso il mutare delle nuvole/ ondeggio/ animata da un fervore calmo./ Tutto tace intorno. E gli ossimori ancora una volta tracciano la contraddizione, di cui Simone Weil ha teorizzato l’importanza e la necessità perché essa evita le definizioni immutabili, crea spazi di   possibilità e “il contatto con l’inesprimibile”, che, a sua volta, realizza il superamento della nostra “finitudine”, raggiungendo gli spazi della “mistica”, come era nelle corde della Weil, che pure era partita dalla logica e dalla matematica.

In sole tre sezioni (Pensami qui, Calcolabile umano, Clessidra dei giorni) emergono solitudini e rimpianti, ricordi e nostalgie, rifiuti e attese. Gioia di Esserci nel qui e ora, prossemicamente, come ci suggerisce Heidegger, e stanchezza di essere in una identità mai vera mai falsa, ma sempre consapevole di sé nella sua interezza di umanità non solo alla deriva, ma sulla riva di ogni riverbero di sé e del sé. Una percezione che mai l’abbandona. E che la rende fragile e forte. Rammemorante. “Incrociavamo le dita”: Se mai dovesse capitarti di immaginare/ una più netta perfezione/ se mai dovessi provare/ un freddo così intenso/ da non ritrovarti/ se mai dovessi scoprire che niente più riscalda/ quella parte del tuo petto/ sistemata lassù/ a sinistra/ recupera ti prego/ unica immagine salda/del nostro immenso mancare./ Incrociavamo le nostre dita un tempo/ e così restavamo/ per ore./ Sempre ripetevamo quel gesto/ senza saperne/ lo splendore.

Versi insoliti, nuovi, vibranti e umbratili insieme, riassumono la cifra stilistica di Francesca Palumbo,   che meritatamente si è fatta ampio spazio tra le giovanissime voci protagoniste del terzo Millennio, che già percorriamo non senza devastanti timori per la nostra umanità alla deriva, ma con un filo i Speranza che sempre ci salva (Spes ultima Dea)…

Ma, poi, ecco “Molliche”: Dire sì al desiderio/ e ancora ancora/ col dorso della mano/ strofinarsi le labbra/ ripulirle dai baci/ che furono fuoco/ per sfiorare parti disperse/ di te e di me/ sparpagliate tra le nuvole/ e i sassi/ e i sentieri./ Ti seguo/ anche nelle foreste buie/ e intanto/ semino molliche.

Con le profonde tracce salvifiche del suo desiderio di tornare al cuore, unico ardimento e tormento a cui non si può sfuggire…

E anche oggi chiudo qui, con la speranza/certezza di avervi coinvolto nei versi così intensi e veri, nella loro imprendibilità, di una poetessa, nella cui gioia e nel cui dolore, ciascuno di noi non fa fatica ad immergersi e a riconoscersi. Grata sempre. Angela/lina