giovedì 13 novembre 2025

Giovedì 13 novembre 2025: ancora sulla POESIA de "IL SUD HA VINTO" di LINO PATRUNO...

 … nell’unità si ricompone

tutto il visibile, tutto il dicibile.

Restano le differenze ma scompaiono, (…).

Niente può uscire dal tutto,

amore semplicemente è essere,

essere parte di questo insieme…

(Cesare Viviani, stralcio della poesia

“Silenzio dell’universo”)

Dopo una simpatica e arricchente chiacchierata con Lino Patruno, autore, come sappiamo, de IL SUD HA VINTO (SECOP edizioni, 2025), vorrei ancora parlare della sua poesia a cominciare dalla copertina, di cui di solito non si parla, mentre è, a mio parere, un “biglietto da visita” molto importante: sintetizza, insieme al titolo, il “cosa” contiene, e il “come” è stato affrontato e raccontato. Intanto, c’è un abbagliante colore verde, che fa da sfondo al bianco del titolo a caratteri cubitali a segnare un trionfo. Sullo sfondo si intravedono dei gradini che portano verso una colonna che propone la tipica costruzione di un muretto a secco, circondato da alberi, presumibilmente ulivi che sono inno e risorsa della nostra terra, filari di viti, ed erba a delimitare uno spazio, un appezzamento di terreno, tipicamente del Sud. Potremmo già parlare di poesia? Certamente. Di simbologia? Anche. Di ironia? Sì, se si tiene conto del retro-copertina, attraversato da una fascia di un giallo esclatante con la scritta in nero: “Questo libro non contiene olio di palma”. Uno sberleffo ironico ad una propaganda pubblicitaria che ha imperversato a lungo nel nostro Paese.

Ma sicuramente c’è ancora tanta altra poesia nelle pagine del Libro.  E questa mi è balzata agli occhi dopo la chiacchierata con l’Autore, nelle sue consuete vesti di giornalista. Ebbene, sua grande preoccupazione è quella di scrivere in maniera chiara per agevolare la lettura soprattutto a quelli meno attrezzati culturalmente. Preoccupazione encomiabile per uno scrittore dalla stratosferica conoscenza della lingua italiana, in tutte le sue varie forme e dimensioni anche settoriali e non. Io   ravviso in tale preoccupazione l’umiltà di Lino Patruno, e questa è poesia. La sua generosità è poesia. Il suo scrivere in neretto ciò che va evidenziato, per favorire la comprensione del suo pensiero a quanti si appresteranno a leggere il Libro, è poesia. La scelta oculata e sottile degli eserghi di ogni capitolo è poesia. Le tante metafore, spiegate con altre parole, in maniera silenziosa e attenta, per renderle chiare e leggibili, sono poesia nella poesia. Le virgolette basse a “spina di pesce” sono poesia quando fanno riferimento all’altrui pensiero per evidenziare una coralità che, nel bene e nel male, sta lì a potenziare o a delegittimare quanto da altri scritto. La logica del vivere e non del sopravvivere è poesia. Bisognerebbe leggere il capitolo nono (“Controesodo: eccoli, i tornati al Sud”) per averne conferma. Oppure, le frasi di autori famosi riportate a conclusione dell’ultimo capitolo a pag. 384.

Ecco, mi avvio alla conclusione, ma non posso fare a meno di evidenziare ancora la poesia riposta nelle innumerevoli direzioni delle storie, tantissime, dei tanti personaggi famosi e famosissimi   raccontanti e di quelle dei tantissimi sconosciuti che vengono nominati per la prima volta. Le direzioni molteplici “portano dappertutto” le loro storie, che segnano tracce indelebili per quanti lettori possano aver voglia di scoprirle, magari anche per emularle. Tutti noi, del resto, abbiamo bisogno di esempi, modelli migliori per diventare migliori. In una rigenerazione che si posiziona tra mente-cuore-anima per non sentirci mai soli e sperduti in un mondo, quello attuale, in cui è facile perdere la fede e la speranza in un futuro migliore. Insieme è più facile e bello lottare. Le sfide non si possono fare da soli, presuppongono sempre l’altro… Un avversario? Non solo, anche uno o più compagni per lottare insieme. "Cum panem" significa "Condividere il pane" alla mensa quotidiana. Grazie, Lino Patruno, per avercelo insegnato! A presto… Con tanta gentilezza e condivisione. Grazie. Angela/lina.

lunedì 3 novembre 2025

Lunedì 3 novembre 2025: La Poesia nel Libro IL SUD HA VINTO di LINO PATRUNO...

La poesia è l’intera storia

del cuore umano

        scritta

su una capocchia di spillo

(William Faulkner)

Del Saggio di Lino Patruno molto si è parlato e si continua a parlare durante le molteplici presentazioni nei vari paesi del nostro SUD, ma credo che nessuno abbia notato la poesia che percorre e attraversa le sue pagine. Provo ad evidenziarla: tutto il Libro è ricco di metafore, che sono alla base dell’“Arte poetica”. Poi, a ben leggere, sin dal primo capitolo esso è percorso da un ritmo incalzante nella continua reiterazione di alcune parole o di intere espressioni che si risolvono, alla fine, in ritmo interiore, un ritmo che suggerisce al poeta o allo scrittore la posizione giusta delle parole o delle espressioni, perché non se ne perda il senso profondo e il significato più esteso, che spesso diventa vera e propria “signific-azione”, cioè l’agire sul significato per dilatarlo, estenderlo, vivificarlo. È quanto fa continuamente Lino Patruno, esperto nell’Arte della Comunicazione, come Giornalista di lunghissima e meritatissima fama, e come Docente universitario, proprio in queste discipline.

Ecco qualche esempio lampante: la reiterazione “Il Sud ha vinto” <nonostante tutto> (p. 5) ha il ritmo incalzante, appassionato, avvincente di cui ho parlato prima. E a pagina 7 ecco un’altra più forte reiterazione con “Terrorismo”, “Terrorismo”, “Terrorismo”, che moltiplica a dismisura l’atmosfera di ingiunzione ad inchinarsi a “chi impugna la dittatura dei dati più che l’onestà del calcolo”. Ed ecco, sempre a pagina 7, la prima splendida metafora “Nessuno vuole scalciare alla luna”, a cui segue una spiegazione fortemente coerente col punto di vista dell’Autore sul Sud <non- ancora-Nord>. Un Sud, dunque, alla pari con il Nord già nell’utilizzo delle lettere maiuscole S=N.

E che dire delle Citazioni come Esergo a inizio di ogni capitolo? Veri capolavori di coralità poetica. Citazioni che, comunque, si ripropongono all’interno delle pagine, in cui sono citati tanti grandi scrittori (per tutti uno: Italo Calvino), con una sequela di altri nomi egregi che hanno scritto la storia della Letteratura italiana e mondiale del passato fino ai nostri giorni. Tra i saggisti, ancora, ecco il compianto Prof. Domenico De Masi, un sociologo illuminato e da me conosciuto personalmente parecchi anni fa, per via della bella amicizia con la sua ex moglie, con le figlie e la nipote, di cui per discrezione evito di fare i nomi. Poi, ancora tanta poesia, senza se e senza ma, quando Lino Patruno continua con l’elogio della “lentezza” vissuta al Sud anche attraverso le parole di un altro validissimo sociologo, il Prof. Carlo Bordoni, con cui è facile parlare di “Ozio creativo”. Ecco, la creatività! Tutto il capitolo secondo ne è impregnato con tanti nomi illustri, dai più lontani ai più vicini a noi in senso spazio-temporale (da Papa Francesco a Corrado Augias, passando con disinvoltura da Seneca a Nietzsche, da Masud Kan a Sigmund Freud, scomodando persino il nostro Presidente Mattarella, e così via) con il “mantra” devozionale per ogni titolo dei paragrafi: “E quindi ha vinto il Sud con la sua lentezza”.

Dicasi altrettanto del terzo capitolo, i cui paragrafi continuano imperterriti a osannare l’ozio, non come il “padre dei vizi”, ma come fonte inesauribile di creatività per “imparare l’arte della vita”. E così pure il quarto capitolo che si avvale di tantissimi nomi di scrittori, registi, attori, cantanti, italiani e stranieri in uno zibaldone da capogiro, tanto si viene catturati dall’immenso taccuino degli appunti della stratosferica cultura del Nostro. Si rimane catturati e incantati da un groviglio di lantane senza fine dei nostri giardini o di quello delle mangrovie sotterranee e lontane, quando Patruno afferma che il Sud è “a fortissima imitazione”. E qui la citazione di Lino Banfi, Sergio Rubini, Checco Zalone è d’obbligo, come pure quella di Marcello Veneziani, Franco Cassano, Michele Mirabella e di tantissimi altri (compreso l’immenso e inarrivabile recanatese Giacomo Leopardi), perché hanno reso il Sud degno di ammirazione e imitazione in quanto ciascuno col proprio talento e la propria cifra stilistica ha reso visionario e realistico il sogno di tanti di noi, che rimaniamo ancorati al Sud, pur avendo la possibilità di andare lontano. E in tutto questo io ravviso una straordinaria tenerissima poesia. Poi, ecco i capitoli che inneggiano alle industrie del Sud. Sono meno poetici, ma oltremodo convincenti e con tanti nomi di industriali industriosi che ci appartengono e ci fanno onore. Ma l’ottavo e il nono capitolo ci riportano alle metafore (un cigno non nero) e alla poesia felicissima della “Ritornanza”. Si pensi ai versi della canzone di Bob Dylan alla fine dell’ottavo capitolo. Versi stampati a caratteri cubitali nel nostro cuore. E dall’undicesimo capitolo in poi incontriamo nuovamente la poesia di quelli che restano, “i resistenti” per “fede etico-politica” ad un Sud che amano visceralmente e che li spinge a lottare per renderlo migliore. Fra mille difficoltà, mille recriminazioni, mille fraintesi. Occorre imparare l’arte della resistenza ad oltranza per non cedere alla tentazione della resa. Arrendersi significa “morire lentamente”, spegnere la luce del sogno e dell’utopia e quest’ultima - ma non ricordo più chi l’abbia detto - “non è ciò che non si può realizzare, ma ciò che non è stato ancora realizzato”.

A questo punto, vorrei fare io un elogio particolare a Lino Patruno per lo straordinario dono che ha ricevuto dal buon Dio e che ha anche conquistato in decenni di lavoro quale comunicatore tout court, come giornalista e docente universitario, in quanto con estrema facilità e altrettanta arguzia si districa tra “calamità” e “calamita”, riferendosi alla considerazione del Sud, da parte dei più, ieri e oggi (vedi p. 378) e così per tanti altri accorgimenti linguistici (basta leggere il Libro per scoprirli e farne tesoro con un oh di meraviglia). E meraviglia suscitano le innumerevoli storie che Lino racconta rapidamente, quasi con nonchalance ma con sottesa attenzione, cura e passione. Noi siamo fatti di storia e di storie. Baricco ce lo ha insegnato: “la narrazione è una parte intrinseca della realtà”. Non a caso “una storia è il campo di energia prodotto nell’animo di ognuno di noi dall’imprevista vibrazione di una tessera di mondo”. E in Lino Patruno io ravviso tutto questo e molto altro ancora che è conferma della sua visione poetica della scrittura come della esperienza esistenziale di ciascuno di noi per riscoprirci “umani”.

E oggi mi fermo qui. Con l’augurio che la Poesia ci accompagni sempre come tenera carezza in un mondo di violenze, sopraffazioni e ingiustizie. Mondo, che ci vuole disumani e indifferenti.

Con lo sguardo e il cuore rivolti al nostro prossimo incontro. Angela/lina                                                                 

mercoledì 29 ottobre 2025

Mercoledì 29 ottobre 2025: A un passo da OGNISSANTI e dalla COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI...

Se piangessi, tu verresti a riprendermi.

Ma io ho bisogno del mio dolore

per poterti capire.

(Alda Merini)

Sono giorni molto particolari questi ultimi di ottobre che corrono verso novembre in tutta fretta per festeggiarci, ciascuno di noi, in assoluta coralità (non soltanto in Italia, ma in Serbia, Lituania, Macedonia, Polonia, Svezia, Ungheria, Finlandia, Moldavia, Romania, Slovacchia e Slovenia, Croazia e ancora Austria, Belgio, Spagna, Francia, Cile, Perù, Senegal, Ruanda, Lituania ecc.). Poi, però, ci fa battere forte il cuore la Commemorazione dei Defunti, perché riprendiamo un dialogo mai spento con i nostri cari e loro si premurano di risponderci ancora e ancora. Io comincio dai miei nonni materni, con cui ho vissuto fino alla giovinezza, con alcuni anni di intervallo, come ben sapete. Ma prima di cominciare con loro ecco una riflessione in forma di poesia:

2 novembre

Ogni giorno si nasce e si muore

come nasce e muore ogni giorno

in una manciata di ore

che del mai vissuto

trattengono il respiro.

Illuminiamoci di mille lucciole

e miliardi di stelle

in questa notte buia che sa di pianto.

Fasciamoci dei raggi del sole

che ignorano la luna e il suo canto.

Avanziamoci nel cuore

come treno che attraversa il sogno

e si ferma al penultimo binario

per non dirsi mai addio.

(cerchiamo almeno una volta al giorno

  d’immergerci nella luce che è inno alla Vita

 per conservare le voci di tutti i nostri cari

          volati tra le stelle a illuminare

  il nostro ritorno tra le loro braccia d’amore)

 SEI SILENZIO E CANTO

              (a mio nonno Mincuccio)

Sei silenzio e canto

orma che incanta occhi stanchi

sul confine indistinto delle cose

Luce lontana che squarcia il cielo.

Sei latte d’innocenza che mi nutre ancora

e gesto di tenerezza che sazia di spine

il roseto mai spento di petali a primavera

in un tramonto di vene che dilata il mare.

Sei acuto imbroglio d’abbandono

e dolore sei più d’ogni altro dolore.

Io con te esploratrice di terre bambine

assetata d’incanti ora smemoria e canto.

Sei ala d’aquilone a raccontarmi l’azzurro,

tormento e perdita d’ogni altro incontro.

Tornano fiabe di ciliegi innamorati

in panieri di rossi respiri colmi d’amore.

C’è sempre una preghiera a raccomandarti

alle stelle che mi parlano ogni notte di te.

E la tua voce ancora a farmi compagnia:

richiamo di confidenze e rose nel cortile

(nei momenti di buio sgomento

    mai assenti le tue mani fiorite di prodigi)

Te ne andasti

                      (a nonna Angelina)

Te ne andasti così in un soffio leggero

come la tua anima bella a raggiungere

il tuo amore perduto da un anno appena

ma tanto lontano.

Ma lui venne a prenderti per portarti con sé

come promesso, e tu ansiosa lo aspettavi.

Lo vedevi alla soglia di ogni dimenticato dolore.

All’alba suonarono alla porta:

           - Nonna, sussurrò -

           - Non c’è più - dissi

E dentro ero già preghiera.

In fretta mi vestii e ti raggiunsi nella casa

del gelso e delle rose un tempo anche la mia.

Con la tua voce a indicarmi la retta via,

che litigava con la mia allegria.

E ora dormi con la tua pelle di rosa chiara

e sogni ormai oltre il cortile e le stelle

e i canti dei tuoi tanti bimbi a farti festa.

     Sei tornata alla Casa del Signore

         (io nella tua casa, da te)

Sono diciassette senza

            (a Primo ancora e sempre)

- Sono diciassette - mi ripeto questa notte -

diciassette dall’ultimo tuo sguardo

in quella notte senza una voce,

solo un grido ad invocare l’anima

senza respiro e a farmene dono:

- ti ho amato sempre ti ho amato tanto -

Nell’incredulo silenzio che sopravvenne

mi ritrovai incredula carezza e pianto

trattenuto, il tuo capo abbandonato

sul mio petto con la tenerezza

dell’ultimo saluto

per un viaggio senza ritorno.

                  Io senza.

Senza te senza me senza esistenza.

Furono le voci ad afferrare le lacrime

a strangolarle in gola. Andavi via.

Lasciandomi sola.

Senza stelle e senza preghiere.

                    Senza.

Vuoto dentro e intorno.

Tu ballavi nei miei occhi allucinati,

ballavi tu nell’attesa di andare

o rimanere sulle mie ciglia umide,

sui miei terrapieni scoscesi, indifesi.

Tu ballavi, mentre ali di angeli

ti portavano via, e non c’era scelta

da fare, costretto ad andare…

 E io mi arrendevo al fremito in volo

di gambe mani volto, lasciandoti solo.

Fu attesa disperata del tuo non ritorno,

nella nuova alba a lasciarmi senza.

(e oggi canto la tua presenza

 a me accanto come ogni altro giorno

  e colmo i bicchieri di te della tua ironia

       perché non sei andato mai via)

Ti sono grata oggi

                     (a mio padre)

Ti sono grata oggi - e lo sai - del tuo restituirmi

nel tempo il volto doppio delle cose,

la ferita irrimarginabile della ruga tra gli occhi,

grandi di malinconia, alla sconfitta dei giorni

che furono solo miei.

E grata ti sono della parola, canto libero

conquistato a fatica, e la risata ad abbattere

muri negli sguardi - estranei e vicini -

di quanti seppero a specchio corrispondermi,

con amore, l’amore offerto e ricevuto con amore.

Sconfitto è oggi il rimpianto di abbracci mai dati

mai avuti, cercati in sogno e restituiti

come debito o credito di un mare sempre atteso

sempre agognato e mai posseduto

(come volo di gabbiano alto su orizzonti mai

   perduti a raccontarmi le stelle dove da tanto

   abiti e scoprirti sulla mia pelle

                                     e radicato nel cuore)

 

E oggi desidero, ancora una volta, festeggiare mia MADRE e tutte le MADRI che ci vivono nel cuore, e non importa che ci siano accanto o ci abitino continuamente dentro, occupando tutti gli spazi dell’anima…

NON IMPORTA

Se non cammino più per raggiungerti a casa,

non importa.

Tu mi abiti nel cuore e ferme tieni con le tue mani

i manici della mia sedia con ruote e ci parliamo,

con labbra di mandorli e ciliegi in fiore, del passato

mai passato. Tu sempre presente e mai assente,

come me, ai tuoi occhi e mai al tuo amore.

Insieme ridevamo negli intoccati giorni di noi

in compagnia dei miei sogni da realizzare,

i tuoi nascosti sotto lo zerbino di casa

per ritrovarli intatti e aprire,

con la chiave del cuore, la porta dei sussurri

e dei nostri canti e incanti:

“vieni c’è una strada nel bosco…”, “suona solo

per me, o violino tzigano…”, “vorrei baciar i tuoi

capelli neri…”, “no, non è la gelosia…”

babbo ti dedicava

e io ti baciavo con la gioia di saperti bella e amata

tra il sole e l’inquietudine della pioggia che amavo

e ci ascoltava, ma da te mi separava con scrosci

e lacrime e profumi di rose che salivano dalla terra

e verticali arrivavano al Cielo dove oggi ti ritrovo

in una preghiera o forse tra le stelle, non importa.

L’importante e incontrarci ora e sempre

nell’amore che non muore e mi fa camminare

e correre e danzare per venirti incontro

a raccontarti di me e delle mie fragilità

in te mai riscontrate per i singhiozzi ingoiati

dal pozzo di ogni lacrima da me ignorata

e dal canto ritrovato nel profumo delle tue vesti

e del tuo corpo in festa.

Mio nascondiglio alla memoria d’ogni dolore

il pane quotidiano del tuo seno alla mensa

del nostro ultimo abbraccio che fu anche il primo.

(i lillà sono in fiore e i nontiscordardimè

   danzano tra i gelsi rossi del nostro cortile)

14 maggio

             (a mia sorella Anna Maria)  

E fu richiamo il tuo sussurro

nella telecamera che il tuo tormento

mi portava dalla stanza del dolore.

In lacrime Nicoletta riprendeva

il tuo flebile sorriso e al mio strazio

di Speranza disperata lo porgeva

nella complicità di saperti viva,

di volerti VIVA per portarti nella casa

da te amata, e dei vasi di ciliegi vagheggiati

col sogno di tornare a sorriderci ancora.

Non tornasti rondine contro vento

e spogli rimasero di te il cortile e il sogno.

(ma tu torni ad ogni alba ritrovata

  a vivere con noi dove sei sempre stata).

E parlerei di voi e con voi per millenni ancora nello straziato ricordo anche di quanti ho amato e perduto: Nicola e Pinuccio, Nelio e Rina con Michele, nonna Uccia e nonno Mario, zia Giulia, zia Tita e zio Armando. Zio Uccio e sua moglie. E zia Maria con zio Michele e Rosaria e Rita e Vincenzo. La grande Silvana e la sua amica Anna.  Gabriella la poetessa, mia coetanea. Selvaggia, la mia giovanissima e tenerissima “gazza”. Bruno e Corrado, Cris e Nico, Rosa dai biondi capelli e Rosa dai fulvi capelli, con Rina a farle compagnia. Giovanni, l’immenso poeta e fotografo di fama mondiale. Rossella. Dragan. E miliardi di altri, di cui si perdono le date, ma non l’Essenza di essere stelle luminose nel firmamento a vincere il buio di tutte le notti, accendendo fiaccole nel cuore.

A presto. Angela/lina 

mercoledì 15 ottobre 2025

Mercoledì 15 ottobre 2025: ottobre, novembre e dicembre: tre mesi di culle e di urne nel calendario del cuore...

Sono passati ben 10 giorni dal nostro ultimo incontro e finalmente ritorno a scrivere, ritorno a voi miei affezionati e pazienti lettori, che mi accettate così come sono: prolissa, piena di lungaggini superflue, emotiva, spero empatica, pronta a mettere in comune i sentimenti, quel nostro sentire corale che ci fa vibrare insieme e ci rende complici di un mistero più intenso di quello delle stelle, che stanotte mi hanno dettato queste parole. Abbiamo storie diverse, ma un comune sentire in quanto ogni nostra parola è viva e ci sollecita a raccontarci in un confronto a più voci: ognuna col proprio suono, il proprio ritmo interiore a renderci unici e liberi e veri. Oggi, per esempio, ho voglia di parlarvi di questi ultimi tre mesi dell’anno perché sono mesi che preludono all’inverno e ai ricordi sempre più forti tra chi è nato in questi mesi e chi ho perduto, per condividere con tutti voi le gioie e i dolori che non sono soltanto miei, ma di tutti noi, per non sentirci mai soli. A ottobre sono nati i miei due fratelli: Pino, il maggiore, il 3 ottobre del 1948, e il 10 dello stesso mese, Mimmo, nel 1950. Siamo ormai tutti vecchiotti e malandati, ma ci vogliamo ancora un mondo di bene. Ma il 4 ottobre è nata la figlia maggiore di Pino, Marica che oggi ha una figlia, Aurora, nel fiore degli anni e con tanti interessi e tanti progetti realizzati e ancora da realizzare. Sono le nostre proiezioni nel futuro che vedremo con i loro occhi. Ma il 4 ottobre è nato il mio grande amico serbo Dragan Mraovic, che abita da qualche anno tra le stelle. E sempre ad ottobre è nato il mio meraviglioso amico Cris Chiapperini, <stupendo poeta sulla carta e nell’anima e noto attore di teatro e televisione. Cris, ancora oggi, tra le stelle, illumina il firmamento quale grande poeta e grande attore. E non può essere altrimenti. Ben lo sanno i suoi amici attori, da Lino De Venuto, straordinario Van Gogh sulla scena di tanti prestigiosi Teatri, a Vito Signorile, che ancora emoziona e accende e riscalda, con la sua voce, la sua antica e nuova “Casa”: l’Abeliano. I baresi, e non solo, sanno di cosa parlo…> (tratto dal mio libro LA COCCINELLA DALLE SETTE PUNTE (SECOP edizioni 2023), in cui si possono leggere alcune poesie di Cris, inviatemi dalle sue due amatissime figliole e mie carissime amiche Caterina e Rossella, con altri preziosi aneddoti, che lo connotano magnificamente, come padre, amico, poeta.   E ho perso una persona di straordinaria cultura e altrettanta umanità: Bice Leddomade, docente di Psicologia dell’Età evolutiva negli anni ’70-’80 del secolo scorso. Con lei ho vissuto una esperienza formativa molto arricchente per un lavoro sulla dislessia, che mi ha vista sua collaboratrice fino a che una caduta non mi impedì di raggiungerla al terzo piano del nostro Ateneo a Bari. Ma, al di là di questa collaborazione, che io consideravo e considero un grande privilegio, Bice mi è molto cara perché fu lei ad accogliere per prima tra le sue mani un fascio di poesie che io non osavo far leggere a nessuno. Si illuminò. Mi sorrise con i suoi indimenticabili occhi verdi e mi disse che erano poesie da pubblicare senza perdere altro tempo. Lei stessa portò il fascicoletto al prof. Michele Dell’Aquila, ordinario di Letteratura Italiana nella facoltà di Magistero dello stesso Ateneo. Nacque così il mio primo libro di prose e poesie ANCORA UN FIORE (1982). Abbiamo mantenuto i contatti a lungo, poi, come spesso accade, subentrano altre urgenze di varia natura (familiari, professionali, e così via) per cui, a poco a poco, anche i rapporti più belli finiscono per subire i colpi del tempo. La notizia della sua morte un colpo al cuore, che non smetterà mai di amarla e di esserle grato. Accanto a lei desidero ricordare la grande Rita D’Amelio, docente di Letteratura per l’Infanzia, anche lei presso la Facoltà di Magistero dell’Ateneo barese. E anche con lei, negli stessi anni, c’è stato un bellissimo rapporto di amorevole materna amicizia. Severa con gli studenti, molto tenera con lo staff dei professori al suo seguito. Amava farsi chiamare “zia Rita” e ci dava amore e fiducia. Spesso voleva essere accompagnata da me per le vie di Bari e persino in banca, dove depositava parte del suo stipendio. Ed io le ero grata per tanta stima e fiducia. Poi, andò in pensione per sopraggiunti limiti di età, ma continuammo a sentirci a lungo per telefono e per lei era una gioia sentire la mia voce. Ma, a causa della sua galoppante ipoacusia, cominciò ad essere diffidente. Ad ogni chiamata si rifugiava nel rifiuto a rispondere fino a quando io non osai più chiamarla per non procurarle ulteriore paura e tremore. Poi… gli anni sono passati. Il 23 novembre del 2018, uscendo dall’Università (dove eravamo stati ospiti io e il mio carissimo amico e poeta Nico Mori della bravissima, luminosa, sorridente, attenta alle esigenze di ogni suo studente, della prof. Valeria Rossini - mia ex alunna delle scuole medie -, docente associata di Pedagogia, per presentare il mio romanzo Le piogge e i ciliegi, dedicato a mio nonno, presso l’Aula Magna del Magistero alla presenza dei suoi tanti studenti - mattinata davvero memorabile -) lessi il necrologio della prof. Rita D’Amelio, salita al Cielo. Tanti ricordi e tante lacrime. Si concludeva così un bellissimo periodo della mia vita professionale, amicale, affettiva. Dicembre, infine, si apre  con la nascita (2 dicembre 1973) di mia nipote Isabella, figlia della mia amatissima sorella Anna Maria e del suo sfortunato giovane sposo Nicola Parisi; nascita della mia meravigliosa mamma Melina nel lontano  3 dicembre 1919; il 20 dicembre la nascita del mio carissimo amico Biagio; il 23 quella dell’amatissimo poeta e scrittore Nico Mori; il 27 la nascita del meraviglioso, umile, generoso e grande poeta e fotografo di fama mondiale Giovanni Gastel della nobile famiglia Visconti di Milano. Ma devo ricordare tra rinnovate lacrime il volo tra le stelle di Cris e di Sevaggia C Serini, a cui dedico queste parole: alla mia dolcissima GAZZA che mi abita nel cuore da quando ho conosciuto il suo immenso Cuore. Anima di Cielo che svolazza nel mio giardino da quando due anni fa mi sorprese il suo andarsene in silenzio per non darmi pena come una figlia tenera e devota fa con la sua mamma per non morire in due. E lei vive in me più VIVA che mai. Alla mia immensa Selvaggia con tanto AMORE.

E oggi mi fermo qui per non coinvolgervi ancora di più tra le mie lacrime, che non posso fare a meno di versare per le tante perdite, tutte presenti nel cuore. A presto, Angela/lina

 

domenica 5 ottobre 2025

Domenica 5 ottobre 2025: GIORNATA MONDIALE DEGLI INSEGNANTI...

Seneca ha scritto: C'è un vantaggio reciproco (nell'insegnare), perché gli uomini, mentre insegnano, imparano. (L. A. Seneca, Lettere a Lucilio)

È un giorno importantissimo per il mondo intero: l’importanza dell’istruzione e dell’educazione quale diritto fondamentale per ogni bambino a qualsiasi longitudine e latitudine del nostro pianeta. E, così, i ricordi di scuola si affacciano prepotenti nella mente: scolara difficile e senza parole… ragazzina consapevole di amare la scrittura e di detestare la scuola, con i suoi voti, le sue regole, i suoi richiami inutili e demotivanti… insegnante, mio malgrado, in una scuola che mi voleva tuttologa e da cui fuggire appena possibile… docente di scuola per preadolescenti in cerca di una identità provvisoria prima di scoprire, tra crisi e turbamenti, il primo amore e fughe da modelli poco amati di insegnanti restii al cambiamento… io alla ricerca di una dimensione di ascolto dei giovanissimi allievi in cerca di essere compresi e guidati con dolcezza e coraggio per affermarsi nella libertà di scegliere il proprio percorso di conoscenza e di socializzazione, per scoprire intese affettive ed emotive, per riconoscersi, realizzarsi, tra facili errori e dubbi, tra faticose conquiste e poche certezze di sé e del sé. E classi difficili da affrontare quotidianamente e singoli alunni da ascoltare singolarmente per aiutarli nella crescita e maturazione in tutte le direzioni della vita. Ho, ancora oggi tantissime perplessità sulla mia attività di insegnante, e conservo ancora oggi la consapevolezza di non aver mai amato la scuola, ma di aver amato tutti i miei alunni, uno per uno, singolarmente, dialogando col ciascuno, per aiutarli ad affrontare il mondo e la vita con i propri mezzi, le proprie inclinazioni, le proprie passioni. Ancora di più questo è stato possibile come preparatrice, per oltre un trentennio, dei candidati ai vari Concorsi per entrare di ruolo nella Scuola di ogni ordine e grado e… persino per Dirigenti scolastici. Un controsenso? Sì, certamente, nella consapevolezza, però, di comunicare le mie conoscenze pedagogiche, metodologico-didattiche e matetiche con continui approfondimenti per trasmettere, con tutta la passione possibile, la necessità e la gioia di svecchiare l’Istituzione scolastica e renderla sorridente, accogliente e concretamente inclusiva, realizzando con i miei allievi un rapporto affettivo molto forte ed empatico al di là di quello professionale che non va oltre il periodo della stessa preparazione. Rapporto che dura ancora oggi. E di cui vado fiera, come mi avessero appuntato sul petto una medaglia al valore. Non ho mai voluto prendere, però, una specializzazione come insegnante di sostegno perché convinta di non essere in grado di affrontare situazioni di disagio di alunni con particolari problemi di apprendimento, comportamentale e, quindi, anche di socializzazione. In realtà, spesso mi sono trovata a gestire, mio malgrado, casi molto difficili in collaborazione con le insegnanti di sostegno presenti nella mia classe, sempre alle prese con mille difficoltà dentro e fuori la stessa istituzione scolastica che, dopo oltre cinquant’anni dalla Legge n. 118/1971 e la successiva Legge 517 del 1977 fino alla Legge 104 del 1992, non ha risolto, in tutte le loro sfaccettature, i molteplici problemi che l’inclusività ancora oggi comporta.  Innanzitutto occorre avere la consapevolezza che non si può mai scindere la “didattica” (scienza e arte dell’insegnamento) dalla “matetica” (scienza e arte dell’apprendimento) per poter poi applicare la “metodologia” (ossia l’arte di scegliere i metodi più opportuni in riferimento alle aree di forza e di debolezza di ciascun alunno, comprese le individuali inclinazioni, per scegliere insieme il percorso o i percorsi per giungere alla conoscenza “motivata e desiderata” a sempre più vasto raggio. Per imparare insieme, maestri e alunni, in una pluralità sempre più inclusiva di presenze e di voci interne ed esterne alla scuola. Credo, infine, di dover partire dall’“avverbio di tempo adesso” perché, come scrive A.M. Mariani nel suo libro L’agire scolastico - Pedagogia della scuola per insegnanti e futuri docenti, esso rivela un impegno immediato di chi desidera educare e lo fa soprattutto nella scuola. Perché rivela entusiasmo, ma nello stesso tempo la preoccupazione di non procrastinare l’intervento educativo che potrebbe percorrere strade più accidentate in futuro. Perché “adesso” è “l’unica frazione di tempo in nostro potere”. Ma mi sembra inevitabile partire dalle due istituzioni educative fondamentali per la crescita e lo sviluppo del bambino: la Famiglia e la Scuola.  Quest’ultima è l’Istituzione che ha l’intenzionalità pedagogica e le competenze metodologico-didattiche, compresi i mezzi e le attrezzature per svolgere il proprio compito nel migliore dei modi; la famiglia e l’intera comunità in cui opera sono coinvolte per offrire agli educandi più ampi orizzonti di ricerche, scoperte, conoscenze, saperi, applicabili in qualsiasi circostanza e situazione nella comunità di appartenenza. Attualmente, del resto, si assiste a un nuovo fenomeno di abbandono scolastico dovuto spesso alle nuove tecnologie della comunicazione, alle nuove composizioni familiari, che definiscono una diversa dispersione della personalità e una nuova crisi esistenziale dei più giovani scolari e studenti. Definiti, purtroppo, non di rado, dai loro insegnanti “incapaci, demotivati, ingombranti e stupidi”. A tale riguardo, mi ritorna alla mente la grande lezione di Don Lorenzo Milani, il prete scomodo della scuola di Barbiana, che, con i suoi ragazzi diseredati, puntò il dito contro la classe insegnante con la Lettera ad una professoressa in cui, tra l’altro, affermava che la scuola dei suoi tempi era “come un ospedale che cura i sani e rifiuta i malati” e che, dunque, aveva “un solo problema, i ragazzi che dis-perde” (L. Milani e la Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, (prima pubblicazione maggio 1967, un mese prima della sua morte), Libreria Editrice Fiorentina 2017). E, infatti, la scuola, come si veniva profilando in quegli anni, aveva profondamente deluso Don Milani e le motivazioni più profonde è facile scoprirle proprio in quella “Lettera”, prodotta con tutti i ragazzi di Barbiana che “facevano scuola” col “prete scomodo” anche di sabato e di domenica, senza soluzione di continuità, per affermare i diritti dei meno abbienti, attraverso “il possesso e l’utilizzo della “parola-scrittura”, fondamentale per rendere uguale il figlio dell’operaio al figlio del medico o dell’ingegnere. La pedagogia dell’emancipazione di Don Milani fu etico-politica per una società in cammino verso la democrazia e l’uguaglianza. Non a caso, la sua preoccupazione costante fu la scuola statale di quegli anni. “Perché non c’è nulla che sia ingiusto – egli sosteneva - quanto far parti uguali fra disuguali”. Sono passati circa sessant’anni da allora, ma ancora oggi la scuola è rimasta, per alcuni versi, ancora lontana dalla vera inclusione per evitare ogni possibile esclusione, nonostante oggi si parli di “nuovi saperi” in rapporto a nuove “scienze dell’educazione”, come la sociologia, la psicologia, la psicoanalisi, l’antropologia culturale, l’etnometodologia, la statistica, che hanno prospettato nuovi modelli scientifici” di insegnamento-apprendimento in una nuova scuola che si va sempre più facendo promotrice di cambiamento in questa società, come ho detto prima, in continua e rapidissima  trasformazione in tutte le sue istituzioni. Oltre alle nuove costellazioni familiari, per esempio, ci troviamo di fronte a studenti appartenenti ad altre culture, per l’intensificarsi dei flussi migratori, con notevoli problematiche a livello di istruzione, educazione, inclusione nella scuola e nella comunità sociale, con nuove   dinamiche inconsce” nei “processi cognitivi, gli atteggiamenti affettivi, le relazioni sociali ecc.”, come sostiene il prof. Cosimo Laneve nel suo libro La didattica fra teoria e pratica. Diventa sempre più importante allora una scuola accogliente per tutti con la possibilità di scoprire il valore del gruppo per l’apporto di ciascuno nella realizzazione dei molteplici progetti laboratoriali, oggi sempre più frequenti nei diversi “campi dei saperi”. Il tutto deve servire oggi a evitare la nuova dispersione scolastica e la “disperazione” delle nuove generazioni di fronte al devastante futuro che sembra profilarsi all’orizzonte dei tempi bui che stiamo vivendo tra nuovi terribili conflitti mondiali, nuovi totalitarismi, nuovi interrogativi   a cui è difficile rispondere tante sono oggi le contraddizioni della complessità del nostro tempo. Probabilmente tutto si tinge di grossi dubbi e vane certezze in un processo continuo di cambiamento e trasformazione nelle “variegate realtà della vita umana” (D. Capperucci). La maggiore speranza, a mio parere, della nostra riumanizzazione è affidata alla scuola e a quanti vi operano con coraggio, buona volontà, nobiltà di intenti. E concludo con alcuni versi che accendono i nostri cuori alla Speranza, che mai deve abbandonarci

                                                                  … il cielo

                                                                      infinito,

                                                               ciò nondimeno

                                                           del tutto presente

                                                      nella fugace pozzanghera

                                                            (Yves Bonnefoy)

A presto. Grazie. Angela/lina

  

sabato 4 ottobre 2025

Sabato 4 ottobre 2025: A DRAGAN MRAOVIC per il suo anniversario tra le stelle e l'erba dei prati...

Oggi Dragan Mraovic, mio carissimo amico serbo per oltre quarant’anni, avrebbe compiuto 78 anni, se ho fatto bene i conti: 4 ottobre 1947-20 marzo 2025 Dragan, dopo lo sbigottimento, il nodo alla gola, il pianto e il rimpianto, anch’io, in questo giorno così difficile da vivere, voglio dedicarti un pensiero che ti riporti con velieri, “corde, ancore, bussole”, da noi in Italia. Almeno per un saluto, un abbraccio.
Ho cercato tra i tanti file delle tue traduzioni, a cui avrei dovuto fare l’adattamento alla lingua italiana, e mi è venuta prodigiosamente incontro una poesia di DRAGOSLAV GRAOČANKIĆ, tradotta da te ma senza il mio adattamento. Rimasta in attesa, dunque, come tutto il resto. Eppure questo ritrovamento oggi, tra i mille file che imbrogliano e imbrigliano il mio desktop, ha senso e significato. È segno. È emozione e commozione. È poesia. È il tuo amore per l’Italia e per la nostra Puglia. Come sarà facile scoprire. Ed io ci credo ai segni. Niente accade per caso. Eccola così come l’hai tradotta:

DRAGOSLAV GRAOČANKIĆ
VERSO L’ITALIA

A Properzio con ossequi


Quale vento, meglio degli altri,
porta verso l’Italiaдо?!
Siamo così tanto
sfaccendati e sognatori,
perché in noi la voglia è grande
da far perfino questa domanda?!

Dove sono natanti, vele,
corde, ancore, bussole?
Raggiungeremmo la destinazione
magari col vento migliore?!

Se aspettiamo che tutto accada da sé,
se tutto ciò fiaccamente ci attrae, questo 
ci manca comunque qualcosa
stessi forse.

Non siamo abili lupi di mare,
а, аma che ce ne importa!
Conosciamo la terra ferma quanto l’alto mare
e ci sentiamo a nostro agio come a casa nostra.

Forse impareremo tutto lungo il nostro cammino
sulla nostra nave non ancora in vista,
eternamente giovane,
la maieutica,
che ci aspetta pronta, ора
e non confezionabile,
esperienze meravigliose,
dei numerosi suoi ultimi viaggi
dei suoi sempre nuovi vari,
essa che con il tu si rivolge 
alla Cina, al Giappone, alla Somalia -
e per noi si strugge almeno
quanto noi stessi per l'Italia о per l'Italiaci struggiamo.
Mogadiscio, XII / 2017. 

(Traduzione dal serbo a cura di Dragan Mraovic)

Ed ora, carissimo Dragan, dopo essere tornato tra noi, ti so nuovamente in volo verso le rive venerate del tuo Danubio. Fai buon viaggio, amico di una vita! Porta con te il mio abbraccio a Mira, ai tuoi figli, ai tantissimi amici Serbi che mi porto nel cuore. Ma è un omaggio che non può bastare. Oggi ho ritrovato anche un altro bellissimo lavoro di Dragan, scritto in ottimo italiano senza il mio consueto adattamento, rivelandosi non solo ottimo traduttore, ma anche grande scrittore e poeta, sicuramente uno degli ultimi poeti bohemien serbi. Già il titolo mi intriga molto: IL POPOLO DEL VENTO. E parla degli zingari.

Scrive Dragan Mraovic:


La maggior parte della gente ha un’immagine stereotipata degli Zingari, cioè del popolo dei Rom. Si pensa agli Zingari, di solito, come a dei nomadi che chiedono elemosina, fanno furtarelli oppure vanno in giro a indovinare il futuro, il che è abbastanza errato. I Rom, invece, sono uno dei popoli più infelici di questa nostra Terra, ma sono gente dotata di moltissime facoltà, tra le quali non ultima quella di essere artisti, musicisti e poeti spesso di grande valore. Gli Zingari sono un popolo molto sensibile e con una concezione filosofica della vita del tutto eccezionale, tanto da fare invidia a tutti noi, diventati ormai servi della società moderna. Sono un popolo del vento, perché temono i venti che portano il freddo nelle loro povere abitazioni oppure mentre camminano per le strade del mondo. I Rom hanno un animo delicato, fucina di emozioni, e non per caso la loro musica e le loro canzoni d’amore sono, come diceva Cervantes, “la pace dell’animo, la festa dei sensi”. I valori di vita dei Rom non hanno niente a che fare con i valori materiali della società consumistica. Naturalmente, col tempo, anche gli Zingari si stan­no adeguando a certe regole della società moderna, ma il loro senso naturale della libertà e i pregiudizi della gente rendono i Rom ancora un popolo “senza casa, senza tomba”. Speriamo che la cosiddetta gente civile si liberi dai pregiudizi per contribuire a valorizzare un popolo che merita di essere apprezzato, perché ha saputo sopravvivere a tante ingiu­stizie e per di più ha creato un’arte di valore eccezionale, di cui la poesia costituisce una fondamentale testimonianza. In un convegno dedicato allo stato sociale dei Rom svoltosi a Foggia il 17 marzo 2000 gli Zingari hanno detto all’operatrice sociale italiana: “La verità è, signora, che tutti ci chiedono di votare, ma nessuno fa nulla per noi. Forse perché portiamo vestiti poveri e non siamo profumati. Ma, comunque, ricordi che noi puzziamo solo dall’esterno, mentre gli altri puzzano dall’interno!” Avevano ragione quegli Zingari, avvalorati anche da Fabrizio De Andrè che canta “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Comunque, la Regione Puglia ha emanato una buona legge per difendere l’identità etnica e culturale dei Rom, riconoscendo loro soprattutto “il diritto al nomadismo e al soggiorno stabile”, a seconda della loro scelta. Questa legge prevede pure uno stanziamento di fondi per l’educazione scolastica e per l’educazione professionale dei Rom, per la loro sistemazione, per la costruzione delle loro case, per la salvaguardia della loro lingua, ecc. All'inizio di questo secolo in Italia vivevano circa 110.000 Zingari, di cui 70.000 con la cittadinanza italiana. Ci sono Zingari abruzzesi, napoletani, i cosiddetti “napulengre”, cilentini di Salerno, lucani, pugliesi, calabresi, cioè “khorakhanè” prevalentemente musulmani, siciliani (“camminanti” e “kalderasha”), poi ci sono i vari Sinti “(Sinti delle giostre”, marchigiani, emiliani, veneti, lombardi, piemontesi, Gacane dell’Alto Adige, cioè sinti tedeschi). Citiamo pure gli Zingari “carvati”, “lovara”, “rudari”. Ci sono quelli di origine spagnola, polacca, istriana, slovena, montenegrina, romena, poi Zingari “schipetaria” e “mangiupi” della Serbia, precisamente della provincia serba Kosovo e Metohija, e della Macedonia del Nord e del Montenegro. Dalla Serbia provengono anche gli Zingari “mrsnaria”, “bulgaria”, “busnaria”, “banculesti”, “Arlia”. In Puglia vivono molti Zingari “schipetaria” della provincia serba Kosovo e Metohija, soprattutto a Foggia, Lecce, Altamura e Brindisi. Il loro passaggio dall’equilibrio psico-ambientale del seminomadismo allo squilibrio dei campi recintati e delle case popolari nelle città è spesso traumatico per loro, che essenzialmente sono divisi in tre gruppi: nomadi, seminomadi e sedentari. Il nome Rom, secondo me, non è una scelta felice. Questa parola della loro lingua vuol dire “uomo”, termine generico che assomiglia troppo all’“hey man” americano. Cioè, un saluto a nessuno. Un saluto senz’anima. Questo cambiamento del nome fatto artificialmente non cambia nulla nella vita degli zingari. È solo un trucco della società moderna che tende alla superficialità, è solo “il vestito nuovo del re” oppure come canta il nostro poeta Brana Crncevic:

Fui lo Zingaro una volta,
ora Rom, che invenzione stolta!
Ma ciò non m’interessa affatto.
Rimasi ciò che sono sempre stato.


Il termine Zingaro è nobile e poetico, malgrado il suo significato etimologico sia negativo. Ma spesso avviene che il tempo, la storia, l’avvicendarsi delle società e delle culture modificano l’uso delle parole e i loro significati. Cosicché, la parola “zingaro” è evoluta verso la nobiltà, come, al contrario, la parola tiranno, nata con un’accezione positiva, ha acquisito un significato di indiscutibile negatività. Ma poi gli Zingari sono Indiani dell’India, sono i Sinti e altri che ho nominato. Come mai un attore Kabir Bedi, credo amato e rispettato da tutti, sia per noi un Indiano, mentre chiamiamo Zingari i suoi compatrioti venuti dalle Indie secoli fa? Ma allora anche Bedi è uno Zingaro. E ciò non toglie nulla alla sua arte e alla sua personalità. Arrivarono in Europa dalla provincia del Rajasthan in India nel X secolo. Tuttavia, si dice che provengano dal Punjab (India settentrionale e Pakistan), i cui abitanti hanno grandi somiglianze linguistiche ma, secondo altri, i Rom provenivano dallo Sri Lanka, perché la loro base linguistica è identica alla lingua singalese parlata nello Sri Lanka. Tuttavia, poiché i Rom fino alla fine del XX secolo vivevano principalmente una vita nomade ed entravano in contatto con molte culture e lingue, cambiarono, e quindi ci sono molte varianti, circa 80 gruppi etnici. Non hanno una religione unica. La disoccupazione e la povertà, calamità endemiche per la popolazione Rom, affliggono in particolare le donne, la cui aspettativa di vita media è di 48 anni! Tra i Rom sono pochi quelli che hanno ricevuto l'istruzione superiore. Tuttavia, la situazione sta cambiando in meglio e ci sono sempre più membri importanti della società tra i Rom.
Gelem, Gelem è l'inno del popolo Rom, adottato ufficialmente al primo Congresso Mondiale Rom svoltosi a Londra nel 1971. È stato composto, nella sua forma ufficiale, dal musicista serbo Zarko Jovanović, che scrisse il testo in lingua romaní adattandolo a una melodia tradizionale. Nel brano sono presenti riferimenti al Porajmos, lo sterminio di Rom e Sinti perpetrato dai nazisti, precisamente dagli Schutzstaffel, la Legione Nera. Associare gli zingari alla musica è pressoché scontato. La loro cultura è inseparabile dalla musica magica che creano. I loro più illustri musicisti vivono in Russia, Ungheria, Romania, Serbia, Spagna... Il flamenco, considerato musica e danza nazionali spagnole, è di origine rom. I Rom sono i migliori con i tamburelli in Ungheria e in Vojvodina, provincia serba del nord confinante con l’Ungheria, con i violini in Romania, senza parlare dei suonatori di tromba nel sud della Serbia. Мolti sono i personaggi famosi Rom, che non solo non hanno nascosto la loro origine, ma l’hanno rimarcata con orgoglio: Django Reinhard, primo musicista jazz europeo di origini Rom; Pablo Picasso, che dichiarava orgogliosamente di essere un Rom; Yul Brynner, la cui nonna materna era una Rom russa, presidentessa onoraria dell’Associazione mondiale dei Rom fino alla fine della sua vita, nel 1985; Tyson Fury, Rom irlandese, campione del mondo di boxe; l’attore inglese di fama mondiale Michael Caine, insignito di alte onorificenze britanniche e straniere, era di etnia rom romanichael, come Charlie Chaplin, nato a Smetwick, vicino a Birmingham, nello stesso insediamento di roulotte rom dove era nata sua madre; la famosissima attrice Rita Hayworth, nata come Margarita Carmen Cancino, figlia di un Rom spagnolo. In Serbia i Rom sono conosciuti soprattutto nel mondo della musica: Saban Bajramovic, koEsma Redzepova, Usnia Redzepova, Jay Ramadanovski, Boban Markovic. La cantante lirica serba di etnia Rom Natasa Tasic Knezevic ha descritto gli stereotipi che accompagnano i Rom: “All'estero, mi presentano come un'artista, non una donna rom, anche se sono una donna rom”. Gli zingari si chiamano tra loro con l’appellativo di fratello e sorella.
In Serbia i Rom, i nostri fratelli Zingari, sono rispettati e amati. Lo affermano loro stessi. Non c’è alcuna discriminazione o isolamento. Loro hanno pregi e difetti, come noi serbi, dunque nulla che riguardi il colore della pelle o la loro condizione umana e il loro modo di vivere. Loro stessi dicono che la Serbia è il Paese in cui sono di casa. Durante l’aggressione illegale hitleriana della NATO alla Serbia nel 1999, quando noi serbi dicevamo d’essere rimasti soli, perché siamo giusti come il nostro Signore Gesù Cristo che rimase solo sulla croce pur essendo un giusto, i Rom di Serbia ci hanno rivolto un messaggio: “Serbi, non siete soli, noi Zingari siamo con voi!”
Un atto di umanità e di senso di giustizia ignorato dalla cosiddetta comunità internazionale in cui i Rom, gli Zingari, sono gente di grado inferiore.

Continuerò nei prossimi giorni a proporvi il bellissimo e documentatissimo articolo di Dragan Mraovic perché è veramente degno di essere letto per farci riflettere sui tanti pregiudizi che ancora ingombrano la nostra mente nei riguardi degli zingari. Vi auguro un buon fine settimana con la partecipazione in tantissimi allo sciopero nazionale per Gaza per porre fine, anche con la nostra voce, a questo devastante e imperdonabile genocidio e all’imperdonabile comportamento di quanti ci governano. A prestissimo. Grazie. Angela/lina