Oggi la chiesa festeggia San Giovanni Bosco:
patrono degli Insegnanti, degli Studenti e, quindi, dei Giovani, ma anche degli
Editori e gli Ispettori del lavoro. Ed io ho pensato bene di parlare, nel
nostro blog, oggi, di un giovane scrittore, poeta, musicista, compositore,
giornalista e chi più ne ha più ne metta MAURO MASSARI.
È un giovanissimo
talento della parola poetica e della musica. Scrive e canta ballate e canzoni meravigliose.
L’ho conosciuto alcuni anni fa, quando con la SECOP edizioni pubblicò la sua
prima raccolta di poesie e ballate, Tobacco (Tabacco), di una
bellezza davvero da catturare il cuore. Tanto Bob Dylan, moltissimo Mauro Massari. Mi colpirono i suoi versi e mi
ferì la sua voce: triste, antica, solitaria. Quasi avesse molti più anni e un
solo cuore. Di ieri e di oggi. Non gli ho mai chiesto il perché di tanta
tristezza, sperando che, fidandosi di me, fosse lui a parlarmene, ma non è mai
accaduto. Anche perché, pur seguendolo sempre con i pensieri e con l’anima
dovunque facesse un concerto, abbiamo avuto, dopo Tobacco, poche
occasioni di incontro. Alcune però molto importanti, come per la festa dei miei
ottant’anni due anni fa. Mi dedicò l’intera serata con una tenerezza filiale
incredibile. Lui, viandante solitario, in giro per altri orizzonti, oltre sé
stesso. Io sempre più sedentaria e sempre meno autonoma… Ed è stato bello
incontrarci.
Con me, generoso oltre
ogni possibile aspettativa. Alcuni anni fa si offrì, anticipando persino la mia
richiesta, di fare qualche intermezzo musicale durante la presentazione del mio
quasi romanzo, Le piogge e i ciliegi, presso l’Università Popolare
Santa Sofia di Trani. Poi ci ritrovammo nel prestigioso Palazzo Sagges (in Bari
antica), sede della Sopraintendenza Archivistica per la Puglia e la Basilicata,
per una nuova presentazione qualche sua ballata, dietro suggerimento della Presidente
dell’Associazione “Porta d’Oriente”, la carissima amica Cettina Fazio Bonina, “volitiva” (e cito il carissimo amico Luciano Anelli) organizzatrice della
serata, positivamente catturata in precedenza dalla sua bravura.
Ancora una volta mi
disse di sì senza esitare. E “La ballata
in sol” incantò l’attento pubblico.
Di Mauro Massari
Luciano Anelli scrisse: “Ha chiuso la serata il suono soave di una chitarra
magistralmente sfiorata”.
Sono ancora oggi felice
per il mio giovane menestrello.
Allora, per
ringraziarlo, gli promisi che gli avrei dedicato qualche pagina del mio blog,
di cui vado fiera per i 20.000 e passa lettori che lo/mi leggono (lo so se
avessi fatto pubblicità a indumenti intimi - avendo il fisico, l’età e una
buona dose di esibizionismo - avrei milioni di follower, ma ognuno nasce con una
passione e un karma), e gli chiesi di mandarmi qualche notizia sulle sue
molteplici attività di poeta, musicista, cantautore. Lo fece prontamente, come
è suo costume, ma si trattò di una lettera strana di quasi confessione e quasi
introspezione. Una sorta di flusso di coscienza e un glissare sulla realtà dei
suoi giorni. Ma io ho sempre rispettato sia i suoi silenzi sia le sue parole.
Mi piacerebbe, ancora oggi, potergli disegnare (non saprei farlo!) il sorriso
bambino che mai mi è capitato di leggere sul suo volto. Lo stupore che sempre
dipinge il suo sguardo. Ma come lontano. Come mille navi che gli scompigliano i
pensieri per spingerlo oltre la rada. Come un cavallo alato che insegue sogni
mai realizzati. Come filo di aquiloni mai posseduti…
Ma ecco quella lettera:
"Angela cara, mi chiedi mie notizie ed eccomi
qui.
Tobacco è stato un vero
e proprio spartiacque. Due anni dopo la sua pubblicazione, posso dire abbia
segnato un punto importante, di rottura tra un periodo e un altro della mia
vita. Partendo proprio dal tabacco stesso, fedele e cattivo compagno sin
dall’adolescenza, passando alle notti insonni trascorse a battere sui tasti
della vecchia macchina da scrivere di mio nonno, fino ad arrivare a stasera che
ti scrivo con accanto un pacchetto iniziato e mai finito di American Spirit, mentre fumo una
sigaretta dei giorni nostri, di quelle tecnologiche. “Riscalda il tabacco ma
non brucia”, recita la pubblicità. Dovrebbe far “meno male” di una normale
sigaretta. Sarà vero? Ma poi chi decide cosa fa davvero male e cosa no? Il
medico? I giornali? Noi stessi?
Presto o tardi ritornerò ad usare l’accendino, o
almeno questa è la sensazione che ho.
Punto di rottura dicevo. Di rottura tra il passato ed
un futuro che sembra essere fin troppo presente.
In questi due anni ho rotto con un amico, e ne soffro.
Ho rotto con la donna che ho amato forse più di me stesso, e che ha fatto
uscire dal mio petto quasi tutte le parole che ho scritto, come avessi una
lacerazione verticale di 10 cm all’altezza del cuore, flussi costanti di un
dolore che non accenna ad andar via. E ho rotto con Matteo, il mio compagno di
palco, di vino, di silenzi. La metà buona di me, dico sempre, che ho incontrato
per caso nel via vai quotidiano di facce, parole, strette di mano e grigiore.
Ha fatto una scelta di vita importante: è volato con
la sua compagna in Canada, Vancouver, per cercare la sua strada sotto un cielo
diverso.
Solo un arrivederci, forse. Per adesso è lontano e mi
manca tanto.
Dalla sua partenza ho cercato nuovi stimoli attorno a
me, nuove risorse che mi aiutassero a motivarmi sulla difficile strada
artistica che attraversa la mia vita. Confesso la mia debolezza, confesso che
più di una volta ho avuto la tentazione di mollare. Chiudere una volta per tutte
la custodia della mia chitarra, riportare la vecchia macchina da scrivere di
mio nonno, nella sua bella valigetta nera, nella casa in cui l’ho trovata.
Poi ho capito che non è una cosa che si sceglie ciò
che si è. Io sono quello che sono, non lo Faccio.
Fare qualcosa ed esserlo sono due cose molto diverse.
Scrivere e suonare è ciò che sono. Non è un Hobby, come INVECE direbbe mio
padre.
Collezionare monete è un hobby, costruire modellini di
aerei è un hobby.
Quello che scrivo e che canto è il mio sangue.
Ho deciso così di tornare nell’unico posto in cui
sapevo di poter ritrovare voglia e ambizione, Londra.
Ho trascorso buona parte del mese di novembre prima, e
gennaio poi, lì.
Ho fatto concerti, mi sono esibito su tanti palchi, ho
conosciuto musicisti provenienti da ogni parte del mondo.
E ho ripreso a scrivere.
Sì, perché dopo Tobacco mi sono preso del tempo per staccare un po’ dalla
scrittura.
Credo che dopo aver messo tanto di me in quel libro
fosse giusta una pausa, un po’ di tempo per rimettere in ordine i pensieri e i
sentimenti. Per non cadere nel rischio, in cui tanti prima di me sono caduti, di
essere ripetitivo.
Sto lavorando su qualche idea, continuo a scrivere
poesie e mi sta venendo voglia di dedicarmi a dei racconti o ad un romanzo
breve.
Ho delle storie da raccontare e presto o tardi le
racconterò.
Ti allego una delle mie ultime poesie e la tua cara
“Ballata in Sol”.
Che lunga storia ha quella canzone. Mi dicono che 6 minuti e 30 siano
troppi per una canzone. Forse è così. Ma sfido chiunque a far entrare 12 anni
in 6 minuti e 30. Se qualcuno riesce a far meglio, la canzone è sua! Gliela
regalo.
“Quello che il tempo prende, non tornerà”, dice il ritornello. Ed è proprio
vero.
Una delle parole che più mi gira in testa ultimamente è “Perdenza”. Un
arcaismo del verbo perdere. Iacopone da Todi, poeta francescano del 1200, la
usava in relazione alla dannazione, alla perdita dell’anima. Quindi, perdere
qualcosa non di materiale, di fisico, ma di spirituale.
E cosa c’è di più spirituale dell’Amore?
Scrivere mi ha sempre portato ad osservare molto (o forse viceversa) e,
quindi, a credere di saper guardare bene dentro le persone; sapere, con un solo
sguardo, chi ho di fronte. Magari mi sbaglio, ma non credo sia così.
Solitamente, quando sbaglio, lo faccio con me stesso.
BALLATA IN SOL
I treni camminano lenti all’ombra dei nostri ricordi
Tu portavi più lunghi i capelli ed io ti provavo a spiegare
Che non mi importa la strada che hai fatto ormai
Mi importa quella che prenderai
E ancora quante notti la sua voce mi parlerà
Era il mio unico vero amore
Diceva sempre Quello che il tempo prende non tornerà
Come foglie sotto il vento d’ottobre così i tuoi occhi sui miei lasciavi
cadere
Ed io rimanevo in silenzio mentre un cane fuori abbaiava alla sera
Come mai avrei potuto toglierti quello che ami?
Io ti davo le spalle e tu piangevi piano
E ancora quante notti la sua voce mi parlerà
Era il mio unico vero amore
Diceva sempre Quello che il tempo prende non tornerà
Domani è una promessa che io non ti ho fatto mai
e adesso non posso mentire per sapere dove ti sveglierai
sento navi veloci viaggiare nella mia mente
tu mi stringi più forte e mi dici per sempre
E ancora quante notti la sua voce mi parlerà
Era il mio unico vero amore
Diceva sempre Quello che il tempo prende non tornerà
Ogni volta che dicevo rimani non era per farti del male
ma adesso non voglio più dirti cosa è giusto e cosa no
sono solo qui in piedi a chiedermi perché
se mi guardo allo specchio mi vedo con te
E ancora quante notti la sua voce mi parlerà
Era il mio unico vero amore
Diceva sempre Quello che il tempo prende non tornerà
L’ULTIMA SIGARETTA
L’ultima, ti ho detto
Accendendo la sigaretta
Con mano incerta
Sull’innocente veranda
Quando le tue parole sembravano le mie
E ti rivedevo nello specchio
Cantare vecchie canzoni alla radio
Quali non ricordo, davvero
Non ricordo.
Solo dieci minuti, mi hai detto
Mentre il letto
È una brace senza tempo
E la notte
È confusa con il giorno
E la morte
Non è mai stata più lontana.
E ti tocco la bocca
La tocco e la disegno
Come se uscisse dalle mie mani
E ti appartengo, e mi appartieni
Per il tempo di un bacio, piccolo"
Ringraziai Mauro con tutto il mio
cuore di madre e nonna:
GRAZIE, Mauro, per
quello che sei. Per il sangue che versi in ogni poema che sostanzia la tua
vita. Per la tua anima gentile e solitaria. Per la trasparenza bianca del tuo
Amore, cristallo immortale, in cui e con cui anche tu ti immortalerai.
Angela
Due anni fa mi scrisse brevemente, dicendomi che aveva perso sua nonna, altro
punto di riferimento d’amore e solitudine. Piansi per lui, pur sentendo dentro
di me una voce che mi diceva: “Di Mauro Massari sentiremo parlare ancora e
tanto. Perché Quello che il tempo gli ha preso, prima o poi, ritornerà…”.
E Mauro, oggi, sempre
più meritatamente va scrivendo il suo nome sui fogli di nuovi domani, cioè la
prestigiosa testata <L’Edicola del Sud>) con diverse Testimonianze di
grandi Autori, ma anche di poeti e scrittori emergenti…
Ed ecco un racconto
appena inviatomi da Mauro:
L’Edicola Martedì 14 gennaio 2025 Lanarrativa | 11 MAURO MASSARI IL
RACCONTO “In questa lunga notte delle ultime cose” Immagini di un discorso
frammentato La storia, illustrata dalla mano sensibile di Valentina Ruggieri,
esplora dall’interno una relazione complessa, intrisa di intimità quanto di
distanza emotiva. L’autore descrive un incontro onirico, a tratti fumoso, tra
due figure che si sfiorano in un gioco di fragili equilibri Non che ci sia poi
troppo da dire. Le diapositive, sgranate e fluttuanti, sono sparse sul
tavolino, tra residui di tabacco e fondi di caffè. E basterebbe questo, se non
fosse che c’è odore di notte fonda e il mondo intero sta dormendo.
Probabilmente stai dormendo anche tu, o almeno questo dice il bollettino, la
versione ufficiale, così avrai scritto a qualcuno, mentre porti il lenzuolo
sopra la testa, cercando il tuo spazio, la solitudine, quei granelli di
zucchero, di gioia rotonda. Ecco una di quelle cose che non oso chiederti.
Eppure, ci ripromettiamo le grandi domande, noi due, funamboli consumati, ci
sentiamo stupidamente immortali, sfidandoci sempre alla corda tesa, al sangue
come alla tenerezza. Due animali che si ringhiano in cerchio prima di
attaccarsi. La lista dei tuoi desideri Adesso però non è il momento, non è il
caso di allarmarsi, mi parli con voce tranquilla, e tutto sembra essere al suo
posto. La tua è la voce dei vivi, condividi il pane dei tuoi desideri, e tra le
molliche sarebbe bello se, sbadatamente, trovassi me. Invece, inciampo in
applausi invisibili di matita per gli occhi e vestiti da sera, e una pace di
chiese e teatri vuoti, mentre poco più in là solo scogli e acqua salata, cieli
lontani di cui non conosco l’azzurro, io che l’azzurro lo confondo da sempre
col blu, con le pieghe del velluto antico, con quello che porto negli occhi. Ma
tu sei all’altro capo del telefono e i miei occhi non puoi vederli. Allora
tocca guardarmi allo specchio, mettere un dito nella polpa del mattone e
scoprire cosa ne viene fuori: il totale è come una vertigine, tra gli aratri di
ogni ruga che mi si affaccia sul viso, fatico a immaginarmi come un’unità, e
non sarei meravigliato nel ritrovarmi davanti a cento riflessi che mi fissano,
ognuno con abiti diversi. Non occorre spiegare, non serve, hai già le risposte
nelle tasche. Se vuoi vedermi, ti basta guardarti. Eppure indossi il pigiama,
dici, e di tasche non ne hai. Non mi resta che crederti sulla parola, se non
altro per questo grande equivoco della distanza che fa festa tra noi, con un
vociare invadente di posacenere pieni e bollicine nude, questo arrogante basta
luce in cui assomigliarsi al negativo. La ridicola condivisione dei mali.
Viviamo i frammenti di qualche vecchia canzone, di queste risa incoscienti, di
uccellini da salvare dalle onde: sono disincontri i nostri. A conti fatti, il
nostro è solo un tavolo di marmo con una bella scacchiera al centro. Ti prego,
fermati, non so che distruzione porti, mi sembra scritto che la partita finirà
per implodere. E allora il tavolo si aprirà in due, cadranno per tutta la
stanza i pezzi di questo nostro gioco, e la domanda è una sentenza: chi li
raccoglie? Non tu, perché, se ho imparato a dire il tuo nome, sei più brava di
me a chiudere la valigia dei travestimenti, ad andartene via. No, non chiedermi
se a vincere è chi lascia prima il tavolo, o chi lo lascia per ultimo, chi
porta in borsa i cerotti, o chi fa seccare la ferita al sole. So per certo che
mi strappi cose, che mi fai su e giù, simile a una formica curiosa, esplorando
dispense e sembianze, i ricordi assortiti nei barattoli, le briciole di
nostalgia. E succede che ti odio, che giro la testa davanti al tuo capriccio,
in faccia a quelle corrispondenze che riposano al riparo dai traslochi, dal mio
passato. Questa bolla in cui ti guardi, che distruggerai a tuo piacimento, con
un solo battito di ciglia. Alle volte sembri una bambola di pezza che una mano
incosciente ha cucito e scucito mille volte, cercando l’armonia impossibile. Tu
me ne mostri i segni, fiera, come un bambino che esibisce ginocchia sbucciate.
Accendo una bionda e ti ascolto spogliarti. Fuori dai nostri inutili dispetti,
mi ricordi il riflesso dei lampioni sull'acqua, hai lo stesso tremolio inevitabile
e puntuale, gli stessi contorni scostanti. Sembri quasi il racconto di un sogno
ricorrente. E proprio come se stessi sognando, se ti facessi una domanda
qualunque, se provassi a toccarti, ti agiteresti, libera, per difenderti dal
cadere da questa parte. Piuttosto, abiti la dimensione dei gesti meccanici, di
chi rifà il letto ogni mattina, scansando l’idea della felicità, col vento di
bolina che non ti perdona niente, e il terrore della morte, dei ragni, della
follia; ma sono qui per questo, per farti da ponte fino a terra, non ti devi
preoccupare. Sono le paure a rendere tutto più reale, è questo pavimento di
foglie secche e giocattoli rotti. Che stupido sarebbe dirti che capisco, che tremiamo
per le stesse cose. È nel tranello della serenità che il tuo nome diventa
illusorio, se nel mio mondo esisti solo sulla mia bocca. Dopo, hai una casa, un
cane, un compagno, e tutto un elenco fatto di cose che tranquillizzano. Ma c’è
un prima e un dopo solo nei calendari, nel bisogno di dimenticanza quanto di toccarti.
A te sembra non importare, dici «non lo so», tieni gli occhi al soffitto, fai
il morto a galla in un mare bianco di lenzuola, con i capelli che ti fanno da
cuscino, e le tue oscillazioni, fatte di fughe e pirati. Dici che ti spavento,
che non sai gestirmi e, sempre senza guardarmi, rimbocchi bene la coperta, la
regola inderogabile, mi porgi ancora la tua voce incorporea, questo passerotto
allegro e saltellante. Che farcene allora delle nostre incompatibilità in
materia di moltitudini, del nostro guardare sbilenco chi accende la scritta
luminosa, «HAPPY NEW YEAR». Tutto questo è come i primi momenti di un
ritrovarsi dopo molto tempo: sorrisi, domande, lenti allinearsi. Mentre da
sotto, montacarichi d’ombra, sale piano un altro presente, fatto di alghe, e
morsi, e saliva. E sappiamo che questo incontrarsi potrebbe essere devastante,
tu però aggiungi puntuale la postilla, segni a penna l’as te ri sc o: rimandi a
dimensioni parallele, ricordandomi un romanzo da tasca, da momento libero al
caffè, da aereo in piena notte, da hotel innumerevoli. Ora è quasi mattina, ce
lo dice quella luce che si fa capire anche attraverso le persiane abbassate,
come mi hai insegnato nel tuo pensiero di futuro. Forse ora stai dormendo per
davvero, e allora respiro piano per non svegliarti, rimango a cullare il tuo
sogno di dischi che suonano e profumo di bucato, giocando con le dita a
ridisegnarlo nell’aria, per restituirtelo, intatto, ma a misura di due. Non adesso,
domani, forse. Adesso riposi, e ti lascio al tuo mondo di pace, tra richiami di
navi e incontri felici.
È un io parlante il protagonista del racconto. È dentro
e fuori. Spiega la storia dei due protagonisti e la vive, vibrando e facendoci
vibrare per “la presenza emotiva e la distanza emotiva di due corpi che
aderiscono nel letto e di due anime distanti nello stesso letto”. È una notte
come tante, ma anche una notte diversa che si affaccia dalla finestra sul Nuovo
Anno col suo “HAPPY NEW YEAR” che va prendendo corpo e colore e immagine di
cielo/mare sempre discordante dall’azzurro che lo scrittore-poeta-autore ama e
che gli sfugge in continuazione. Sospeso tra “moltitudini” e silenzi di “solitudine”.
Il suo sentirsi solo sempre, anche con una sigaretta tra le dita, e labbra da
baciare per esistere, nonostante in lontananza prema la certezza di “una casa,
un cane, un compagno, e tutto un elenco fatto di cose che tranquillizzano. Ma
c’è un prima e un dopo solo nei calendari, nel bisogno di dimenticanza quanto
di toccarla”. E l’uno si fa doppio senza includere l’altra, un tempo “espediente
comico”: da Plauto a Shakespeare, passando per Stevenson, Oscar Wilde, Pirandello,
Calvino. Non nel racconto di Mauro Massari, dove il doppio è sempre uno nella
solitudine, che gli è propria, nella sigaretta che trattiene tra le labbra e un
caffè per non fare domande a lei, abituata a non dare risposte, ma ripetizione
di gesti di chi non è certa della propria voce in frantumi alle prime luci dell’alba,
che non saluta perché ora dorme, restituendogli un “due” che non è mai tale, ma
si espande su “navi” che promettono “incontri felici”. C’è, però, un “forse”
leopardiano nelle ultime parole di Mauro, un “forse” che azzera certezze e
speranze e rende tutto dubbioso, evanescente, irreale. E la “siepe” è solo una
barriera a quell’infinito che “nel pensier si finge” il grande Poeta
recanatese, per “naufragare dolcemente nel mare delle illusioni”. Più amaro,
allora, il “forse” di Mauro Massari? Ai lettori-“posteri” l’ardua sentenza”(e
cito opportunamente Manzoni? Forse…).