venerdì 13 settembre 2024

Venerdì 13 settembre 2024: settembre senza più mare e un ritorno che sa di scuola...

Ed eccomi qui, non più a fine agosto, ma con i primi temporali di settembre, simili a quelli estivi, brevi ma intensi, con subito un raggio di sole a regalarci l’arcobaleno e un sorriso del cielo, dopo la scomparsa della luna blu che ha riempito i nostri occhi di meraviglia e di sogno. Stamattina un cielo di panna ha salutato alcuni uccelli in volo. Subito ho scritto su Note del mio cellulare per non perderne l’incanto: Settembre/ ombre lunghe s’affacciano/ sul tempo del ritorno/ in una fuga di rondini verso il sole/ e malinconico ricordo di mare./ La promessa azzardata di un ultimo saluto/ si è infranta sulle ali di un gabbiano perso/ chissà dove/ nelle lantane aggrovigliate dei pensieri/ sulla strada della monotonia di giorni/ in debito con l’estate dal sapore d’autunno/ con piogge e temporali e foglie di lacrime e sangue/al trionfo di grappoli tra le mani./ E un richiamo allarmato di ore di scuola/ mute delle voci dei bambini in attesa/ dell’allegria della campanella/del compagno da ritrovare/ del mare al tramonto da raccontare/ come fosse uva rossa a riflettersi nel lago o tra i monti/ e negli occhi che sanno l’arrivederci/ e il suo sorriso/ (ci sono fondali di corallo a ricordare il sogno/  e tramonti brevi a salutare la sera/   imminente nella fragilità del giorno).

I ricordi di scuola si affacciano prepotenti nella mente: scolara difficile e senza parole… ragazzina consapevole di amare la scrittura e di detestare la scuola, con i suoi voti, le sue regole, i suoi richiami inutili e demotivanti… insegnante, mio malgrado, in una scuola che mi voleva tuttologa e da cui fuggire appena possibile… docente di scuola per preadolescenti in cerca di una identità provvisoria prima di scoprire, tra crisi e turbamenti, il primo amore e fughe da modelli poco amati di insegnanti restii al cambiamento… io alla ricerca di una dimensione di ascolto dei giovanissimi allievi in cerca di essere compresi e guidati con dolcezza e coraggio per affermarsi nella libertà di scegliere il proprio percorso di conoscenza e di socializzazione, per scoprire intese affettive ed emotive, per riconoscersi, realizzarsi, tra facili errori e dubbi, tra faticose conquiste e poche certezze di sé e del sé. E classi difficili da affrontare quotidianamente e singoli alunni da ascoltare singolarmente per aiutarli nella crescita e maturazione in tutte le direzioni della vita.

Ho, ancora oggi tantissime perplessità sulla mia attività di insegnante, e conservo ancora oggi la consapevolezza di non aver mai amato la scuola, ma di aver amato tutti i miei alunni, uno per uno, singolarmente, dialogando col ciascuno, per aiutarli ad affrontare il mondo e la vita con i propri mezzi, le proprie inclinazioni, le proprie passioni. Ancora di più questo è stato possibile come preparatrice, per oltre un trentennio, dei candidati ai vari Concorsi per entrare di ruolo nella scuola di ogni ordine e grado e… persino per dirigenti scolastici. Un controsenso? Sì, certamente, nella consapevolezza, però, di comunicare le mie conoscenze pedagogiche, metodologico-didattiche e matetiche con continui approfondimenti per trasmettere, con tutta la passione possibile, la necessità e la gioia di svecchiare l’istituzione scolastica e renderla sorridente, accogliente e concretamente inclusiva, realizzando con i miei allievi un rapporto affettivo molto forte ed empatico al di là di quello professionale che non va oltre il periodo della stessa preparazione. Rapporto che dura ancora oggi. E di cui vado fiera, come mi avessero appuntato sul petto una medaglia al valore.   

Non ho mai voluto prendere, però, una specializzazione come insegnante di sostegno perché convinta di non essere in grado di affrontare situazioni di disagio di alunni con particolari problemi di apprendimento, comportamentale e, quindi, anche di socializzazione. In realtà, spesso mi sono trovata a gestire, mio malgrado, casi molto difficili in collaborazione con le insegnanti di sostegno presenti nella mia classe. Ma è acqua passata. Oggi è mia figlia Raffaella “Una Maestra ma non Troppo”, come si è autodefinita, essendo insegnante di sostegno in una scuola primaria del nostro paese (Corato-Bari), in un suo recentissimo libro, con questo titolo straordinario, suggeritole, senza saperlo, da due suoi alunni molto curiosi, attenti, e dall’intelligenza acuta e sorridente. E, come mamma-ex docente, mi piace parlarne.

È un libro particolarissimo oltre che simpaticissimo, che già dalla grafica di copertina ci invita a sorridere del precario equilibrio che comporta essere, appunto, “una maestra ma non troppo”, sempre alle prese con mille difficoltà dentro e fuori la stessa istituzione scolastica che, dopo oltre cinquant’anni dalla Legge n. 118/1971 e la successiva Legge 517 del 1977 fino alla Legge 104 del 1992, non ha risolto, in tutte le loro sfaccettature, i molteplici problemi che l’inclusività ancora oggi comporta. 

Lo fa Raffaella Leone già con una dedica tutta particolare: Ai miei alunni/    senso vero/ del mio essere maestra/ senza farlo… A tutte le insegnanti e gli insegnanti/ che ogni giorno sono e fanno la differenza… A chi desidera diventare insegnante/   con convinzione e entusiasmo

Poi, ecco una sorta di Prefazione:

Nella mia vita sono andata a scuola due

volte: la prima da alunna, la seconda non è

ancora finita.

Da alunna ho imparato che per imparare

avevo bisogno di capire i meccanismi interni

ad ogni fonte di conoscenza. Le cose stanno

tutte una dentro l’altra, anche le più lontane

tra loro e tutte si possono comprendere.

Da maestra ho imparato che per insegnare

ho bisogno di capire i meccanismi interni

ad ogni stile di apprendimento di ciascun

bambino e tutti, ma proprio tutti, i bambini

si possono comprendere

Con una logica stringente Raffaella comincia il suo racconto, partendo dalla sua esperienza di scolara che scoprì che “per imparare” aveva “bisogno di capire i meccanismi interni ad ogni fonte di conoscenza”. Con la loro consequenzialità, che ne favorisce la comprensione. E dalla sua esperienza, ancora in atto, di maestra che ha scoperto da sola che “per insegnare” aveva “bisogno di “capire i meccanismi interni ad ogni stile di apprendimento di ciascun bambino…”, sapendo che non si può mai scindere la “didattica” (scienza e arte dell’insegnamento) dalla matetica (scienza e arte dell’apprendimento) per poter poi applicare la “metodologia” (ossia l’arte di scegliere i metodi più opportuni in riferimento alle aree di forza e di debolezza di ciascun alunno, comprese le individuali inclinazioni, per scegliere insieme il percorso o i percorsi per giungere alla conoscenza “motivata e desiderata” a sempre più vasto raggio. Percorsi personalizzati, di gruppo, collettivi. Per imparare insieme, maestri e alunni, in una pluralità sempre più inclusiva di presenze e di voci interne ed esterne alla scuola. Seneca ha scritto: C'è un vantaggio reciproco (nell'insegnare), perché gli uomini, mentre insegnano, imparano. (L. A. Seneca, Lettere a Lucilio)

Poi, ecco un modo originalissimo per definire i capitoli che, oltre alla dicitura iniziale, si snodano attraverso i racconti di vita scolastica o di classe, vissuta con gli alunni o con i colleghi in un ipotetico viaggio che li porta a cercare di raggiungere il Paese di CONSAPEVOLEZZA.

I suoi improvvisati mentori (ma non troppo) Gabriele e Federico, compagni di banco, curiosi, attenti, intelligenti, l’hanno dapprima messa in crisi con le loro osservazioni pertinenti e impertinenti sul suo essere, in qualità di insegnante di sostegno, “maestra ma non troppo” e poi, le hanno regalato su di un “vassoio d’argento” il titolo del libro che ho tra le mani. E scopro anche che Gabriele e Federico sono quelli che le hanno comprato e donato due biglietti e sono diventati i suoi compagni di viaggio, insieme a tutti gli alunni, tutti proprio tutti: quelli di oggi e di ieri, ciascuno con una storia raccontata (da raccontare). E ogni capitolo ci regala una sorpresa, un imprevisto, un bisogno o un sogno, che gli occhi visionari (ma non troppo) di Raffaella (sa essere anche razionale, quando occorre) vedono e prevedono, “nel fatale andare”. Ma anche tanti dubbi, tante incertezze, tante amarezze. Tante voci registrate, come un colpo al cuore: essere insegnante di sostegno cosa significa idealmente e cosa comporta realmente? L’ascolto non sempre è facile tra tante voci discordanti che perlopiù ignorano il vero senso e significato di essere, appunto, INSEGNANTE DI SOSTEGNO: come, dove, quando, perché. Anni di studio, esami, confronti continui con varie Commissioni, punteggi, immissione in ruolo… E poi? Quelle voce e l’amarezza che ne consegue. Bisogna fare i conti solo con l’ignoranza di alcuni o dei più? Bisogna imparare a gestire anche tutto questo e il viaggio è ancora lungo. Disperde e aiuta. I ricordi anche. Ma la gratitudine è sempre presente nell’Autrice che, soprattutto in passato ha avuto dei bravi Maestri in famiglia (vedi Zia ANNA MARIA), e nella scuola (ANNA PESCE, nella Scuola dell’Infanzia, e RAFFAELLA PAGONE, nella Scuola Elementare), fino all’indimenticato LIVIO SOSSI, “dall’inconfondibile voce, immenso esperto di Letteratura per l’Infanzia e dell’Illustrazione”. E, insieme alla gratitudine, ecco i racconti salvifici che ricordano le amate figure, e le relative voci, della famiglia: “Nonna Arina”, tra le tante.

E, infine, una maestra, e in particolar modo la maestra di sostegno, deve avere, per saper guardare lontano e anticipare il futuro: “uno sguardo lungo”, “uno sguardo atipico”, uno sguardo asimmetrico”… perché? A questo punto sono io a fermarmi, altrimenti il lettore cosa altro dovrà scoprire? Ci sono persino tanti errori lasciati con nonchalance qua e là… perché? A voi le tante ipotesi di soluzione. A me Non resta che augurarvi Buona e Proficua Lettura! E… alla prossima. Angela/lina.

 

 

 

 

  

venerdì 2 agosto 2024

Venerdì 2 agosto 2024: Un SALUTO A TUTTI voi prima di sfiorare con gli occhi il mare...

Amo visceralmente il mare. E mi viene in mente, in questo periodo estivo di vacanze, una ballata che ho scritto alcuni anni fa e rimasta inedita per tante vicissitudini negative a lungo vissute, prima di poter ritornare con maggiore serenità a riabbracciare le sue onde, dimenticando anche le ballate. Ma ora voglio scriverla per voi. Si intitola proprio “La ballata della lunga onda”: Un’onda m’avvolse dorata/ verde chiara, tenera quasi rugiada/ m’avvolse di ricordi biancospino/ frizzanti bicchieri colmi

di vino./ Vino invecchiato oltre trent’anni/ con tutti i miei amori i miei affanni./ Con lo splendore delle cose passate/ con il dolore delle carezze negate./ Vieni a salvarmi portami un ramo/ di mandorlo in fiore noi due siamo/ vento di mare e canzone di nostalgia/ siamo forse amore o solo malinconia/ siamo campane a festa siamo violino/ siamo silenzio muto e luce del mattino./ siamo distanza vuoto ansia disperazione/ ma siamo anche filo dello stesso aquilone./ Siamo tanto siamo tutto forse solo niente/ ma siamo noi due e siamo soli tra la gente./ Vieni a consolarmi portami del buon vino/ brinderemo al sogno gettato nel cestino./ Vallo a recuperare amore fammi sognare/ non gettare l’ultimo sogno in fondo al mare/ (avremo almeno un sogno da ricordare)

E tra qualche giorno mi portano al mare. Non più nel Salento, come da sempre abbiamo vissuto il mare per lunghe stagioni e tanto amore, ma nelle vicinanze di Roma, dove i fondali non sono limpidi e luminosi come le “Maldive” salentine, ma sono ugualmente belli da guardare e disperdere sulle acque pensieri, ricordi, tristezze e sorrisi. Qualche giorno fa, mio figlio Giuliano mi ha detto che vuole vedermi sorridere ed io “ubbidisco” soprattutto per fargli piacere, ma anche perché sono circondata da tanto amore che sarei un’ingrata se non lo facessi. “Un giorno senza sorriso è un giorno sprecato”, mi ha detto salutandomi perché doveva già andare via. E mi pare che abbia proprio ragione. A lui hanno fatto eco tutti gli altri di casa e le altre figlie che vivono a Roma e sono in attesa di riabbracciarmi con una manciata di mare tra le mani. Non porto con me il computer, ma solo il cellulare. Non potrò scrivere sul blog. Ho fatto al mare una promessa: riempirmi gli occhi del suo azzurro splendore. E ai miei figli di chiacchierare per vivere davvero “INSIEME” questa vacanza. Ritornerò a casa verso la fine d’agosto. E prometto di riprendere a scrivere per essere anche noi di nuovo “INSIEME”. Ma questo periodo di silenzio servirà, credo, a ritemprarci, a fare spazio tra le parole (sempre troppe) che avete letto, con interesse oppure stancamente, perché diventi più motivante il “vuoto” da riempire. Spero di mancarvi almeno un pochino. A me mancherete sicuramente, e tanto. La scrittura è una delle mie principali ragioni di vita. Una risorsa meravigliosa a cui non riesco a rinunciare. Mi mancherà! E, di riflesso, mi mancherete tutti voi. Egoisticamente forse, ma non solo…

E, allora, così come ho cominciato, vi lascio con un profumo di mare tra le dita… e lo sguardo perso nel cielo anche perché oggi si festeggia nel mio paese (Bitonto) e in altri paesi viciniori la Madonna degli Angeli, per cui tutte noi che ci chiamiamo ANGELA facciamo riferimento a LEI, come nostra protettrice e Suo richiamo al volo e a mettere le ali per volare sempre più in alto per trovare l’azzurro anche nel cielo/Cielo, mentre una vela sfiora un’ala di gabbiano e si fa sogno di rinascita per me che ormai vivo in carrozzella.

E ringraziare vorrei dal profondo del cuore la carissima Francesca Pice che, senza saperlo, mi saluta con “l’ondosa azzurrità…”. Grazie e ancora grazie ad Antonio Castellano che ha fatto una doviziosa, colta, attenta, amorosa descrizione della MADONNA DEGLI ANGELI, citando le varie Chiese pugliesi in cui si venera anche con affreschi molto belli e suggestivi ad opera di GASPAR HOVIC, a Ruvo di Puglia, Bitonto, e nel Convento dei PP. Cappuccini di Altamura. E grazie di vero cuore a quanti (tantissimi) mi hanno fatto dono di attenzione, stima, affetto!

Grazie infinite a tutti e buone vacanze! Ci ritroveremo a fine agosto. Ci sarete? Spero di sì!

“QUANDO ANDRAI Al MARE”: non dimenticare i miei occhi/ a riempire panieri di onde/ fiorite di lapislazzuli e stelle marine/ per gl’inverni che verranno./ L’abbraccio di sale sulla pelle di sole./ Il tempo che rimane/ è quello che sogni di conchiglie/ ed echi di mare ha trascinato/ con la sua rete di frodo./ La nenia delle barche il rombo dei motori./ Le mani a nido sul volto levigato/ e gambe a falce tra spruzzi di panna/   a navigare allegria.   / Oggi abisso di rimpianto è il mare/ di piedi nudi disuguali e una scia/ d’azzurro senza la libertà di osare/ eppure gli occhi sono ancora/ approdi d’oceani alla sconfitta dei giorni/ su passi dimentichi ella riva/ (faro e conchiglia per rinascere schiuma di mare)

Ancora INSIEME appena possibile. Angela/lina.

 

martedì 30 luglio 2024

Martedì 30 luglio 2024: SESSANT'ANNI da ricordare...

Verrà il tempo/ in cui, con gioia,/ ti saluterai arrivando/ alla tua porta, e nello specchio/ ognuno sorriderà alla presenza dell’altro.// E dirai, siediti qui. Mangia./ Amerai di nuovo lo straniero che eri./ Offrigli vino. Offrigli pane. Riconsegna il tuo cuore/ a te stesso, allo straniero che ti ha amato/ per tutta la tua vita, che hai ignorato/ per un altro, colui che ti conosce profonfamente.// (…). Siediti. Celebra la tua vita. (Derek Walcott, Premio Nobel 1992)

La notte tra il 27 e il 28 luglio, presso una location molto suggestiva e accogliente, siamo stati in SESSANTA (tra parenti, amici, cantanti, disc jockey, responsabili della bellissima struttura, e del ricco e invitante catering) a festeggiare i SESSANT’ANNI di PEPPINO PIACENTE, Editore della SECOP edizioni e Direttore responsabile dell’Associazione culturale FOS insieme con Nicola Piacente, Graphic Designer delle stesse, impaginatore e autore delle splendide copertine delle pubblicazioni dei nostri Libri e Riviste cartacee: NEDA e CORRELAZIONI UNIVERSALI.

La festa è stata voluta e minuziosamente organizzata dai figli di Peppino: Nicola e Anna Paola, con la consulenza silenziosa e costante di Raffaella Leone, sua moglie da oltre trent’anni. Ne è venuta fuori una notte simpatica, divertente, allegra, ricca di particolari soliti, insoliti, creativi, come la maglietta di cotone su cui sono state scritte per Peppino dagli ospiti, col pennarello, tante parole ed espressioni connotanti il festeggiato nelle sue caratteristiche più salienti. Ne è venuto fuori un vivacissimo, veritiero, megagalattico ritratto che i ragazzi hanno portato a casa come “sacra reliquia” da appendere al muro a imperitura memoria.

Si è ballato instancabilmente come foto e video testimoniano. Persino io sono stata portata in pista da Nicola e Anna Paola per farmi vorticare come una perfetta ballerina “disabile”, ma con le ali negli occhi e nel cuore.

A fine serata, dopo la squisita torta, ancora interventi per rendere omaggio a Peppino con rinnovati auguri, battute affettuose e divertenti, nuove parole per meglio definirlo. Personalmente, con tanta commozione sono riuscita a pronunciare solo tre parole: “pragmatico”, “romantico”, “altruista”, riservandomi di chiarirle meglio scrivendo di lui nel blog, come sto facendo: “pragmatico”, perché Peppino è uomo pratico, concreto, organizzatore nato e determinato di eventi di ogni genere, anche difficili e problematici da risolvere perlopiù da solo con il suo innato “modus operandi” costi quel che costi; “romantico” potrebbe sembrare in netta contraddizione con il primo termine, in realtà, incredibile a dirsi, Peppino è un sentimentale “senza se e senza ma” (si commuove davanti alle storie d’amore, ai film romantici, alle travagliate situazioni familiari di difficile soluzione). Basti pensare che quando si sposò, mentre Raffaella, padrona delle sue emozioni, recitò tranquilla la formula di rito “io prendo te come mio sposo…”, lui scoppiò in lacrime e ci volle del bello e del buono perché riuscisse a completare la frase, facendoci commuovere fino alle lacrime; “altruista” è una connotazione fondamentale della sua personalità. Peppino in famiglia, ma anche con tutti gli altri che conosce, si prodiga in maniera totale. Vengono sempre prima gli altri. A tavola deve servire prima me, poi Raffaella, Anna Paola e Nicola. Poi prepara il suo piatto, preoccupandosi di dare agli altri commensali tutto quello, a portata di mano, che desiderano. Lo stesso avviene con i parenti e gli amici.

Ma Peppino è molto di più di queste tre parole. Ne sanno qualcosa in Italia e all’estero, dove per anni è stato il mio accompagnatore ufficiale nei vari Congressi e Convegni culturali a cui abbiamo partecipato. Mi ha sempre accompagnato, anche con le stampelle o in carrozzella, con devozione di figlio più che di genero. Ed io non l’ho mai considerato mio genero, ma sempre figlio da quando l’ho conosciuto tanti anni fa. Né per lui io sono sua suocera. Nelle varie strutture ospedaliere in cui ho spesso, purtroppo, “soggiornato”, in Italia e all’estero, tutti pensavano fosse mio figlio perché era quotidianamente al mio fianco. Non a caso, proprio per il compleanno dello scorso 28 luglio gli dedicai la seguente poesia: Dove la luna ha incontrato il mare,/ ha incontrato il cielo,/ ha incontrato mille nuvole nere/ che d’azzurro continuo/ ad inchiostrare perché nuovi voli/ negli occhi possa tentare,/ la tua premura di figlio/ ho incontrato/ in quotidiana ansia/ d’allevare i miei affanni/ più veloci del vento veloce/ degli anni pesanti da portare./ Silenziosa cura che il ricordo assorda/ del rosso fragore/ il tonfo delle ossa frantumate/ il pianto muto/ che seppe il prodigio/ di lacrime non versate./ E la preghiera fu promessa/ di ritrovati legami e rinnovate intese/ ad acquietarmi il cuore./ Il mio tempo è ora una vela ammainata/ che ti ostini a dispiegare/ perché il sole/ possa ancora ascoltare/ il mio canto/ (la vita che ti devo è sussurro/ lieve di inosata carezza/ stretta nel palmo delle mani). Buon compleanno, Peppino! (28 luglio 2023).    

Ma non finisce qui. Oggi è la Giornata Mondiale dell’AMICIZIA e io non posso fare a meno di pensare all’altra sera e ai tanti amici a fare corona al festeggiato con sincero e grande affetto. Amici, con cui condividere racconti di noi, simpatiche esperienze e sintonie.  Per me personalmente, sospensione da tutto e soprattutto dal dolore, pur sempre in agguato in questi ultimi mesi sempre in bilico tra nuvole nere e rari momenti di luce e di speranza. Con mille ansie e nessuna certezza; ma gli amici virtuali e reali tra battute e risate hanno reso più vivibile la mia pena, insostituibile la nostra amicizia.

Nella nostra casa, da tempi remoti, abbiamo sempre avvertito il bisogno di sentirci “insieme”. E questo modo di vivere lo abbiamo continuato sia nella nostra casa con Peppino, Raffaella, i ragazzi, sia nelle case dei miei figli che vivono a Roma. L’amicizia è sacra. Riccardo, il compagno di Ombretta, ha amici che frequentavano con lui le scuole elementari e che sono diventati miei amici grazie alla loro frequentazione amicale mai venuta meno nell’arco di tutti questi anni. Lo stesso avviene con gli amici di Daniela e con quelli di Viviana, divenuti amici di Giuliano e, in alcuni casi, anche miei. Non sono mai stata da sola in nessuna circostanza della mia vita. “Essere insieme” è per me forza e conforto. O, quantomeno, “sapermi insieme”, pure nella solitudine della mia casa e del mio lavoro, che ancora oggi mi impegna a trecentosessanta gradi. E anche questo lo devo a Peppino. La nostra casa a Corato è sempre piena di voci e di persone amiche a farci compagnia. Lo stesso avviene nelle case dei miei figli a Roma. Diciamo che è un salutare “vizio di famiglia” che si perpetua nel tempo. Oltre il tempo e lo spazio. Ci sono amici che si sono trasferiti al nord o addirittura all’estero. Con tutti l’amicizia continua anche attraverso le possibilità che oggi offrono i vari social, le videochiamate, i messaggi su Messenger, whatsapp e così via. La vera amicizia rivendica sempre il diritto all’incontro, virtuale o reale, al saluto, all’abbraccio, a un “ciao, come stai?”. Del resto, tutto passa e tutto ritorna nell’incessante movimento dell’esistere. Ma come faccio a non ricordare anche la mia prima caduta  il 29 maggio dell’anno 1993, anno in cui Peppino e Raffaella avevano deciso di sposarsi il X agosto, nella notte delle “stelle a migliaia”. La mia caduta ad una festa e il tac del femore spezzato. Oh, se non ci fossi mai andata a quella presentazione di un libro di poesie, a cui Primo non avrebbe voluto partecipare. Insistetti. L’autrice era una mia cara amica che ora non c’è più. Non volli darle un dispiacere. Ancora oggi sconto pesanti e dolorose conseguenze per quell’appuntamento con il Destino o Karma a cui non seppi sottrarmi. Una brutta frattura solo da me immediatamente avvertita, mentre ben cinque luminari della medicina e chirurgia, ignari della mia resistenza al dolore, mi fecero alzare con la gamba ciondoloni. Mi fecero camminare: tentativo inutile, dolorosamente da me assecondato, per obbedire a chi ne doveva sapere più di me che, invece, sapevo e mi raccomandavo ai santi, senza un solo lamento, per non svenire. (Ma il dolore guardato e non vissuto non si vede e non si sente. Si può solo intuire dalla mimica del volto sofferente. Dalla postura sbagliata, dalla difficoltà del respiro o di un movimento, ma l’intensità del tormento fisico e la resistenza alla sofferenza sono appannaggio solo di chi le prova e fa immediatamente i conti con sé stesso). Mi caricarono sulla macchina di Pinuccio, spingendo dentro la gamba che non obbediva… Giungemmo come Dio volle o non volle (non me lo chiedo più) al primo ospedale e lì finalmente diagnosticarono una frattura del femore sotto capitata e scomposta con immediato ferro come proiettile e senza anestesia a trapassare il ginocchio e immobilizzare la gamba. Intervento non corretto. Firma e fuga al CTO del capoluogo e intervento con viti canulate per salvare il mio femore ed evitare la protesi. Peppino sempre presente, attento, attivo, nella illusione di poter risolvere il problema in poco tempo perché lui e Raffaella stavano preparando il loro matrimonio e mancava poco più di un mese alla cerimonia, che dovettero organizzare da soli e tra mille difficoltà. Alle loro nozze mi presentai con le stampelle a reggere una gamba enorme e tutte le spente speranze, riaccese di verde negli occhi di Peppino, unico immenso amore di Raffaella. E fu una notte di stelle, che solcarono il cielo in una pioggia di sogni che avrebbero colorato anche i giorni dei difficili passi e dei rimandati sorrisi. E, in quella pioggia di stelle, io ferita nel corpo e nell’anima, intravidi il suo preoccupato sorriso, quasi una consolazione di ogni perdita di ogni inganno di ogni muto dolore. Quanti sogni scoprii nella luce dei loro occhi sotto la pioggia luminosa di quel cielo d’agosto!… E quante delusioni! Quante! Solo tre mesi dopo sotto un Cielo dal respiro breve e incerto, interrotto dalla perdita del padre del giovane sposo. Solo tre mesi dopo. Anche per me perdita del suo saluto mattutino alla luce di canti e incanti affettuosi tra consuete sue geometrie (essendo un conosciutissimo ingegnere a Bitonto) di progetti di multipiani da realizzare e mie poesie da condividere in un intreccio di sintonie culturali molto belle. Perdita dei suoi aneddoti, veri poemetti, nel nostro dialetto duro e imperioso, che connotavano tutti i paesani con “rə sopannòmərə (i nomignoli), che meglio identificavano una persona, la sua famiglia, il ceppo d’appartenenza, lavoro, professione, modi di dire o di essere, difetti e rare qualità. Qualche anno prima, sempre il papà di Peppino aveva dedicato una tenerissima poesia nel nostro dialetto a Raffaella, a cui Primo aveva aggiunto un ritratto con inchiostro di china in un abbraccio di capelli e di sogni. Mani protettive e tenere ad avvolgerla tutta.

Seguirono giorni difficili e amari per tutti noi, a partire, almeno per quello che mi riguardava, dalla necrosi del femore spezzato e riattaccato. alcuni mesi prima sembrava tutto superato, con due ortopedici supervisori venuti dalla Francia. Primo pianse di gioia. E mi accarezzò con gli occhi di tenere lacrime. Ma io non mi attenni alle regole. Ripresi a lavorare piegata sull’unica arteria che alimentava la testa del femore, che andò in necrosi, dopo circa due anni. 1995. Ricerca affannosa del nuovo chirurgo per il nuovo intervento. E sotto il cuore di Raffaella a battere un nuovo cuore… Me lo dissero dopo una ulteriore visita ortopedica presso un luminare francese venuto da Saint Etienne nella Capitale; visita brevissima che mi lasciò l’amaro in bocca. Il luminare non era più in grado di operare. Nulla di fatto sul versante protesi. Ma quel segreto mormorato a fior di labbra quasi fosse sogno fu subito felicità. Poi, la corsa a Lione, con Peppino, Raffaella e Nicola a pulsare sotto il cuore di sua madre (ormai le ecografie all’utero erano in grado di evidenziare il sesso del nascituro), per la nuova speranza di camminare come un tempo, in una clinica privata di lusso che prometteva prodigi col verde di giardini fioriti per ogni camera/suite e tanto felpato tepore di mani esperte ad alleviare la sofferenza a coltivare sorrisi e laute mance. E nessuno a salvarmi dai madornali errori del famoso chirurgo, ma tutti pregarono perché ne uscissi viva. Il ritorno fu incanto di Costa Azzurra tra merletti di mare in una Montecarlo che ci affascinò per la sua abbagliante bellezza, e il palazzo del re a frastagliarsi di scogli e la corsa automobilistica di Formula 1 nel serpente di larghe strade e stretti tornanti. E, come d’incanto, due mesi dopo, s’affacciò al nostro mondo quotidiano, per farsi amare, il nostro bambino già viaggiatore: NICOLA. Col nome del nonno paterno che non era riuscito ad attenderlo. Un nome che aveva anche echi lontani di giovane sposo e padre innamorato, rimasto nel cuore di tutti noi. Bambino benedetto, nato di notte, fiore di rossa estate nel prato verde del panno a coprirlo neonato, per la gioia delle nonne (io e nonna Anna) a mangiarlo di meraviglia e di baci. La vita riprese a sperare. Riprese a vivere.

L'inizio di nuova vita che si intrecciò ben presto con un nuovo germoglio nella nostra casa: ANNA PAOLA (1999). E fu nuova magia quel germoglio di rinnovate promesse. La sua nascita nel giorno in cui rinasce primavera. Tripudio di fiori. Luce di sorrisi. Nuovi giorni da vivere tra progetti e rimpianti. Giochi e attese. Impegni e viaggi. Passi ritrovati sempre grazie alle premure quotidiane di Peppino e dei piccoli di casa a farmi tenera compagnia sulla terrazza della nuova casa per aiutarmi a camminare senza stampelle, una villa nei pressi di Corato, dove scegliemmo di abitare insieme, e dove ancora abitiamo. Sono così passati gli anni. L’anno scorso abbiamo festeggiato insieme il trentesimo anniversario del matrimonio di Peppino e Raffaella. Ancora una volta una mia poesia con dedica. Eccola: D’AMORE/ palpitano mani febbrili/ di tenerezza nel portarvi doni/ d’infinite stelle nel giardino/ che questa notte anch’io/   ho sfiorato   / con dita di pianto per i lunghi/ giorni persi nel dolore/ della casa insonne d’intense cure/ e d’infinito amore./ Ma luci a migliaia/ questa notte abbiamo acceso/   INSIEME   / con la follia di giovani folli/  d’indomiti sorrisi  / a far ballare sedia a rotelle/ e sogni e nuvole e aerei/ di un cielo capovolto/ sui vostri   TRENT’ANNI/ già vissuti da vivere con un solo/   CUORE   / in una moltiplicazione di sogni/ che sono ancora tanti/ ancora vostri ancora colmi/ di infinite stelle e il loro canto… (Per Peppino, Raffaella, Nicola, Anna Paola da nonna Lina con immensa gratitudine e tanto tanto cuore…). Il resto e storia di due giorni fa. Peppino è tutto questo e tanto altro ancora. Ho ragione a dirvi che è mio figlio a tutti gli effetti?      

 

 

venerdì 26 luglio 2024

Venerdì 26 luglio 2024: Sant'Anna e ti penso e scrivo ancora di te, come sempre...

Mia carissima ANNA MARIA, stamattina nel dormiveglia, tra sogno e realtà, ho tenuto stretta tra le braccia una bimbetta appena nata che chiamavo Anna Maria. Mi ha pervaso una sensazione dolcissima come se cullassi te, quasi a rinsaldare, ancora una volta, il nostro esclusivo rapporto d’amore reciproco fin dal tuo primo giorno di vita. E, intanto, mi tornano alla mente tutte le emozioni vissute il 23 scorso, durante la messa per il tuo Trigesimo. Siamo purtroppo arrivati tardi in chiesa per via del traffico, ma appena dentro ho scoperto con grande commozione la presenza di Gianni accanto a Nicole e a Nicoletta, nelle ultime file. Gianni ti ha dato ancora una volta la testimonianza del suo grande amore per te e per tutta la famiglia, in un luogo non consono ai suoi principi laici… Un segno forte della tua presenza tra noi tra i tanti che in parecchi abbiamo avvertito in chiesa e soprattutto fuori, dopo la messa. E, per la prima volta, dopo tanti anni, senza averlo preventivato, ho preso dalle mani del sacerdote, che è venuto fino a me, senza averlo richiesto, l’Ostia consacrata. Altra emozione non preventivata. Ma, appena fuori, la tua presenza fra noi è stata, a mio parere, davvero eclatante. Per rinfrancarci un po’, abbiamo raggiunto Gianni fuori con Isabella, Nicoletta, Nicole, e un po’ in disparte Francesco, che tu ami chiamare “Libero” dal francese “franco”, ossia uomo o luogo “libero”, Licia, e altre persone che sono venute a salutarci. Tra queste ultime, alcune signore di… Casalnuovo Monterotaro, il paesino sui monti della Daunia, dove babbo ci portò quando tu e Pino eravate piccolissimi. Mimmo non era ancora nato. Ma la cosa più sorprendente è stata che queste donne hanno parlato di babbo e mamma, di te e di me, delle figlie di zi’ Donato, carissime amiche di mamma, della caserma e così via. Sono rimasta scioccata da questa coincidenza, a cui io non credo. “Niente avviene per caso”, come sai, è il mio motto. Isabella, intanto, distribuiva le preci con la tua bellissima poesia, da me sintetizzata, per via dello spazio da rispettare per la prece, rispettando ogni tua parola. Io all’alba avevo scritto per te la seguente poesia che avevo mandato a Isabella e Nicoletta perché sentissero la mia presenza in un momento così difficile e delicato da vivere: Nei giorni senza tempo/ vibra nell’anima la tua anima/ di voi d’ogni tempo./ Tante quante con la magia/ del tuo cuore hai conquistato./ Nidifica in me la nostalgia del tempo/ che non torna e ritorna nell’eco/ delle passate stagioni/ quando di verde stupore si coprivano/ i giorni delle nostre antiche estati/ baciate dal sole./ Oggi stupore dei miei vecchi anni/ i nostri giorni sanno ancora di magia./ Maga io senza scarpe e a piedi nudi/ sugli incroci del tempo con valigie/ di rimpianti vinti da mai spenta Poesia./ Nel tempo senza tempo che ci vinse/ era complicità d’incontri l’affinità/ di due anime sospese al filo/ della nostalgia, malinconica nota/ vibrante di lacrime e sorrisi/ nei nostri occhi/ di stanca tenerezza che esplodeva/ d’improvvisa risata ad una voce/ prima di ogni improvviso silenzio/ per una nuova emergenza/ ad attanagliarci il cuore./ So di anni addossati agli anni/ So di dolori addossati ad un unico dolore/ quello che fa più male e che ancora/ ha sussurri di mai perduto amore tra noi./ Ma Non rimane il silenzio, non sei solo album di ricordi./ A fatica riprendiamo/ a percorrere strade già percorse insieme/ per ritrovarci/ e raccontarci come un tempo/ con le tue parole sempre presenti/ e quanto mai necessarie a cantare/ con la tua indomabile voce/ il vero senso del tuo volerci uniti/ in te per non disperdere tutto/ l’immenso AMORE/ che per una vita hai saputo donarci… Lina (per la mia amatissima Anna Maria nel giorno del Trigesimo)… 

Anche Raffaella aveva scritto in mattinata una poesia per te ed io ho insistito perché la leggesse, sollecitata a farlo da tutti gli altri. Ed eccola: Nella stanza dei sorrisi che mi hai/ regalato mi rifugio/ A quella delle lacrime/ ho messo il lucchetto/ Per ora non frequento altre stanze/ Non ancora mi appartiene/ quella del silenzio/ Riecheggia la tua voce/ dove mi trovo e sento dirmi l’ascoltato/ e il nuovo/ e neanche il secondo mi sorprende/ Restiamo così finché i colori/ virano tra l’azzurro e il verde/ sospinte dal vento/ in questa bolla leggera/ profumata di sapone

Altra commozione che non ha più parole solo lacrime. Di tutti noi. Nicole mi viene ad abbracciare e mi sussurra parole d’amore, ricordandomi i nostri baci da lontano da conservare nel cuore e si allontana. Isabella chiama Francesco che le si avvicina e le sorride per dissipare le lacrime della madre e quelle di tutti noi. Per ovviare a tanta commozione, andiamo in deviazione ed io mi affretto a parlare di te e del tuo essere una seconda madre per Raffaella che, durante l’adolescenza e anche dopo, le sue sofferenze d’amore le veniva a raccontare a te, non trovando mai disponibile sua madre alle prese con un lavoro immane h. 24, ma questa è un’altra storia. Bastava che salisse al quinto piano per trovare zia Anna Maria ad ascoltarla, consolarla, incoraggiarla con i suoi immancabili sorrisi. E così abbiamo dato la stura ai ricordi, scegliendo quelli più divertenti per sorridere un po’, sentendoti tra noi più presente che mai. Poi, si è fatto tardi e abbiamo preso a salutarci tra lacrime e sorrisi. Ma ecco appena oltre la siepe del sagrato mille bolle di sapone fluttuare nell’aria. Ci vengono in mente gli ultimi tre versi della poesia di Raffaella “sospinte dal vento/ in questa bolla leggera/ profumata di sapone”. E non sappiamo se ridere o piangere. Appena sulla strada, una bimbetta, ignara di essere complice di un meraviglioso prodigio, che ti riguarda e che ci riguarda, sta facendo le iridescenti tenerissime bolle di sapone col suo aggeggino che mi ricorda la nostra infanzia e le mille bolle blu a riempirci di stupore...

E oggi è sant’Anna, una festa di onomastico che ti piaceva festeggiare due volte, grata a mamma e babbo che ti avevano dato due nomi e l’appiglio giusto per i doppi festeggiamenti. Ma io ho un ricordo in più per salutarti non solo con gli auguri di buon onomastico, ma con una bella risata di mai spenta complicità tra noi due. E ritengo che non sia disdicevole parlarne anche in un blog. Le cose di cui vergognarsi dovrebbero essere ben altre, che mai ci appartennero: mentre Lizia ed io avevamo salutato il nostro diventare donne al tempo giusto (12 e 13 anni) tu avevi sedici anni e ti disperavi perché non. E proprio nei giorni precedenti a Sant’Anna cominciasti a pregare la Santa perché diventassi anche tu mestruata e allo scoccare del 26 luglio del ’63 la Santa mi sussurrasti sulla spiaggia di non poter fare il bagno insieme per via delle mestruazioni. Evviva! Scoppiammo a ridere tutte e due abbracciandoci e, dimentiche del bagno a cui non avremmo mai rinunciato per nessuna cosa al mondo, cominciammo a saltare e a ballare sulla sabbia mentre mamma ci guardava con una faccia di dubbioso rimprovero misto a stupore. Ci avvicinammo alla sua sdraio per tranquillizzarla.

Primo, ignaro di tutto, ma sempre pronto a immortalarci con la sua macchina fotografica, riprese il tuo luminoso-malizioso sorriso…

Buon Onomastico, Anna Maria mia! Lina  

domenica 21 luglio 2024

Domenica 21 luglio 2024: ANNA MARIA dopodomani il TRIGESIMO e non mi sembra vero...

Riguardo in continuazione le tue foto, le nostre foto insieme, nei luoghi abitati in tutte le età della nostra vita, per trovare un appiglio di sopravvivenza, una ragione, un terrapieno che non riesco a trovare. Precipito in un vuoto che è solo pieno di te, della tua assenza/presenza. Tu mia roccia, mia ala protettrice sempre in un intreccio di noi che sapeva di magia tra dolore, sempre presente alle nostre vite, e allegria, sempre presente alle nostre vite.

In questi giorni ho riletto per la centomilionesima volta il romanzo da te scritto Gelido è l’inverno, e trascorro il tempo immergendomi nei ricordi. E non so più se è un bene o un male. Il naufragio è sempre a portata di mano. Leggo e rileggo la tua dedica: Alla sorella del cuore/ sorella gemella/ un solo cuore/ un solo sentire/ tanto AMORE/ tanta DISPONIBILITA’// Con un affetto grande quanto il mondo intero, Anna Maria.

Ed io per il tuo meraviglioso quanto amaro libro scrissi una sorta di presentazione/recensione: Diario epistolare: niente di più intimo. Non è facile entrare in questo libro perché è come un “tabernacolo”, con la sacralità del Corpo di Cristo in un’Ostia consacrata: sangue, martirio, morte e resurrezione. Anche in questo libro, infatti, vivono questi quattro elementi, che rendono sacro quanto Anna Maria ha scritto. Scrivere è anche perpetuare. E questa scrittura serve per tenere in vita l’uomo amato e perduto, e per tenersi in vita. Dunque, la scrittura che salva l’uomo amato e salva l’Autrice. La scrittura, per conservare una testimonianza d’amore e di dolore. Il “conservare”: quale atto d’amore più grande! Conservare, del resto significa “custodire”, “proteggere”, “salvaguardare dai pericoli”, “tutelare”; significa “prendersi cura” perché niente venga sciupato, si perda. Conservare è, dunque, anche la testimonianza di un amore che non può morire. Un testamento: eredità più preziosa di ogni altra. La pubblicazione: atto di coraggio che vivifica l’amore e il soggetto/oggetto di così tanto amore. Rendendolo immortale. Per questo “conservare” diventa anche sinonimo di “tramandare” per lasciare “traccia”, non orma che potrebbe svanire, ma solco profondo che rimane.

Ma, ancora più importante di queste mie osservazioni sul tuo libro è la lettera che ti scrisse la grande poetessa fiorentina Mariella Bettarini, mia coetanea e mia preziosa amica: Carissima Anna Maria, anzitutto, ti chiedo il piacere di darci del tu, e spero tu sia d’accordo… Ho appena finito di leggere, con immensa, dolorosa, ma anche lucente partecipazione, il tuo magnifico diario epistolare “Gelido è l’inverno”, che la tua carissima sorella Angela mi ha fatto avere. Credimi: sono rimasta “folgorata” per l’intensità dell’amore, dei ricordi, della dolcezza, della tenerezza, dell’empatia che questa tua scrittura emana, facendo condividere tutto questo ai tuoi lettori e alle tue lettrici, pure con l’arricchimento di tante immagini fotografiche, che vivacizzano in maniera straordinaria (e impensabile) quanto scrivi. Grazie, grazie di cuore, Anna Maria carissima, di questo meraviglioso tuo DONO a noi tutti, che abbiamo avuto la grazia di leggerti! Grazie infinite, e mille auguri a te, alle tue figlie, ai tuoi nipoti e a tutti i tuoi cari e care (a cominciare dalla nostra preziosa Angela), anche per l’anno nuovo, naturalmente con un grande abbraccio da parte di Mariella Bettarini.

Poi, rivolgendosi a me: Angela carissima, spero che con la carissima Anna Maria si divenga amiche reciprocamente preziose. Il suo amore, la sua immensa sofferenza, così profondamente espressi nella sua scrittura, mi sono davvero entrati nel cuore…

Nel libro, infine, ci sono molte altre mie annotazioni, altri miei interventi per essere quanto più vicina a te e a Nicola, che di riflesso amavo come un fratello. E che dire delle tante foto sue, di voi due, dei suoi quadri? Erano intrisi, questi ultimi, quasi tutti di grande tristezza e malinconia. Quasi un presagio ad accompagnarlo nella sua breve vita. E tu, giorno dopo giorno, annotavi tutto perché niente rimanesse oscuro del suo passaggio breve su questa Terra. Del tuo annullarti in lui e lui in te. Dell’intrecciare continuo della mia vita alla tua, e alla sua. Molto significative sono le ultime pagine del libro, in cui parli della forza dirompente del tuo amore per lui, del suo amore per te. Dei tantissimi sacrifici per coronare il vostro sogno. Ma… “troppa felicità fa ingelosire gli dèi e… non tutte le favole hanno un lieto fine!”. Questo hai scritto nelle ultime pagine. 

E meravigliosa testimonianza è anche la pagina, intitolata “OPERE DI NICOLA PARISI (1940-1974)” di Domenico Danza, bravissimo critico d’Arte che, tra l’altro, ha scritto: Un cenno a parte merita “L’autoritratto” (opera andata dispersa, per ragioni sconosciute): è una composizione che va oltre i limiti del tempo, che l’autore avrebbe potuto dipingere, indifferentemente, in altre circostanze, passate o future; qui la sua personalità è viva e presente, riflessa come in uno specchio: il tratto è rapidissimo, lo sguardo acuto, l’introspezione psicologica profonda…

Poi, incontrasti Gianni e con lui, dolorosamente, ma quotidianamente, stringesti un “patto d’alleanza” per mettere insieme i cocci di devastanti dolori, vissuti da entrambi, per costruire pezzo dopo pezzo un rapporto d’amore che fosse àncora di salvezza per tutti fino ai piccoli nati che rappresentano una nuova speranza nella VITA. Quanto importante darsi sempre la mano per non essere mai soli. Tu lo hai insegnato a tutti noi. E noi dobbiamo fare tesoro di questo tuo modo di essere che non escludeva mai nessuno, che “raccoglieva” ed “accoglieva” per costruire sempre nuovi legami, in cui ritrovarsi tutti come in una grande famiglia, che non conosce confini, ostacoli, riserve, rifiuti, esclusioni, divisioni, ritorsioni. Ciascuno aveva la sua importanza nel tuo cuore generoso. Ne è testimonianza la pagina 184 del tuo libro, riservata alle DEDICHE E RINGRAZIAMENTI, dove scrivi: Sono stati molti i gelidi inverni, trascorsi senza Nicola ed ho atteso con pazienza e un filo di speranza una primavera che riportasse foglie e fiori ai miei alberi ormai stanchi. Le primavere sono tornate ad ogni nascita dei miei nipotini… Questo libro è soprattutto un DONO per loro, perché un giorno saranno curiosi di sapere chi era Nicola Parisi e quali erano le sue caratteristiche…

Sento, però, il desiderio di dedicare questo diario anche al mio attento e premuroso compagno di vita, Gianni Brattoli, alle mie figlie Isabella e Nicoletta con i loro mariti Michele e Nicola, ai miei adorati nipotini: Nicole, Sofia, Francesco, Andrea; alle mie sorelle, ai miei fratelli, ai miei cognati: Anna, Mariella, Lina Graziella, Felice.

Una dedica agli affezionatissimi nipoti Raffaella e Peppino (a cui va il mio grazie), uniti a Nicola e Anna Paola; a Ombretta, con Riccardo, a Giuliano con Viviana, e a Daniela.

Una dedica ai doppiamente nipoti Gianfranco e Fabrizio e anche a Leila e alla vivacissima Silvietta.

A Carmela e Vito Parisi.

A Marica e Anna Maria con i relativi coniugi e figlioli.

A Eliana e Raffaele.

E poi: a Davide e Micaela e ai loro piccoli: Elisa, Riccardo, Gianluigi.

Ai cari Tiziana, Paolo con Claudio e Roberto, Marcella con Martina e Stefano.

A Silvana e Felice Brattoli con Giuseppe.

A Ida, Mirella, Leo e rispettive famiglie.

A Rosetta, Agnese, Sabino, Giovanna, Felice e Piera.

Agli amici poeti e scrittori, conosciuti in passato e agli amici poeti e scrittori della grande famiglia SECOP.

Un grazie speciale a mia sorella Lina, che mi ha incoraggiata ad aprirmi a un più vasto numero di lettori e che, negli ultimi tempi, mi ha sostenuto nei momenti critici.

Grazie a tutti, con affetto. Anna Maria.

Non un solo filo d’erba è sfuggito alla tua generosità. Alla tua gratitudine. Ai tuoi “alberi sempre pieni di foglie, di gemme, di frutti”. Nonostante le immani sofferenze, accettate stoicamente. Nonostante l'inevitabile stanchezza.  

E stanotte il nostro ininterrotto dialogo si è arricchito del tuo sorriso di passaggio sul mio letto, a riscaldarmi il cuore, mentre eri circondata da tanta LUCE dorata che non offuscava le stelle.

 Noi due/incontro di anime/ che non esclude/ il Cielo…

 E dopodomani sarò ancora con te. Lina

 

martedì 16 luglio 2024

Martedì 16 luglio 2024: ANNA MARIA e le sue infinite risorse vitali... (5)

Anna Maria carissima, oggi è la festa della Madonna del Carmelo, la festa sempre tanto attesa dell’onomastico di mamma da parte di tutti noi perché lei ci teneva tanto e tutti noi eravamo felicissimi di essere insieme nel cortile del gelso e le rose, tra mille colori e mille profumi estivi. Nel cortile, simile ad una fattoria, attraversavano i nostri occhi e i nostri giorni d’estate il cane (Lola) le galline il gallo e i pulcini le paperelle e le ochette gli uccellini (canarini cardellini l’usignolo il pettirosso), le tortore, i colombi. Poi, c’era la stalla con il cavallo fulvo, Fiorello. E sui fiori i petali in volo di bianche farfalle a deliziare il prato (farfallina bella e bianca/ vola vola e mai si stanca/ gira di qua e gira di là/ poi si posa sopra un fior… io e te cantavamo ad una voce). Il gelso rosso, le rose rampicanti sempre fiorite, il sole, il cielo grande. Il pergolato con pampini e grappoli d’uva rossa e bianca con una condivisione strana di zucchine a forma di lampioni di colore verde e arancione, molto decorative e squisite da mangiare. Facevano delicata ombra sul tavolo con la grande panca, entrambi di pietra, sotto la finestra della cucina con le porte laterali simili a enormi occhi accesi per illuminare le stanze della casa. E mi viene incontro un ricordo: una volta il nonno fece montare la pecora che, insieme ad una capretta, aveva comprato per procurarci, munto dalle sue mani, quotidianamente, il latte fresco, presso un pastore per avere un agnellino e tu, venuta in vacanza da noi, ti trovasti per caso ad assistere alla sua nascita per la curiosità inarginabile che ti contraddistingueva, nonostante i rimproveri di nonno Mincuccio, che non voleva che tu stessi con loro adulti nel cortile. Ma tu non si spaventasti minimamente come era successo a me qualche anno prima con i maiali. (Qui, però, si trattava di nascita, lì di morte). E questo mi serve per ribadire il tuo essere forte e coraggiosa in ogni circostanza della tua vita. Ma i ricordi non possono, oggi, fermarsi qui. La saracinesca divideva il cortile dalla strada, ma appena vi si entrava c’era sulla sinistra una buganvillea superba color ciclamino a dipingere gran parte del muro che si affacciava sul nostro meraviglioso cortile, ricco di archi e di tutte le nostre amate cose da cortile, compresa la finestrella con rose rampicanti e le foglioline tenerelle che si affacciavano ogni mattina a salutarci (Tra i rami del gelso rosso/ È fiorita la luna/ S’è impiastricciata di fuoco/ Le labbra/ Alla mia finestrella di rose/ S’è affacciata/ M’ha lasciato un bacio/E un sorriso/ (poi… è volata via) da: “Il gelso rosso, la luna e una finestrella di rose” (poesia inedita di a. d. l.)

Detto tutto questo, che non ha molta importanza rispetto a tutto il resto, voglio parlare di te e di quante ne combinavi non appena arrivava luglio e si profilava l’urgenza di racimolare un po’ di lire (un po’ tante!) per fare un bel regalo alla nostra adorata mamma. Era il tuo momento, per le tue tante “mission” impossibili. Questa forse più delle altre. Ricordi?

Intanto, tiravi a lucido la casa da sola, tutti i giorni, in men che non si dica. Eri un maschiaccio col viso di angioletto, poco celestiale e molto terreno: grandi occhi curiosi e larghi sorrisi di malizia e di allegria. La sua gioia di vivere! Poi, ti davi da fare per ben altro, con la segreta adesione di Lizia, perché amavamo fare i regali a tutta la famiglia e soprattutto a mamma, per il 16 luglio, e ai nonni che festeggiavano il loro onomastico per ben tre giorni, dal 2 agosto, la Madonna degli Angeli, al 4 agosto, San Domenico. Ti ricordi? Eravamo soliti festeggiare mamma e più tardi il tuo onomastico, il 26 luglio, Sant’Anna, che amavi festeggiare due volte per via di quella Maria che non dimenticavi mai, e poi quello dei nonni con un lungo strascico di visite, di auguri, di dolci e rosoli. Con fichi, gelsi rossi e rosse angurie. E l’immancabile gelato, di cui tutta la famiglia era ghiottissima. Come dimenticare quegli onomastici con “triduo” finale di festosa accoglienza di amici e parenti e conoscenti nella nostra casa del gelso e delle rose. In quelle circostanze, tu, oltre a tutto il resto, rivelavi tutta la tua intraprendenza: mentre io accumulavo le uova fresche che ogni mattina la nonna ci dava da bere e le conservavo accuratamente per nasconderle ad occhi indiscreti degli adulti, tu, munita di ampia borsa, di nascosto andavi a venderle a Pino, il nostro salumiere di fiducia, che tra l’altro era in affitto in un nostro appartamentino nel più ampio appartamento riservato a mamma e babbo al primo piano, con affaccio proprio sul nostro cortile, e sapevi contrattare anche sul costo di ogni uovo tanto da portare a casa e da me, che t’aspettavo al palo, una insperata sommetta, che ci permetteva di comprare dei regali anche abbastanza costosi e belli. Io non sarei andata a fare quelle “missioni impossibili” neppure sotto tortura. E neanche gli altri nostri fratelli e sorelle, nati via via col passare degli anni. Solo tu. E tu, in verità, ci provavi gusto. E saltellante e spensierata come una gallinella ti avviavi con il paniere delle uova, nascosto nella tua borsetta e in quella sempre più capiente della spesa, e te ne tornavi più leggera a passo di danza e con un’impagabile espressione di luminosa furbizia sul volto. Io t’attendevo sempre con apprensione sul marciapiede, per ulteriori complotti organizzativi. Tu, un vulcano con gli occhi, con la mente, con le mani. Un vulcano nel cuore. E non ti rivolgevi solo al nostro salumiere che, complice, sorrideva al tuo modo di essere così spigliato e risoluto, ma anche a Franceschina, la cugina acquisita di mamma, avendo sposato Pasquale, il figlio di zio Michelino che, aveva insistito col nonno, suo fratello, affinché dividesse il grande palazzo di via Generale Montemar, in due parti, essendo enorme per una figlia sola, nostra madre, sia pure con il seguito di ben sei figli. Ma, al tempo della divisione della casa, non tutti erano ancora nati.

Ebbene, prendevi le altre uova e le portavi su da lei e te le facevi pagare care, dicendole che servivano per i regali a mamma e ai nonni. Insomma, eri irrefrenabile. Col tempo siamo io e Mimmo,  Mingucc e Angelin, a continuare, sia pure da lontano, a mandarci gli auguri per un onomastico mai dimenticato. E pure Mimmo, nella circostanza, mi fa morire dal ridere per le sue battute autoironiche. Altre complicità, altri modi di sentirsi insieme. Ma nessuno di noi ti eguaglia quanto a gioia di vivere. Per questo anche babbo si lasciava vincere dalla tua esplosiva carica di vitalità e mal sopportava, la mia flemma, il mio romanticismo, la mia aria sognante, la mia esasperante lentezza nei lavori domestici. Facevo tutto all’ombra dei miei pensieri che vagavano ora luminosi ora cupi in un altrove che mi estraniava dal “qui e ora”. Io scrivevo e sognavo e basta. Anche soltanto con la mente, scrivevo. Anche soltanto con il cuore, scrivevo. Cantavo ancora, molto spesso (l’uccellino di gabbia non canta per amore canta per rabbia…, tutti a prendermi affettuosamente in giro). E ogni mia azione seguiva il ritmo del canto, che non era mai allegro e veloce, ma sempre languido, lento, lacrimevole, appassionato. Io e te, in queste cose, avevamo passioni diverse, ma sempre tanta complicità. E delle nostre complicità parlerò ancora perché erano tante e tutte legate alla tua intraprendenza e al mio venirti dietro a rimorchio, consapevole dei miei limiti e del tuo coraggio. Intanto, mi piace ricordare che mamma mi sollecitava a scegliere canzoni più allegre per svolgere le faccende domestiche con maggiore celerità: se ne sarebbero avvantaggiati l’orecchio, l’umore e la casa. Ma io non potevo rinunciare a sognare e a mettere fuori tutta la tristezza di una condizione di continua libertà vigilata, di mal sopportata sudditanza, di un amore folle e non sempre corrisposto in ugual misura. Le canzoni che parlavano di amori infelici erano il mio repertorio preferito. La mente vagava lontano e la possibilità di sbagliare era sempre molto concreta e vicina. Tu ridevi divertita nell’ascoltare il mio canto languido e sognante, così diverso da quello tuo: grintoso, arrabbiato, urlante ma quanto più efficace del mio! Sapevi che era nella mia indole perdermi nella musica e nelle parole e che niente e nessuno avrebbero potuto darmi mai un ritmo diverso. Un diverso appiglio. (Persino già avanti con gli anni e nonna, nei rarissimi ormai miei abbandoni al canto, ho fatto ridere figli e nipoti quando, un giorno, riproponendo il canto allegro e ironico di un presentatore della TV, mi sono messa a canticchiarlo con la mia solita passione sofferente di disteso infinito languore. E con una lentezza esasperata. Esasperante. Faceva più o meno così: “esilarante esilarante”(con voce baldanzosa e irridente). La mia versione fu: “e s i l a r a n t e      e  s  i  l  a  r  a  n  t  e         e   s   i   l   a   r   a   n   t   e”, interrotta dalla irriverente stratosferica risata dei miei cari ascoltatori che mi sollecitarono d’una voce: “più ritmo, mamma, più brio, essù!!!”. E i due nipoti a sbellicarsi dal gran ridere: “più swing, nonna, un po’ di allegria, dai… così ci fai addormentare!!!”. E tutti proprio tutti fecero un coro ballante di “esilaranteesilarante”, in una sarabanda che sembrava non dovesse avere fine. Ridemmo tutti fino alle lacrime. E la risata micidiale, anche se affettuosa, si ripropone ancora quando abbiamo un po’ voglia di scherzare sui miei limiti e sulle mie virtù). Come potevo piacere a mia padre che, pur amando la musica, il cinema, la letteratura, era un uomo concreto, legato alle ferree regole della vita militare, in cui ognuno doveva svolgere un compito ben preciso e senza commettere errori? Come potevo piacergli se era reduce da una guerra e una prigionia che gli avevano tagliato sogni e azzerato illusioni, di cui io ero irriducibilmente impregnata? Come poteva prendere in seria considerazione le mie inconsistenti fanfaluche lui che era abituato a leggere gli autori russi, francesi, americani di altissimo spessore letterario: Delitto e castigo, Guerra e pace, Anna Karenina, I fratelli Karamazov, Bel ami, I miserabili, Madame Bovary, Addio alle armi, Per chi suona la campana, Il vecchio e il mare, Uomini e topi?… Eravamo inconciliabili: emotivamente e affettivamente lontani anni luce.

Con te è stata tutta un’altra storia per una intera vita. E io sono stata sempre felice per te che eri, giustamente così amata da lui per la tua personalità così forte, poliedrica, determinata, volitiva. Senza mai perderti, come me, in mille rivoli di sogni ad occhi aperti e senza un minimo di concretezza. Tu, infatti, portavi a buon fine alla grande ogni impresa intrapresa. E sapevi scegliere ottimi regali, scontati al minimo prezzo possibile dai negozianti a cui ti rivolgevi. Io e Lizia ci affidavamo a te ciecamente perché noi non avremmo saputo fare altrettanto. Caratteristica che hai conservato fino ad alcuni anni fa, quando il primo ictus piegò la tua forte fibra ma non ti vinse. Poi… non voglio più ricordare… Continuo a viverti accanto con le mie parole, le mie lettere quotidiane. Le lettere che arrivano lassù sono come le lettere d’amore che sembrano voli di aironi o strascichi di stelle. Vanno. Illuminano. Non fanno rumore.  E dolcemente si posano sul cuore. In una carezza che non può morire.

E oggi festeggi anche tu con mamma, che hai tanto amato e che tanto, insieme a babbo e a tutti gli altri, ti ha amato, il suo onomastico che si perpetua in quello delle nipoti che continuano a portare il suo nome, modificato in qualche modo, ma sempre di Carmela si tratta...

E mi fermo qui. con un abbraccio a tutti voi che state facendo festa tra gli angeli e le stelle. Lina

 

 

 

 

 

sabato 13 luglio 2024

Sabato 13 luglio 2024: ANNA MARIA... (4)

Non va meglio per me dopo la caduta. Da due giorni riesco a puntare meglio i piedi sul pavimento e a mettere giusto tre passi per farmi sistemare sulla sedia a rotelle e provo una pena grande perché non posso dedicarmi a te, Anna Maria mia, come vorrei. Troppo dolorante per essere serena, e con un enorme ferita dentro in cui annego il dolore per non piangere. Lacrime sempre in agguato. Ma intanto mi corrono incontro altri ricordi di quel periodo insieme sui monti di Casalnuovo Monterotaro. E te li racconto perché riguardano anche te, piccolissima e adorabile.

Per fortuna, in quel paesino, avevo scoperto, andando un giorno con mamma e babbo in paese, il fotografo Nasillo che ci aveva portato nella camera oscura dove avevo visto fiorire nell’acqua su cartoncini bianchi, lentamente, volti e case e alberi e profili di monti e sagome d’animali. E quel prodigio diventava esaltante quando quelle foto venivano appese con le mollette a fili di zinco come fazzolettini che sventolavano da un treno lungo lungo per un addio o un arrivederci. Oppure, come me, erano colombe in cerca di libertà e di sole, ma trattenute da quelle mollette a tarparne il volo, in quella penombra semibuia rischiarata da caldi fari per agevolarne l’asciugatura.

Per me, Nasillo era un vero e proprio mago in carne ed ossa (altro che il mago di Oz!), tanto da far affiorare dal nulla quelle meravigliose immagini, prima riprese, con un semplice scatto, dalla macchina fotografica. Questa era una grande scatola nera a fisarmonica, poggiata su un trepiedi pure nero in una saletta semibuia. Dietro la scatola c’era un panno nero dove spariva la testa del fotografo e una peretta che lui stringeva con la mano ogni volta che un lampo attraversava l’enorme occhio aperto sulle cose e le persone, che sembrava venissero mangiate come se quell’occhio, che si apriva e si chiudeva, diventasse una enorme bocca vorace. Improvvisamente quelle cose o persone, mangiate da quell’occhio-bocca, ricomparivano sui fazzoletti bianchi messi nell’acqua e stesi ad sciugare davanti alla lampada accesa. Un prodigio, che mi piaceva osservare ogni volta che ci capitava di passare dal suo studio fotografico. Il fotografo Nasillo era un prestigiatore-illusionista

da ammirare incondizionatamente.          

Fu allora forse che cominciai a non avere più paura del buio? Forse sì. O, quantomeno, cominciai a scoprire che era nel buio che avvenivano i prodigi, si compiva il mistero delle cose, si dischiudevano i sogni, germogliavano i bambini… Quante foto bellissime venivano scattate anche a te con i tuoi favolosi cappellini, con i tuoi riccioli bruni che incorniciavano il tuo visetto sorridente o corrucciato per qualche capriccio che mamma e babbo non potevano esaudire in quel momento: cioccolatini, caramelle e gelati di cui eri particolarmente ghiotta. E ne ero ghiotta pure io. Altra caratteristica che ci ha sempre viste complici fino a tarda età.

Per fortuna, poi, c’erano anche il cinema e le lucciole. E anche questi erano miracoli che si accendevano nel buio: lo schermo e le storie nel buio del cinema; le lucine vibranti nel buio della sera. Spesso con mamma e con le mogli e i figli degli altri militari andavamo al cinema. Per raggiungerlo dovevamo attraversare alcuni campi della periferia che brulicavano di lucciole (noi siam come le lucciole/ brilliamo nelle tenebre… ma era un’altra storia che mi sfuggiva). Io mi perdevo in quelle stelline affioranti sul prato. Nel cinema, mamma era sempre attenta a coprirci con le mani gli occhi per non farci vedere alcune innocenti scene d’amore che lei riteneva non adatte a noi piccoli. Questa precauzione è durata fino alla nostra adolescenza con grandi proteste da parte mia e delle mie compagne di innocue prime scoperte del mondo e della vita. Non c’era bacio che non dovessimo spiare attraverso la grata delle sue mani che sembravano moltiplicarsi, centuplicando dita e ansie e timori e perplessità. E in quella complicata operazione anche lei si perdeva l’emozione di quel bacio tanto atteso e inevitabilmente perduto… Ma all’uscita dal cinema io dimenticavo tutto per dare la caccia alle lucciole. Ne raccoglievo a manciate che conservavo nel fazzoletto per metterle nel bicchiere appena tornata a casa. Qui la delusione in agguato: quelle splendide lucine intermittenti, a riportarmi il cielo e il brulichio delle infinite sue stelle tra le mie piccole mani, erano soltanto dei minuscoli insetti privi di ogni splendore. (IL SOGNO, la realtà). Ma, pur registrando ogni volta la delusione di quella via lattea sfavillante nella mia tasca, ricondotta a un misero bottino di alucce spente, non riuscivo a vincere la tentazione di riprovare ad afferrarle e a conservarle, sperando nel prodigio di ritrovarle a casa sfolgoranti di luce. (Più tardi, mi avrebbero dato l’opportunità di riflettere sulla nostra irriducibile necessità di credere nel sogno e di rifiutare persistentemente le reiterate delusioni che la realtà ci riserva, perché ognuno forse, a modo suo, si costruisce nicchie di sopravvivenza e tenaci illusioni, magari senza averne piena consapevolezza o, proprio perché tali, con foscoliana insistenza. Molto molto più tardi ho ritrovato, sempre con te, quelle meravigliose stelle ammiccanti nelle nostre vacanze alle Terme di Chianciano, lungo la lunga strada della nostra passeggiata nel bosco che congiungeva il nostro albergo al centro del paese. Oppure, ma senza di te, nella vallata della Valle del Sole, dove io e Primo avevamo una multiproprietà. Un appartamentino delizioso su cui si affacciava la nostra casa delle vacanze in Abruzzo. E, mentre all’alba le nuvole di morbida panna lievitavano verso l’alto facendoci sentire in sospensione tra terra e cielo, di sera da quel fondo valle salivano fino al nostro balcone le lucciole luminose e grandi a farci riscoprire un mondo che credevamo perduto per sempre nei nostri paesi e nelle nostre città sempre più inquinati... Ma, come ho già detto, noi due con Gianni e le nostre sorelle, le ritrovavamo in Toscana dove ci accoglieva il benessere delle terme e il lungo viale d’alberi e di siepi tra cui scintillavano in minor numero ma salutate dal nostra rinnovata meraviglia).

Ma in quel paesino sui monti della Daunia erano il mio sogno e la mia delusione d’ogni sera e di ogni nuovo giorno. Meno pericoloso nel sollecitare illusioni e inevitabili conseguenti delusioni era, invece, il tuo dentino caduto che ero solita mettere sotto il solito bicchiere per farti trovare il giorno dopo, al suo posto, il solito soldino: lì non c’era inganno. Bisognava solo dire la formula magica che i nonni mi avevano insegnato dopo ogni dentino caduto perché quella perdita momentanea non ci dispiacesse più di tanto: tìttə e tìttə, sandə Bənədìttə, jè tu ammènəghə stùrtə e tu mu ammìnə drìttə… tetto e tetto ‘?’, san Benedetto, io te lo do storto e tu me lo fai rinascere dritto… (commutato alcuni anni dopo da mamma per l’ultima nata nel canto dello Zecchino d’oro: “fammi crescere i denti davanti/ te ne prego Bambino Gesù/ sono due ma mi sembrano tanti/ son caduti e non crescono più…”). Ma tutti noi nati nella prima metà del secolo ci assicuravamo, con quel mantra antico, il soldino e il nuovo dentino bello e dritto per sorridere meglio!

Per fortuna, poi, in quel paesino che si arrampicava fino al cielo, cadeva anche la neve. Tanta. A novembre quelle case da presepe, ed esposte a mille venti e all’incessante precipitare delle pietre lungo le scarpate, si vestivano di bianco e di silenzio. E del nostro stupore. Noi, appollaiati dietro i vetri al tepore di maglioni indossati l’uno sull’altro e dei bracieri accesi nelle diverse stanze… Magia di un silenzio come di bianca preghiera, di sposa all’altare, di bianche lucciole fluttuanti a mezz’aria senza più mani ad interrompere il loro lieve e incantato volo… E quelle vie sembravano inerpicarsi davvero fino al cielo, nell’imbroglio della tormenta che lo rendeva più sfumato e vicino, e con piccole sporgenze sul lastricato dove noi, se costretti ad uscire per andare in chiesa sulla cima più alta di quel nido di case, piantellavamo i piedi per avere maggior forza nell’attraversarle incolumi senza scivolare sul ghiaccio… e tu battevi le mani, ben riparata nella carrozzina con cuffiette, guantini e copertine, per quella meraviglia che t’incantava. E, meraviglia delle meraviglie!, la bianca neve nei bicchieri di vincotto che i nonni ci mandavano. Dolce delizia di rosso corallo... e non era più neve. Era carezza amore ricordo nostalgia… Nell’aria trasognata/ intrisa di silenzi/ tra case di cristallo addormentate/ bianche farfalle di neve/ su vesti nere/ in fila lungo la scia di campane/ passere scure a punteggiare/una fiaba di magico candore/ (la mia infanzia): (“La mia infanzia”, da l.d.l. il gelso e le rose).

E, poi, per fortuna, ci raggiunse Lina, la figlia di zia Angelina, sorella maggiore di babbo. Lina aveva sedici anni. Venne per stare un po’ con noi e per aiutare mamma nell’accudire i più piccoli. Con lei qualche volta, di pomeriggio, andavo giù dove c’era un porticato, che comprendeva la Caserma e il Comune, per giocare a palla o con la corda, ma subito Lina risaliva perché si sentiva troppo grande per quei giochi infantili. In casa giocavo un po’ con te “alla mamma e alla figlia”, mentre il piccolino, Pino, era intoccabile. Era l’erede al trono, il tanto atteso figlio maschio.

Lina era molto bella, paffutella, piccoletta. Con due occhioni neri e riccioli bruni. Sempre sorridente, allegra, chiacchierina. Amava cantare e ben presto fu l’allegria della nostra casa, ma ebbe la sfortuna d’innamorarsi, ricambiata, di un carabiniere. Il più alto, il più bello, il più divertente. Era napoletano. “Ciarlatano”, convertiva babbo. “Simpatico e educato”, ribadiva mamma. “Peppino miooo, amore miooo…”, Lina cantilenava a più non posso. E sognava e scriveva lunghissime romantiche lettere, che mandava al suo amore con una tortorella viaggiatrice che ero io. E io accettavo volentieri di volare da un cuore all’altro perché quella “missione impossibile” mi faceva sentire importante, degna di confidenze e di grandi segreti.

Sia Pina che Lina si confidavano con me e spesso l’una mi pregava di lasciare perdere l’altra o di tacere con l’altra ed io mi sentivo meravigliosamente contesa. Ricevevo coccole e sorrisi da entrambe. E occhiate maliziose e complici. Nel buio di quei giorni più o meno bui, squarci luminosi di breve felicità! Lina, con l’aiuto e la complicità di mamma, Nina, Lucia e Pina, inventava o proponeva giochi di società per le tante feste che rendevano allegra la nostra casa. La vittima designata era quasi sempre il povero Giovanni, il domestico della caserma. Giovanni era felice di partecipare e di essere al centro dell’attenzione. C’era il grammofono a tromba e c’erano i 78 giri in vinile di musica leggera, che babbo collezionava. In quegli anni alle canzoni di guerra di un realismo tragico e lacrimevole subentrarono romantiche, appassionate, nostalgiche canzoni d’amore.

A “Faccetta nera, bella abissina,/ aspetta e spera che già l'ora s'avvicina...”... “Come ogni sera, sotto quel fanal,/ dietro la stazione mi stavi ad aspettar/ (…) Addio, piccina, dolce amor,/ ti porterò qui sul mio cuor,/ con te Lilì Marlen, con te Lilì Marlen...”... “Addio, mia bella addio,/ l'armata se ne va,/ e se non partissi anch'io/ sarebbe una viltà./ Non pianger, mio tesooro, sai che ritornerò,/ ma se in battaglia io mooro/ in ciel ti rivedrò...” si sostituirono “Vieni, c'è una strada nel bosco,/ il suo nome conosco,/ vuoi conoscerlo tu?/ Vieni c'è una strada nel cuore/ dove nasce l'amore/ che non muore mai più...”... “Vorrei baciar i tuoi capelli neri,/ le labbra tue, gli occhioni tuoi sinceri...”... “Suona solo per me/ o violino tzigano/ forse pensi anche tu/ a un amore laggiù/ sotto il cielo lontan…/ Se un segreto dolor/ fa tremar la tua mano”… E poi c’erano le musiche da ballo: la Cumparsita, Adios Muchachos, La violetera, il Bolero di Ravel. La mazurka, i valzer di Strauss, la polka, il fox-trot.  A babbo piacevano soprattutto le colonne sonore dei grandi film e la musica classica.  A mamma, però, dedicava sempre “Il tango della gelosia” (no, non è la gelosia,/ ma è la passione mia,/ quando ti guardano gli altri/ io fremo perché/ io il tuo amore lo voglio/ soltanto per me…). Ogni volta lo ballavano insieme e mamma era davvero bellissima, attrice principessa fata ballerina. Maliosa superba affascinante nei suoi abiti longuette molto eleganti e raffinati. L’adoravo. Mi ripetevo ogni volta che da grande sarei diventata come lei. (E per molti anni lei fu l’insuperato irraggiungibile modello anche per te)…

E mi fermo qui. Alla prossima e forse ultima puntata di una storia senza fine. Almeno nel mio cuore e in quanti (tantissimissimissimi!!!) ti vogliono bene, Anna Maria mia… lina