Oggi è, intanto, il compleanno di mio cognato Gianni, marito della mia amatissima sorella Anna Maria, che ha raggiunto il 23 giugno scorso tutti i miei cari che stanno illuminando il Cielo. A lui, che ha condiviso con noi gli ultimi quarant’anni della sua vita, facendo da padre protettivo e attento alle figlie di Anna Maria e nonno amorevole con tutti i nipoti, vanno i miei auguri più affettuosi.
Ma,
ritornando indietro negli anni, non posso fare a meno oggi di ricordare il
periodo pasquale, vissuto con i nonni materni, nella “casa del
gelso e delle rose”, nella festosa atmosfera dei dolci fatti in casa e delle
scherzose complicità tra adulti e bambini. C'erano “rə sasanéddərə” (i panetti schiacciati) con mandorle, vincotto,
cacao e canditi e granellini di zucchero, se proprio si voleva abbondare in
decorazioni. Zia Maria, la cognata di nonna Angelina, per Pasqua, era solita
regalarci “rə scarcéddə”: bamboline,
coniglietti, campane, angeli, gallinelle di pasta dolce con uovo sodo al centro
e tanti minuscoli confettini bianchi, argentati, rossi, rosa, azzurri, dorati a
ricoprirle. Una voluttà! Io le mangiavo con gli occhi e me ne tornavo a casa
felice per quel ricco bottino.
Ma era la Pasqua
vissuta nella nostra casa che ricordo con grande nostalgia dopo tutto il magro
e triste periodo della quaresima, fatto di digiuni, rinunce, via crucis,
preghiere, silenzi per purificarci del divertimento sfrenato (!) del Carnevale
e diventare degni del perdono di Cristo risorto.
E,
ancora prima della Pasqua, la Settimana Santa, di cui ho ricordi vividissimi. E
dei suoi riti, perché rendono
presente ai miei giorni la fede certa dei nonni. La loro fede di straordinaria
umanità. Fede generosa e pura. Ricordo dolcissimo che si ripropone nelle nostre
sporadiche o quotidiane chiacchierate. Dialogo mai interrotto tra me e i miei
figli e i miei nipoti sul nostro paese, le case, le cose, il colore, il
profumo, il sogno, le credenze, che caratterizzavano la nostra terra di quegli
anni: quasi un canto antico, recupero di parole, di modi di dire, di voci mai
spente.
La voce della nonna che
ci esortava ad andare in chiesa per la messa delle sette per il primo venerdì
del mese (con indulgenze plenarie annesse) (amà
sciè alla mèssə də rə séttə ca jèjə la prìma mèssə u prémə pənzìrə àva jéssə a
crìstə…) (dobbiamo andare alla
messa delle sette che è la prima messa il primo pensiero deve essere rivolto a
gesù cristo…). E io: “Ma è mai possibile
che pure quando è festa a scuola ci devi costringere ad alzarci presto?”. “Ècchə jè sémbə jèddə ch’avà parlà cə sə nòn
nàn ‘zə séndə chəndéndə sò dìttə a rə séttə e a rə séttə amà stà jndə a la
chièsjə… pə guadagnànnə u paradèsə…” (“Ecco è sempre che lei deve parlare
altrimenti non è contenta ho detto alle sette e alle sette dobbiamo essere in
chiesa per guadagnarci il paradiso”…). Poi si doveva andare in chiesa per la
via crucis, per i “sepolcri” e per tutti gli altri riti della Settimana Santa e
della Santa Pasqua, attesa non soltanto per sfoggiare l'abito nuovo, inno alla
primavera (trionfo di gonna a campana di panno-lenci azzurro come la lacca del
cielo d’aprile e di gonna plissettata di un verde prato da far impallidire le
siepi del nostro giardino e camicette bianche come leggere nuvole di orli
ricamati), ma anche per rivivere quel mistero di morte e di resurrezione
vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del cuore, come
esigenza di rinnovato perdono.
Per
i veri cristiani la Pasqua era davvero una rinascita d’amore. Un atto di umiltà
nella certezza del perdono. (Oggi
il rito delle ceneri è per me solo un ricordo lontano. Una riflessione più o
meno amara sulla nostra precarietà. Tutto passa, appunto. Il bene e il male. La
gioia e il dolore. Considerazione banale ma non troppo. Oh se tutti pensassimo
alla nostra precarietà e alla nostra fragilità, al nostro essere granelli di
sabbia infinitesimali nei tanti multiversi che ci comprendono per lo spazio di
un lampo appena… saremmo tutti migliori e affratellati in un unico credo: la
solidarietà che è di per sé sinonimo di Pace! Di Alleanza tra Dio e gli uomini.
E degli uomini tra gli uomini. E invece…).
Squarcio di festosa
serenità era la Domenica delle Palme con gli ulivi benedetti e il bacio
affettuoso di autentica rappacificazione tra parenti e amici. Nonno Mincuccio
portava in chiesa, sempre alla messa delle sette, un gran fascio di rami
d'ulivo per farli benedire e per poi distribuirli a parenti, amici, conoscenti,
vicinato (la pace sia con voi… e con il
tuo spirito!, ad ogni scambio di bacio con rametto di ulivo benedetto…). Nell'aria
c'era il profumo di peschi, mandorli e ciliegi in fiore in netto contrasto con
l'intenso odore d'incenso che respiravo nelle chiese: fuori, esplosione di sole
e di vita a mettermi una pazza allegria nelle vene; in chiesa, la penombra
silenziosa e incombente di un Dio punitore che piegava in ginocchio i miei
pensieri di libertà. E fiati di donne e uomini che il digiuno rendeva pesanti. I
miei atroci peccati? Qualche bugia detta a nonna Angelina per andare a giocare
con le amiche o, più tardi, per poter uscire con gli amici, magari per andare
al cinema oppure per fare quattro salti alla buona, così, tra noi ragazzi; i
rari litigi con Lizia; “i pensieri cattivi” che cominciavano a frullarmi per la
testa e, ancora, il disinteresse totale per la scuola e molti atti di vanità e presunzione
che mi riconoscevo (sono bella, finalmente capisco tutto, non c'è bisogno di
studiare tanto le cose ormai le so...) tante impennate di ribellione (non mi alzo… non ci vado… non lo faccio… non
te lo dico… non studio non studio non studio…). Per quel perdono barattavo
la mia libertà con una settimana santa densa di genuflessioni e giaculatorie e
rosari. Ma era sempre nonna Angelina a sollecitare i miei pentimenti. La
settimana santa era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva,
quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con
meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il
cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino,
suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una
chiesa gremita e penitente (adoramus te
christe et benedicimus tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…)
mi ero riconciliata anche
col latino lingua di Dio… Il nonno e la nonna seguivano con profondo trasporto
tutte quelle riflessioni e preghiere, che si dilatavano tra le navate in una
sorta di cantilena ipnotizzante. Alla fine anche i fedeli più fedeli erano stremati
tanto che alle Litaniae Sanctorum la
folla, dopo un po’, cominciava a rispondere non più con “ora pro nobis”, ma con
“nobìs” e, infine, “bìs”, pur non avendo alcuna intenzione di bissare… (kyrie eleison… kyrie eleison… christe
eleison… audinos… exaudinos… sancta maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix…
ora pro nobis… sancta virgo virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs…
sancte paule… nobìs… … sancte andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte
vincenti… bìs… bìs). Io mi annoiavo. Mi chiedevo che efficacia potessero
avere quelle preghiere smozzicate di cui nessuno capiva un’acca. Vagavo con i
pensieri, andavo lontano, fantasticavo, mi consolavo. Qualche volta mi
distraevo sui volti dei vicini di banco. Cercavo d’indovinarne pensieri e colpe
per capire il motivo di tanta sfibrante espiazione.
Durante la mattina del
giovedì santo, poi, le strade del paese erano percorse dalla processione del
“Misteri” con tutte le statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù
durante la via crucis. L’accompagnava la banda con le dolcissime nenie funebri
di Carelli, Delle Cese, di Pasquale La Rotella, tutti i grandi musicisti del
nostro paese; nenie, che creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la
passione di Cristo si compisse. Il rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al
crepuscolo dello stesso giorno ed era un rito che mi piaceva molto: si andava
in giro per le strade in un percorso che comprendeva almeno sette chiese da
visitare in misteriosa e mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era
il sepolcro con vasi colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di
germe di grano, illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato,
le cui fiammelle rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi
d’ombre guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’.
Il tempo di guardarmi intorno intimidita e incuriosita, persa nell’ammirazione
della bellezza di quei vasi e di quelle luci in una disposizione artistica che
differiva da chiesa a chiesa, secondo l’estro del sacerdote, del fioraio e
delle bigotte che avevano provveduto all’allestimento. Le donne fuori dalle
chiese commentavano: “Madónnə, cə jèjrə béllə cùssə ànnə u səbbùlcrə də sàn
Səlvìstrə e pórə cùrə də rə Vìrgənə”… (“Madonna, quanto era bello il
sepolcro della chiesa di san Silvestro e pure quello delle Vergini…”). “A mè na’ m’è piaciótə pə nnùddə cùrə də
sànd’Andre’, asséjə misirìnə chə dùə strìppuə səccàtə scəchìttə”… (“A me
non è piaciuto per niente quello di sant’Andrea, così misero con quei due rami
secchi soltanto”…)
Dal venerdì, invece, si
entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola che coprivano tutte le
nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti gli specchi (in cui di
sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna Angelina, derivatale da
secoli di medioevo) nelle nostre case.
La mia vanità subiva un
feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio maggiore era
non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio (jndə au spécchiə stèjə u diàvuə e tu sì
scəchìttə ‘na məndòsə ca nàn zàpə pənzà a nnùddə
àltə… à dà scè drìttə drìttə au
‘mbìrnə…) (nello specchio c’è il diavolo e tu sei solo una vanitosa che non
sa pensare a niente altro… devi andare dritto dritto all’inferno…). Ma mi
consolavano di tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della
mattina e quella del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo
silenzio delle campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a
intervalli da “rə tərròzzuə” (quei
particolari arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare
nell’aria con il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico
suono cupo e greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili)
fino allo scampanio a distesa della mezzanotte del sabato santo. Le due
processioni erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede. L’Addolorata
era bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e
intriso di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo
scultore, ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo
ringraziava per tanta bellezza con le parole: “‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?” (“in Cielo mi hai vista
ché in terra mi hai scolpita?”).
Era stato proprio nonno
Mincuccio a raccontarci questa delicata leggenda la prima volta, lasciandomi
incredula e incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno la
bellezza di quel volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La
Desolata”. E mi piaceva anche rivivere con lui il racconto tenerissimo, che non
conoscevo e che non so se faccia parte della tradizione popolare o della sua
fertile fantasia: sta di fatto che ci raccontava come, nella tristissima notte
“du Scəvədìa Sandə”, il peregrinare
della Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del figlio, avesse
momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in quanto, uscendo
dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il corpo di un
giovane: quello di Giuda, il traditore di Suo Figlio, e con delicatezza gli si
avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano...
Quale
perdono più grande, dunque: quello di un Dio immenso, che lascia crocifiggere Suo
Figlio, fattosi uomo per redimere l’umanità, o quello di una madre del tutto
“umana”, trafitta da tutto il dolore del mondo, che pure bacia con gesto
delicato la mano di colui che proprio con un bacio aveva tradito Suo Figlio? Lei,
minuscola donna come tante, con un cuore immenso più dell’immenso Suo Dio... (Probabilmente
è per questo che noi tutti ci rivolgiamo a Lei perché interceda in nostro favore
presso il Padre e il Figlio. Lei: Vergine
madre, figlia del tuo figlio,/ umile ed alta più che creatura,/ termine fisso
d’etterno consiglio..., come recitano i primi versi della preghiera di San
Bernardo alla Vergine nel Paradiso dantesco).
<Nella
mente si affollano ricordi, lacerti d’infanzia, spaccati di vita paesana,
parole in vernacolo in disuso, ma straordinariamente colorite e dense di
significato, tradizioni da salvare, da valorizzare perché fanno parte di noi,
del nostro sangue e della nostra anima, della nostra cultura contadina e della
nostra fede. Della nostra stessa vita. Fatta anche di paura. Quella paura che
serpeggiava nell’anima di tutti noi bambini quando entravamo nelle chiese con
“scarsa luce e poca aria”, ma piene d’incenso, di lumini rossi, di lupini
appena in germoglio. (…) la paura del buio delle chiese con le statue dei santi
coperte con i panni viola della penitenza spesso era vinta dallo stupore. Meno
piacevole, invece, era la sensazione della “bocca amara di digiuno” durante i
riti della Settimana Santa. “Eri bella come rosa...”: richiamo antico, che mi
attanaglia il cuore, ancora oggi, al ricordo di quel volto come petalo lacerato
che intensamente aspettavamo di guardare con un misto di venerazione, di pena e
di curiosità per quella antica leggenda che voleva quel volto bellissimo causa della
morte del suo scultore>.
(eri bella come roosa,/ là di Gerico sul praato./ Or sì mesta, sì
pietoosa,/ dal sembiante scolorato/ sembri al suol reciso fioore,/ ricoperto di
pallore! …). E Vitino, ormai diventato il prof Pasculli, da tutti amato e
apprezzato, ne era diventato il direttore musicale, ma io non ero più riuscita
ad incontrarlo dopo i nostri anni della fanciullezza in via Maggiore angolo via
De Rossi. A mezzanotte, infine, c’era la processione “du Venerdìa Sàndə chə la nàchə d’òrə də Crìstə mùrtə” (“del
Venerdì Santo con culla dorata di Gesù morto”), “də l’Addóloràtə” (“della
Vergine in pianto”) nella vana ricerca del figlio, e “du Légnə Sàndə” (“del Legno Santo”), tutto luci e fiori. La piazza
alberata, antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era illuminata solo
dai falò nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal pomeriggio
portavano da casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a quella
triste rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con
camicia, guanti bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza
perché le tre statue non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel
quadrilatero. Dopo ogni simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava
musiche dolcissime e tristissime come lo Stabat
Mater, canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del
nostro Tommaso Traetta, e altre sinfonie.
Anche io e Lizia portavamo le sedie per tempo perché i nonni potessero stare comodi fino alla fine della lunghissima processione. Qualche volta anche al riparo dal vento freddo, intabarrati in cappotti e sciarpe per l’atteso inevitabile gelo (dicevano) di ogni venerdì santo, difficilmente riscaldato dal sole (u vənərdìa Sàndə fàcə sémbə brùttə tìmbə, da quànnə ‘mbrè crìstə sòpə a la cròcə…) (ad ogni venerdì santo, da quando è morto cristo sulla croce, è sempre brutto tempo…)
Lacrime commozione preghiere incanto tradizione. Poi la festosa Pasqua…