lunedì 14 aprile 2025

Lunedì 14 aprile 2025: i ricordi del periodo pasquale, sintetizzati da "Le piogge e i ciliegi" (I vol.) (prima parte)...

Oggi è, intanto, il compleanno di mio cognato Gianni, marito della mia amatissima sorella Anna Maria, che ha raggiunto il 23 giugno scorso tutti i miei cari che stanno illuminando il Cielo. A lui, che ha condiviso con noi gli ultimi quarant’anni della sua vita, facendo da padre protettivo e attento alle figlie di Anna Maria e nonno amorevole con tutti i nipoti, vanno i miei auguri più affettuosi.

Ma, ritornando indietro negli anni, non posso fare a meno oggi di ricordare il periodo pasquale,    vissuto con i nonni materni, nella “casa del gelso e delle rose”, nella festosa atmosfera dei dolci fatti in casa e delle scherzose complicità tra adulti e bambini. C'erano “rə sasanéddərə” (i panetti schiacciati) con mandorle, vincotto, cacao e canditi e granellini di zucchero, se proprio si voleva abbondare in decorazioni. Zia Maria, la cognata di nonna Angelina, per Pasqua, era solita regalarci “rə scarcéddə”: bamboline, coniglietti, campane, angeli, gallinelle di pasta dolce con uovo sodo al centro e tanti minuscoli confettini bianchi, argentati, rossi, rosa, azzurri, dorati a ricoprirle. Una voluttà! Io le mangiavo con gli occhi e me ne tornavo a casa felice per quel ricco bottino.

Ma era la Pasqua vissuta nella nostra casa che ricordo con grande nostalgia dopo tutto il magro e triste periodo della quaresima, fatto di digiuni, rinunce, via crucis, preghiere, silenzi per purificarci del divertimento sfrenato (!) del Carnevale e diventare degni del perdono di Cristo risorto.

E, ancora prima della Pasqua, la Settimana Santa, di cui ho ricordi vividissimi. E dei suoi riti, perché rendono presente ai miei giorni la fede certa dei nonni. La loro fede di straordinaria umanità. Fede generosa e pura. Ricordo dolcissimo che si ripropone nelle nostre sporadiche o quotidiane chiacchierate. Dialogo mai interrotto tra me e i miei figli e i miei nipoti sul nostro paese, le case, le cose, il colore, il profumo, il sogno, le credenze, che caratterizzavano la nostra terra di quegli anni: quasi un canto antico, recupero di parole, di modi di dire, di voci mai spente.

La voce della nonna che ci esortava ad andare in chiesa per la messa delle sette per il primo venerdì del mese (con indulgenze plenarie annesse) (amà sciè alla mèssə də rə séttə ca jèjə la prìma mèssə u prémə pənzìrə àva jéssə a crìstə…) (dobbiamo andare alla messa delle sette che è la prima messa il primo pensiero deve essere rivolto a gesù cristo…). E io: “Ma è mai possibile che pure quando è festa a scuola ci devi costringere ad alzarci presto?”. “Ècchə jè sémbə jèddə ch’avà parlà cə sə nòn nàn ‘zə séndə chəndéndə sò dìttə a rə séttə e a rə séttə amà stà jndə a la chièsjə… pə guadagnànnə u paradèsə…” (“Ecco è sempre che lei deve parlare altrimenti non è contenta ho detto alle sette e alle sette dobbiamo essere in chiesa per guadagnarci il paradiso”…). Poi si doveva andare in chiesa per la via crucis, per i “sepolcri” e per tutti gli altri riti della Settimana Santa e della Santa Pasqua, attesa non soltanto per sfoggiare l'abito nuovo, inno alla primavera (trionfo di gonna a campana di panno-lenci azzurro come la lacca del cielo d’aprile e di gonna plissettata di un verde prato da far impallidire le siepi del nostro giardino e camicette bianche come leggere nuvole di orli ricamati), ma anche per rivivere quel mistero di morte e di resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del cuore, come esigenza di rinnovato perdono.

Per i veri cristiani la Pasqua era davvero una rinascita d’amore. Un atto di umiltà nella certezza del perdono. (Oggi il rito delle ceneri è per me solo un ricordo lontano. Una riflessione più o meno amara sulla nostra precarietà. Tutto passa, appunto. Il bene e il male. La gioia e il dolore. Considerazione banale ma non troppo. Oh se tutti pensassimo alla nostra precarietà e alla nostra fragilità, al nostro essere granelli di sabbia infinitesimali nei tanti multiversi che ci comprendono per lo spazio di un lampo appena… saremmo tutti migliori e affratellati in un unico credo: la solidarietà che è di per sé sinonimo di Pace! Di Alleanza tra Dio e gli uomini. E degli uomini tra gli uomini. E invece…).

Squarcio di festosa serenità era la Domenica delle Palme con gli ulivi benedetti e il bacio affettuoso di autentica rappacificazione tra parenti e amici. Nonno Mincuccio portava in chiesa, sempre alla messa delle sette, un gran fascio di rami d'ulivo per farli benedire e per poi distribuirli a parenti, amici, conoscenti, vicinato (la pace sia con voi… e con il tuo spirito!, ad ogni scambio di bacio con rametto di ulivo benedetto…). Nell'aria c'era il profumo di peschi, mandorli e ciliegi in fiore in netto contrasto con l'intenso odore d'incenso che respiravo nelle chiese: fuori, esplosione di sole e di vita a mettermi una pazza allegria nelle vene; in chiesa, la penombra silenziosa e incombente di un Dio punitore che piegava in ginocchio i miei pensieri di libertà. E fiati di donne e uomini che il digiuno rendeva pesanti. I miei atroci peccati? Qualche bugia detta a nonna Angelina per andare a giocare con le amiche o, più tardi, per poter uscire con gli amici, magari per andare al cinema oppure per fare quattro salti alla buona, così, tra noi ragazzi; i rari litigi con Lizia; “i pensieri cattivi” che cominciavano a frullarmi per la testa e, ancora, il disinteresse totale per la scuola e molti atti di vanità e presunzione che mi riconoscevo (sono bella, finalmente capisco tutto, non c'è bisogno di studiare tanto le cose ormai le so...) tante impennate di ribellione (non mi alzo… non ci vado… non lo faccio… non te lo dico… non studio non studio non studio…). Per quel perdono barattavo la mia libertà con una settimana santa densa di genuflessioni e giaculatorie e rosari. Ma era sempre nonna Angelina a sollecitare i miei pentimenti. La settimana santa era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva, quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino, suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una chiesa gremita e penitente (adoramus te christe et benedicimus tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…) mi ero riconciliata anche col latino lingua di Dio… Il nonno e la nonna seguivano con profondo trasporto tutte quelle riflessioni e preghiere, che si dilatavano tra le navate in una sorta di cantilena ipnotizzante. Alla fine anche i fedeli più fedeli erano stremati tanto che alle Litaniae Sanctorum la folla, dopo un po’, cominciava a rispondere non più con “ora pro nobis”, ma con “nobìs” e, infine, “bìs”, pur non avendo alcuna intenzione di bissare… (kyrie eleison… kyrie eleison… christe eleison… audinos… exaudinos… sancta maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix… ora pro nobis… sancta virgo virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs… sancte paule… nobìs… … sancte andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte vincenti… bìs… bìs). Io mi annoiavo. Mi chiedevo che efficacia potessero avere quelle preghiere smozzicate di cui nessuno capiva un’acca. Vagavo con i pensieri, andavo lontano, fantasticavo, mi consolavo. Qualche volta mi distraevo sui volti dei vicini di banco. Cercavo d’indovinarne pensieri e colpe per capire il motivo di tanta sfibrante espiazione.

Durante la mattina del giovedì santo, poi, le strade del paese erano percorse dalla processione del “Misteri” con tutte le statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù durante la via crucis. L’accompagnava la banda con le dolcissime nenie funebri di Carelli, Delle Cese, di Pasquale La Rotella, tutti i grandi musicisti del nostro paese; nenie, che creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la passione di Cristo si compisse. Il rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al crepuscolo dello stesso giorno ed era un rito che mi piaceva molto: si andava in giro per le strade in un percorso che comprendeva almeno sette chiese da visitare in misteriosa e mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era il sepolcro con vasi colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di germe di grano, illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato, le cui fiammelle rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi d’ombre guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’. Il tempo di guardarmi intorno intimidita e incuriosita, persa nell’ammirazione della bellezza di quei vasi e di quelle luci in una disposizione artistica che differiva da chiesa a chiesa, secondo l’estro del sacerdote, del fioraio e delle bigotte che avevano provveduto all’allestimento. Le donne fuori dalle chiese commentavano: “Madónnə, cə jèjrə béllə cùssə ànnə u səbbùlcrə də sàn Səlvìstrə e pórə cùrə də rə Vìrgənə”… (“Madonna, quanto era bello il sepolcro della chiesa di san Silvestro e pure quello delle Vergini…”). “A mè na’ m’è piaciótə pə nnùddə cùrə də sànd’Andre’, asséjə misirìnə chə dùə strìppuə səccàtə scəchìttə”… (“A me non è piaciuto per niente quello di sant’Andrea, così misero con quei due rami secchi soltanto”…)

Dal venerdì, invece, si entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola che coprivano tutte le nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti gli specchi (in cui di sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna Angelina, derivatale da secoli di medioevo) nelle nostre case.

La mia vanità subiva un feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio maggiore era non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio (jndə au spécchiə stèjə u diàvuə e tu sì scəchìttə ‘na məndòsə ca nàn zàpə pənzà a nnùddə àltəà dà scè drìttə drìttə au ‘mbìrnə…) (nello specchio c’è il diavolo e tu sei solo una vanitosa che non sa pensare a niente altro… devi andare dritto dritto all’inferno…). Ma mi consolavano di tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della mattina e quella del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo silenzio delle campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a intervalli da “rə tərròzzuə” (quei particolari arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare nell’aria con il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico suono cupo e greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili) fino allo scampanio a distesa della mezzanotte del sabato santo. Le due processioni erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede. L’Addolorata era bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e intriso di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo scultore, ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo ringraziava per tanta bellezza con le parole: “‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?” (“in Cielo mi hai vista ché in terra mi hai scolpita?”).

Era stato proprio nonno Mincuccio a raccontarci questa delicata leggenda la prima volta, lasciandomi incredula e incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno la bellezza di quel volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La Desolata”. E mi piaceva anche rivivere con lui il racconto tenerissimo, che non conoscevo e che non so se faccia parte della tradizione popolare o della sua fertile fantasia: sta di fatto che ci raccontava come, nella tristissima notte “du Scəvədìa Sandə”, il peregrinare della Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del figlio, avesse momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in quanto, uscendo dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il corpo di un giovane: quello di Giuda, il traditore di Suo Figlio, e con delicatezza gli si avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano...

Quale perdono più grande, dunque: quello di un Dio immenso, che lascia crocifiggere Suo Figlio, fattosi uomo per redimere l’umanità, o quello di una madre del tutto “umana”, trafitta da tutto il dolore del mondo, che pure bacia con gesto delicato la mano di colui che proprio con un bacio aveva tradito Suo Figlio? Lei, minuscola donna come tante, con un cuore immenso più dell’immenso Suo Dio... (Probabilmente è per questo che noi tutti ci rivolgiamo a Lei perché interceda in nostro favore presso il Padre e il Figlio. Lei: Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile ed alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio..., come recitano i primi versi della preghiera di San Bernardo alla Vergine nel Paradiso dantesco).

<Nella mente si affollano ricordi, lacerti d’infanzia, spaccati di vita paesana, parole in vernacolo in disuso, ma straordinariamente colorite e dense di significato, tradizioni da salvare, da valorizzare perché fanno parte di noi, del nostro sangue e della nostra anima, della nostra cultura contadina e della nostra fede. Della nostra stessa vita. Fatta anche di paura. Quella paura che serpeggiava nell’anima di tutti noi bambini quando entravamo nelle chiese con “scarsa luce e poca aria”, ma piene d’incenso, di lumini rossi, di lupini appena in germoglio. (…) la paura del buio delle chiese con le statue dei santi coperte con i panni viola della penitenza spesso era vinta dallo stupore. Meno piacevole, invece, era la sensazione della “bocca amara di digiuno” durante i riti della Settimana Santa. “Eri bella come rosa...”: richiamo antico, che mi attanaglia il cuore, ancora oggi, al ricordo di quel volto come petalo lacerato che intensamente aspettavamo di guardare con un misto di venerazione, di pena e di curiosità per quella antica leggenda che voleva quel volto bellissimo causa della morte del suo scultore>.  

(eri bella come roosa,/ là di Gerico sul praato./ Or sì mesta, sì pietoosa,/ dal sembiante scolorato/ sembri al suol reciso fioore,/ ricoperto di pallore! …). E Vitino, ormai diventato il prof Pasculli, da tutti amato e apprezzato, ne era diventato il direttore musicale, ma io non ero più riuscita ad incontrarlo dopo i nostri anni della fanciullezza in via Maggiore angolo via De Rossi. A mezzanotte, infine, c’era la processione “du Venerdìa Sàndə chə la nàchə d’òrə də Crìstə mùrtə” (“del Venerdì Santo con culla dorata di Gesù morto”), “də l’Addóloràtə” (“della Vergine in pianto”) nella vana ricerca del figlio, e “du Légnə Sàndə” (“del Legno Santo”), tutto luci e fiori. La piazza alberata, antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era illuminata solo dai falò nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal pomeriggio portavano da casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a quella triste rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con camicia, guanti bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza perché le tre statue non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel quadrilatero. Dopo ogni simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava musiche dolcissime e tristissime come lo Stabat Mater, canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del nostro Tommaso Traetta, e altre sinfonie.

Anche io e Lizia portavamo le sedie per tempo perché i nonni potessero stare comodi fino alla fine della lunghissima processione. Qualche volta anche al riparo dal vento freddo, intabarrati in cappotti e sciarpe per l’atteso inevitabile gelo (dicevano) di ogni venerdì santo, difficilmente riscaldato dal sole (u vənərdìa Sàndə fàcə sémbə brùttə tìmbə, da quànnə ‘mbrè crìstə sòpə a la cròcə…) (ad ogni venerdì santo, da quando è morto cristo sulla croce, è sempre brutto tempo…)

Lacrime commozione preghiere incanto tradizione. Poi la festosa Pasqua…

 A domani o dopodomani la seconda parte. Grazie infinite a chi conserva la pazienza e la volontà di leggere quanto scrivo sul nostro blog. Angela/lina

 

 

sabato 12 aprile 2025

Sabato 12 aprile 2025: IL DONO DELL’AMORE DI RAFFAELE NIGRO (seconda e ultima parte)

Qualche giorno fa ho pubblicato sul nostro blog la mia recensione al libro di Raffaele Nigro, IL DONO DELL’AMORE, pubblicato solo qualche mese fa dalla Casa editrice La nave di Teseo (Milano, 2024, pp.423, £ 22). Ma, purtroppo, rileggendola, dopo la pubblicazione, mi sono resa conto di aver cancellato, involontariamente, una parte che ritengo importante per conoscere più approfonditamente la scrittura del nostro immenso Raffaele, quella riguardante il suo “realismo magico” e la sua visione politica della realtà, in netto contrasto con la magia, di cui sono intrisi tutti i suoi romanzi. Raffaele Nigro ha bisogno, dunque, costantemente di uncinarsi alla realtà e di sospendersi, funambolo e senza rete, sul filo della fantasia, visionaria e ricca di intrighi e di misteri.  

Occorre, pertanto, fare i conti innanzitutto col suo “realismo magico” in letteratura e con la sua partecipazione concreta alla politica dei nostri giorni.

Occorre, allora, ricordare che verso la fine dell’Ottocento si diffondeva in Europa un modo nuovo di dipingere, influenzato dalle prime teorie di Freud sui sogni e l’inconscio (la locuzione, “realismo magico”, infatti, fu coniata nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh, per quei pittori che percepivano e dipingevano la realtà come sogno e magia). Dalla pittura alla letteratura il passo fu breve. Fu Massimo Bontempelli che usò per primo la stessa locuzione in letteratura per indicare il fiabesco, il mito, il sogno e il mistero, tra l’onirico e l’occulto, che, nei suoi racconti, avviluppavano la realtà. Bontempelli fu, in Italia, colui che, facendo tesoro della visione multipla dei comportamenti umani avanzata da Luigi Pirandello (si pensi a Uno, nessuno, centomila) si fece capostipite di altri grandi autori visionari come Tommasi Landolfi, e più tardi Dino Buzzati, Anna Maria Ortese, fino a giungere ai nostri giorni, percorrendo tutto il Novecento, a Italo Calvino e al nostro Raffaele Nigro, il quale nelle sue opere custodisce come preziose pepite d’oro le Opere di questi nostri famosi Autori, ma anche i romanzi di grandissimi scrittori ispano-sudamericani, come quelli di Gabriel Garcia Marquez e, in primo luogo, Cent’anni di solitudine (Premio Nobel per la Letteratura 1982, quando Marquez aveva quarant’anni, come quarant’anni aveva Raffaele quando vinse il Campiello). Mi piace ricordare che, grazie a questo romanzo, Marquez è diventato uno dei più accreditati “maestri” del “realismo magico” di quei Paesi. Ma occorre fare riferimento, a mio parere, anche a Jorge Amado, scrittore brasiliano, che seppe intrecciare il “realismo magico” alla vita quotidiana dei suoi protagonisti (vedi: Donna Flor e i suoi due mariti) o la stessa scrittura di Isabel Allende, con la sua Casa degli spiriti (Buenos Aires 1982) o Il mio paese inventato (il Cile) e l’ultimo: Il vento conosce il mio nome, è nelle corde visionarie di Raffaele Nigro...

Invece, in politica, non a caso, Raffaele parla dei politici della nostra Puglia per bocca dei protagonisti del suo romanzo: da Nichi Vendola a Michele Emiliano a Raffaele Fitto, nei loro diversi e molteplici impegni per risollevare le sorti della nostra Regione.

In pratica, mi piace ripetere: <da tutto il romanzo, emergono la stratosferica cultura del suo Autore, la sua sensibilità poetica, le innumerevoli esperienze che ne hanno fatto un “viandante” solitario, che fa della sua solitudine sguardo vivificatore di incanti e nostalgie, persino in presenza, almeno nel romanzo, dei compagni che quei viaggi vivono ciascuno col proprio modo di essere e di afferrare sogni e illusioni, fragilità e risorse>.

Ma l’intera recensione, con sapienti tagli e ricuciture, inevitabili per essere nello spazio consentito   alla pagina di un giornale, ha permesso a Mauro Massari, che tutti voi già conoscete, attraverso il nostro blog, di riuscire magnificamente nell’impresa titanica di dare maggiore respiro e intensità al mio lunghissimo testo, da lui oggi pubblicato su L’EDICOLA, un giornale molto importante e stimolante, gestito appunto dal mio giovanissimo amico, giornalista, scrittore, poeta e musicista di ottima caratura. Mi piacerebbe che Raffaele Nigro potesse leggere oggi quanto opportunamente sintetizzato dal bravissimo Mauro Massari, che ringrazio di vero cuore per la pubblicazione e per il lavoro svolto con tanta attenzione e passione che sempre mette in ogni sua “avventura” letteraria, musicale, umana. Grazie!

E, per concludere, siccome domani è la Domenica delle Palme, vi lascio, mie carissimi amici e amiche, con una mia poesia: Fioccano petali azzurri del glicine in fiore/ - azzurra neve di primavera -/ su rami fioriti ai miei occhi che amano/ le attese e attendono ali di rondini/ di ritorno ai nidi, appollaiati/ sulla quercia vecchia come me di anni/ e delle stagioni mai più contate/ ma mai stanche di voli per sognare/ e farsi prato dove primule e margherite/ sono in festa e sventolano petali/ in libertà come ramoscelli d’ulivi/ salutano la PACE per le strade di pietra/ di Gerusalemme antica e festante./ In caduta libera i rametti benedetti/ ridono con la mia libertà di sognare/ cieli azzurri d’aprile colmi di sole/ (vibra di cielo-prato il nuovo giorno/  e un senso di tenerezza mi vince  / come da bambina la preghiera/   all’angioletto del buon Dio   )

A presto. Angela/lina

domenica 6 aprile 2025

Domenica 6 aprile 2025: "IL DONO DELL’AMORE" DI RAFFAELE NIGRO

Conosco Raffaele Nigro da tanti anni ormai da non riuscire più a contarli. E conosco da altrettanti anni la sua scrittura lungo un percorso che non conosce confini spazio-temporali, ma solo accese, appassionate e meritate conquiste culturali e letterarie, che hanno scritto il suo nome a caratteri cubitali nella Storia della Letteratura Italiana e non solo perché le sue innumerevoli opere sono state tradotte in molte altre lingue.

Numerosissimi i premi e i riconoscimenti, a partire dal Campiello per I fuochi del Basento nel 1987 ad appena quarant’anni e già tantissime pubblicazioni alle spalle come scrittore, poeta, giornalista, saggista, autore di Teatro, ma anche regista. Amante di libri, di opere d’Arte, della Bellezza in genere, in tutte le sue innumerevoli forme. Sempre alla ricerca del “fatto storico”, riguardante la sua terra tra Puglia e Basilicata, ma anche lungo l’intero appennino per descrivere una identità “verticale” della nostra Italia, meta di tanti suoi viaggi, che riguardano anche “terre straniere e amate” come la Serbia e l’area balcanica. E potrei continuare all’infinito, come infinito è il suo viaggio tra le parole, le immagini, i suoni ancestrali, i rumori della terra, che ama visceralmente.

Ma oggi devo fare i conti col suo ultimo libro, almeno per il momento, Il dono dell’amore, (edito da La nave di Teseo, Milano, 2024, pp.423, £ 22).

È un romanzo che rispecchia in toto le strutture formali e contenutistiche di quelli precedenti, tutti incentrati su luoghi veri e personaggi veri e magici nello stesso tempo…, e veri sono i percorsi tra terre e mari conosciuti, fino a raggiungere luoghi lontani e ricchi di mistero e magia. Come sempre, continui sono i riferimenti colti a tutto quanto rende preziose anche queste pagine: i dipinti di Millet e il Realismo francese dell’Ottocento; i “fenicotteri rosa, saliti fin qui dall’Africa e sparsi tra gli sconquassi delle periferie”, che riguardano “un mondo sfuggente, parallelo, invisibile” (e bastano tre aggettivi per connotare le periferie di ogni Paese); i passaggi incantati e poetici che fanno sognare oltre la stessa storia dei protagonisti, che si aprono a mille altre storie per fare rientrare in un discorso di creatività e di politica un mondo di altro e altrove: “tentare sempre la scalata alla luna, osare dove altri non osano. Come Colombo e Magellano. Questa è la passione creativa. Dare un senso politico alla propria creatività. Per gli altri, i più deboli, basta puntare in alto, attraverso la via della semplicità…”. Non a caso, i riferimenti ai politici della nostra Puglia: da Nichi Vendola a Michele Emiliano a Raffaele Fitto, nei loro diversi e molteplici impegni per risollevare le sorti della nostra Regione.

In pratica, da tutto il romanzo, emergono la stratosferica cultura del suo Autore, la sua sensibilità poetica, le innumerevoli esperienze che ne hanno fatto un “viandante”    solitario, che fa della sua solitudine sguardo vivificatore di incanti e nostalgie, persino in presenza, almeno nel romanzo, dei compagni che quei viaggi vivono ciascuno col proprio modo di essere e di afferrare sogni e illusioni, fragilità e risorse.

L’inizio del romanzo è già la conferma di trovarci nei luoghi della Puglia che conosciamo molto bene, nei pressi di Foggia: “Tra Stornara e Borgo Incoronata” con una motivazione per i protagonisti dell’estate 2012: Marsilio dal Ponte (“pittore di talento, ma spiantato”, Beppe (detto Picasso), sempre in crisi esistenziale, e Michele (detto Chagall), che vede il mondo attraverso i colori delle sue immancabili tele. Sono suoi fedeli amici di mille avventure in “cerca di ispirazione”, dato che sono a corto di idee. In realtà, essi conversano a lungo, tra il serio e il faceto, tra un bicchiere di birra e una bestemmia, delle varie problematiche che emergono nel nostro Sud di ieri e di oggi: le migrazioni e i migranti; lo svuotamento dei nostri paesi verso il Nord in cerca di lavoro e lo svuotamento dei tanti Paesi extracontinentali, vessati dalla fame, dalla guerra, da varie pestilenze e tragedie, in cerca di luoghi migliori e più accoglienti; le nostre preoccupanti situazioni per “le distese distrutte di olivi, la Xilella li ha bruciati”, “L’Ilva con le sue cattedrali di laminati di acciaio”; l’annoso tema della partenza e del ritorno, ma anche quello più coraggioso delle “restanza”, affrontato, tra l’altro, magnificamente in ricordo del padre di Marsilio, un filantropo morto purtroppo precocemente per cirrosi epatica e massacrante lavoro al fianco dei suoi lavoranti.

Suoi compagni di viaggio, in tal senso, sono altri grandi poeti, scrittori e giornalisti del Meridione, dalle poesie del nostro imperdibile Lino Angiuli al grande saggista, storico e archivista Valentino Romano, ma potrei continuare ancora se non temessi di fare torto a qualche grande Autore che potrei involontariamente omettere.

E che dire, intanto, di Rocco Scotellaro? Così legato alla sua Lucania e ai suoi contadini da aiutare con ogni mezzo? Politicamente, ma anche con la poesia, con i suoi sofferti versi in dialetto e con i suoi romanzi, tra cui L’uva puttanella-Contadini del Sud, che gli valse, post mortem, nel 1954, il Premio Viareggio e Premio San Pellegrino, per la durezza della denuncia politica e per l’impegno etico-civile-sociale profuso nei brevi ma intensi anni della sua vita.

Ma, tornando a Raffaele Nigro e al suo romanzo Il dono dell’amore, il primo personaggio che si batte per la “restanza”, come già accennato, con aiuti concreti sempre più offerti a profusione nella sua Azienda di Putignano, in cui alleva bestiame, è Agostino, padre appunto di Marsilio da Ponte, uno dei tre protagonisti della vicenda. Un uomo, che s’incontra spesso in tutto il romanzo. Agostino è figura predominante fino all’ultima pagina, come vedremo. Come predominante è il Carnevale di Putignano con, alla base, tutta la sua metafora di vita e di morte: entrambe danno il senso della sorgente (iniziale scintilla di vita) e dell’idea primigenia che porterà al lungo lavoro degli “addetti ai lavori” per percorrere tutte le fasi di allestimento dei carri, come quelle esistenziali e giungere alla foce (a delta o a estuario a seconda del karma individuale). La sfilata è impegno, intrigo, consonanza e dissonanza di pensieri e azioni, aspettative e avventure amorose per spassarsela un po’ e dimenticare gli amori più seri, le donne realmente amate ma difficili da amare, da capire, da vivere. Sono legami tormentati e misteriosi, con malattie distruttive come quella di Agostino, o di Thenia e confessioni improvvise che nascono anche da sconfinate solitudini, imperiose fragilità, e la voglia di andare lontano, di attraversare il deserto per colmarsi di miraggi o di infelicità. Accade a Marsilio e Michele, ma soprattutto a Beppe, anima tormentata quant’altre mai. I tre amici, comunque, pur avendo continuamente intenzione di partire per terre lontane, non fanno altro che brevi viaggi per tutta la Puglia fino alla Lucania. Per evadere da tormenti e pensieri che pungono come lame conficcate nel petto. Ma la meta è andare oltre, in Grecia, come prima tappa, culla della nostra Civiltà e culla dell’armatore Stravos Asimakopulos, che ha fatto conoscere a Marsilio la bellissima Thenia, di cui si è immediatamente innamorato, forse corrisposto oppure… ma il viaggio alla fine comprende Tunisi, Tangeri, Marrakech, Bosaso per raggiungere l’India, che ha forma di cuore e fiabe e leggende antiche.

È qui che possono accadere tutti i miracoli. Qui che è possibile vivere “il dono dell’amore” in tutta la sua possanza. Qui la guarigione prodigiosa di Thenia e il loro amore senza più ostacoli e paure. Qui Marsilio può ritrovare suo padre da tempo ormai nel mondo dell’aldilà. E parlare con lui come quasi mai è accaduto in vita. E portare il suo saluto d’amore a sua madre ancora in pena, alle sue sorelle e suo fratello, che tanto lo rimpiangono. Ognuno col suo carico di rimorsi, rimpianti, aspettative.

Qui, nido di incontri e di emozioni e di luminosità di cieli, oltre il buio delle promesse perdute e delle vele ammainate sul Mediterraneo che si è fatto oceano, vissuto da ciascuno come sfida all’universo nell’attimo di un battito, mentre si disfa di nuovo nel Mediterraneo e sembra un gioco di specchi, un volo di nuvole e promesse d’amore e libertà di sognare il ritorno alle origini, che non separano, ma uniscono perché così è l’amore.

È qui, infine, che Raffaele Nigro riassume tutta la sua singolarità, sempre presente in tutte le sue Opere: Cultura, Storia, Letteratura, Visionarietà psicologica e sensoriale. Ecco, queste ultime si prendono tutte felicemente per mano, in un’Affabulazione, che tutta da sempre gli appartiene.

È qui che perde realmente il suo amico Beppe Labianca, a cui è dedicato il romanzo, perché deciso a cambiare rotta per cambiare il mondo, e si affratella ancora di più a Michele, altro amico reale, con cui, nella finzione del romanzo, desidera tornare a Bari, luogo senza radici, ma con tanti amici, tanto lavoro, tanto cuore.

Tra un miscuglio di realtà e fantasia È qui che l’Autore scopre l’ascolto della sua anima, quella più profonda e vera, quella della senilità ancora vibrante di creatività e di speranza, dove è più facile lasciarsi abbracciare dall’unica certezza possibile: “certe cose si fanno solo per amore”.  

Angela                                                      

martedì 1 aprile 2025

Martedì 1° aprile 2025: ancora per te, MAMMA...

Martedì 1° aprile 2025: ancora per te, MAMMA… (seconda e ultima parte)

La salutammo mentre la portavano in sala operatoria con l’ultima figlia che la seguiva passo passo, e mi sembrò un uccellino spaventato e tenero con quella sua cuffietta di lana rosa per non prendere freddo ed era una bimba alla prima passeggiata all’aperto. Aveva la stessa aria stupita, non d’incanto infantile per la scoperta del mondo, ma di disincanto per un mondo conosciuto amato ignorato perduto. Ci aveva raggiunto anche Mimmo, che porta il tuo nome modernizzato di nonno Mincuccio, a cui fisicamente somiglia molto. Ed ora eravamo tutti con lei e per lei a sperare e a pregare. Mancava solo Anna Maria, presente con continue telefonate. Il chirurgo-mago ci tranquillizzò, ci disse che potevamo tornare a casa perché di lì a qualche giorno sarebbe tornata anche lei. Avremmo dovuto usare accorgimenti e precauzioni, ma il peggio era scongiurato. Rincuorati, ripartimmo per preparare la sua camera con tutti i comfort ad accoglierla. Durante il viaggio di ritorno, facemmo progetti per lei. Io mi ripromettevo di esserle più vicina come non lo ero mai stata per tutti gli anni precedenti. Ora sarei stata più libera (il 2000 aveva segnato la interruzione a tempo indeterminato dei Concorsi nella scuola!) e mi sarei dedicata esclusivamente a lei. L’avrei portata in vacanza con me. Saremmo state finalmente insieme. Progetti che ebbero il respiro breve di quel raggio di sole in quei giorni di interminabili piogge di inizio primavera, che tardava a giungere come oggi, e che io sognavo per lei tiepida e con passi di rugiada. Il luminare avrebbe dovuto dirci che “il peggio sembra scongiurato”, non che “è scongiurato”.

Quella notte del ritorno sognai il nonno. Stavo camminando sull’orlo di un burrone di cui non vedevo la fine, tanto buio era il fondo da non distinguere se vi fosse un bosco fitto di alberi cupi o il mare con la sua nenia sommessa o la pianura con i suoi campi coltivati. Mi sentivo sola e disperata e non sapevo perché stesse camminando proprio sul ciglio della strada in quel silenzio spettrale e in quella oscurità così spaventosa. Ad un tratto, lo vedevo seduto proprio lì sul bordo di quell’orribile precipizio a guardare nel vuoto. Lo invocavo, dapprima senza voce. Poi, avevo preso a chiamarlo con voce sempre più forte e disperata, ma non si girava. Ostinatamente continuava a guardare verso l’abisso senza rispondermi e senza voltarsi. Sembrava insolitamente sordo ad ogni mio richiamo.

Mi svegliai sudata e spaventata con un brutto presentimento, confermato da una telefonata concitata che ci informava che stavano portando mamma in ambulanza con il pericolo che morisse per strada. Purtroppo mamma aveva avuto un improvviso repentino peggioramento. Una dottoressa, nostra carissima amica, Teresa Aresta, si assunse la responsabilità, con grande coraggio, di permettere il trasferimento, da quell’ospedale del Nord al profondo Sud della nostra casa, in un’autoambulanza privata, con lei sempre vigile al suo fianco e con nostra sorella, attento angelo a colmarla di carezze. Giunsero stremate entrambe, madre e figlia, tra lacrime brevi, e parole affaticate e non sempre lucide.

Due giorni appena rimase con noi tra spasimi che ci destabilizzavano e tenui sorrisi di affettuosi addii. Ci lasciò stanca di aspettare e di soffrire all’alba della domenica ed era il 1° aprile. Ci sembrò un pesce d’aprile, uno sberleffo atroce sul nostro pianto a lasciarla andare. Capii allora il perché dell’ostinato silenzio di nostro nonno. Era il suo modo di dirmi “non posso farci niente, questa volta non posso aiutarvi”.

Anche Teresa, la vedova di Filippo, procugino di mamma e “figlio acquisito” del nonno, quella notte aveva sognato suo marito che le diceva che era passato a salutarla perché era venuto a prendere comare Melina, la sorella che non aveva mai avuto e che aveva tanto amato. Per portarla in Cielo dove c’erano tutti gli altri e da tutti gli altri in attesa di riabbracciarla. Si affrettò a raccontarcelo tra le lacrime mentre stava lì con noi a darle l’ultimo bacio. E finalmente la sentimmo al sicuro tra le   Braccia amorevoli del Signore.   

E solo dopo, solo dopo ho capito molte più cose di lei. Della sua sofferenza silenziosa. Solo dopo ho sgranato i miei tanti rosari dei comportamenti sbagliati con lei, anche con lei. I lunghi silenzi. I rarissimi incontri. La solitudine dolente che le procuravo: - ti ho persa vivente… non ti preoccupare fai le cose che devi fare… vieni quando puoi venire… chissà se ti rivedo ancora… -

Ed ora che mi manca come il respiro, lei non c’è nella sua casa per andarla a cercare e coccolarla con tutte le confidenze mai più sussurrate, con i baci mai più dati, con le carezze che avrei voluto depositare sulle sue guance di pesca chiara. Mi conforta a malapena il ricordo dei nostri rari incontri nella sua casa e del mio prenderle la mano per coprirla di teneri tocchi leggeri con le labbra e i suoi occhi si slargavano di luminosa accoglienza in uno sguardo di illimitato perdono…

E oggi, martedì, è di nuovo 1° aprile. Non so se i ragazzi di oggi festeggiano il “pesce d’aprile” con scherzi e risate, come un tempo. So che quella notte tra il 31 marzo e il 1° aprile, lei era preoccupata per me, temeva che litigassi con Primo perché ero rimasta da lei, si agitava, mi costrinse ad andare. La lasciai, mio malgrado. Anche gli altri andarono un po’ a riposare. Con lei rimase, se non ricordo male, coraggiosamente e amorevolmente nostra nipote Isabella, la figlia maggiore di Nicola e Anna Maria, e fu tra le sue braccia che spirò.

E io sono qui a tentare di ricordare ogni attimo che mi riporta a lei, al suo AMORE incondizionato. E ancora una volta le dedico una poesia. Non so fare altro. Non posso fare altro: È un’agonia di ore il pendolo/ che mi separa da domani/ oltre un passare di anni senza tregua/ nella nostalgia di te che sei mio pane/ quotidiano e mio quotidiano rimpianto./ Domani è stato il primo giorno/ del tuo spegnerti al nostro sorriso/ per accendere un’altra stella nelle sere/ del nostro cercare una luce almeno,/ tra tanto pianto che mai ci abbandona./ E tu vieni a consolarci come un tempo/ con le tue mani di tenerezza e perdono/ per le nostre assenze sempre presenze/ nel tuo cuore/ INFINITO / come l’universo che attraversi con noi/ che ti abitiamo nel cuore come Tu/ abiti nel nostro, osmosi eterna/ giardino fiorito oltre la pioggia/ che non cancella primavera, ma sempre/ la precede e l’attende./ Noi attendiamo domani per dirti/ in silenzio che mai sei andata via,/ anche se il primo aprile ogni anno/ ritorna, ma porta con sé il tuo profumo,/ il tuo mai spento sorriso, la tua eterna/ giovinezza che sa di Primavera il canto.

TU ancora e sempre con noi!

A presto per ritrovarci come sempre. Angela/lina

domenica 30 marzo 2025

Domenica 30 marzo 2025: oggi scrivo di te, MAMMA... (prima parte)

Ancora una giornata di pioggia battente, dopo i temporali e il vento a schiaffeggiare i giorni scorsi. Ancora acqua a mescolare ricordi e lacrime. Il 2000 fu per noi l’ultima estate serena. Eravamo, come da anni ormai, in un villaggio chic a pochi chilometri dalla bellissima Otranto, terra di martiri e di mare, terra di riproposti incanti nelle stradine di souvenir e memoria amara di turchi e saraceni. E poi ancora altre rive e tramonti in quella penisola di vento e d’ulivi baciati dal sole, nella più grande penisola dalla caratteristica forma di uno stivale, la nostra bella Italia, che il mondo attraversa, percorre, invade e invidia.

Ma, con le prime piogge d’autunno, il cielo si coprì di nembi e di bui giorni alla deriva: Anna Maria e la necessità di un intervento a cuore aperto. E mamma e Gianni e le figlie sempre con lei. A pregare per il suo ritorno a casa. Io, in un’altra clinica a Roma, dove dovemmo ricoverare Ombretta per il suo ricorrente problema da malattia autoimmune, a pregare con il suo ragazzo perché tornasse a casa, dopo mesi di terapia sbagliata e corsa in un altro centro nel tentativo di salvarla.

Lo stress piegò la delicata fibra di mamma e si era ormai a dicembre del nuovo millennio.

2001, perciò, segnò il devastante addio che ci vinse solo un anno e pochi mesi dopo quel Capodanno, che incise a caratteri cubitali nella Storia il primo anno di un nuovo secolo a regalarci illusori refoli di risorte umane utopie.

Perdemmo mamma, in un lago di disperata corsa al suo sorriso. La perdemmo in quattro mesi di angoscia su alte montagne innevate e profondi abissi di nuove speranze e nuove disperazioni. Mamma. E il suo sguardo sempre più dolente e malinconico. Pensieroso e stanco. E l’ultimo nostro Natale e l’ultimo Capodanno, ventiquattro anni fa, vissuti insieme in quella che era stata la nostra casa del gelso e delle rose e che ora è una villa bellissima al centro del paese, abitata da Anna Maria e Gianni, e a cui fanno capo Isabella e Nicoletta con la loro nidiata oggi di adolescenti, nati negli anni, dopo i suoi ultimi sorrisi. Tutti nella tua casa senza più il gelso e con poche rose ma con tanti altri alberi e fiori… e voci e lacrime e allegria e tenerezze di giorni e di anni… Nicole (figlia di Isabella e prima nipotina di Anna Maria), oggi una dolce e sensibilissima ragazzina che, da bimba, era tutta baci da afferrare con le dita e depositare nel cuore… e il bellissimo Francesco, silenzioso e determinato ad essere vincente nello studio e in tutte le sue passioni sportive e tanto altro. Poi, i figli di Nicoletta: Sofia, splendida adolescente che sin da bambina aveva mille parole tra le labbra e mille acquerelli tra le dita… E suo fratello Andrea, che somiglia tanto a mio figlio Giuliano. Stessi occhi grandi e sornione sorriso. Ma allora allora allora…

Allora, nel tempo perduto nel tempo dei rimpianti, fu tempo di lacrime per tutti noi, sopravvissuti a tanto strazio; lacrime, nascoste maldestramente tra ciglia di dolore per un mostro tentacolare che si era ripresentato dopo anni di quiescenza e di tranquilla certezza di averlo debellato per sempre. Senza gravi danni per la sua salute. Mamma. E il suo andare, volto preoccupato e passo leggero e il cappellino verde di morbida lana a incorniciarle il viso segnato, con la figlia più giovane, sua compagna di vita ormai, in un Centro specialistico al Nord, dove operava un mago della chirurgia oncologica.

Furono tre mesi altalenanti di notizie mai chiare mai scure.

E la decisione di raggiungerla io e Lizia, con Pino alla guida della sua macchina in volo sulla corsia di sorpasso in sole sei ore per correre da lei, e Anna Maria impossibilitata per quell’intervento a cuore aperto, che andava superando lentamente e a fatica, e il nostro cuore ad anticipare chilometri e incontro. E Anna Paola che nella sua casa festeggiava senza di me il suo secondo compleanno. Giorno d’inizio primavera. Giorno dei ciliegi in fiore. 

Mamma era lì, inerme e sperduta, spaurita e gracile, dopo due interventi che ci dissero risolutori, ingannandoci. Fiorivano le prime margheritine di marzo… e bianche rose d’ogni mese ornavano il viale che portava alla sua camera al pianterreno di quell’immensa clinica dei miracoli. Dalla finestra potevamo vederla prima che ci fosse permesso d’incontrarla e lei ci sorrideva stanca e teneramente aggrappata a quel primo abbraccio da lontano, nell’attesa di riabbracciarci con mani e braccia e tremori intrecciati. E sollevava le mani in segno di saluto ed erano affaticate farfalle in lento volo. Pioveva anche in quei giorni di ansia e di paura. Una pioggia né buona né cattiva, una pioggia d’attesa… Poi… improvvisamente il sole! La sollevammo dal suo letto di spenta speranza perché potesse lasciarsi riscaldare dal tepore beneaugurale di quei raggi dorati. Ma lei rimase con occhi vuoti senza guardarlo. “Mamma, hai visto? C’è il sole! È finalmente una bella giornata!”. Silenzio e occhi spenti. “Mamma, possibile che non ti rallegra il sole? Guardalo. È un dono tutto per te oggi!”.

Silenzio e occhi spenti. “Ma come è possibile che non ti si allarga il cuore per questo raggio di sole dopo tanta pioggia?”, stupidamente ancora io, mentre gli altri figli si astenevano. Silenzio e occhi spenti. Silenzio. Laghi di pianto trattenuto negli occhi, e il suo abbandonarsi esausto sui cuscini, noncurante del sole della bella giornata delle mie parole a rincuorarla.

(Alcuni anni dopo, parecchi anni fa, anch’io ho guardato il sole con indifferenza da una finestra d’ospedale dove stavo lottando per sopravvivere. Mi sono ricordata di lei e del suo rifiuto inerme.

Non più quel suo sorriso sempre pronto e generoso nel lenire ferite. Compresi e mi disperai per quella mia insistenza fuori luogo in un momento così difficile e doloroso per lei. Le avevano annunciato il terzo intervento nell’arco di appena tre mesi. Ed era disorientata. Impaurita. Disperata.

Anch’io non ero in condizione di godere del sole e della sua luce luminosa in quel centro di riabilitazione in cui mi sentivo debilitata. Anch’io evitavo di guardarlo per non provare la ferita di dovergli probabilmente dire addio. Come avevo potuto pretendere che lo guardasse lei che aveva i giorni contati e lo sapeva? Come poteva sentirsi rasserenata, e paga di quel raggio di sole? Non avevo capito niente di mia madre e della sua anima prostrata e vinta! Come si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze di chi amiamo? Purtroppo, sì. mi era capitato anche con mio nonno, altro mio grande amore per la vita ed oltre. Evidentemente, si può! Ma oggi mi chiedo: sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra socialità. La nostra affettività. Miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso nella stessa galassia.

Quella strana inevitabile condizione di imperfezione e di non totale comunicazione era purtroppo accaduta anche tra me e mio nonno, tra me e mia madre. Mio malgrado, loro malgrado.

E per oggi, chiudo qui. piove ancora, ma più lentamente, più lentamente e i ricordi prendono il sopravvento sulla pioggia, mi stringono il cuore. Ho bisogno di rasserenarmi. Riprenderò domani. Buona domenica, anche se le notizie di oggi non mi rasserenano: soffiano altri terribili venti. Venti di guerra. E io non poso fare a meno di riportare: Ricordati Barbara/ Pioveva senza sosta quel giorno su Brest/ E tu camminavi sorridente/ Serena rapita grondante/ Sotto la pioggia/ Ricordati Barbara/ Come pioveva su Brest/ E io ti ho incontrata a rue de Siam/ Tu sorridevi/ Ed anch'io sorridevo / (…) / Ricordati Barbara/ Non dimenticare/ Questa pioggia buona e felice/ sul tuo volto felice/ Su questa città felice/ (…) / Oh Barbara/ Che coglionata la guerra/ Che ne è di te ora/ Sotto questa pioggia di ferro/ Di fuoco d'acciaio di sangue/ (…) / Oh Barbara/ Piove senza sosta su Brest/ Come pioveva allora/ Ma non è più la stessa cosa e tutto è crollato/ È una pioggia di lutti terribili e desolata… (Jacques Prevert, stralci della poesia “Barbara”, Paroles, 1946) 

sabato 29 marzo 2025

Sabato 29 marzo 2025: MILO DE ANGELIS e il “TEMA DELL’ADDIO” …

Oggi mi piace parlare, sia pure brevemente essendo sabato e, leopardianamente, si sa che è il giorno dell’attesa, non del compimento, del GRANDE poeta Milo De Angelis, che ho avuto l’onore di conoscere meglio attraverso la puntuale Prefazione a uno dei tanti libri di Poesia di Vittorino Curci, di cui ho scritto un “quasi saggio” antologico-corale (appena pubblicato dalla SECOP Edizioni di Corato-Bari, pp. 171, £ 14 i.i.), riguardante la sua Opera poetica di questi ultimi anni: I LUOGHI DEL CUORE - UNA SOLA MUSICAPOESIA O IL SUO CONTRARIO -, in cui mi è piaciuto mettere a fuoco i tanti luoghi del cuore che ciascuno di noi si porta dentro e che non sono esclusivamente riferiti al paese natio, ma a tutto quanto si possa sintetizzare in una emozione che ci comprende nell’attimo in cui la proviamo, sentendo che potrebbe durare nel nostro “per sempre”, che è anche il nostro “mai”. Tutto in queste pagine è, ma anche il suo contrario. Come è giusto che sia quando si tratta di un saggio su VITTORINO CURCI, che non ha bisogno di presentazioni. Queste le fa per me il Direttore di Collana “Scienza e Conoscenza”, cioè Giovanni Romano: “… Vittorino Curci: poeta, musicista, pittore, artista a tutto tondo, come ogni vero artista perennemente in ricerca, forse anche in attesa del momento in cui la poesia si rivelerà in tutta la sua terribile forza catartica…”.

E per connotare in qualche modo la straordinaria scrittura del Prefatore ecco alcune sue meravigliose affermazioni: Il cuore. È intorno al cuore che ruota tutto questo libro. Cuore della poesia, cuore materno, infine luoghi del cuore. Sono i luoghi dove - forse solo per qualche giorno o per qualche ora - siamo stati veramente noi stessi, dove abbiamo vissuto le esperienze più fondamentali della nostra vita, dove abbiamo incontrato persone che ci hanno fatto crescere e cambiare, dove ci è stato dato, per un istante, di sentirci lietamente, definitivamente vivi e completi. È uno splendido e inusuale biglietto da visita: di cultura, sensibilità poetica, generosità, umiltà, come ben si addice a uno studioso della sua statura intellettuale ed etico-sociale. E non è una sviolinata. Inutile e dannosa per tutti. È la pura verità. E il mio modo per dirgli “Grazie”, dato che mi è stato impossibile farlo prima.

Per quanto riguarda, invece, Milo De Angelis, si tratta di un ricordo che risale a vent’anni fa, ma sempre presente nel mio cuore: un articolo bellissimo, scritto nel 2005, sulla pagina de <LA REPUBBLCA>, dal compianto Enzo Siciliano, sul “Tema dell’Addio”, dopo la morte della amata compagna di vita dell’immenso nostro poeta, Giovanna Sicari, anch’essa poetessa di chiara fama.

Poesie complesse, come avvolte nel dolore e nella solitudine che sopravviene e sopravvive al dolore stesso. Inevitabile. Incolmabile. Insaziabile. Eppure così vivo da portare con sé una indescrivibile gioia, mista a una musica interiore “che riesce a illuminare gli angoli più bui dell’angoscia”. E Siciliano riporta alcuni versi a conferma di quanto abbia evidenziato con la sua analisi, accurata e discreta, di alcune poesie come: “Talvolta è stato attendere nel buio/ la felicità degli atleti, la chiara/ fantasia sulla pista, i bei giocolieri,/ talvolta è stato un blocco di partenza/ una melodia invocata tra le note/ più disperse, i cuscini, le scale mobili/ dell’ultima estate/ dell’ultima/ frase che respira in tutte”. E niente è più utile, nei momenti di più acuto dolore per una malattia che non lascia scampo, il riportare alla mente le loro passioni vissute in due, tra “la forza della tenerezza e l’estasi della passione”. In realtà, come in tutta la poesia di De Angelis, si parte sempre da un vissuto di vita personale per dilatare l’esperienza a tutto quanto è altro da sé, in un viluppo che costantemente si dilata in cerchi concentrici fino a  molteplici confini di fuga, che sono i continui “aggiustamenti” per orizzonti più ampi, perché niente rimanga immobile e intatto, ma ogni confine si dilati per farsi centro di un’altra periferia, a comprendere tutto l’altro che, come sostiene il filosofo lagunare Massimo Cacciari, “ha un cum”, che porta altrove oltre la rada. Il confine, in fondo, a mio parere, non è mai punto fermo, ma eterno movimento a portarci lontano dalla nostra casa, dai nostri affanni, persino dai nostri stessi sentimenti, perché non facciano più male. Nel caso di De Angelis, forse diventa il prolungamento di una identità collettiva che potrebbe rimanere inesplorata se non fosse per la volontà del poeta di dilatare l’attimo per renderlo eterno nella sua invisibilità corpuscolare, che si rende visibile non appena un raggio di sole illumina le innumerevoli particelle “tra scontri e ferite” (De rerum natura II, 122). E, del resto,  Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il tempo; è una tigre che mi sbrana e io sono la tigre; è un fuoco che mi divora e io sono il fuoco”: sosteneva il grande poeta e visionario Luis Borges. Ritengo che la stessa percezione di identità unitaria e frammezzata e di totalità temporale si avverta nella poetica di Milo De Angelis, che abbraccia tutta una vita: salti temporali s’intrecciano, si sovrappongono. Passato, presente e futuro sono su una stessa linea di continuità/discontinuità. E ci sembra di essere noi stessi immersi in un tempo che nei suoi versi ci ingloba, ma si slarga in innumerevoli direzioni, offrendoci nuove prospettive e possibilità di vite altre. Non a caso, il poeta, che ora vive con la fotografa Viviana Nicodemo, attingendo dalla sua Arte fotografica, che coglie l’attimo per eternarlo, afferma che quest’ultimo “è un istante che bisogna cogliere tra i mille possibili, è l’istante cruciale, il Kairòs”. Tutto quello che è giusto cogliere immediatamente, senza esitazioni di sorta, perché nulla vada perduto. Né l’amore, né il dolore, né la rinascita per sapersi vivi!

                                                                                Angela De Leo

 

venerdì 28 marzo 2025

Venerdì 28 marzo 2025: LUIGI LAFRANCESCHINA e le sue poesie tra pensieri e ricordi...

È da parecchi mesi che il libro DOPPE LA VENNEGNE: PENZIIRE E ARRECURDE - DOPO LA VENDEMMIA: PENSIERI E RICORDI - del mio carissimo amico “dei migliori anni della nostra vita” (Renato Zero) è sulla mia scrivania in attesa. Io l’ho letto più volte, fino a farmelo amico, anche perché spesso ho ritrovato me stessa, i tanti ricordi del passato, quando, avendo vissuto la stessa infanzia e adolescenza negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, avevamo più o meno accumulato le stesse esperienze di vita. All’ombra anche della vendemmia e della sua fatica che si trasformava in festa, come festa dell’allegria, che sostituiva i nostri pensieri, non sempre chiari e luminosi, come capita appunto durante l’infanzia per una sorta di ignoranza del mondo, e l’adolescenza, l’età della “crisi di identità”. E di ogni altra crisi, non sempre certificata, ma comunque vissuta con malumore, ribellioni ai genitori e agli insegnanti, al mondo adulto in genere, persino ai primi inconsueti palpiti del cuore. E dubbi e incertezze, e ostinati silenzi, per una pace mai fatta tra un corpo che cresce e una mente che non lo accetta, perché non riesce a prendere la giusta misura della distanza tra sé e gli oggetti, le cose, gli altri, il mondo… Crisi soprattutto della “identità sessuale” con il “complesso di Edipo” e di “Elettra” sempre in agguato. Fino all’identificazione con il genitore del proprio sesso, nel più semplice dei casi.

A quegli anni, dunque, risalgono i nostri ricordi tra un pizzico di nostalgia e un senso di maggiore appagamento per la scoperta di una realtà più completa e veritiera di noi. E così in Luigi si sovrappongono e si distendono i pensieri per ricordare, con i suoi versi: il padre, la madre, e poi la Murgia, con le piante, gli arbusti, gli animali, la natura a dargli il sapore di una realtà altra, che non era la propria casa ma sinfonia murgiana, dove si trascorrevano i giorni non nell’ammirazione di ferule e lumache d’alabastro, ma nella disperazione delle “toppe al sedere”, “dello stomaco sazio di fame”, delle piogge e del sole, del desiderio inappagato di andare al mare, salvo a scoprirlo nella distesa di campi in fiore, Un mare verde di vigne/ solcato da barche di ulivi e di mandorli/ E mi sembrava un mare più bello/ Del mare delle vele e dei pesci!

E i ricordi abbracciano anche le cose della vecchia casa: ci sopravvivono le cose, certo, ma giunge il tempo, se si sopravvive al tempo, della “consolle tarlata”, delle “sedie di Vienna” azzoppate dagli anni e dai malanni dovuti alla muffa, che non perdona. Il tempo di quando neppure noi riusciamo a perdonarci, perché il pendolo  

 ha voce arrochita per il dolore di registrare continue assenze, che mai più ritornano.

Pure rimane intatto il “baule dei ricordi” da consegnare al figlio, “Perché non dimentichi!”.

E, così, il tempo dei rimpianti si veste di altri ricordi non sempre piacevoli da ricordare: il tempo delle piogge e delle bestemmie del padre, uomo infaticabile fino a sentire il sonno piegargli le ginocchia e rimanere sveglio per lavorare ancora per via dello scarso cibo da portare a casa e la moglie brontolona per un bucato che stenta ad asciugare; la lotta quotidiana ai pidocchi che scorribandavano nelle case di tutti, ricchi e poveri, nonostante i drastici rimedi, che potevano risultare più pericolosi dei pidocchi stessi; e lungo la via stenti, errori, inciampi… distacco doloroso dalle radici/ E dal mio paese natio/ Preghiere e bestemmie in proporzione/ Tristezze improvvise… Risate col contagocce

Ma alla fine la gioia di tre nipotini… E, tra crediti e debiti/ È stato difficile tenere/ Il bilancio alla pari!/ Perciò quando vado dal Padreterno/ Mi rimetterò alla sua benevolenza.

Sono le ultime poesie dei ricordi, poi ecco quelle che mettono a fuoco le caratteristiche connotanti le quattro stagioni da lui vissute a seconda del tempo, della giornata e dell’umore, per giungere a quella presente che tutte le ingloba. E ci regala le poesie che lo accompagnano oggi e che gli danno ormai una nuova dimensione di sé, nel ricordo di ciò che non è passato del tutto e ancora si riverbera nei giorni presenti, familiarizzando con gli attimi vissuti con maggiore gioia e pienezza di sé, anche perché ha accanto il dono di una donna meravigliosa che lo fa sentire vivo e grato (vedi U PRIISCE, ossia LA FELICITA’).

Incontriamo anche con tenerezza un meraviglioso inno alle scarpe (alla stregua di Neruda e i suoi Inni a tutto ciò che nella quotidianità sembra trascurabile, ma trascurabile non è); attimi d’incanto e di preghiera, alternati a momenti più cupi nel ricordo di passate stagioni e del buio di quelle presenti, delle lunghe notti da vivere nella pece senza pace, onestà, dignità: valori praticati per un’intera vita, oggi senza difese. Ignorati, calpestati, derisi. Mummificati.

Per fortuna, gli corre in soccorso, sempre, la Poesia che gli permette ancora di volare…

Il libro si chiude qui, ma non la scrittura poetica di Luigi Lafranceschina, che in questi ultimi anni l’ha rinnovata in un dialetto-italianizzato, ossia “mescidato”, in cui è facile incontrare nella lingua dei padri un linguaggio più attuale e nella traduzione dei figli le parole vecchie-nuove che si mescolano in un intreccio quanto mai insolito, interessante, sorprendente. Eccone un esempio. Titolo “QUANDO MENO TE L’ASPETTI”: La guerra era nei libri di storia/ E di botto te la ritrovi in casa/ Quando meno te l’aspetti!/ Un mattone che ti cade sulla testa/ Una notizia che ti intossica le ndrame/ Un chiappo che t’affoga/ Un chiancone che ti pesta l’alluce/ Un cazzotto in un occhio/ Una pugnalata al cuore/ Un dente cavato senza addubbio/ Una lancinante colica renale/ Lo scatascio di un ponte sotto i piedi/ Un tramoto che ti scoffola la casa./ E tutto di botto/ Quando meno te l’aspetti!/ Una carogna infame la guerra/ E forse e senza forse qualcosa di più/ Di una sciagura di un cataclisma/ Di vetri in frantumi di pareti sfraganate/ Di un inferno di corpi su corpi ammucchiati…/ E allora apri gli occhi e le orecchie figlio/ Nelle tue mani il tuo domani/ Che la guerra è un diluvio universale/ E manco un’arca di legno a salvarti/ La guerra oggi è la fine del mondo/ E manco un’anima ad accenderti un cero!

E non è soltanto un fatto di lingua e di linguaggio, ma è soprattutto un groppo in gola per la sorte del figlio in un mondo violento e ottuso ad ogni richiamo al buon senso, e per la tragedia della guerra in sé per sé. Nella consapevolezza della inevitabile distruzione del nostro pianeta e della umanità tutta.

Ma, per fortuna, di generazione in generazione, tutto è nuovo e tutto si ripropone.

E Tutto ricomincia anche per Luigi Lafranceschina, con una creatività della mente e del cuore che non conosce stagioni…