LA POETOLOGA
Ho creato questo blog perché mi piace incontrare gli altri sul filo della poesia e della scrittura in genere. Ascolto, reciprocità, confronto, comprensione, condivisione...
lunedì 18 gennaio 2021
Lunedì 18 gennaio 2021: ultime annotazioni sulla Parola sollecitate da alcuni importanti apporti
domenica 17 gennaio 2021
Domenica 17 gennaio 2021: ancora sul tempo di inizio e fine e un "tra" di mezzo...
mercoledì 13 gennaio 2021
Mercoledì 13 gennaio 2021: nel Retino si sono impigliate due parole: vita-morte
Nel Retino abbiamo analizzato parecchie parole, ma abbiamo ignorato la parola morte, pur nominandola spesso in questi ultimi tempi, soprattutto abbinandola con la vita e con il dolore. Penso che sia giunto il momento di parlarne apertamente. Come si fa con le cose inevitabili e vere. Spesso si affrontano a muso duro per difenderci dalla nostra stessa fragilità prima ancora che dalla paura. Il mio primo incontro/scontro con la morte, consapevole e traumatico ma per fortuna indiretto, è avvenuto quando ero appena adolescente, tenendomi lontana per un’intera vita da visite ai defunti, cimiteri e persino dal solo parlarne. Stavo male. Avevo attacchi di panico e di rifiuto al solo pensiero. Mi conciliai con la pallida Signora grazie alla morte straziante di mia madre. Ma ancora oggi vado con molta riluttanza al cimitero o a visitare a casa i defunti. Spesso non ci vado affatto. Dentro di me, però, c’è ormai una continua vicinanza alla morte. Anche per via dell’età e delle tante morti che inevitabilmente hanno costellato la mia vita e, col punteruolo del dolore, segnato l’anima. E oggi ne parlo come se fosse un’amica con cui è rasserenante confrontarsi tanto è saggia e dà buoni consigli.
E desidero cominciare a parlarne con una pagina commossa e commovente, catturata su fb due giorni fa. Eccola: I funerali ai tempi del Coronavirus sono un triste inno alla solitudine. Si resta così, persino durante la cerimonia funebre: distanziati, mascherinati, desolati. Eppure, anche prima che il subdolo nemico iniziasse a serpeggiare invisibile tra noi, c’era un momento della veglia in cui la chiesa rimaneva deserta, i banchi vuoti. Di solito, nel primo pomeriggio. È ancora scolpito nel mio cuore, quello torrido di tanti anni fa. Non c’era più nessuno accanto a me. Accoccolato accanto alla bara, carezzavo la trina leggera che ne orlava il rivestimento. Pensavo che la statua dell’Addolorata stesse lacrimando per la medesima mia ragione, Gesù al centro dell’abside era crocifisso come me. Cercai le mani di papà, fra le quali un addetto alle onoranze aveva sistemato pietoso una sberluccicante croce, riassumendo con efficacia, tanto inconsapevole quanto inoppugnabile, l’essenza della vita di quel gigante lì disteso. Ad un certo punto, le sue dita si irrigidirono e strinsero forte forte le mie. Lo chiamano “rigor mortis”, ma forse è soltanto amore. Sembrava che fosse lui a non voler partire e, invece, ero io che non volevo lasciarlo andar via… (Mario Sicolo)
Ne ho parlato ieri nel mio Retino, ma la fretta che i dieci minuti scarsi mi impongono non mi dà la possibilità di essere distesa e tranquilla e molte cose vengono dette a metà e male. Poi, l’emozione da non sottovalutare quando le parole, che mi giungono dentro, mi stanno più a cuore…Cerco qui di porre rimedio in qualche modo. Innanzitutto, mi preme precisare che: distanziati, mascherinati, desolati sono parole piane perché, come sappiamo benissimo, hanno l’accento sulla penultima sillaba e ciò determina un suono più pesante, duro, battente rispetto alla leggerezza della parola sdrucciola. Di qui il martellamento di cui parlavo ieri o la goccia fissa sul capo del torturato a rendere immobile e devastante il dolore. Ma non so cosa posso aver farfugliato ieri, col tempo che mi strangola. Poi, accoccolato (con tutti i suoi sinonimi: rannicchiato e accucciato con riferimento a nicchia e cuccia) e carezzavo hanno creato in me un’onda d’urto di tenerezza infinita verso quel ragazzo straziato, solo, lacerato, e avviluppato nel suo stesso dolore, in cerca di un rifugio consolatorio e protettivo per la sua anima in frantumi. Spero di esserci riuscita in qualche modo a comunicarti, mio carissimo Mario, la mia grande commozione che è, come ben sai, molto di più della stessa emozione. Così per tutto il resto: tu stesso crocifisso (fissato con chiodi e martello alla croce del tuo dolore)… Vorrei soltanto riprendere i versi di Tagore perché mi sembrano la giusta conclusione alla tua meravigliosa pagina.
La morte non è/ una luce che si spegne./ È mettere fuori la lampada/ perché è arrivata l’alba.
C’è quella negazione iniziale che già elimina la stessa morte. Non è la vita (luce) che si spegne. È una nuova alba fatta di luce tanto da rendere inutile la lampada accesa per rischiarare il buio della casa e del cuore desolati (lampada votiva?). Dopo la non-morte, l’alba è luce di rinascita. Resurrezione.
E anch’io, dopo la non-morte, mi riscopro eterna “viandante” con l’anima in tumulto verso un possibile “incontro”, scoprendo sempre più il suo “attraversamento” in un viaggio per raggiungere prima o poi il “non luogo” per eccellenza, la morte che morte non è… Sostiene Marc Augé, che ha “inventato” l’espressione “non luogo”, “Quando il pensiero è incapace di pensare la fine del tempo, cerca sempre di rappresentarsela in termini spaziali. Di qui la possibilità di pensare l’aldilà come un non luogo”. Un non luogo, dunque, uno spazio senza identità e senza memoria che l’uomo si finge per non pensare al nulla? Ma il non luogo assoluto non esiste - sostiene ancora Augé - dato che “in qualsiasi spazio c’è sempre, almeno potenzialmente, la possibilità di un incontro”. Anche una chiesa o, meglio, il camposanto, come un tempo lontano più coerentemente con la fede che animava i nostri vecchi, veniva chiamato il cimitero, è un “non luogo” che ha uno spazio delimitato: le navate per una chiesa, il campo per il cimitero. E un campo è sempre possibilità di incontro. A me dà l’idea della battaglia, della lotta, di una sovraesposizione di forza, di vita. Il campo mi suggerisce anche il rosso della violenza e del sangue, simile all’arena spagnola che vede lottare in un corpo a corpo impari fino all’ultimo sangue il toreador e il toro (oggi per fortuna, causa coronavirus, le corride di primavera sono sospese!). Ma anche il verde della distesa di un prato d’erba pacificato. Il giallo generoso e luminoso del grano. Il marrone bruciato delle stoppie. Il campo, a ben ricordare, è anche un “recinto” dove uomini liberi, in quanto uomini, perdono, con la propria terra, la libertà di vivere come uomini. È di soli due giorni fa la notizia della barbarie umana contrapposta al coraggio e alla giustizia dei giusti: la morte per inedia, dovuta ad un ennesimo sciopero della fame, di Ebru Timtik per difendere la giustizia e la sacralità della vita e della libertà di ogni essere umano. Il camposanto, però, con quell’aggettivo “santo” unito a “campo, si fa nome composto a definire la sacralità del luogo spazio/tempo, di silenzio e solitudine nel perimetro del suo orizzonte. Silenzio e preghiera. Nel suo spazio limitato e delimitato la sacralità della morte: le tombe bianche, colme di luce, quasi a rendere visibile l’assenza/presenza sotto un nome e un volto. Nome e volto riempiono lo spazio vuoto tra due date: la nascita, la morte. Quel nome e quel volto, fermati nel tempo, sono l’identità di una vita, che non ha più corpo, voce. Le date, invece, dipanano una storia. Che non ha più senso (“sic transit gloria mundi”). Che ha ancora senso. Perché un uomo è un uomo sempre. Lascia una profonda traccia di sé in chi lo ha amato. In chi lo ama. Ombre scure sono ferme nei cimiteri con le spalle contro i vialetti che delimitano le aree delle tombe bianche. Di spalle, l’amore. Di spalle, il dolore. Di spalle l’amore-dolore. Non ha volto né voce l’amore-dolore. Nel cuore il luogo del non luogo. Immobile, il dolore è una sagoma scura e solitaria. Immobile, il dolore seduto. Il dolore “accoccolato”. Il dolore arreso. Il dolore piegato/piagato. Il dolore mai dimenticato, che non dimentica. È paziente il dolore. È la paziente attesa dell’incontro, il dolore. Mai rassegnato. Mai vinto. È la certezza dell’incontro. La Speranza. E, nel silenzio muto che muta il dolore in preghiera, fiorisce la consolazione. Il ricordo è un fiore. La consolazione, visibile nei mille petali/lacrime dei crisantemi (ricordate la favola della bimba?); nel profumo intenso dei lilium, calici assetati di luce, dove la memoria è un rimorso o un inganno di verità. Nel non luogo dell’assenza/presenza si ferma il tempo e si fa storia eterna. Si fa memoria. E i cipressi alti si contendono, con le anime, il cielo. E il viaggio continua in tutto il senso e il non senso della vita e della morte, dell’amore e del dolore. E nel viaggio attraverso l’Amore/Dolore incontriamo l’Alba dopo ogni buio. La Luce, la Rinascita. Una possibilità di Incontro. La Resurrezione oltre…
“Il mistero della vita”: Il mistero della vita/ penetra nel mistero della morte,/ il giorno chiassoso/ tace dinanzi al silenzio delle stelle (ancora Tagore).
Ci sono poesie commoventi e profonde sulla morte. È superfluo ricordare “La morte non è niente” di Henry Scott Holland tanto è nota, ma c’è una poesia di Pessoa che ne approfondisce il tema con una visione più alta e più significativa che mi piace condividere. “La morte è la curva della strada”
La morte è la curva della strada,/ morire non è solo non essere visto./ Se ascolto sento i tuoi passi/esistere come io esisto./ La terra è fatta di cielo./ Non ha nido la menzogna./ Mai nessuno s’è smarrito. Tutto è verità e passaggio.
Perdonatemi se ho scritto ancora tanto. Cercherò di ridurre. Lo prometto. Ci riuscirò. E sarà una sfida personale con il tempo… Vi abbraccio. A venerdì 15 gennaio, ore 19. Ciao.
lunedì 11 gennaio 2021
Lunedì 11 febbraio: nel Retino resoconto commenti, riflessioni, poesie (e tanto altro ancora)...
Ma il Retino si va facendo sempre più pesante di antiche e nuove voci che attendono impazienti di essere protagoniste delle prossime puntate.
In pratica, in soli due mesi e mezzo, abbiamo messo sotto la lente d’ingrandimento della nostra sensibilità poetica circa 18 parole. E a breve si aggiungerà CLESSIDRA, che fa parte ancora del tempo e che, sin da subito, ha suscitato la curiosità culturale di Marisa e Liliana Carabellese, due carissime amiche che seguono il nostro Retino e il Blog.
Piano piano, ma anche abbastanza velocemente, stiamo perseguendo lo scopo principale del mio Retino: la condivisione della bellezza e dei nostri punti di vista in un sereno “incontro” con la POESIA.
E ora vorrei concludere il discorso di venerdì sul “TEMPO FERMO”, la poesia di Lizia De Leo che voi tutti conoscete, dedicata alla perdita devastante e improvvisa della sua carissima amica Anna Grazia Moretti. Poesia, che contavo di poter commentare durante la diretta ma che, per mancanza di tempo, è rimasta impigliata nelle mie parole affastellate alla meno peggio e senza senso perché ormai in via di fuga. Riprendo con le poesie di Primo sul “tempo di prima, durante e dopo” per poter fermare il mio sguardo su un’altra possibilità di tempo, quella del “tempo fermo” appunto. E la leggo con profonda commozione e immenso rispetto per un dolore, quello di mia sorella e di quanti hanno amato e apprezzato la dottoressa Grazia, che ha interrotto consuetudini, parole, risate, ma certamente non il grande sentimento che continua a sollecitare lo strazio dell’assenza fisica che diventa fortissima presenza nell’anima:
Il tempo è fermo./ Tempo interrotto./ Tempo infranto.// Né prospettive/ né speranze.// Memorie dolorose/ costruiscono/ i legami negati/ che la morte/ non può distruggere.// E la vita divora i giorni/ divora gli affetti.// Solo parole esauste/ nello strazio cristallizzate.// Il tempo è fermo/ nel tuo parlare/ e parlare.// E su noi due che (era vero?)/ ridevamo insieme…
Ecco un tempo che interrompe la sua fluidità e il suo scorrere indifferente alle vicende umane. È fermo. Per troppo dolore. Tempo interrotto bruscamente. E, proprio per questo, andato in frantumi. Lasciando davanti a sé il vuoto dei giorni futuri. Ma, per fortuna, non le prospettive o le speranze, ma le memorie tessono ancora intrecci di “legami negati” che vincono persino la morte, mentre la vita divora giorni e affetti. E il reiterato “divora” ci crea uno sgomento di tempo vorace che ci assale quotidianamente senza concederci tregua. E, in tanto strazio, la poetessa avverte persino la stanchezza delle sue parole che non le offrono un respiro… In realtà, il tempo è fermo ma dilatato sul profluvio di parole (lo scorrere ininterrotto, in un movimento che è ancora vita!) che connotava Grazia e ancora la connota, come la sua lunga contagiosa risata. Il dolore per l’assenza fisica fa sorgere anche il dubbio, nell’Autrice, che tutto ora sia una invenzione della mente per non naufragare del tutto. Ma quelle coinvolgenti risate erano vere. E il tempo, ora pietoso, si ferma a dilatarne la gioia della condivisione. Ed è questa condizione di un tempo che rinnova amore e ancora amore a restituire a Lizia parole vive e pulsanti di mai spenta vita, mai spenta poesia. Serve solo spostare il punto di osservazione per scoprire che niente muore del tutto se è radicato nel nostro cuore. (Così alitando sul vetro, si/ tracciano / le iniziali di coloro alla cui/ assenza / non ci si può rassegnare (I. A. Brodskij)
Ed ora, ecco una poesia di Leonardo Sciascia, che Francesca Pice si è premurata di inviarmi, nel giorno del centenario della nascita dello scrittore/poeta. Grata del dono ricevuto, sono felice di riportare qui quanto Francesca ha scritto: … in occasione del centenario di Leonardo Sciascia, mi piace soffermarmi su un’immagine quasi inedita, eclissata, dello scrittore siciliano che fu anche poeta e autore della bellissima raccolta di versi “LA Sicilia, il suo cuore”, pubblicata nel 1952 in un’edizione di pregio di 111 copie numerate accompagnate dai disegni dello scultore catanese Emilio Greco. Lo faccio con la lettura “virtuale” di una poesia dall’andamento prosastico che ricorrendo a lucide immagini disegna “una raggiera di nostalgie” sulle quali si spande l’odore acre della campagna e “la strabica pupilla del sole” che si fa sempre luce di vita
“Pioggia di settembre”: Le gru rigano lente il cielo,/ più avido è il grido dei corvi;/ e il primo tuono rotola improvviso/ tra gli scogli lividi delle nuvole,/ spaurisce tra gli alberi il vento./ La pioggia avanza come nebbia,/ urlante incalza il volo dei passeri./ Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;/ per la rabbia dei lampi preghiere/ cercano le vecchie contadine./ Ma ecco un umido sguardo d’azzurro/ aprirsi nel chiuso volto del cielo;/ lentamente si allarga fino a trovare/ la strabica pupilla del sole./ Una luce radente fa nitido/ il solco dell’aratro, le siepi s’ingemmano;/ tra le foglie sempre più rade/ splende il grappolo niveo dei pistacchi. Un caro abbraccio F.
Ed ecco la mia risposta: Mia carissima Francesca, che gioia risentirti. E che bello quello che mi scrivi. Amo molto Sciascia e mi ha emozionato molto la bellissima poesia che mi hai trascritto col tuo sintetico ma ottimo commento. Lo riporterò sul blog nei prossimi giorni. Oggi temo di non poter fare neppure un piccolo riferimento. Hai colto perfettamente lo spirito del mio Retino e te ne sono grata. Quanto alla poesia “Pioggia di settembre” è la testimonianza che Sciascia non è solo, il grande scrittore della denuncia politico-sociale de Il giorno della civetta e del suo impegno contro la mafia, ma anche un grande poeta. Bella la tua brevissima analisi, e oggi è proprio il giorno adatto per sentirla fin dentro le ossa: piove a dirotto e fa molto freddo. Ma appena possibile mi piacerà, durante il Retino, aggiungere un mio commento. E da fb catturo un’altra bellissima poesia di Leonardo Sciascia, riportata alla memoria da Marino Pagano, altro poeta e cultore della Poesia, oltre che giornalista, studioso di storia locale e tanto altro ancora. A lui, ignaro di questa mia "cattura", va il mio grazie:
“AD UN PAESE LASCIATO”: Mi è riposo il ricordo dei tuoi giorni grigi,/ delle tue vecchie case che strozzano strade,/ della piazza grande piena di silenziosi uomini neri./ Tra questi uomini ho appreso grevi leggende/ di terra e di zolfo, oscure storie squarciate/ dalla tragica luce bianca dell’acetilene./ È l’acetilene della luna nelle notti calme,/ nella piazza le chiese ingramagliate d’ombra;/ e cupo il passo degli zolfatari, come se le strade/ coprissero cavi sepolcri, profondi luoghi di morte./ Nell’alba, il cielo come freddo timpano d’argento/ a lungo vibrante delle prime voci; la case assiderate;/ in ogni luogo la pena di una festa disfatta./ E i tramonti tra i salici, il fischio lungo dei treni;/ il giorno che appassiva come un rosso geranio/ nelle donne affacciate alla prora aerea del viale./ Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro,/ pietà ed amore trovano antiche parole.
E, intanto, un altro grande Poeta del Novecento letterario italiano ci ha detto addio. Parlo di Franco Loi e della sua poesia realistica e spirituale insieme, ricca di arcaismi e neologismi, di pregnanza dialettale per raccontare gli oppressi e gli ultimi con grande carità cristiana, non disgiunta da una forte carica polemica, ironica, profetica. Sarebbero molto graditi e interessanti i vostri commenti alle due poesie di Sciascia, tanto diverse eppure tanto simili nella descrizione così rammemorante dei luoghi del cuore. E a qualche poesia più significativa di Loi. Spero di poterne parlare anche nel Retino. Infine, ci sono ancora nuovi vostri commenti che mi fanno molto piacere e mi suggeriscono che stiamo percorrendo insieme “la retta via”. Ecco cosa mi ha scritto oggi Giulia Basile: Angela sei una fonte di acqua fresca e limpida in un mondo che affoga in acqua stagnante, e tu, invece di adagiarti col passare degli anni in giorni pigri e indolenti, tu fai dei tuoi pensieri un fresco ruscello dissetante per chi sa apprezzare la vita. Grazie per i tuoi stimoli. Bella anche la poesia “Errare” di Mariateresa. (Giulia Basile). Non ricordo se già ve l’ho proposta nelle puntate precedenti del mio blog. Nel dubbio, eccola. È davvero molto originale e profonda. Mariateresa mi scrive: E a proposito della consapevolezza di un ESISTERE che è inno a ciò che di umano ancora resiste... eccone un'altra! “Errare”: Eccomi piuma di un'ala esausta di peso sottrarsi al greve di un fare disfatto./ Eccomi grafia di un verso incompiuto sprecato nello spazio di un rigo troppo stretto./ Eccomi braccia esili a sorreggere un improvviso sapere di sé che imbavaglia l'attimo./ Eccomi chiodo, finestra, focolare. /Eccomi errore nell'errare. Da commentare. È un invito a me. È un invito a voi. E sono davvero felice di tutto questo e della stima affettuosa e sincera verso altri poeti e scrittori che partecipano attivamente al nostro Retino. È questo lo spirito giusto: stare insieme per fare insieme un percorso di reciproca conoscenza e di apprezzamento di quanto ci unisca in nome della scrittura e della poesia. Grazie. E, a questo proposito, vorrei concludere citando la “Rete di Indra”, tramandata dalla tradizione buddhista.
L’UNIVERSO è costituito da una immensa RETE che attraversa tutto l’infinito e abbraccia tutte le esistenze passate, presenti e future in un eterno presente e ogni esistenza è parte della rete e si interseca con le altre in nodi che culminano con infinite “gemme” luminose. La immensa rete di fili colorati e lucenti vive di “interesistenza” e di interdipendenza le une con le altre. E sono tutte attraversate dalla stessa luce in ugual misura e splendore. Se appare una, appaiono tutte. Ma, se la luce per una frazione di millesimo di secondo dovesse spegnersi anche tutte le altre si spegnerebbero. È, a mio parere, una metafora molto bella che ho fatto mia da quando per la prima volta mi capitò di “incontrare”, nel saggio di Francesco Bellino Giusti e solidali: fondamenti di etica sociale, nei lontani anni Novanta, la “Rete di Indra”. Saggio davvero illuminante. Il mio minuscolo Retino è partito proprio da quella magica RETE, ma l’emozione del nostro primo incontro della durata di cinque minuti non mi diede il tempo di parlarvi del respiro di infinito ad essa sotteso. Tra l’altro, il monaco buddhista Thich Nhat Hanh, poeta e attivista vietnamita per la pace, ormai ultranovantenne, parla di “inter-essere” tra le diverse creature del Creato. Dunque, di interconnessione della nostra esistenza a quella di tutti gli altri esseri che respirano l’Universo e si nutrono del mistero della vita nell’Infinito. È una teoria filosofico-poetico-spirituale di straordinaria bellezza e saggezza, a cui davvero e bello ispirarsi. Lo faremo insieme. Con AMORE e l’ARMONIA, ricchi della nostra interesistenza, del nostro illuminarci (in tutte le possibili accezioni) a vicenda… Grazie a tutti e a domani. Vi abbraccio. Angela
giovedì 7 gennaio 2021
La magia delle FINESTRE: 7 gennaio 2021
E di nuovo ricamerà la brina,
e di nuovo mi prenderanno
la tristezza di un anno trascorso
e gli affanni di un altro inverno…
(Boris Pasternak)
È quanto sento in cuore questi giorni e Pasternak mi viene in aiuto con i suoi versi dedicati a Lara nei lunghi giorni dell’assenza e del silenzio. La fine di un anno porta con sé attese e speranze, ma anche la stanchezza di un anno vissuto nel bene e nel male, e la tristezza di qualcosa che muore, di un addio, del tempo che più non ritorna e ci lascia sulla riva di ogni abbandono senza poterci bagnare mai due volte nello stesso fiume (come viene attribuito ad Eraclito). Il futuro è enigma perché quel fiume ha anse imprevedibili a nasconderci altri percorsi, altri orizzonti, altre insidie. E, del resto, qualcosa si oppone alle attese e alle speranze dell’ultima notte dell’anno: il timore di vivere gli stessi “affanni di un altro inverno…”. Il tempo del freddo, delle piogge e della neve, la brina e il vento, il buio più intenso e le notti più lunghe, gli alberi spogli e la natura addormentata, con tanti animali che vanno in letargo, intristiscono il nostro animo che vola verso la luce, mentre tutto il nostro corpo si irrigidisce perché ha bisogno di sole e del suo calore.
E ancora, come logica conseguenza, ritornano nel mio retino la pioggia, le tempeste del cuore, la solitudine devastante sulla “prateria sconfinata” e perciò più desolata dell’animo di un altro grande poeta, Alberto Teodori, vinto dall’assenza della persona amata. E precorre ancora un tempo di vuoto che sicuramente si farà diluvio di lacrime, di paura se “tarderà” l’attesa “presenza… a farsi presente”. Uno splendido poliptoto a rendere più suggestiva e devastante la presenza della pioggia sulla incolmabile assenza.:
Piove sull’asfalto,
piove sul mio cuore,
piove sulla devastante prateria sconfinata del mio animo,
e so che, sino a quando non ti rivedrò,
saranno tempeste che graviteranno a lungo sul luogo d’ombra,
senza che luce possa lenire il vuoto che sopporto.
Di più mi farà paura il diluvio che arriverà
se la tua presenza tarderà a farsi presente…
(Alberto Teodori, stralcio de “La pioggia”)
Per questo è necessario puntualizzare la necessità che la natura rispetti i suoi ritmi naturali perché il cuore si rinfranchi nell’attesa/speranza di una nuova primavera che dovrà pure germogliare:
… è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra si degni di fiorire,
che all’affanno cresca un cuore che batte.
È tempo che sia tempo.
È tempo.
(Paul Celan, stralcio della poesia
“Corona”, Poesie, raccolta postuma, 1998)
Ma…
C’è un tempo per capire,
un tempo per scegliere,
un altro per decidere.
C’è un tempo che abbiamo vissuto,
l’altro che abbiamo perso
e un tempo che ci attende.
(Lucio Anneo Seneca)
Sì c’è un tempo per ogni nostra esperienza di vita. Un tempo per insegnare e un tempo per imparare… (se accadesse contemporaneamente, vinceremmo la più grande battaglia contro l’ignoranza e la diffidenza; contro la presunzione di chi crede di sapere e l’umiliazione di chi pensa di non sapere e si rifiuta di imparare, ha paura di imparare perché teme la sconfitta letta negli occhi e nella voce di chi dovrebbe sollecitarlo ad avere fiducia in sé stesso…).
Ce lo ha insegnato proprio Seneca circa duemila anni fa e non abbiamo ancora imparato la sua preziosa lezione:
Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et nomine dum docent discunt.
“Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore e accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché gli uomini, mentre insegnano, imparano”).
C’è un tempo per vincere e un tempo per perdere; un tempo per ricominciare, per incontrare gli altri e per incontrare sé stessi. Un tempo per amare ed essere folli d’amore oltre ogni dire. E un tempo in cui quei ricordi sono sorgente di vita più che di rimpianti.
E desidero concludere con una mia poesia che parla del tempo vissuto, dell’ardore degli anni dello “splendore nell’erba”, dei ricordi…
Incendio di vene la primavera che ricordo
ai giorni dell’amore nei bicchieri
braccia di fuoco a stringere il sogno
e l’allegria.
Erano i nostri anni cesti di garofani accesi.
Tu mi portavi la tua ironia agli assalti del cuore,
io rossore di ciliegi sul candore delle guance
in fiore.
Giganti noi a forare cieli striati d’azzurro.
Dischiuso all’alba il canto delle allodole.
Tra mani incerte di splendore e fili d’erba
il giorno.
Passò il tempo dei gerani ai balconi.
Sventolio di bandiere arrese il ricordo.
Follia di giovinezza ebbe occhi d’ardore
e di papaveri.
(“Incendio di vene”
da Il vento il fuoco e le azzurre acque,
silloge edita in Serbia e ancora inedita in Italia)
E ora vorrei dedicare qualche mio commento a quelli che mi avete inviato dall’inizio di questo nuovo anno e che sono molto stimolanti oltre che gratificanti. E comincio con Mariateresa Bari:
"E la memoria come mamma amorevole nutre i ricordi come fossero bambini suoi" ... quanta poesia...Sempre grazie per il tuo generosissimo dono, Angela! A domani.
E qui non ci sono commenti, solo gratitudine per aver colto profondamente la metafora della memoria/madre amorevole dei ricordi che nutre quasi fossero suoi bambini. In realtà, è un dono reciproco, a mio parere, perché anche i ricordi danno linfa vitale alla memoria. Ma non voglio ripetermi. Vi rimando a quanto già scritto. Se ne potrebbe riparlare con altri vostri commenti per un confronto.
Ed ecco un altro messaggio che fa bene al cuore:
Cara Angela non dico nulla perché mi hai inondata di pensieri belli e profondi e tanto intrecciati da esserne sazia. Mi rivedrò tutto e rileggerò lentamente, sicura di averne beneficio. Grazie (Giulia Basile). Anche con Giulia, che ringrazio sentitamente, potremmo riparlarne. A me gli intrecci piaccioni molto. Sono matasse da districare per trovare il bandolo di ciascuna e venire a capo di una o più idee.
Poi, Elina Miticocchio:
Ho una casa foglia che sta sulla faccia/ Accedo naufraga/ dall’acqua di mia madre/ Natante/ Al rosso del cosmo… (…) Bella pagina intera/ intera è la memoria/ quando si eleva al cielo/ e canta la sua azzurrità… (…) La memoria e un/ quaderno da sfogliare./ Mai logoro, mai scritto/ abbastanza./ Il sogno è il corpo/ tracciato molto prima che/ nessun occhio può/ vedere.
Angela cara, grazie... infinitamente! Per il Tuo commento inaspettato ma tanto, tanto apprezzato! Il tuo dire è una carezza gentile, ed ossigeno puro, per me... Ma un infinito grazie anche per il tuo viaggio seducente nel pianeta Tempo. Il tuo racconto ne svela i panorami mozzafiato e i borghi incantevoli come pure le sue ombre nascoste. Un abbraccio a te. Forte! (M. Bari, lunedì 4 gennaio) Ancora Mariateresa Bari, che giorno dopo giorno, mi rende felice con una sua tenerissima nota poetica. Versi che, mentre rispondono ai miei commenti, si fanno grappoli di fasci luminosi che illuminano altri paesaggi in ombra, che hanno solo bisogno di luce per rivelarsi e svelarsi e sorprendermi/ci. E il Tempo suggerisce a Mariateresa una poesia incredibilmente insolita, originale, ardita per metafore che capovolgono il mondo, mentre i sogni si fanno preghiere, “rammendate da un filo di voce” (verso di una bellezza incredibile). E i desideri continuano a fiorire tra il sussurro di labbra devote che dimenticano quelle preghiere antiche “sui marciapiedi delle ore” fatte, queste ultime, di assenze e lontananze, ma anche di sogni più veri della stessa realtà, accarezzata dal “velluto delle parole” che con pennellate d’artista riscattano bellezza e speranza sul davanzale del pensiero che pensa la propria esistenza. E il “cogito ergo sum” di cartesiana memoria si ribalta come ogni altra realtà per farsi inno del sapersi ESISTERE… Sul pianeta Tempo// C'è un pianeta/ dove nascono sogni a mani giunte/ e un filo di voce rammenda preghiere/ dimenticate sui marciapiedi delle ore.// Dove ci tocca il velluto di parole/ nelle carezze di un pennello/ a punta fine sul davanzale del pensare.// Dove si fa corpo/ il verbo dell'essere. (M. Bari Appena nata!, 4 gennaio).
Quando i suoni di una stella/ ti giungono inaspettati e paiono/ serafici come flauti ai confini/ dell’umano sentire,/ sono palpabili i colori del disincanto/ come vecchie foglie accartocciate/ dall’arsura/ e tu intaschi il tempo e parti. (Mariateresa Bari, “Epifania”, pubblicata su fb e da me “catturata” per scoprire insieme la profondità di questi versi).
La seconda mi conferma quanto sia “capovolto” il mondo degli adulti del nostro tempo: la perdita, negli anni, dello stupore che si accende nella innocenza degli occhi bambini all’arrivo della Befana contro il disincanto che subentra nel cuore desertificato degli adulti, che neppure “i suoni di una stella” simili a flauti “ai confini dell’umano sentire”, ma solo “i colori del disincanto”, simili a “vecchie foglie accartocciate”, finiscono nelle tasche e si fanno misura del tempo, che ci ordina di riprendere il cammino verso un futuro che non ha palpiti né la magia di un sogno ancora da vivere. E mi tornano in mente i versi bellissimi di una canzone di Roberto Vecchioni: “gli uomini son come il mare/ l’azzurro capovolto/ che riflette il cielo;/ credono di navigare,/ ma non è vero… (da “L’ultimo canto di Saffo”). Il Tempo è anche inganno e nostalgia. Ma, in molti casi oggi, è tempo sprecato per il tanto azzurro che gli occhi si perdono, incapaci come sono di guardare il cielo, di pescare a riva le azzurre meraviglie del mare. Non lasciamoci mai sorprendere dal disincanto. Conserviamo intatta la voglia e la capacità di sognare. Per colmarci sempre e comunque di Poesia.
E, infine, Elina Miticocchio mi manda questo messaggio che condivido sul mio blog perché è un bellissimo dono di questa Epifania appena vissuta all’insegna della Speranza per un anno migliore:
Il primo commento al libro di poesie Alle radici dell'erba (collana I Girasoli, Secop Edizioni 2020) giunge oggi inaspettato da Giovanni Romano che ringrazio per sintesi e contenuto. Lo riporto qui di seguito: "Ho letto questo libro nel momento migliore per apprezzarlo: la tranquillità e il silenzio della tarda serata, prima di andare a dormire. Quando gli impegni e gli affanni della giornata sono finiti, o quanto meno si lasciano dietro di sé. Fa bene all'anima leggere questi versi. Fa bene all'anima sapere che esiste chi sa custodire e donare la meraviglia e la bellezza del mondo, la gratitudine per l'affetto che ha ricevuto, i colori e gli spazi immensi per farci volare nella sua fantasia. Non mi stancavo di assorbire questa voce, di seguirla in silenzio nel suo mondo incantato. È la voce di una poetessa sempre più consapevole della propria arte fino a trovare una splendida sintesi per definire che cos'è la propria poesia, e quale effetto opera: "La carezza che porta / al disgelo delle palpebre".
Ringrazio Elina e ringrazio il Prof. Giovanni Romano, raffinatissimo e colto saggista, che fa parte della grande famiglia di Autori della nostra Casa editrice, per questo splendido commento alla raccolta di poesie di Elina Miticocchio, che sa volare con le parole con la carezza della sua azzurra anima bambina.
Ed ora chiudo perché domani riprendiamo con il Retino alle 19,30, come è consuetudine ormai. Sarà il primo incontro del Nuovo Anno, così tanto atteso per inondarci di nuova luce e di nuovi sogni/progetti di Vita.
Una precisazione doverosa: da domani riprendo con le molteplici attività di scrittura che vanno ben oltre il Retino. Scrivere, per me, è una passione, una necessità, una salvezza. Ma è anche una missione, che mi vede dedicare gran parte del mio tempo agli altri, per un parere sulla loro scrittura, un editing, una prefazione, una recensione e tanto altro ancora. Solo di notte e nei ritagli di tempo penso alla mia scrittura personale. Questa premessa mi serve per dirvi che da domani non avrò più il tempo per scrivere tutti i giorni sul blog. Lo farò ogni volta che mi sarà possibile. Non ne posso fare a meno. Ma non vi taggherò come ho fatto fino ad oggi per non impegnarvi nella lettura. Quando vorrete, saprete dove trovarmi: martedì e venerdì sul Retino in diretta, e di tanto in tanto, ma abbastanza frequentemente sul blog. Avrete sempre notizie su facebook. A domani. Con un grande abbraccio. Angela
mercoledì 6 gennaio 2021
La magia delle FINESTRE: 6 gennaio 2021
Ma la cronaca di quei giorni ignorò del tutto il cuore straziato di mio nonno. Ignorò il soldato che scappò sotto quella neve perché era a due passi da casa e venne fucilato come disertore ed aveva solo diciotto anni (uno dei tanti ragazzi del ’99, mandati a morire come capretti, sottratti ai campi e alla casa, e del tutto ignari del significato stesso di Guerra, di esercito, di nemico da ammazzare), e gli era rimasto negli occhi uno stupore senza nome e senza preghiera. "Cosa ho fatto di male lungo il sentiero che mi stava solo riportando a casa mia?", ebbe appena il tempo di dire rivolto al Cielo che era tenero di piume e avaro di pietà. Certo, sembravano fiabe quei racconti interminabili di mio nonno, scampoli di verità di quei fatti lontani e ancora vivi nella sua anima benché ascoltati da noi nipoti col lo stupore di bambini ignari della cattiveria del mondo. Protetti dal cuore di nostro nonno, che ogni sera accendeva solo per noi tutte le stelle perché potessimo imparare a sognare per superare la paura e il disincanto, dato che prima o poi la vita ci avrebbe ingoiati nei buchi neri delle sue contraddizioni e avremmo dovuto fare i conti con la violenza, i lutti, il pianto...
E oggi sempre più spesso io mi rifugio in quelle sere sotto le stelle per ricordare il suo raccontarci le verità vere dei giorni passati e di quelli presenti e futuri. Sì, ora sempre più ho bisogno di quelle antiche certezze per ritrovarle ancora intatte e non avere più paura del presente così devastante e del futuro così precario e incerto per l'umanità intera. Devo partire da quelle lontane parole, le uniche che avessero per noi profumo di verità... Mia nonna sgranava gli occhi di bambina e s'accontentava di ascoltare il suo uomo e di scoprire il piccolo mondo che palpitava di vita appena fuori dalla sua casa. Lei sapeva accontentarsi. Era semplice e viveva di cose semplici. Non sapeva leggere né scrivere, come la maggior parte delle donne del suo tempo. Ebbe lunghi dolori di figli perduti alle sue braccia, confidando nel buon Dio che donava e toglieva, secondo il suo “ricamo”, di cui noi vedevamo solo il rovescio sotto la volta del Cielo, e lunghe risate a lenire quel dolore che nessun cronista avrebbe mai raccontato o racconterebbe mai. Era un mondo semplice e quasi piatto, il suo, che neppure un semplice e onesto cantastorie avrebbe mai acceso d'amore. Mio nonno sì, aveva fatto palpitare e vivere quel loro mondo di sacrifici, silenziose rinunce, quotidiana preghiera e lo aveva acceso di gioia e di memoria, facendo rivivere il passato e prevedendo il futuro, che è solo il “passato capovolto” per chi lo sa inventare...
Le parole dei vecchi, dunque, sono le sole parole vere di cui possiamo fidarci? Le uniche in cui credere? Purtroppo, no. Non hanno filtri i vecchi, né velleità di apparire. Vogliono solo consegnare ai nipoti la tradizione ricevuta dai racconti dei loro nonni, forse per fermare il tempo, prima che scappi via e li lasci deserti di memoria, svuotati di ricordi e di parole perse nel tempo, di voci spente nella voce del vento.
Nelle loro parole, la rinnovata identità di noi stessi, della nostra appartenenza, questo sì, ma contengono la “verità storica” dei “fatti”? Purtroppo, no. Ciascuno ha la sua verità. Che è sicuramente la propria verità, ma non può essere assunta a “verità storica”. E ogni verità è frutto di personalità, di passioni, sentimenti, emozioni. La stessa realtà ha migliaia di volti e voci e parole e percezioni, incanti e disincanti diversi. Ecco perché i ricordi non si fanno mai memoria collettiva. Confluiscono forse nella grande Storia, ma spariscono senza lasciare traccia. La grande Storia è appannaggio dei re, dei condottieri, dei grandi generali.
Significativa la poesia di Bertolt Brecht “Domande di un lettore operaio”:
Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l'India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui?
Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante vicende.
Tante domande.
Ed è così che, di generazione in generazione, sopravvivono voci e parole e valori fino a che la ribellione dei nuovi nati non sradichi la tradizione per proporre altri ideali, idee, comportamenti, pensieri. Nel tentativo di rinnovare la società. L’errore dei giovani, però, è sempre in agguato, data la loro inesperienza: purtroppo azzera il passato trovandolo obsoleto, non tenendo conto del prezioso dono della saggezza antica che va conservata nei suoi valori di sempre e rinnovata in tutto ciò che è necessario cambiare per naturale evoluzione e inevitabile trasformazione.
In realtà, tutto cambia e tutto si ripropone. Basta conservare memoria del passato, riproponendolo con tutte le modifiche e correzioni dovute al tempo presente in funzione di quello futuro.
Il passato: una brutta copia sgualcita, rimessa a nuovo non più con carta e penna e inchiostro, né con la macchina da scrivere Olivetti lettera 32 di mia felice memoria, ma con tablet, computer, cellulare di ultimissima generazione per rincorrere il tempo che non dà tregua, proiettato come un’astronave spaziale verso nuovi orizzonti e nuovi cieli.
Di qui la “nostalgia del futuro”, ossia dell’ansia di rinascita continua nella riproposizione di nuovi domani. Con solidi e mai del tutto scompaginati ancoraggi al passato. Per riconoscerci, riscoprirci, ritrovarci in un tempo che non è più il nostro tempo eppure tutti ci contiene nella sua eternità.
E mi piace concludere con una pagina del secondo volume del mio ultimo romanzo, Le piogge e ciliegi, (SECOP edizioni - Corato/Bari) dedicato appunto a mio nonno, leggendario e concreto eroe della mia vita.
“… Per riconoscerci, dunque, è necessario scoprirsi, accendere i fari sui ritrovati ricordi perché si facciano memoria di noi e degli altri, individuale e universale, in un andare a ritroso in quella galleria personale, dove spazio e tempo si azzerano per sconfinare in un “luogo” che ci spaurisce perché cela il mistero di noi e lo attualizza con spietata crudeltà. I fari illuminano quanto avevamo a fatica dimenticato, quanto ci eravamo illusi di azzerare, quanto ci era sembrato giusto soffocare nelle spire della “camera oscura”, dove si aggirano le nostre ombre. Quelle del passato e quelle del presente, in una confusa sarabanda di tempi luoghi azioni situazioni.
Soprattutto le ombre
(analizzate a fondo da Carl Gustav Jung),
che avevano reso buio il nostro cielo, condizionato comportamenti nel nostro personale naufragio, in uno scrosciare di pianto da non dire. Occorre imparare a convivere con le nostre ombre se vogliamo salvarci dai sensi di colpa e dai rimorsi. E le lacrime non devono fare rumore se vogliamo essere accettati dagli altri. Se vogliamo accettarci. Per questo le ascoltiamo di notte. Le accogliamo e soffochiamo nel cuscino. Eppure sarebbe bello scoppiare in lacrime di fronte al mondo e dire ecco la mia fragilità, ecco il mio coraggio
(“e quanto è bello chiagnere”, dirà Filumena Marturano dopo una vita di lacrime ingoiate e occhi di ostinato silenzio).
E oggi sono convinta che si può scrivere con autenticità solo delle esperienze vissute in prima persona. Ed essere credibili. Altrimenti è solo una costruzione logica o fantastica, ma priva di verità. Ed è quest’ultima che rende universale la nostra storia privata. Soprattutto quando fa male perché ognuno può ritrovare sé stesso in quella ferita. In quel pianto. Tutto il resto è letteratura per mentire e mentirsi. Divertendosi e divertendo anche. Indicando mondi irreali perché si imparino gli sconfinati spazi della creatività, della fantasia e della immaginazione. E sono stata e sono la prima ad inchinarmi alla grandezza immaginifica dell’uomo. Ma sconfiniamo anche dalla realtà. Che è tanto più vera quanto più ci appartiene e appartiene alla gente che si dibatte in mille contraddizioni e si riconosce nelle qualità e nei limiti, nelle conquiste e negli errori, nell’ideale di quello che vorrebbe essere, e nel reale di ciò che è. E i ricordi servono anche a questo. A darci la nostra giusta dimensione nel tempo e nello spazio.
Nella nostra anima che non conosce confini
Ci sono, però, ricordi luminosi che non abbiamo mai dimenticato, che mettono in fuga le nostre ombre e ci aiutano a riafferrare il senso della vita con maggiore gioia di vivere. Soprattutto quando gli anni sono tanti. E ci sorprende come ladro di sogni il disincanto.
È bene, allora, farci illuminare e riscaldare dalla tenerezza di quei ricordi, se vogliamo rinascere e non solo sopravvivere a noi stessi:
volti voci richiami
per mettere in fuga la pioggia che batte con piede cattivo sui nostri pensieri e fare spazio all’arcobaleno che ogni scrosciare d’acque porta con sé.
E ogni notte si fa Alba Mattino Tramonto Sera
Poi, si ricomincia. In una scia di luci-ombre-luci… senza fine… (…)
Nella consapevolezza di un tempo che non può tornare, ma può far sentire nel profondo del cuore la necessità di recuperare quanto di buono abbiamo dimenticato per farne nuovo seme per nuovi domani. Con nuovi mezzi nuove modalità nuovi passi nuove strade nuovi volti nuove voci
su antichi richiami.
Ogni domani è il passato capovolto come il cielo in una pozzanghera. Come chiome d’alberi che hanno radici. Come occhi di bimbo ancorati agli occhi della sua mamma. E i domani si sognano prima di realizzarli.
E il sogno non vive e si alimenta nel fondo più profondo della nostra anima?
La Nostalgia è Sogno che viene da lontano e va lontano
È Ricordo che si specchia nel Futuro. Memoria della nostra Umanità!
È Tenerezza che Accoglie Protegge Ama”.
I ricordi…
Oggi è il 6 gennaio, giorno di Epifania che tutte le feste porta via. Non è il caso di parlare dell’Epifania e del suo significato teologico con l’arrivo dei Re Magi e dei simboli dell’oro, dell’incenso e della mirra. Ma desidero parlare di un ricordo tenerissimo legato alla Befana.
Sempre, anche se non ci credevamo più da un pezzo, tu ci facevi trovare tra il muschio del presepe qualche sorpresa in dono. Uno di quegli anni t’inventasti un viaggio che non avevi mai fatto e l’incontro con la Befana sul treno. Ce la descrivesti con una tale dovizia di particolari che sembrava che per davvero avessi fatto quel viaggio e quell’incontro. E noi ti guardavamo al colmo della meraviglia, della tenerezza e dell’ammirazione. Ci dicesti, infine, che ti aveva consegnato per noi delle stecche di cioccolato belle e grandi, di cui soprattutto io ero molto ghiotta.
Il 6 gennaio si vestì di cioccolato, di rinnovata fiaba, di mai spenta complicità tra noi (la befana vien di notte/ con le scarpe tutte rotte/ il cappello alla romana/ viva viva la befana!)
Tu sempre attento a non farci perdere lo stupore e l’incanto…
A domani con i bellissimi commenti che mi avete inviato. Grazie. Abbraccissimo. Angela
martedì 5 gennaio 2021
La magia delle FINESTRE: martedì 5 gennaio 2021
Ancora una volta la poesia arriva dove non arriva la ragione. Angela sono stupendi i versi che qui hai riportato, e ne godo. Aggiungo per quel che mi riguarda che il tempo non è cosa che si possa definire razionalmente e chi ha inventato l'orologio lo ha fatto per illudere l'uomo di avere in mano (o al polso o nel taschino o sul comodino) qualcosa di suo, da leggere, guardare, usare o distruggere. A me succede per es. di spostare di notte le lancette in dietro e sono felice perché così penso di avere più ore da dormire prima che spunti il giorno. E davvero al mattino mi alzo più riposata pensando di aver dormito a lungo. Ma sono trucchetti, che non so se potrò sostenere quando sopraggiungerà sorella morte, ahahah!
Così Giulia Basile che, simpaticamente sorniona, mi ricorda
che il tempo in fondo è una nostra invenzione, magari per darci tempo. Ne sono
convinta anch’io tanto è vero che parlo di tempo vissuto e di tempo percepito,
tempo inventato e tempo usato per accendere la memoria appunto e ricordare:
tempo individuale e tempo universale. Il tempo vissuto non è mai uguale a
quello percepito. Il primo conta le ore e i minuti sul quadrante dell’orologio
e si fa misura del nostro tempo reale; il tempo percepito, invece, si accorcia
o si dilata a seconda di quello che stiamo vivendo: se siamo in armonia con
quello che ci circonda e ci abita dentro, il tempo vola in un attimo, lasciando
spesso il rimpianto che tutto sia stato molto breve. Al contrario, il tempo non
passa mai se stiamo ascoltando una lezione che non ci interessa; se il relatore
in un convegno è noioso, monotono, arrogante, scontato; se il dibattito, a cui
stiamo partecipando, non approda a nulla perché gli interlocutori non ascoltano
debitamente gli altri e non intervengono pertinentemente ma solo per ribadire
il proprio punto di vista, e così via. Il tempo inventato è proprio quella che
Giulia si ricava mettendo indietro le lancette del suo orologio creandosi
l’illusione benefica di aver maggior tempo per riposare. E il potere della
mente è tale da darle un senso di benessere reale al suo risveglio. Poi il suo
senso straordinario di autoironia prevale sull’illusione e stempera l’ultima
battuta dell’ultimo inganno che vorrebbe/vorremmo perpetrare contro la
francescana “sorella morte”, che non si lascerà certamente imbrogliare da noi
comuni mortali, ma riuscirà in qualche modo ad imbrigliarci. E neppure il
ricorso alla poesia come nostra ultima àncora di salvezza ci darà ragione. Ma,
intanto, noi ci proviamo. Almeno con qualcosa che “vince di mille secoli il
silenzio” (Foscolo).
E ritorno al mio articolo sul tempo, la memoria, i ricordi.
Parte II: La Memoria
La memoria è un faro che accende di luce il nostro passato:
resterebbe buio e indistinto se non conservassimo a tratti squarci di visioni
antiche che si nutrono di voci, immagini, suoni, odori, sapori, emozioni,
parole… illuminando anche il presente: dalla invisibilità alla visibilità degli
oggetti e delle decisioni riguardanti quegli “oggetti”, dalla indecidibilità
alla decidibilità delle situazioni, dall’inaspettato prodigio o disastro
all’attesa o alla scongiura dell’accadimento, dalla impalpabilità dei sentimenti
alla palpabilità del cuore.
Ecco perché memoria è “tutto ciò che si deve ricordare ma
soprattutto quello che non si può dimenticare”, tanto è inciso nella mente e
nell’anima.
Segno e senso del nostro brevissimo passaggio esistenziale
su questo pianeta.
Guai se quel faro si spegnesse, saremmo tutti naufraghi alla
deriva, senza più contezza di noi, del tempo, dei giorni, delle ore; del mare e
del suo splendore, delle notti rischiarate dalla luna o ricamate dalle stelle;
dei nostri amori e dei nostri rancori, dei sogni e dei desideri; dei passi
d’erba e delle orme cancellate sulla sabbia del tempo che dimentica. Del vuoto
della mente e del deserto del cuore. Niente di più disumano del perdere la
memoria e con essa identità e dignità. Chi restituirà al malato di Alzheimer la
memoria dei giorni vissuti, degli affetti radicati nel cuore e smarriti nelle
tenebre del non ricordare? E non sapere più di essere madre/padre,
figlia/figlio, moglie/marito? Non ESSERE perché essere SENZA. Disperazione, al
loro fianco, di quanti sanno e ricordano. Senza attesa. Senza speranza. Senza
storia. SENZA. Un senza che apre un baratro, un abisso, il nulla.
La memoria, invece, è una pagina piena di ricordi che la
mente traduce in parole per definire una storia al passato. È pienezza, non
mancanza. È, paradossalmente, presenza, non assenza.
La memoria di cui parlo, infatti, non si veste del fragile
tessuto della nostalgia o non si curva sulle linee esauste di un corpo
ripiegato e sconfitto, né si rifugia nei secchielli colmi di mare
dell’infanzia, magica e dorata, nei riccioli al vento degli aquiloni che mai
più saranno, ma si fonda sul presente e sul futuro perché riscopre in ogni
passato il Valore irrinunciabile della sacralità della vita in tutte le
sue innumerevoli foglie, che rinascono ad ogni attesa primavera. In ogni
stagione vissuta. Da vivere.
E, oggi, è un Valore, che colma l’attuale disagio del
“pensiero debole” (Vattimo-Rovatti) per farsi, nel terzo millennio, “forza” e
“pienezza”, che irradiano, nella nostra società planetaria, nuovi stati di
coscienza individuali nel loro farsi “consapevolezza collettiva” in una sorta
di “correlazione universale” (come ci ha suggerito la compianta Silvana
Folliero nel sostenerci a realizzare il Sogno/Progetto di aprire una “Casa editrice
altra” più di quindici anni fa), attraverso un rinnovato “pensiero forte”,
titano della conoscenza del mondo. “Scienza e Coscienza”, dunque, sempre più si
dilatano fino a comprendere la “coscienza delle cose” e la “fiducia nella
tecnologia e nella comunicazione digitale”, che diventa, utopisticamente forse,
fiducia in possibili coinvolgimenti di tutti e di ciascuno per realizzare una
umanità migliore. Una umanità, che dovrebbe fare della solidarietà e della
speranza i suoi punti di forza; dell’intelligenza e della comunicazione di
massa i solidi ponti di “inter-esistenza” tra gli uomini, perché la memoria si
faccia possibilità di “rinascita” e di “rigenerazione” (vedi il Protonismo di
Gjeke Marinaj).
Ma potrebbe accadere il contrario e sarebbe la distruzione
della intera umanità.
Una possibilità che non voglio neppure prendere in
considerazione perché ho fiducia nella coscienza dell’uomo, che saprà fare
tesoro della scienza, come è sempre accaduto nella storia dell’umanità,
altrimenti ci saremmo già estinti da lungo tempo.
Ritengo, però, che la storia non sia “magistra vitae”
(Cicerone) perché ancora oggi vale per l’uomo contemporaneo il grido di dolore
di Salvatore Quasimodo: “Sei ancora quello della pietra e della fionda,/ uomo
del mio tempo…”. Pure, nonostante la sua natura immutabile, l’uomo ha risorse
di mente e di cuore per scongiurare di volta in volta, nei millenni, la sua
autodistruzione.
La memoria, allora, si fa attimo di ogni presente che vive
il possente fulgore dei guizzi di conoscenza del passato e si affaccia al
futuro. Nel passato, i germogli del presente, e degli scenari che si potrebbero
configurare lungo i passi che il tempo concede ai nostri domani. Ci saranno
sempre nuovi viandanti a proseguire il viaggio lungo i sentieri ritrovati della
nostra storia oppure cercati e scoperti o, ancora, via via tracciati perché si
facciano storia.
La memoria è, dunque, paniere di tutti i fiori e i frutti,
vitali e propulsivi, dell’umana esperienza, individuale e universale.
La memoria è anche, o forse soprattutto, forza catartica,
invincibile emozione, profondo sentimento. Chiaroveggenza e Speranza. Epopea di
epiche risonanze di terre e di universi.
Scultura di Volti di uomini incisi nelle pietre che
raccontano innumerevoli storie che, come fiumi aventi sorgenti lontane, si
riversano insieme, dopo lunghi viaggi individuali, nel grande oceano della
Storia universale.
Di solito, queste innumerevoli storie non ambiscono a
ritrovarsi nella grande Storia, si accontentano di poco: fare tenera compagnia
alle persone anziane che vivono di ricordi più che di
progetti.
E, del resto, la storia non è mai come viene raccontata, ma
come viene vissuta; si ha persino paura di dover fare i conti con una storia
dell'umanità mai vera e sempre inventata dal cronista di turno o dal saggista
di parte (per ideologia politica o partitica, per formazione culturale, per
convinzioni personali…) e dall’archivista che la ricostruisce con pazienza
certosina, mai realmente libero di approdare alla “verità storica”, eterna
utopia.
Dove la “verità storica”, allora? La storia è o non è
fondata sulla memoria? Ma la memoria, come già osservato, non sempre racconta
la verità. E, dunque? Quando si può parlare di “verità storica”? Quando si
va a cercarla nei racconti dei nonni o quando ci affidiamo a documenti più
concreti e oggettivi come graffiti nelle grotte millenarie dei nostri
progenitori, scavi e reperti di una certa era storica, monete antiche,
iscrizioni, epigrafi, stele funerarie e monumenti che resistono al tempo o alle
loro stesse rovine? Cercare costantemente eventi con effetto “domino” di cause
e conseguenze e sentirsi autorizzati ad avere certezze sui comportamenti umani
che sortiscono sempre gli stessi effetti, se motivati dalle stesse cause, sia
pure in tempi e luoghi diversi, oppure nutrirsi di dubbi sulle interpretazioni
perlopiù soggettive di eventi raccontati in maniera del tutto arbitraria e
spesso con opposte testimonianze e dichiarazioni sui vari accadimenti?
Forse sarebbe opportuno, come sosteneva Benedetto Croce,
rifarsi alle fonti dirette e indirette degli accadimenti storici, evitando ogni
coinvolgimento emotivo in riferimento all’“oggetto studiato” per consegnarlo al
lettore come pura “conoscenza dei fatti”, ma questo metodo non mi convince
molto. Non amo la cronaca triste ed essenziale della “conoscenza dei fatti” che
ne fanno i cronisti sulle pagine di un Quotidiano locale o nazionale, oppure
gli studiosi nei loro libri di storia. Ciò vale soprattutto per la
cronaca quotidiana di altri periodi storici alle prese con varie emergenze per
la salute e per il pericolo di decimazione dell'umanità: la peste, la lebbra,
la spagnola, la malaria, l'asiatica, la terribile SARS,
diffusasi nel 2002, quindi nel XXI secolo, dalla Cina e definita già
coronavirus, con le stesse caratteristiche di sofferenza polmonare a chiudere
alveoli e cuore, ormai disperatamente note, del Covid 19.
La stessa aridità è riscontrabile anche cercando notizie di
guerra, altro flagello per il genere umano. La Prima e la Seconda guerra
mondiale, per esempio. Per delimitare la ricerca al "secolo breve"
eppure lungo di lutti e di dolore, e arrossato dal sangue di tutte le altre
guerre devastanti nei vasti territori del pianeta Terra. Tutte le cronache sono
uguali. Narrano i fatti. Che sembrano veri, tanto sono dettagliati con luoghi,
vittime, circostanze, indici statistici. Fatti non fanfaluche... E il tempo
azzerato, quello che vogliamo non esista per via delle nuove teorie sulla
relatività o sulla quantistica, d’improvviso ci assale alle spalle e ci inchioda
al nostro tempo o al tempo passato tanto simile al nostro tempi, sia pure tanto
diverso.
Tutto sembra chiaro e inoppugnabile. Eppure, in quegli
articoli così bene articolati, non è difficile rilevare l'assenza della paura o
la mancanza di qualsiasi altro sentimento negativo o positivo che sia.
Quando a scuola studiammo la storia della Grande Guerra
non rilevammo, al di là dei fatti narrati con asettica precisione, la
tentazione di una fuga, il fremito di una lacrima, la commozione di un
incontro, il sollievo per lo scampato pericolo, lo strazio di sapersi vivo
mentre una granata squarciava il cuore del compagno appena a un palmo dai
pantaloni alla zuava del soldato in trincea; non il canto nostalgico di chi
guardava le stelle e si accendeva una sigaretta per abitudine, subito spenta
per precauzione col nemico appena a pochi passi oltre la trincea, e pensava
alla sua ragazza lontana "ohi vita ohi vita mia". E i partigiani e la
Resistenza "oh bella ciao, bella ciao, bella ciao". E il Vietnam con
"c'era un ragazzo che come me" e giù lacrime di solitudine.
Solo numeri, dati, statistiche in quell'apparente verità
obbiettiva dei fatti narrati. Senza fremiti, lacrime, sorrisi. Senza. Anche qui
il “SENZA” mi spaventa.
Io ho fatto sempre tesoro dei racconti di Guerra di mio
nonno: nelle sue parole senza lacrime, ma evocative e sicure, c’era la verità
da me sempre cercata invano nei libri di storia, nelle lezioni dei proff. di
Storia e Filosofia.
L’unica verità possibile era racchiusa nei suoi racconti che
avevano per noi sapore di fiabe antiche per non turbare la festa innocente dei
nostri giorni ignari di violenze e lutti e dolore.
Sì, per fortuna, la memoria viene rigenerata
continuamente dai ricordi, che fanno parte della storia individuale e riportano
al cuore (ri-corda-re) storie vissute in prima persona nel passato.
E la memoria, come mamma amorevole, nutre i ricordi quasi
fossero suoi bambini, a cui ogni sera racconta fiabe, cominciando con quel
“c’era una volta” che indicava un tempo indeterminato perduto nella notte dei
tempi o nel bosco della dimenticanza (tempo sognato più che vissuto). Ma, in reciprocità
amorosa, anche i piccoli, i ricordi appunto, offrono alla mamma, sempre più
smemorata con gli anni che passano in fretta, il loro sollecito aiuto,
sostenendola nel far rifiorire, nel tempo, le tante storie da rivivere perché
non muoiano mai del tutto.
E anche per oggi chiudo qui con questo tempo zigzagato, mai
vero mai falso, nella speranza che queste apparenti digressioni non vi annoino
al punto da percepire il tempo della loro lettura come tempo noioso e dilatato
a dismisura. Come una inutile, soporifera “perdita di tempo”. Ma
io, egoisticamente, solo così so riempire il mio tempo, con la
felice illusione di donarlo agli altri… Pardon.
A domani. Ciao. Angela