sabato 15 marzo 2025

Sabato 15 marzo 2025: ricordo imperituro di GIOVANNI GASTEL: Uomo-Poeta-Scrittore-Artista-Fotografo di fama mondiale...

Ed ecco il mio commento:

È una poesia di una intensità straziane e dolcissima. Frutto probabilmente di attimi di sospensione dell’anima inebriata e ferita del poeta nel guardare il figlio, che a sua volta lo guarda con “sorriso paterno”, scatenando in Giovanni Gastel, uomo e padre, una ridda di sentimenti, taglienti come lame appuntite che, vinti dalla commozione, deviano in dubbi per lasciargli la possibilità di non rimanerne sopraffatto.

Non a caso, il primo verso comincia con un “ma”, particella avversativa che serve a contrastare i tanti pensieri che lo sommergevano e a liberarsene piano piano. È come se stesse continuando un discorso che prima aveva solo nella mente e che ora, finalmente, trovava un varco per farsi poesia. E subito evidenzia cosa gli premeva sapere, ora che andava facendo spazio tra i tumulti del cuore: e al “ma” si aggiunge la dubitativa “se” e, subito dopo, “di questi” (cioè, eccoli sono qui, li avverto prepotentemente, sono miei!) “sentimenti”: a capo, ad occupare tutto il verso seguente tanto sono grandi.

E, subito dopo, continuando a leggere, mi accorgo improvvisamente che tutte le parole-chiave di questa poesia (che non rispetta i canoni classici della poesia tradizionale, come l’andare a capo con senso finito del verso, senza usare articoli e preposizioni in sospensione): le locuzioni, i chiarimenti di sé a sé stesso, gli stilemi tanto cari al poeta e così connotanti la sua poesia hanno qui un intento d’amore ben preciso: ogni parola (che è necessaria perché è quella e non può essercene un’altra) va a capo e si distende nell’intero verso, occupa tutto lo spazio possibile.  Quasi a farsi colonna, statua, scultura, monumento. Una scala che porti sino al cielo.

Exegi monumentum” (Orazio). Non per la propria gloria, ma per glorificare il figlio, e con lui anche l’altro suo nato, ora assente alla sua vista, ma non al suo cuore di padre.

E ogni verso si conclude con uno slargamento ad eco della parola messa lì, non a concludere, ma a dilatare: incisi nell’anima… potessi fare un canto… finale… quale poesia non… scritta… troverei nel profondo?.

E, ancora: che sia la più densa del… tuo bacio figlio… che sia la più amara… del tuo allontanarti per… la tua via… che sia più definitiva… del tuo osservare la… vecchiaia… scivolarmi addosso… ogni giorno

E sembra di sentire il suono cadenzato delle parole che andavano a costruire quel monumento d’AMORE, quasi mattoni, quasi lastre a dare peso e consistenza e valore a quell’UNICO sentimento immenso e profondissimo, che i pensieri avevano definito, scendendo nelle viscere del suo “Io” più profondo, e che aveva bisogno di calibrare ogni attimo, ogni sensazione, ogni emozione perché si facesse carne viva e non solo sentimento e commozione (il bacio, per esempio, non dato, ma certamente trattenuto quasi si fosse materializzato tra le parole).

L’allontanarsi per (e quel “per” lasciato per strada sembra già un viaggio verso l’ignoto, lo sconosciuto, l’insidia che il padre temeva e contro cui non poteva metterlo in guardia perché avrebbe fuorviato la “via” del figlio, quella che il ragazzo - non più “suo” - aveva scelto per essere sé stesso e riconoscersi).

Gli occhi che osservavano la… “vecchiaia” (e il pudore, per quanto il poeta non riuscisse ancora ad accettare di sé, gli aveva proposto un verbo che non lasciava segni; non si fermava a incidere l’ingiuria di una ruga, ma “scivolava”), “giorno dopo giorno”, lentamente, pesantemente e senza tregua (quasi fosse un martello pneumatico a scavare gallerie di tempo sulla roccia del viso).

Ancora una volta, la fugacità del tempo vince per un attimo tutti i sentimenti che palpitano dentro il poeta e si fanno poesia, per fantasmagarsi (mi si lasci passare il neologismo) nella paura che lo assale e lo attanaglia.

E con la paura (non detta) si ripropone la solitudine, esibita, per crearsi l’appiglio del dolore lancinante del distacco, il solo a dettargli la verità “in forma” di poesia.

È un attimo di smarrimento e di angoscia che si dissipa nella rinata tenerezza per quel figlio che andrà inevitabilmente lontano, accompagnato dal canto dolce del padre nella reciprocità di un amore senza confini che può risolversi, proprio perché tale, in un tenerissimo scambio di ruoli: il poeta, figlio di suo figlio, e suo figlio, padre di suo padre. L’Amore compie questi prodigi.

L’AMORE ha scritto a caratteri cubitali il sussurro stupendo di questa meravigliosa poesia, che accompagnerà il duplice viaggio (del padre e del figlio) lungo le impervie strade del mondo…

E, se per Borges “la poesia è l’imminenza di una rivelazione che non si produce”, per Giovanni Gastel è sempre rivelazione di sé a sé stesso e agli altri.

Grazie per questa straordinaria “Poesia-Verità”.

Ed ora concedetemi la libertà di concludere con alcuni miei versi con dedica a completamento di questo mio percorso critico-letterario

Ho incontrato un poeta

Ho incontrato un poeta

Era di carta e di parole

Era di solitudine e clamori

Silenzi coltivava

come fiori liberi di campo

lui che aveva serre di gladioli

e rose rare nel giardino del cuore

Ho conosciuto un poeta

con occhi grandi di malinconia

ad ogni sorriso alla noia strappato

strappato alla morte e al tempo

che verrà e avrà un giorno nuovo

di foglie e di radici

Avrà la luce di un volto inventato

e un sogno colmo di nostalgia

Avrà un tramonto per ogni canto

deluso e un’aurora di rimpianto

Ho conosciuto la sua anima

col volto in bianco e nero

e ciglia tenere di bambino

e labbra chiare di rosso spino

e azzurro incanto

(mi ha depositato tra le mani

un petalo di cielo…)

                                 Angela De Leo

E anche per oggi va bene così. Spero di non avervi annoiato in questo giorno di pre-festa, come “sabato del villaggio” della nostra anima. E domani, domenica, chiuderò con Giovanni Gastel e il suo dolcissimo e malinconico commiato dagli amici. Grazie. Angela/lina 

venerdì 14 marzo 2025

Venerdì 14 marzo 2025: ricordo imperituro di GIOVANNI GASTEL: Uomo-Poeta-Scrittore-Artista-Fotografo di fama mondiale... (seconda parte)

E oggi mi attardo a fare un necessario confronto tra il suo romanzo, le sue poesie, le sue fotografie, a partire dalla serie mistica ma non troppo degli Angeli caduti che da soli valgono l’intera Mostra: angeli androgeni o decisamente femminili, con ali bianche ancora in volo o nere come la notte. Angeli che precipitano a testa in giù e angeli precipitati con negli occhi la sorpresa, il disorientamento, la dispersione della propria identità in un luogo sconosciuto che fa paura perché nuovo e diverso. Angeli pentiti e angeli senza alcun rimorso o pentimento. Bisognerebbe descriverli uno ad uno. Ci vorrebbe un trattato. Ancora una volta le stratosferiche contraddizioni gasteliane: non angeli che volano, ma angeli che precipitano senza più la speranza di un perdono, di tornare nella azzurra luminosità del Cielo.

Un po’ mi fanno pensare a Giovanni Gastel bambino nel suo Eden dorato e lontano dal mondo degli uomini. La sua desatellizzazione dal nucleo familiare, protettivo e severo nelle sue regole culturali, nel solco di una tradizione etico-religiosa, e tutto in sé conchiuso, è un precipitare nell’abisso di un mondo altro dove il disordine e la violenza regnavano sovrani (non si può non ricordare che l’adolescenza di Giovanni Gastel ha coinciso con gli anni di piombo nel nostro Paese), lasciando il giovane rampollo di una storica casata lombarda in balia di uno sperdimento, che era angoscia, ferita e dolore. Con le uniche risorse che sentiva di possedere: le Immagini, le Parole. Le sue Ali di ricambio per tentare nuovi Voli. Un predestinato? Forse.

Le ultime Ali sono bianche di Salvezza, sono saldamente legate alla fanciulla occhi di sfida sotto un cielo torbido che non promette nulla di buono. Ma le sfide servono a temprare lo spirito, a far superare la paura, a tentare nuovi percorsi, nuove possibilità di rinascita.

“La creatività ci fa rinascere infinite volte”(Erich Fromm).

È quanto affermava Giovanni Gastel, parlando di sé e della sua vocazione all’Arte in tutte le sue molteplici desinenze. Vocazione nata proprio sulle acque del lago di Como, dove aveva incontrato l’Eleganza della natura e lo “splendore delle architetture e dei giardini poggiati sull’acqua”, definendo una Perfezione che si realizzava in una perenne Armonia, rimasta per sempre negli occhi e nel cuore di quel ragazzino irrequieto, ma già tanto attento alla “magia del reale”. Lui era consapevole dell’“immenso” privilegio che gli era toccato in sorte, ma anche dell’“immensa” responsabilità di dover essere sempre all’altezza della situazione, sfruttando al massimo i suoi “immensi” talenti per andare oltre ogni possibilità umana.

Esaltazione e perdizione insieme. Vinte col suo cuore colmo di tanti doni, tra cui il più grande: l’Amore, come dono di sé agli altri.

E l’ironia, con cui aveva imparato a tenere sotto controllo la malinconia, quasi una “saudade” (che i portoghesi o i brasiliani identificano con una sorta di nostalgico rimpianto) per quanto ci accade in un precipitare di giorni che ci danno come un presentimento di quanto non riusciremo più a vivere, ad assaporare nella lentezza di un futuro che ci sembrava eterno e tutto nostro. Ritengo che in Gastel abbiano avuto l’una e l’altra perlopiù lo stesso valore. Non a caso, Maria Corti, scrivendo di Cavalcanti, definì l’ironia la “splendida virtù dei malinconici”.

Con l’ironia e l’autoironia tutto diventa più lieve, sorridente, sopportabile. Persino la propria identità dimidiata. Già l’identità di per sé è un’arma a doppio taglio: dà la certezza della propria unicità, ma anche la responsabilità di sentire gli altri “diversi” da sé. L’identità, dunque, consacra e dissacra. L’ironia tende al compromesso di accettare, con ariostesca o anche manzoniana “bonomia”, sé stessi e gli altri in un processo di salvifica semplificazione della vita. Un banalmente “ridiamoci su”. È quanto si evince sia da alcune situazioni che i protagonisti vivono in “Duetto profano” sia da alcuni versi della raccolta di poesie, sia dalle immagini di alcune fotografie, che non risentono mai delle ingiurie del tempo, e soprattutto da alcune situazioni dialogiche con i propri followers, verso i quali Giovanni Gastel era sempre prodigo di parole affettuose sorridenti e gratificanti, da vero gentiluomo qual era. Ma il tempo stringeva e la malinconia sempre più spesso prendeva il sopravvento, malgrado tutte le buone intenzioni e i buoni propositi, soprattutto onirici.

E così, mentre si andava “facendo sempre più tardi” (Antonio Tabucchi), non era più l’Endimione dell’ultima foto, inserita nella raccolta, in cui aveva gli occhi chiusi per non vedere il mondo e rimanere eternamente giovane (il mito greco e i suoi simboli e i suoi eroi), ma un uomo che aveva avuto migliaia di doni dal cielo ed era fiero delle sue radici per quanto di irripetibile e unico e grandioso gli avevano destinato, e delle sue foglie rampicanti che per istinto ora sapevano le più percorribili vie dell’anima, senza più “gallerie oscure” (Machado), ma luminosi percorsi per afferrare astri di splendore e farsene dono. E farne dono a quanti amava e lo amavano. Ed erano e sono davvero tanti. Potrebbero pareggiare il numero delle stelle?

Oggi solo serenità./ La vita è una struttura fragilissima./ Ma a volte viverla è bellissimo”. 

Ed ecco una delle più profonde poesie di Giovanni Gastel sulla fierezza e incommensurabilità del suo amore paterno, a conferma di quanto detto sin qui:

ma se di questi

sentimenti

incisi nell’anima

potessi fare un canto

finale

quale poesia non

scritta

troverei nel profondo?

Che sia più densa del

tuo bacio figlio

che sia più amara

del tuo allontanarti per

la tua via

che sia più definitiva

del tuo osservare la

vecchiaia

scivolarmi addosso

ogni giorno

Quale voce uscirà da

questa mia solitudine

se non la poesia del

distacco?

La canterò anche per te

figlio

che mi guardi con un

sorriso paterno.

                            Castellaro 2018

Il commento a domani perché è lungo e articolato per cui ci sarebbero altre pagine da leggere e ho verificato che sono state troppe le pagine del 13 marzo. Non so come abbiate fatto a leggerle. Vi sono profondamente grata. A domani, carissimi. Angela/lina

 

 

  

giovedì 13 marzo 2025

Giovedì 13 marzo 2025:ricordo imperituro di GIOVANNI GASTEL: Uomo-Poeta- Scrittore-Artista-Fotografo di fama mondiale…

Oggi ho assoluto bisogno di parlare dell’immenso Giovanni Gastel: l’Uomo, lo Scrittore, il Poeta, l’Artista, il Fotografo di fama mondiale, ma soprattutto mio amico d’anima e di cuore. Non ci conoscevamo da molto, ma era come se ci conoscessimo da sempre. Giovanni aveva una personalità così complessa che sfugge ancora oggi ad ogni definizione perché era eternamente cangiante, contraddittoria, sorprendente. Ma erano forse proprio queste peculiarità a renderlo così affascinante e amabile, amato. E le stesse sue Opere servono a darci di lui una idea veritiera e sempre apparente perché l’Artista guizzava continuamente tra l’essere e il non essere. Ossimoro di sé stesso sempre.

Così in Duetto Profano (SECOP Edizioni, Corato-Bari, 2018), che dà voce a due voci (duetto) che dovrebbero andare in sintonia perché sono strettamente legate al canto “ad una voce” e, invece, divergono per “estraneità” tra i due mondi in cui vivono e agiscono i personaggi Sono due voci legate, ma divise. Forse dei protagonisti, forse delle storie narrate. Forse dello stesso pensiero dell’autore: un giovanissimo, geniale, diciassettenne che voleva cimentarsi con la scrittura, ma era ancora nella fase della ricerca di sé in un mondo che lo voleva incasellare nelle regole del bon ton sociale (e la foto di copertina in bianco e nero, ma con la metà più buia e misteriosa sfumata di rosso, ne è la straordinaria conferma). In una girandola di situazioni e di luoghi che ben si addicono alla dispersione/disperazione adolescenziale, e alla tela di ragno di vite solo all’apparenza tranquille e appagate, ma quanto distanti dall’ideale di sé nella verità del proprio “Io” più profondo e quasi sempre ferito e sconfitto.

Di qui l’eterno ritorno nietzschiano all’infanzia e ai luoghi del cuore: il giardino delle meraviglie, la grande villa silenziosa di Cernobbio, la Milano della domenica e della messa.

Ed era ancora un bambino che guardava il mondo con occhi spalancati, senza fiabe certo, ma un mondo ancora da scoprire, da vivere. E, invece, la morte in agguato lo condizionerà per tutti gli anni a venire. Da quelle immagini in poi nulla sarà come prima. Neppure le parole. Neppure i silenzi che spesso urlano parole mute. Ma il romanzo non può restare senza parole. E il romanzo nel romanzo neppure. Il male di vivere corrode le menti più sensibili.

La quotidianità ha le sue leggi intransigenti sia che si viva in un mondo dorato sia che ci si arrabatti in un ambiente senza pretese e senza voli alti.

Anche Dio, nell’uno e nell’altro caso, è un costante appiglio più per renderlo reo di una sconfitta che àncora di ogni salvezza”.

Dualità profonda sempre in Giovanni Gastel anche di fronte a Dio che ha cercato e rinnegato in ogni suo pensiero, in ogni sua poesia, in ogni scatto ad eternare l’attimo, fino a sentirlo costantemente al suo fianco.

Lo stesso avviene nella raccolta di poesie Io sono una pianta rampicante (Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo-Milano).

“Qui i versi sono liberi, eppure ricchi di figure retoriche per un senso innato del bello, che il poeta avvertiva in sé e trasferiva nelle parole a rendere, nonostante il continuo disincanto, un’atmosfera incantata per l’armonia interna che vi regnava”. Soprattutto nel rammemoramento dell’adolescenza e il suo splendore ancora intatto.

Ma è un idillio che non poteva durare. Le contraddizioni ebbero subito la meglio e quella che sembrava un’età felice si vestì di mille apprensioni e di presentimenti che tolsero smalto e fervore di vita ai giovanili anni, e tutto divenne cupo, buio, misterioso. Il corpo languiva e la mente era soggiogata da tetri pensieri di morte, ritenuta assassina, e responsabile di tante immense paure. Le anime più sensibili vivono questi abissi prima di assaporare la piena giovinezza.

“Con Gastel era come viaggiare eternamente sulle montagne russe, niente era scontato e sempre uguale, neppure lo stato d’animo di un attimo prima corrispondeva alla certezza dell’attimo dopo. Tutto veniva affermato e smentito, pur nella realtà del momento, pur nell’incubo che ne conseguiva. Il passare del tempo gli procurava angoscia, ma anche il dover vivere ancora una notte gli pesava tanto quanto i demoni a visitarlo, oltre le barriere del buonsenso e dei freni inibitori per vivere con gli altri, in mezzo agli altri”. Eppure, non avrebbe mai voluto una vita regolare, semplice, serena, perché sarebbe stata in antitesi con i tumulti del cuore e della mente: “la storia degli uomini è/ nell’angoscia della foresta”.

Per fortuna, la scrittura. Necessità di vita era scrivere con le prime ombre della sera per salvare un giorno “vuoto” che finiva, e per salvarsi da quel vuoto che era voragine e disperazione.

“… ad addolcire un altro giorno vuoto/ di cui non conserverei memoria/ se non per i neri segni che a sera/ inciderò su un foglio bianco.

Ed ogni parola, sia pure inconsciamente o intenzionalmente, era scelta con cura, calibrata nella sua profondità. “Incidere”, per esempio, è azione molto più “incisiva” più forte e determinata di vergare o scrivere. I “neri segni”, piuttosto che i segni neri, riguardano una locuzione che ha una diversa valenza semantica: è una sorta di anastrofe che rende più leggero il segno e lo connota come scrittura.

Io sono un disperso (…) che (…) affida se stesso/ alle parole che scrive.

Ed era un affidarsi totale, quasi un “naufragare” di leopardiana memoria.

C’è una sorta di eternità delle parole nelle voci che ci appartengono, che riconosciamo e teniamo per noi. Ci sembra quasi di averle dimenticate. Poi, basta un richiamo, una frase, una eco ed ecco ritornare prepotentemente a farci gioire o soffrire e la nostalgia ci prende, come per ogni ritorno (nòstos), che è gioia, ma anche dolore (àlgos).

E, del resto, … All’origine tutto era parola.

E qui il richiamo biblico è forte. E il richiamo al Verbo che era presso Dio ed era Dio. Il Verbo ha una parola sola. Una sola Verità. Basta riconoscerla. Ma con presunzione gli uomini la cercano nella scienza, che non possiede verità, ma parziali porzioni di conoscenza, suscettibili di essere confutare e capovolte, nel tempo e nello spazio. La cercano nella propria mente, ma non è la razionalità a dare risposte chiare e definitive. Nel cuore che è un “guazzabuglio” di sentimenti e di risentimenti. Forse solo “oltre il muro d’ombra”. Ma forse sarà troppo tardi per credere e per sperare.

La fede, unica ancora di salvezza? Forse. Se avessimo il coraggio di credere. È più facile negare che ammettere. Diceva lo stesso Gastel, in versi, in prosa, con gli scatti delle sue foto che vibravano di bellezza ma non di verità. Perché ciò accadesse, Giovanni Gastel cercava nelle sue modelle l’anima. E l’anima cercava nelle parole. La cercava in sé stesso. Non si lasciava influenzare dalle regole e dalle mode. Scriveva come in quel momento gli dettava il sentimento. Scriveva versi diversi.

E, del resto, ognuno può esprimersi come meglio crede purché ci sia emozione, ci sia Poesia.

Credo sia una conquista pluralistica nella complessità del mondo contemporaneo. Anche la commistione di generi artistico-creativi fa parte di quella ricerca del nuovo nel rispetto della classicità e del sentimento profondo che la sostiene. L’unica ricerca che potrebbe pacificare il mondo interiore con quello esteriore, in una adesione reattiva alla società del post postmodernismo e del recupero dell’autenticità del linguaggio e della vita.

In Giovanni Gastel tutto questo veniva messo in atto in tutte le sue opere, fino a connotare una scrittura narrativa e di comunicazione sincera e immediata. Risolvendosi persino nella accettazione delle proprie ombre per superare i condizionamenti di una cultura familiare, che ancora lo affascinava e lo legava, con lacci d’amore, certo, ma anche con la fragilità che ne derivava. Si pensi ai mai spenti dialoghi con l’amata madre, con il rimpianto fratello, perso alla sua vista, ma non al suo cuore.

Bisognerebbe leggere ogni verso per comprendere l’eccezionale sensibilità etica, affettiva, emotiva ed estetica di Giovanni Gastel e per comprendere appieno la natura dei suoi tormenti.

‘Io sono una pianta rampicante’ è uno scrigno prezioso di ritratti di famiglia, di spazi vuoti (‘i margini di silenzio’ di Paul Eluard?), di luoghi e date, di poesie perlopiù senza titoli e senza soluzione di continuità. Quasi un racconto poetico lungo, fatto di improvvise emozioni, percezioni della realtà ed echi di memorie lontane nel tempo e nello spazio, ma vive più che mai nell’anima del poeta, in un “infinito presente”, che, nel suo modo e tempo verbale, azzerava ogni passato e ignorava ogni futuro per attualizzare, in un unico istante, tutta una vita.

Io sono una pianta rampicante’: titolo molto suggestivo, ma già di per sé ossimorico” (come del resto anche il titolo del romanzo e come gli stessi campi semantici di numerose sue fotografie. Vedi la serie degli ‘Angeli caduti’), connotativo della stessa personalità dell’Autore, coacervo di laceranti contraddizioni, di cui la sua Arte e il suo Genio si nutrivano…

La cultura familiare, radice profonda e indistruttibile, e le rigide regole ad essa sottese erano, comunque, gabbie dorate, troppo strette per i suoi voli pindarici. Voli troppo alti, che avvertiva a suo danno: la solitudine dell’“albatros” (Baudelaire) o dei “numeri primi” (Paolo Giordano), ma anche a suo appagamento per la genialità che gli concedeva di forare il cielo e sentirsi incontaminato e compiutamente sé stesso. E tutte le contraddizioni alla fine si ricomponevano in Unità: Giovanni Gastel era tutto questo e non può essere diversamente. Tutte le sue opere visive e quelle letterarie hanno firmato la sua genialità. La sua umanità.

Oggi Giovanni Gastel sarebbe stato sempre dimidiato tra la libertà del volo nel suo mondo di sogno e il franare malinconico e disperato nell’abisso di una realtà che fa ancora male e che avrebbe voluto dimenticare per non avvertire le ferite e il disinganno. E le sue Foto e i suoi Scritti ne sono la inconfutabile conferma.

Anche nel “Catalogo” (curato nei minimi particolari nella stessa immagine di copertina evidenzia tale dicotomia nella sua innegabile unità: il bianco luminoso delle ali in volo verso spazi sempre più alti e più ampi, e il nero abissale del tunnel ad avvolgerlo ad ogni contatto con la terra e con il mondo della realtà e della concretezza. E, al suo interno, il Teatro gasteliano: Le sue Immagini. Le sue Fantasie. I suoi Personaggi che si raccontano e lo raccontano. In ogni simbolo. In ogni verità. In ogni passaggio esistenziale e artistico a descrivere fortemente i suoi percorsi umani e professionali.

La prima foto non smentisce quanto detto sin qui. Ecco una donna-conchiglia di un bianco avoriato su sfondo nero, con una particolarità: il volto assorto ed enigmatico con lo sguardo lontano è diviso a metà dal vortice della conchiglia che crea trasparenze lunari nella metà che avvolge, lasciando in ombra l’altra metà. E persino il fiore rosso delle labbra chiuse risente della dimidiazione tra segreti di voci da riportare all’orecchio in un turbinio di onde senza fine, e segreti di voci da dimenticare nella penombra scura di ogni tormento (Gastel e la sua anima di pari passo con la sua Arte). Anche la seconda foto gioca la sua misteriosa essenza sul bianco e il nero, questa volta non più divisi, ma sapientemente annodati in volute che labirintano una donna-fiore e gambo esile su cui esplode un fiore (gardenia o camelia), attraversato da onde di luce, o una donna-cigno, pronta a spiccare il volo con le sue mani-piume in una posizione di slancio, frenata appena dalla sospensione di occhi titubanti e perplessi, in attesa di un vaticinio che la spinga ad osare…

(illusioni sotto le varie maschere che il Teatro rende vere. Dove la verità solo nella finzione o viceversa? Il dubbio rimane).

E per oggi può bastare, ma nei prossimi giorni continuerò a parlare di lui e della sua genialità mista a generosità e umiltà. Giovanni Gastel era tutto questo e molto altro ancora… Grazie sempre della vostra attenzione e del vostro affetto nel seguirmi. Angela/lina

martedì 11 marzo 2025

Martedì 11 marzo 2025: il SILENZIO ha VOCI che sussurrano in silenzio ma non troppo... (terza e ultima parte)

È bello ritrovarsi nel silenzio: è legato alla necessità di sentirlo dentro mentre vibrano le ali del cuore e quelle dell’anima, che non ha tempo né spazio, in quanto è essa stessa spazio e tempo con una sua “intelligenza”, che lo statunitense Daniel Goleman definisce “emotiva” e riguarda i sentimenti, le passioni, l’empatia. E si avverte tutta la poesia di un’anima fortemente sensibile quando anche si porta dentro “persone come boccioli da far sbocciare” e “le stelle sparse della sua memoria” perché facciano luce nelle storie degli uomini e delle donne che, altrimenti, sarebbero ingoiati dal silenzio dell’oblio. E proprio perché nessuno finisca nell’oblio della dimenticanza, neppure le persone che fanno parte del mio passato di ragazzina, essendo ancora a ridosso o quasi della Giornata Mondiale della Donna, io amo ricordare le donne della mia infanzia, che mi sono rimaste nel cuore. Le ricordo, quasi tutte, molto pratiche e molto sole. Ma anche molto ingenue. Ignoranti. Analfabete. Non sapevano. E si accontentavano di non sapere. Quasi fosse normale, giusto così. Erano brave massaie. Semplici. Tristi o ciarliere e tutte timorate di Dio. Attribuivano a Lui ogni calamità, ogni malattia, ogni dispiacere. E si rassegnavano alla loro sorte e alla Sua volontà. Sembrava non avessero ansie né dubbi. Vivevano come respiravano. Accettavano la vita così come veniva ed anche la loro fede era così come veniva. Senza ribellioni. Senza ripensamenti. Ho molto amato quelle donne semplici, rassegnate, forse anche scontente, forse anche rancorose, ignare della problematicità dell'esistenza, ma sempre pronte a portare sulle loro fragili (in apparenza) spalle il mondo, sempre pronte a farsi un segno di croce per propiziarsi Dio per sé e soprattutto per gli altri, per scongiurare un pericolo, una malattia, la morte. Sempre pronte a darsi una mano. Con la sola “intelligenza del cuore”. La più importante, a mio parere. Per comprendere gli altri e per andare incontro agli altri. dimentiche solo di sé stesse. Donne senza tempo. Senza età. Senza storia. Forse. O, molto più probabilmente, ero io che non sapevo dare loro un'età, che ignoravo il loro tempo, che fantasticavo sulle loro per me inesistenti o inconsistenti storie, che sicuramente erano, invece, storie di lutti, di dolore, di rinunce, sacrifici, silenzi. Quanta Solitudine e Silenzio nelle loro storie. Le loro storie. In realtà, solo apparentemente uguali, ma quanto diverse?

Probabilmente erano giovanissime e giovani o quantomeno non molto anziane, ma per me erano tutte irrimediabilmente vecchissime. Con i loro scialli vecchissimi, i loro grembiali vecchissimi. Nelle loro case vecchissime con i vecchissimi pavimenti di cemento raramente lavati e travi a vista sotto i soffitti, da cui pendevano le carte moschicide (non avevano neppure il tempo di scacciare le mosche) accanto al piatto di vetro plissettato, come una vezzosa gonna, a coprire la smilza lampadina con fioca luce. E sedie impagliate e madie infarinate e santi e morti sul comò e sui comodini con lampade votive e lumini. E voci di preghiera nella sera. E vecchi riti che perpetuavano comportamenti e ostacolavano il cambiamento. Anche per strada andavano in giro coperte alla bell’e meglio con vecchie sciarpe, sferruzzate con lana grezza, che ricordavano vecchi corpi e vecchie stagioni di velli di pecore tosate e di fusi e conocchie tra mani rugose e stanche (la bella addormentata con il principe a salvarla era una fiaba da loro ignorata). Loro che ninnavano i loro piccoli nelle culle di legno e non raccontavano fiabe ma le cantavano a loro modo, stancamente, sfibrate dal lungo giorno di lavoro come massaie nella propria casa: ninnananna uè la ninnananna u lupə s’è avvəcə natə u lupə s’è avvəcənatə alla capanna… ninna uè o la ninnananna uè, u lupə s’è mangiatə, u lupə s’è mangiatə la picurella, ninna sunnə e uè la ninna sunnə e stu məninnə nan teinə, nan teinə sunnə.

E quasi tutte quelle donne, ricche o povere, giovani o vecchie, erano vestite di nero per un lutto che non riuscivano mai a dismettere nel cuore e nelle vesti. Tre anni per la madre o il marito, due per il padre, l’intera vita per un figlio…

Erano queste le donne della mia infanzia: molte poverissime e analfabete, pochissime le ricche e istruite. E nessuna proprio nessuna che cantasse mai. Le sentivo cantare solo in chiesa e dietro le processioni e mai mai in casa o per la strada. Troppa miseria e troppo dolore per lasciarsi andare al canto. Troppa ricchezza e troppa alterigia o dignità non consentivano loro ad andare per le strade…

Le ho descritte e cantate tutte, sempre, le donne di quel lontano passato. In mille modi. In prosa. In poesia. Le tante donne della mia infanzia sono ancora qui, in me. Donne che non fanno storia, che pure hanno vissuto, amato, odiato, riso, pianto, chiacchierato, ubbidito, ricordato, sperato, pregato. Donne lontanissime nel tempo e a cui tento di dare una storia perché non si perdano del tutto nel tempo. (Potere della memoria e della parola scritta. Ma potere anche della fantasia che a quella memoria aggiunge parole mai dette e vite mai vissute. La narrazione fa rivivere il passato e appaga la mia gioia di raccontare…).

“Scrivere vuol dire farsi eco di ciò che non può cessare di parlare…” (Maurice Blanchot).

Oggi, è vero, di loro non rimane che un labile ricordo. Diafano. Trasparente. Vago. Lontano. Incerto. Rimane in chi, come me, ha anni addossati agli anni e vive e rivive anche il passato cercando di riattualizzarlo nella memoria perché non muoia del tutto.  Ma neppure il ricordo serve a riportarle ai nostri giorni. Sono anacronistiche. Sono distanti anni-luce dai modelli che le ragazze amano, seguono, contestano. Sembrano vissute invano e, quindi, non vissute. Si perdono in quella caligine oscura che il passato trasmette alla mente di chi c’era. Erano solo croci su croci: una croce, il marito; una croce, i tanti figli nati e, magari, morti nello spazio di un solo giorno (le malattie infantili falcidiavano impietosamente tanti fiorellini di prato appena nati), e altri da mettere al mondo “come conigli” (cfr. la canzone del bravissimo De Gregori “Generale”); una croce, ogni dolore muto, ogni ribellione repressa, ogni parola ingoiata. Una croce, l’unica identità come firma da apporre sui rari documenti che affermavano civicamente il loro essere al mondo. Spreco di vite. Davvero inutili? Non voglio crederlo. Non posso crederlo. Distruggerei quella gòmena d'amore e di rapporti che ha legato e lega le generazioni al femminile perché non si perda la storia dell'umanità. Per questo io amo ricordare e raccontare lacerti di storie che la mente mi restituisce a tratti, e volti e nomi e parole, sottraendoli alla dimenticanza. Rimpasto quelle donne per farle rivivere… (sono brevissimi stralci dei tanti che riguardano quelle donne tradite dalla storia e vinte da una cultura che le voleva serve, mentre erano padrone di sé e dei loro giorni per la forza titanica dimostrata nelle loro case, prive degli uomini andati in guerra, e affollate di bocche da sfamare per sopravvivere…  brevissimi stralci, dicevo, tratti dal mio libro Le piogge e i ciliegi, vol I e II SECOP Edizioni, Corato-Bari, 2016 - 2018).

Alla prossima. Grazie. Angela/lina 

giovedì 6 marzo 2025

Giovedì 6 marzo 2025: IL SILENZIO... alla ricerca di una possibile tregua per vivere al meglio il Nuovo Anno... (seconda parte)

In questa seconda e ultima parte, vorrei partire dall’inizio di questa mia storia per comprendere meglio il seguito. Tutto è cominciato da un ritrovamento fortuito: mettendo un po’ di ordine tra i miei tanti libri, mi è scivolata una pagina di quaderno scritta a mano, senza data. Un mio racconto scritto alcuni anni fa e probabilmente mai pubblicato. Non ricordo. Ma eccomi qui a trascriverlo. L’ho intitolato “Solitudine e Silenzio” per dargli una identità. O forse per centomila altri motivi:
Del resto, NEL SILENZIO, le cose in silenzio si raccontano: il silenzio della quotidianità, della natura, del paesaggio, della pioggia, del mare, da lasciare intatto nel tempo, dilatandone il senso e il significato.
È come stare al buio e incontrare il silenzio delle stelle. È come avvertire la calma del silenzio dilatato dopo una tempesta, dopo il pianto prolungato di un bambino, dopo la caciara di una sagra paesana, dopo il terrore assordante della guerra. Assaporarlo dopo l’inquinamento acustico dei nostri giorni e scoprire che c’è e che ci salva: invocato, atteso, benefico, molteplice nei suoi significati altri che mille occhi attraversano senza scoprire e che il silenzio rende più visibili e profondi. È come penetrare un mistero. Il linguaggio misterioso delle cose, che tra l’altro, in una società distratta dal chiasso, vuota di senso e ricca di teorizzazioni, ammalata di individualismo e assoggettata a considerazioni astratte che spesso sono solo elucubrazioni virtuosistiche della mente, riporta il nostro sguardo sulla “cosalità” perduta, sulla materica composizione del mondo come soglia di ogni altro pensiero, di ogni altra conoscenza. Fisica e metafisica. Queste ultime partono dal silenzio delle cose, per “vederle” oltre che guardarle e scoprirle e valorizzarle. Per ascoltarle.
Silenzio, perciò, è una parola che mi piace. Se penso al silenzio che fa parlare il cuore. Come diceva mio nonno quando sorprendevo lui e mia nonna seduti vicini nella penombra della sera, dopo aver recitato il rosario, dietro i vetri di casa, in silenzio, a salutare il buio che annullava le cose e i rumori e le voci del loro piccolo mondo: la strada di casa, allora ancora un po’ in periferia o la semplice via di un amore che li teneva indissolubilmente uniti. Sereni, nonostante gli innumerevoli dolori e dispiaceri da entrambi vissuti.
Anche a Primo, il mio tempestoso compagno per circa quarant’anni, piaceva il silenzio del nostro raccontarci con gesti d’amore il giorno, lui che aveva come codice preferito di comunicazione l’urlo, e si meravigliava del mio accoglierlo in silenzio, “senza lo scontro”. Se torna il silenzio: era una aspirazione ed una invocazione. Una necessità di vita per riscoprirci insieme.
Ma silenzio… è anche una parola che mi sgomenta, quando penso al silenzio che crea un vuoto; che separa con fratture e divisioni; che è culla di odio e di rancore; che cova vendetta; che coltiva un equivoco e lo fa ingigantire nella mente; che nasconde un sentimento mai svelato e, quindi, mai conosciuto e riconosciuto, mai vissuto nella pienezza del gesto, oltre che delle parole. Silenzio atteso e temuto, dunque. Silenzio invocato e nutrito. Infranto e chiacchierato. Silenzio raccontato.
Il silenzio è il nulla prima del Big Bang, esplosione del Creato. Che si racconta con le cose. La materia, innanzitutto. Generata dal nulla per un atto di Energia purissima. Come direbbe un mio amico poeta e chimico. È il vuoto tra due rumori, tra due suoni, tra due parole. È attesa e ricordo. Speranza e rimpianto. Il pudore e il timore. L’invocazione muta dell’anima. La preghiera. È la cattedrale gotica che s’innalza con le sue guglie al cielo in una penombra che invita al raccoglimento per ascoltare meglio “le voci di dentro” (Eduardo o Dacia Maraini ne hanno parlato con dovizia di particolari): quelle che ci parlano dell’invisibile che è in noi e fuori di noi. L’arcano, il mistero, il sogno. L’indicibile perché tanto più grande delle parole per esprimerlo. L’immenso. Lo stupore. Il linguaggio dell’Universo. L’incontro insaputo con Dio...
“Il silenzio come momento aurorale dell’ascolto” (Massimo Baldini).
Solo dopo è possibile cogliere l’armonia e la dissonanza: di rumori, suoni, musica, parole. “Il nostro è un tempo senza silenzio, senza armonie, è un tempo colmo di convulso fragore… La chiacchiera è la sola parola possibile in tempi in cui il silenzio è morto e regna sovrano il rumore… A ben guardare, la chiacchiera è la parola di tutti coloro che vogliono solo parlare e mai ascoltare, è la parola superflua, inefficace” (ancora Baldini). Il filosofo e scrittore Michele Federico Sciacca scrive: “Chi chiacchiera non si preoccupa di comunicare, ma solo d’infilar parole che non dicono niente. Non persuade, né convince; stanca e infastidisce. Non lo ascoltiamo, né, in fondo, a lui interessa l’essere ascoltato”. Ascolto e silenzio, dunque, devono procedere insieme. Entrambi si fanno inavvertitamente silenzio e ascolto interiori. Ignazio Silone afferma che: “Il silenzio interno significa che ogni cosa è al suo posto, ogni cosa è in ascolto”.Alfred De Musset sostiene che: “La bocca custodisce il silenzio per ascoltare il cuore che parla”.

Ma occorre fare attenzione perché a volte il silenzio può essere la morte dell’ascolto. Si tratta del silenzio cupo, ostile, desertico, offensivo, di isolamento e rifiuto, di cui ho già parlato. Ma esiste il silenzio agognato e amato in tanto frastuono che ci sovrasta.

QUANDO TORNA IL SILENZIO

È un silenzio nuovo del nuovo giorno
- penombra di canto e silenzio di sorrisi -
i bambini lasciano parlare il cuore
coltivando un amore grande
che sa di luce anche quando la sera ci sfiora
e accarezza la vita appena nata.
Prodigio del sogno accarezzato e preghiera
sussurro del giorno che comincia
e racconta il mistero della nascita
al canto della natura
(che non teme la solitudine
dei balconi senza bimbi ad imbrigliare il cielo).


Penombra e Silenzio, dunque, lasciano parlare il cuore, coltivando un amore grande per le ombre che sanno di luce e per la luce che si fa ombra quanto più è presente il sole. Penombra e Silenzio si fanno compagnia. Accarezzano le stesse cose. Intuiscono le verità in esse nascoste in attesa di scoprire la Verità che tutte le comprenda e le inglobi. Si sostengono e si completano. Si arricchiscono di senso e danno un significato più profondo alla vita.
Annah Arendt afferma che solo nel silenzio e nella penombra è possibile conoscerci e riconoscerci. E la conoscenza di sé e il proprio riconoscimento danno all’essere umano la giusta dimensione di quello che è nel mondo e gli evita errori di valutazione e di autovalutazione. Di sovraesposizione. Come accade ai figli dei grandi, dei potenti, degli uomini di spettacolo, sempre sotto i riflettori, sempre immersi nel clamore della folla col rischio di perdersi, lacerati in tanti minuscoli sé di cui la cronaca famelica s’impadronisce. Divorati dall’ansia di apparire o dalla paura di non essere visibili. Di non farcela. Di non essere all’altezza della fama dei loro genitori. Bruciati da soli artificiali che tolgono respiro e abbagliano e accecano e disorientano e sfiniscono, distruggendo l’intima essenza della loro umanità. Della spiritualità. Il clamore è spesso il fallimento della nostra autenticità, perché il più delle volte ciò che appare non è.
Ci occorre e ci soccorre il silenzio. Quello che ci riporta alle parole mute delle cose, alla loro storia nascosta e forse dimenticata. Al canto della natura. Al sussurro del giorno che comincia e si racconta in un segreto d’intenti, e di passi per realizzarli e di gesti per costruirli, perché ogni giorno sia un giorno nuovo e aggiunga qualcosa di diverso alla nostra vita. Alla consapevolezza di quello che siamo realmente, indipendentemente da chi ci ha generati. Si tratta di libertà di essere per quello che siamo e possiamo essere. Niente di più. Niente di meno. In tutta la nostra pienezza e autodeterminazione. Diamo agli altri quello che possiamo e penso sia il solo modo per dare quello che siamo. Autenticamente noi. E di questo dobbiamo essere fieri e appagati. È questo tutto l’Amore possibile. Forse mai misurabile. Ma è Amore. E, se è, non necessita di alcuna differenza, alcuna misurazione. Ci aiuta nel faticoso, gioioso, tormentato, chiaro, complesso, semplice nostro andare per le strade della vita. Da soli. Con gli altri. Viandanti in uno spazio e un tempo che ci appartiene e che pure non è nostro. Di cui forse dobbiamo dare di conto, per ascoltare il respiro intimo di una strada silenziosa, il sogno segreto di una molletta innamorata del sole, l’ardimento dei cavi elettrici ad imbrigliare il cielo, la solitudine di un balcone senza bimbi.
E oggi sono ancora qui a scrivere di tutto questo per lasciare ai giovani e giovanissimi un messaggio di Amore e di Speranza, in un mondo sempre più difficile e alla deriva. E non si può più sperare nel silenzio a soccorrerci. Occorre superare il silenzio e parlare per vincere anche la solitudine.
Leggo molti loro testi di poesie e di canzoni che sono pieni di sconforto, di rifiuto di vivere, di parole violente e blasfeme che sicuramente i ragazzi scrivono sotto l’effetto di droghe sempre più devastanti. Ho pena per loro anche perché molti sono giovanissimi e già sono violenti, aggressivi, spietati nelle loro “esecuzioni” aberranti contro i più inermi (vecchi, donne, ragazzine, bambini). Occorre fare qualcosa.
E forse la prima cosa da fare sarebbe ascoltarli. Ne hanno bisogno come non mai. Tutti li colpevolizzano, ma nessuno li ascolta: non i nonni non sempre frequentati o ascoltati, non i genitori spesso assenti per tanti motivi, non ultimi i diversi modelli di genitorialità che offrono, favorendo il più delle volte la dispersione dell’identità, già normalmente presente negli adolescenti. Gli insegnanti sono portati più a completare i programmi annuali che a dialogare dei reali bisogni dei loro alunni e studenti in “posizione di ascolto”, e i social contribuiscono alla solitudine reale velata da pseudo amicizie virtuali. E si perdono e li perdiamo. Nella nebbia fitta che non ci permette di “vedere”. Nel rumore assordante dei nostri giorni in cui non riusciamo a “sentire”, e in questa società “liquida” (ancora Zygmunt Bauman, da poco venuto ad abitare le stelle) che ci scivola tra le dita senza permetterci di afferrare la loro anima e uncinarla al nostro cuore in “posizione di ascolto”, tutto si perde e niente più si raccoglie. Ma anche per tutto questo dobbiamo ascoltare innanzitutto il silenzio perché, poi ecco vibrare nel silenzio i colori delle cose. Morbidi, luminosi, mai accecanti. Sereni e rasserenanti. Nella contemplazione di quanto ci circonda e ci ricorda la vita: un petalo rosso di rosa stupito tra tanto azzurro… una strada d’estate oltre il volo alto dei gabbiani… grovigli di rami e di tubi nell’artificio di ciò che è umano e di ciò che ignora l’uomo… L’apparente assenza dell’uomo/donna è presenza costante della mente e del cuore, che non hanno bisogno di un corpo messo in mostra o esibito per esserci. L’uomo o la donna sono là dove lo sguardo dà vita alle cose, annota una realtà che emoziona; dove un oggetto è frutto del loro ingegno e delle loro mani; dove una goccia di pioggia rende il proprio cielo liquido nel mistero della inquieta somiglianza con le lacrime.
E c’è ancora un silenzio a creare atmosfere in sospensione tra la realtà e la magia di ciò che va oltre la realtà… Il silenzio cantato dalla natura. Nenia triste del mare. Allegria di bianchi spruzzi a riva. Sfinimento di languide onde alla battigia. Paziente attesa di pescatori con canna e lenza e amo sotto il sole. Hemingway ritorna ad affascinarci con una barchetta che ricorda il suo vecchio Santiago nella estenuante lotta con il mare e con un pesce enorme che dopo ben ottantaquattro giorni gli si consegna vinto, in un allucinato silenzio che urla tutti i suoi ricordi, oltre le parole che non serve più dire…

Ma, in tutto ciò che si narra, si ascolta, si scrive, si legge, si vive insieme, in una coralità che vince la solitudine e il silenzio, fioriscono versi di autentica amicizia, autentico amore, autentica Poesia…

Vi abbraccio in silenzio, ma col cuore che parla in un sussurro di conchiglia da portare all’orecchio e ascoltare... Alla prossima. Angela/lina

martedì 4 marzo 2025

Mercoledì 5 marzo 2025: SOLITUDINE E SILENZIO… alla ricerca di una possibile tregua per il nuovo anno (2025)

“Solitudine e Silenzio”, due parole polisemiche e, per tanti aspetti, ossimoriche. Certo, spesso si accompagnano nel loro essere subite o cercate, volute. Nell’uno e nell’altro caso, portano con sé uno sciame di emozioni difficili da dire, interpretare. Ma paradossalmente segnano la pelle, scavano nel cuore.
Ci restituiscono una maggiore comprensione di noi? Penso proprio di sì...
E, in un mondo assordato da migliaia di fucili e cannoni e bombe e guerre da poter distruggere nell’arco di un battito di ciglia l’intero nostro pianeta, questo infinitesimale “atomo opaco del male” (Pascoli, “X agosto”), questo racconto potrebbe essere vissuto come una salutare tregua:

La Solitudine e il Silenzio bussarono alla porta. Entrarono velocemente. Ispezionarono ogni angolo della casa. Scelsero lo studio per sedersi. Erano nudi. Inermi. Un groviglio di linee e punti inestricabili, tracciati in un marmo ruvido e inerte. Tela di ragno a tessere un inganno.
La scrittrice Angela De Leo li vide. I loro occhi puntati su di lei la spaventarono. Sembravano scavare per carpire ogni minima vibrazione, anche la più riposta.
- Che volete? - chiese Angela, mentre si accingeva a scrivere sulle pagine bianche di un quaderno sgualcito di scuola elementare. Non ci fu risposta. Un ammiccamento di sguardi. Cielo e terra confusi. Non rientravano nelle esperienze/conoscenze dei bambini. - Che volete? - chiese ancora.
- Abbiamo freddo. Tanto freddo.
- Andate via - disse lei. - non saprei come darvi calore. Nella mia casa c’è un calore naturale che non può riguardarvi.
Non si mossero. Mormorarono: - Noi staremo qui.
Una ridda di pensieri trafisse l’aria. Rimbalzò per la stanza. Vorticò. Aspettava di essere ordinata da una mano accogliente, generosa, sapiente. Che in quel momento non c’era.
Il foglio bianco a righe era lì davanti a lei, che non riusciva ad afferrare una sola parola. Si sentiva affranta. Avvolta da niente. In un deserto bruciante di sabbia (di rabbia?), mentre il vento, entrato nella stanza con i due intrusi, disperdeva, senza pietà, le lettere dell’alfabeto venute fuori dai libri spaginati.
Solitudine e Silenzio, sempre stretti in un abbraccio sinistro, godevano della sua disperazione, compiaciuti della loro ennesima vittoria.
- I veri potenti al mondo siamo noi - si dissero pieni di tracotanza, ignorandola perfidamente. - Gli uomini non riescono a vincerci. Dovrebbero ucciderci. Ma non osano farlo. Davanti a noi ingrigiscono. Si consumano fino a diventare un mucchietto di cenere. Poi, rivolgendosi ad Angela:
- Puoi anche chiudere il quaderno. Come vedi, non disponi più neanche di una sola lettera dell’alfabeto. Ormai sei nostro ostaggio. Da oggi dovrai soltanto stare a guardarci, a contemplarci, adorarci, sperando che la stanchezza non ti vinca e che ci vinca e ci faccia addormentare o ci annienti del tutto. Non ribellarti, però, noi siamo resistenti persino al gelo che ci circonda. Puoi sperare in una tregua, ma non illuderti, sarebbe comunque di breve durata.
- Mio Dio! - gridò atterrita la scrittrice. - Non ho via di scampo! Eppure, non ho mai amato circondarmi di solitudine e silenzio. Ho sempre amato stare con la gente, con i miei cari, con i miei lettori nel dono reciproco di un libro scritto, letto, amato nell’atto di scriverlo, nell’atto di leggerlo. Una comunione di cuori e di anime. Un essere insieme attraverso le parole da raccontare, da ascoltare. Per imparare a conoscerci, comprenderci, amarci. Per stare insieme, insomma. Insieme! Noi esseri umani non siamo nati per vivere da soli. Non apparteniamo al silenzio. Abbiamo avuto il dono della parola. Per stringere legami. Per essere più forti in due, in quattro, in otto, in cento, in mille, in centinaia di migliaia, in miliardi. E tutte le creature del creato hanno un loro linguaggio per non essere mai sole...
Ma le sue parole, disperate e appassionate, non sortirono alcun effetto. Angela si sentiva davvero senza via d’uscita e cominciò a tremare fino nelle ossa. O forse era soltanto il cuore. Davanti a lei cominciarono a scorrere immagini di uomini e donne che, come in processione, girovagavano per le strade della città, gravati da fardelli pesantissimi. Schiena curva. Volto corrucciato o straziato. O privo di una qualsiasi espressione a renderli vivi. Sembravano diventati di pietra vagante e trascinavano sé stessi. Non comunicavano tra loro. Neppure col vicino di viaggio. Non gesti. Non parole. Neanche una sillaba a renderli vivi. Erano divisi da muri altissimi su cui erano scritti i loro nomi, ormai svuotati di significato. Di storie. Le loro storie sfilavano accanto come se non gli appartenessero: amori vissuti, amori finiti, speranze disarmate, angosce dilatate. Dal selciato, su cui avanzavano lentamente e a fatica, i detriti dei dirupi gridavano:
- I vostri sogni sono morti perché non avete parole per raccontarli. Ma consolatevi, tanto lo sapete, o i sogni muoiono all’alba o portano alla follia quando prendono forma e dimora negli occhi del giorno.
- No, questo noooo! - gridò ancora Angela tra implorazione e sgomento. Guardò il quaderno invecchiato e scolorito. Prese la penna neghittosa e indispettita, sistemò calamaio e carta assorbente, e si accinse a scrivere, mentre le mosche e le zanzare, i grilli e le cicale, confinati nella sua testa da tempo immemorabile, cominciarono la solita sarabanda delle idee. Doveva concentrarsi e combattere quell’incessante rumore senza parole, senza una sola sillaba da far cadere con fare distratto, ma sempre più attento e forte per scovare dove si fossero acquattate le lettere sparse dell’alfabeto. Le lettere smarrite. Le vide vorticare nel vento. Non era danza, non era canzone quel turbinio che le portava in alto e le rendeva imprendibili. Angela armeggiò con viti e bulloni per penetrare in quel vortice, si protese fino allo spasimo per afferrare quelle lettere ribelli e smarrite e riuscì a imprigionarle nelle mani. E, magia di ogni incanto, cominciò a sistemarle sul foglio, incastonandole velocemente col pennino intriso d’inchiostro. Le lettere riconobbero l’antica mano, il cuore d’erba e rugiada, l’anima d’azzurro cielo/mare e si arresero docili e felici alle righe come solchi arati in cui dolcemente posarsi per germogliare e farsi fiori di rinnovata primavera. E lei, la scrittrice di mille storie in prosa e in versi, ricominciò a raccontare di sé, degli altri, dei tetti e delle case, degli alberi e dei cespugli, della musica e del canto, delle strade e delle onde, dei treni e delle vele, degli aerei e dei missili, della Luna e di Marte e del Sole. Dell’amore che imbriglia le stelle e accende i sogni come fiaccole ardenti nelle mani degli innamorati. Dell’universo che sembra indifferente ad ogni cosa e invece è un palpito d’amore ad avvolgere ogni infinito, concentrato in un punto infinitesimale di ogni finitudine umana.
E nel mutuo scambio di potente energia la Luce tornò. I piccoli orti divennero prati immensi. Le parole saltavano, danzavano, si abbracciavano. Cantavano ubriache d’allegria.
Angela a fatica posò la penna che correva correva correva ad azzerare lo spazio e il tempo per vincere anche la morte. Guardò davanti a sé la Solitudine e il Silenzio perché non le facevano più paura. E si accorse che erano spariti. C’erano al loro posto, con gli abiti della festa, tutti i protagonisti dei suoi libri, i tanti personaggi e persino le comparse. Si accorse tra le lacrime che erano minuscoli frammenti di sé. Lei moltiplicata in ogni sua storia in ogni suo verso. E, invisibile ma vera in ogni dettaglio dei suoi personaggi, in ogni più piccolo filo d’erba a distinguersi e ad amalgamarsi nell’unico verde dell’immenso prato. Riconobbe le sue parole. Si riconobbe. Lei finalmente padrona delle parole che la connotavano. Anche lo studio era un disordine di mille arcobaleni spalancati nel cielo, come dopo ogni tempesta.
Fu allora che scorse in un angolo remoto, tra il pianoforte e la chitarra, Apollo che le porgeva la lira, segno di vita, e il folle giovanissimo Eros che le porgeva l’arco, simbolo della speranza, e le nascondeva la freccia, simbolo di ambiguità: vittoria o morte. Ma lei non voleva vittorie e neppure sconfitte. Voleva vivere, com’era sempre vissuta, immersa nelle parole.
Le sorrise la parola con le sue tante verità… e nessuna poi vera. Solo la Parola, forse. Ma era ancora in cammino per sfiorarla…


E oggi Mi chiedo: fu un’allucinazione? … forse… chissà! Oppure una tregua… Sì, una tregua per ritrovarmi e rinascere affacciandomi alla finestra del Nuovo Anno, carico di luci, di ombre e di penombre, dove riposare con i pensieri, dove riafferrare, una ad una, tutte le lettere del mio alfabeto magico e ritornare ad abitare la Luna, che sorride ai folli, ai poeti e agli innamorati e incontrare il loro sorriso a ogni quarto di luna, facendo scorgere un mondo migliore, in cui Sperare!

A domani la seconda parte. Angela/lina

venerdì 28 febbraio 2025

Venerdì 28 febbraio 2025: tempus fugit e domani è già marzo. Vestiamoci di SPERANZA e CORAGGIO: due parole care a PAPA FRANCESCO...

Tra gli ultimi coriandoli di Carnevale e i primi giorni di penitenza della Quaresima, mi sono imbattuta in due parole, che ritengo meravigliose per tanti motivi, non sempre scontati e non sempre da tutti accettati. Ma io corro il rischio di parlarne perché sono fermamente convinta che possano lenire in qualche modo le nostre pene, le nostre inevitabili fragilità. E anche per un altro motivo, che mi sta molto a cuore. Sono due parole suggeritemi da Papa Francesco, perché le ha messe in evidenza dal suo letto di dolore, in questi non facili giorni per Lui: SPERANZA e CORAGGIO.

SPERANZA e CORAGGIO: due parole il cui etimo risale al latino. Bellissime. Soprattutto nei tempi bui e tristi che stiamo vivendo a livello planetario. Fondamentale è, per me, oggi, armarsi di Speranza, “ultima Dea” del nostro percorso di vita sulla terra. Dal latino “spes”, come già detto, ma anche dalla radice sanscrita “spa”, che a me piace di più perché significa “tendere verso una meta”, in quanto prefigura un “movimento verso”, ossia un viaggio con destinazione... non sempre scontata nelle modalità, difficile da ipotizzare, da accettare!

Nell’arco dei secoli, comunque, essa ha avuto un significato molto controverso: i greci la ritenevano una illusione; i latini la negavano; i cristiani la misero a fondamento delle tre virtù teologali. Per molti filosofi e scienziati essa è un momento di “debolezza” e di “squilibrio”. Per Pascal “non si vive, ma si spera di vivere”, dunque la speranza è indispensabile alla vita. Anche per me è una forza propulsiva decisamente positiva, come lo è per Papa Francesco che continua a ripetercelo dopo aver pubblicato qualche anno fa Ti racconto la speranza (San Paolo Edizioni, Roma 2021).

Anche Coraggio = da cor-cordis, deriva da cuore, cioè dalla sua forza appassionata, che si fa audacia e determinazione e che risiede più nel palpitare di questo muscolo involontario vitale che non nel fegato che oggi si può anche sostituire. Per parlare di coraggio, però, occorre parlare di paura che non ha un’accezione negativa perché è proprio la paura che sollecita nell’essere umano, ma anche negli animali, una reazione di salvezza che si permea di coraggio. Ma a me piace abbinare il coraggio anche a cordata (non a caso hanno lo stesso etimo) perché è “l’unione” che fa la forza. Fare cordata in una impresa significa moltiplicare il coraggio del singolo e rendere più fattibile la realizzazione di quanto si ha in cuore di raggiungere. E quale impresa più grande della solidarietà tra gli uomini? L’estate scorsa sono stata per una settimana al mare in un luogo incantevole, in cui c’era una cura particolare per i disabili, facilitata da un’organizzazione particolare tra gli albergatori: tutti si davano una mano per rendere il soggiorno a tutti i clienti dei vari alberghi il più confortevole possibile. Bellissima cordata di angeli a far mettere le ali anche a noi che vivevamo in carrozzella. Siamo, dunque, tutti destinatari di questo tenero messaggio: aiutiamoci gli uni con gli altri per non perdere mai la le verdi vie della Speranza e del Coraggio! Ma i veri destinatari della Speranza e del Coraggio sono i giovani e giovanissimi, che oggi più che mai ne hanno bisogno. È questione anche di educazione a cercare sempre motivi di rinascita. Educare, del resto, è un bellissimo verbo che ha un duplice significato: da ex-ducere = tirare fuori, far venire alla luce, cioè tener conto e rispettare la personalità dell’educando, aiutandolo a realizzarsi con le doti innate che possiede; da edo, ossia mangiare, prendersi cura dell’allievo nel tempo. Pare che la domanda più premurosa da rivolgere a chi ci sta a cuore sia: “hai mangiato?” perché, come sostiene Elsa Morante, “La frase d’amore più vera, l’unica è: “Hai mangiato?”. E, infatti, Oscar Farinetti, rifacendosi alla Morante dice “non è solo una domanda, ma un atto d’amore”.

Nessun educatore (genitori, insegnanti, adulti) può prescindere dal formare i giovani e giovanissimi a queste due grandi virtù. Oggi la scienza pedagogica, con le sue “scelte alternative”, ci viene incontro per riprendere a sperare di formare gli uomini di domani: onesti, solidali e liberi. Ma, per quel che mi riguarda, anche la Poesia può rappresentare una valida alternativa alla desertificazione del cuore dei nostri giorni. I ragazzi e i giovani sono essi stessi Poesia, perché sono portatori di sogni e i sogni sono desideri e i desideri sono le stelle in cui ruota il loro firmamento. Anche de-sidera può avere due accezioni: o “intorno alle stelle” oppure “mancanza di stelle” (con il “de” deprivativo). Quante speranze e quanto coraggio nei giovani che non si arrendono! Bellissimo il monito di Giovanni Paolo II a loro dedicato: “Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”.

Sta a noi anziani e adulti, soprattutto amanti di Poesia, scoprire i loro talenti e prendercene cura perché i ragazzi siano i protagonisti “creativi” del prossimo futuro! Futuro che quanti hanno la mia età vedranno con i loro occhi, attenti e incantati.

E, intanto, non posso fare a meno di ricordare il sogno che ho fatto all’alba ieri mattina: Papa Francesco in persona bussava alla mia porta. Quando aprivo, sorprendendomi enormemente perché lo sapevo ricoverato con prognosi riservata al Gemelli, mentre era venuto a piedi fino alla mia casa, balbettavo frasi di sorpresa, preoccupazione per la Sua salute, di ammirazione per la sua audacia e il suo coraggio. Lui mi rispondeva che in effetti non aveva tenuto conto che era ancora inverno e che all’alba faceva ancora freddo, nonostante qualche sentore di primavera. Mi chiedeva di entrare, dicendomi che aveva sentito il mio richiamo e la mia preghiera-non preghiera-ma preghiera in grado di riscaldare i cuori di quanti mi conoscono o mi leggono. Soprattutto dei giovani che mi stanno molto a cuore. Perché desidero ascoltarli. Sempre. “Siamo almeno in due ad amarli, ascoltarli e proteggerli”, mi diceva. “Ma in verità siamo tanti di più a pregare per loro nell’intero pianeta, per scongiurare la guerra e realizzare progetti di Pace e di Speranza… E che nessuno deve mai arrendersi…” Con le lacrime agli occhi gli dicevo di sì, di sì, di sì, ma ero già sveglia e con una nuova gioia nel cuore.

Certo, è stato solo un sogno, ma io mi sono svegliata, ricordando che in realtà non so più pregare ma ogni notte, nell’intimità silenziosa della mia anima nel silenzio, accarezzo Anna Paola che dorme accanto a me, e mi sento immensamente grata al buon Dio dei doni ricevuti e dell’amore che mi viene donato, molto di più di quello che io dono ai miei cari e agli altri. E mi sento una privilegiata. “Forza”, mi dico, “ti manca solo un pizzico di coraggio in più per sperare ancora”. Eppure non mi arrendo… Fino a quando il buon Dio vorrà…

Ed ecco una poesia che mi colma di Speranza e di Coraggio:

All’alba un sogno tra visione e realtà

a colmarmi di bianco e gelo

nella brina luminosa del mattino

e silenzio protetto

dallo scialle antico della casa.

Mi abbraccia un sorriso colmo di luce

e si fa preghiera e calore e tenerezza.

Tremo di gratitudine e di attesa

alla carezza che sa di Cielo.

(domani negli occhi di quanti amo

                   riamata

  accenderò lampade di Speranza

       e un solo cerino per scorgere

                    anche al buio il coraggio)

Grazie. Alla prossima. Angela/lina