Oggi ho assoluto bisogno di parlare dell’immenso Giovanni Gastel: l’Uomo,
lo Scrittore, il Poeta, l’Artista, il Fotografo di fama mondiale, ma
soprattutto mio amico d’anima e di cuore. Non ci conoscevamo da molto, ma era
come se ci conoscessimo da sempre. Giovanni aveva una personalità così
complessa che sfugge ancora oggi ad ogni definizione perché era eternamente
cangiante, contraddittoria, sorprendente. Ma erano forse proprio queste
peculiarità a renderlo così affascinante e amabile, amato. E le stesse sue
Opere servono a darci di lui una idea veritiera e sempre apparente perché
l’Artista guizzava continuamente tra l’essere e il non essere. Ossimoro di sé
stesso sempre.
Così in “Duetto Profano” (SECOP Edizioni, Corato-Bari, 2018), che dà voce a due voci (duetto) che dovrebbero
andare in sintonia perché sono strettamente legate al canto “ad una voce” e,
invece, divergono per “estraneità” tra i due mondi in cui vivono e agiscono i
personaggi Sono due voci legate, ma divise. Forse dei protagonisti, forse delle
storie narrate. Forse dello stesso pensiero dell’autore: un giovanissimo,
geniale, diciassettenne che voleva cimentarsi con la scrittura, ma era ancora
nella fase della ricerca di sé in un mondo che lo voleva incasellare nelle
regole del bon ton sociale (e la foto
di copertina in bianco e nero, ma con la metà più buia e misteriosa sfumata di
rosso, ne è la straordinaria conferma). In una
girandola di situazioni e di luoghi che ben si addicono alla
dispersione/disperazione adolescenziale, e alla tela di ragno di vite solo
all’apparenza tranquille e appagate, ma quanto distanti dall’ideale di sé nella
verità del proprio “Io” più profondo e quasi sempre ferito e sconfitto.
Di qui l’eterno ritorno nietzschiano all’infanzia e ai
luoghi del cuore: il giardino delle meraviglie, la grande villa silenziosa di
Cernobbio, la Milano della domenica e della messa.
Ed era ancora un bambino che guardava il mondo con
occhi spalancati, senza fiabe certo, ma un mondo ancora da scoprire, da vivere.
E, invece, la morte in agguato lo condizionerà per tutti gli anni a venire. Da
quelle immagini in poi nulla sarà come prima. Neppure le parole. Neppure i
silenzi che spesso urlano parole mute. Ma il romanzo non può restare senza
parole. E il romanzo nel romanzo neppure. Il male di vivere corrode le menti
più sensibili.
La quotidianità ha le sue leggi intransigenti sia che
si viva in un mondo dorato sia che ci si arrabatti in un ambiente senza pretese
e senza voli alti.
Anche Dio, nell’uno e nell’altro caso, è un costante
appiglio più per renderlo reo di una sconfitta che àncora di ogni salvezza”.
Dualità profonda sempre in Giovanni Gastel anche di fronte a Dio che ha
cercato e rinnegato in ogni suo pensiero, in ogni sua poesia, in ogni scatto ad
eternare l’attimo, fino a sentirlo costantemente al suo fianco.
Lo stesso avviene nella raccolta di poesie “Io sono una pianta rampicante”
(Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo-Milano).
“Qui i versi sono liberi, eppure
ricchi di figure retoriche per un senso innato del bello, che il poeta
avvertiva in sé e trasferiva nelle parole a rendere, nonostante il continuo
disincanto, un’atmosfera incantata per l’armonia interna che vi regnava”.
Soprattutto nel rammemoramento dell’adolescenza e il suo splendore ancora
intatto.
Ma è un idillio che non poteva durare. Le contraddizioni ebbero subito la
meglio e quella che sembrava un’età felice si vestì di mille apprensioni e di
presentimenti che tolsero smalto e fervore di vita ai giovanili anni, e tutto
divenne cupo, buio, misterioso. Il corpo languiva e la mente era soggiogata da
tetri pensieri di morte, ritenuta assassina, e responsabile di tante immense
paure. Le anime più sensibili vivono questi abissi prima di assaporare la piena
giovinezza.
“Con Gastel era come viaggiare eternamente sulle montagne russe, niente
era scontato e sempre uguale, neppure lo stato d’animo di un attimo prima
corrispondeva alla certezza dell’attimo dopo. Tutto veniva affermato e
smentito, pur nella realtà del momento, pur nell’incubo che ne conseguiva. Il
passare del tempo gli procurava angoscia, ma anche il dover vivere ancora una
notte gli pesava tanto quanto i demoni a visitarlo, oltre le barriere del
buonsenso e dei freni inibitori per vivere con gli altri, in mezzo agli altri”.
Eppure, non avrebbe mai voluto una vita regolare, semplice, serena, perché sarebbe
stata in antitesi con i tumulti del cuore e della mente: “la storia degli uomini è/ nell’angoscia della foresta”.
Per fortuna, la scrittura. Necessità di vita era scrivere con le prime
ombre della sera per salvare un giorno “vuoto” che finiva, e per salvarsi da
quel vuoto che era voragine e disperazione.
“… ad addolcire un altro giorno
vuoto/ di cui non conserverei memoria/ se non per i neri segni che a sera/
inciderò su un foglio bianco.
Ed ogni parola, sia pure inconsciamente o intenzionalmente, era scelta
con cura, calibrata nella sua profondità. “Incidere”, per esempio, è azione
molto più “incisiva” più forte e determinata di vergare o scrivere. I “neri
segni”, piuttosto che i segni neri, riguardano una locuzione che ha una diversa
valenza semantica: è una sorta di anastrofe che rende più leggero il segno e lo
connota come scrittura.
Io sono un disperso (…) che (…) affida se stesso/ alle parole che scrive.
Ed era un affidarsi totale, quasi un “naufragare” di leopardiana memoria.
C’è una sorta di eternità delle parole nelle voci che ci appartengono,
che riconosciamo e teniamo per noi. Ci sembra quasi di averle dimenticate. Poi,
basta un richiamo, una frase, una eco ed ecco ritornare prepotentemente a farci
gioire o soffrire e la nostalgia ci prende, come per ogni ritorno (nòstos), che
è gioia, ma anche dolore (àlgos).
E, del resto, … All’origine tutto
era parola.
E qui il richiamo biblico è forte. E il richiamo al Verbo che era presso Dio ed era Dio. Il Verbo ha una parola sola.
Una sola Verità. Basta riconoscerla. Ma con presunzione gli uomini la cercano
nella scienza, che non possiede verità, ma parziali porzioni di conoscenza,
suscettibili di essere confutare e capovolte, nel tempo e nello spazio. La
cercano nella propria mente, ma non è la razionalità a dare risposte chiare e
definitive. Nel cuore che è un “guazzabuglio” di sentimenti e di risentimenti.
Forse solo “oltre il muro d’ombra”. Ma forse sarà troppo tardi per credere e
per sperare.
La fede, unica ancora di salvezza? Forse. Se avessimo il coraggio di
credere. È più facile negare che ammettere. Diceva lo stesso Gastel, in versi,
in prosa, con gli scatti delle sue foto che vibravano di bellezza ma non di
verità. Perché ciò accadesse, Giovanni Gastel cercava nelle sue modelle
l’anima. E l’anima cercava nelle parole. La cercava in sé stesso. Non si lasciava
influenzare dalle regole e dalle mode. Scriveva come in quel momento gli dettava
il sentimento. Scriveva versi diversi.
E, del resto, ognuno può esprimersi come meglio crede purché ci sia
emozione, ci sia Poesia.
Credo sia una conquista pluralistica nella complessità del mondo
contemporaneo. Anche la commistione di generi artistico-creativi fa parte di
quella ricerca del nuovo nel rispetto della classicità e del sentimento
profondo che la sostiene. L’unica ricerca che potrebbe pacificare il mondo
interiore con quello esteriore, in una adesione reattiva alla società del post
postmodernismo e del recupero dell’autenticità del linguaggio e della vita.
In Giovanni Gastel tutto questo veniva messo in atto in tutte le sue
opere, fino a connotare una scrittura narrativa e di comunicazione sincera e
immediata. Risolvendosi persino nella accettazione delle proprie ombre per
superare i condizionamenti di una cultura familiare, che ancora lo affascinava
e lo legava, con lacci d’amore, certo, ma anche con la fragilità che ne derivava.
Si pensi ai mai spenti dialoghi con l’amata madre, con il rimpianto fratello,
perso alla sua vista, ma non al suo cuore.
Bisognerebbe leggere ogni verso per comprendere l’eccezionale sensibilità
etica, affettiva, emotiva ed estetica di Giovanni Gastel e per comprendere
appieno la natura dei suoi tormenti.
‘Io sono una pianta rampicante’ è uno scrigno prezioso di ritratti di famiglia, di spazi vuoti (‘i
margini di silenzio’ di Paul Eluard?), di luoghi e date, di poesie perlopiù
senza titoli e senza soluzione di continuità. Quasi un racconto poetico lungo,
fatto di improvvise emozioni, percezioni della realtà ed echi di memorie
lontane nel tempo e nello spazio, ma vive più che mai nell’anima del poeta, in
un “infinito presente”, che, nel suo modo e tempo verbale, azzerava ogni
passato e ignorava ogni futuro per attualizzare, in un unico istante, tutta una
vita.
‘Io sono una pianta rampicante’:
titolo molto suggestivo, ma già di per sé ossimorico” (come del resto anche il
titolo del romanzo e come gli stessi campi semantici di numerose sue
fotografie. Vedi la serie degli ‘Angeli caduti’), connotativo della stessa
personalità dell’Autore, coacervo di laceranti contraddizioni, di cui la sua
Arte e il suo Genio si nutrivano…
La cultura familiare, radice profonda e indistruttibile, e le rigide
regole ad essa sottese erano, comunque, gabbie dorate, troppo strette per i
suoi voli pindarici. Voli troppo alti, che avvertiva a suo danno: la solitudine
dell’“albatros” (Baudelaire) o dei “numeri primi” (Paolo Giordano), ma anche a
suo appagamento per la genialità che gli concedeva di forare il cielo e
sentirsi incontaminato e compiutamente sé stesso. E tutte le contraddizioni
alla fine si ricomponevano in Unità: Giovanni Gastel era tutto questo e non può
essere diversamente. Tutte le sue opere visive e quelle letterarie hanno firmato
la sua genialità. La sua umanità.
Oggi Giovanni Gastel
sarebbe stato sempre dimidiato tra la libertà del volo nel suo mondo di sogno e
il franare malinconico e disperato nell’abisso di una realtà che fa ancora male
e che avrebbe voluto dimenticare per non avvertire le ferite e il disinganno. E
le sue Foto e i suoi Scritti ne sono la inconfutabile conferma.
Anche nel “Catalogo” (curato nei minimi particolari
nella stessa immagine di copertina evidenzia tale dicotomia nella sua
innegabile unità: il bianco luminoso delle ali in volo verso spazi sempre più
alti e più ampi, e il nero abissale del tunnel ad avvolgerlo ad ogni contatto
con la terra e con il mondo della realtà e della concretezza. E, al suo
interno, il Teatro gasteliano: Le sue Immagini. Le sue Fantasie. I suoi
Personaggi che si raccontano e lo raccontano. In ogni simbolo. In ogni verità.
In ogni passaggio esistenziale e artistico a descrivere fortemente i suoi
percorsi umani e professionali.
La prima foto non
smentisce quanto detto sin qui. Ecco una donna-conchiglia di un bianco avoriato
su sfondo nero, con una particolarità: il volto assorto ed enigmatico con lo
sguardo lontano è diviso a metà dal vortice della conchiglia che crea
trasparenze lunari nella metà che avvolge, lasciando in ombra l’altra metà. E
persino il fiore rosso delle labbra chiuse risente della dimidiazione tra
segreti di voci da riportare all’orecchio in un turbinio di onde senza fine, e
segreti di voci da dimenticare nella penombra scura di ogni tormento (Gastel e
la sua anima di pari passo con la sua Arte). Anche la seconda foto gioca la sua
misteriosa essenza sul bianco e il nero, questa volta non più divisi, ma
sapientemente annodati in volute che labirintano una donna-fiore e gambo esile
su cui esplode un fiore (gardenia o camelia), attraversato da onde di luce, o
una donna-cigno, pronta a spiccare il volo con le sue mani-piume in una
posizione di slancio, frenata appena dalla sospensione di occhi titubanti e
perplessi, in attesa di un vaticinio che la spinga ad osare…
(illusioni
sotto le varie maschere che il Teatro rende vere. Dove la verità solo nella finzione
o viceversa? Il dubbio rimane).
E per oggi può
bastare, ma nei prossimi giorni continuerò a parlare di lui e della sua
genialità mista a generosità e umiltà. Giovanni Gastel era tutto questo e molto
altro ancora… Grazie sempre della vostra attenzione e del vostro affetto nel
seguirmi. Angela/lina