lunedì 20 dicembre 2021

20 dicembre 2021: altre testimonianze sull’AMORE che vince il DOLORE…

Forse, la vita è proprio come un mattino qualunque di dicembre. Un solicello fragile e ignaro, un cielo limpido solcato da vecchie nuvole, il gelo assurdo nel cuore. E le vestigia dell'amore da riconoscere sulla pelle di un uomo, ferito per sempre. Non vedevo Carla chissà da quanto, ma qualche volta mi era capitato di incrociare Francesco. Già, perché per me Carla era Francesco e Francesco era Carla. Il consueto saluto amicale, mozziconi di parole che si disperdevano nell'aria, la gracile promessa di risentirci. E, intanto, lo vedevo appassirsi dolorosamente, come capita a quei fiori belli che, cresciuti insieme in un vaso ancora più bello, vedono spegnersi la rosa che svettava accanto, intrecciatasi all'anima, nel tempo, con la tenacia indistruttibile del sentimento. La luce della giovinezza, la leggerezza dell'ironia, la forza delle difficoltà superate insieme, il sogno di una vita condivisa: tutto finito. Inutile. Insensato. Precipitato giù in un botro buio senza fine. Si resta, certo, perché quella rosa nomata Carla - estremo dono d'amore- si sfarinerà per nutrire i fiorellini stupendi che in quel vaso erano nati e, giorno per giorno, cresceranno. Ma quel fiore di nome Francesco, che ha sentito lo stelo adorato sfuggire inesorabilmente dall'abbraccio disperato, ora come farà?


E riprendo con quanto il mio carissimo amico Mario Sicolo (Apulo Scriba) ha postato oggi sulla sua pagina FB. Sorprendentemente sembra la perfetta continuazione della poesia di Antonella Coletti: “l’ultimo bocciolo reciso dal vento di una notte d’inverno”. Metafora dell’ultimo tratto di vita vissuto come rosa, i cui petali vengono sparsi dal vento che non perdona rughe e passi malfermi. Si attaglia in modo ammirabile con la terza età e, cioè, con gli anni che m’appartengono. Quanta reciprocità sul “viale del tramonto” tra Carla e Francesca fino a diventare, per un osservatore sensibile e attento come Mario, interscambiabili. E condivido parola per parola, tanto mi sento parte viva, per fortuna ancora VIVA, delle strade attraversate dal nostro autore e dai protagonisti di questa tenera storia di un tempo non ripercorribile se non al passato quando anche il cielo grigio s’illuminava della “luce della giovinezza, la leggerezza dell’ironia, la forza delle difficoltà superate insieme, il sogno di una vita condivisa: tutto finito…”. E potrei condividere anche la conclusione. Ma, al di là dell’amore per e della “rosa sfiorita” ci sono altri esempi di amori che asciugano il pianto. È bene ascoltare anche queste voci per sentirci ancora in viaggio su strade lastricate di buone possibilità di vincere il male con la forza che proviene dall’essere in due. Rubo dalla pagina di Miryam Procacci su FB una bella riflessione che ignoro di chi sia, ma che avvalora le scelte d’amore di Luciana e Federico, i due carissimi amici, di cui ho parlato la volta scorsa: “Ho capito che amare, nel suo punto più profondo, significa soprattutto fare pace - dentro di sé - con gli aspetti dell’altro che sono più diversi ed estremamente distanti dal proprio modo di essere. Non è affatto difficile apprezzare i lati positivi. È quello che viene più immediato nell’innamoramento. Ma la prova dell’amore è riuscire a percepire come domestici e accettabili proprio quegli aspetti che, agli occhi degli altri, sono “difetti”. Se non siete in grado di trasformare questo esercizio, che inizialmente è pura pratica quotidiana, in uno slancio naturale, vi sconsiglio di immaginare una vita a due.” A tutti coloro che credono. Che credono, anche, nell’amore. E mi piace sottolineare l’importanza dell’inciso “anche”, inserito nelle scarne ma incisive parole di Miryam, perché penso che stiano a sottolineare che sia fondamentale per ogni essere umano credere in qualcuno o qualcosa e che ci si possa incontrare e scegliere di amarsi, nel rispetto reciproco delle diverse identità. Mi piacerebbe che, con Miryam, mi deste una voce su questa mia interpretazione. Poi, m’imbatto per caso in questo meraviglioso racconto di Maria Concetta Giorgi, la cui scrittura è decisamente unica e catturante, rimango commossa e senza parole. Qui si tratta di altra reciprocità e altro amore, ma è quasi Natale e allora ben venga questo canto d’AMORE e di ATTESA. Grazie dal profondo del cuore, mia dolcissima amica: “Natale durante la guerra”.

Il silenzio della neve arrivò a fare rumore, picchiettava una neve fresca sul tetto di casa Zanella.
Un lieve e impercettibile ticchettio.
Maria che ormai aveva tanti anni, uscì per strada per guardare che il tetto non si riempisse troppo.
Era freddissimo, le mani si gelavano dentro alle tasche del cappotto.
Tornò in casa vicino al fuoco del vecchio camino.
Aggiunse un grosso ceppo. Sulla stufa bolliva un po’ di minestra, non c’era tanto in casa, la guerra aveva portato via tutto.
Aveva sulle ginocchia una coperta in lana grezza di colore verde, si sentiva felice perché poteva scaldarsi.
Sentì bussare alla porta.
Un uomo tutto bagnato dalla neve, chiese di entrare, aveva solo un maglione e calzoni molto consumati, le scarpe erano avvolte di stracci perché ormai non avevano più la suola.
Lo fece entrare a scaldarsi, un uomo in casa poteva essere una benedizione…
Attilio aveva solo vent’anni e una tristezza in viso che lo rendeva più vecchio.
Una tenerezza infinita colse Maria che guardando quel giovane pensò a quando aveva conosciuto Augusto, al loro amore e a quel figlio che avevano perduto…
Si misero a tavola in silenzio, la minestra era calda, Attilio mangiò voracemente, era tanto che non aveva avuto un pasto caldo.
Maria lo fece sedere vicino al camino, poi gli accarezzò i capelli ancora bagnati. Le venne in mente che dentro la scatola dei suoi poveri ricordi aveva ancora un sigaro di Augusto e che nella vecchia credenza era rimasto del rosolio.
Era la sera di Natale di un anno di guerra e forse era arrivato il momento di festeggiare.
La neve continuava a cadere, guardando dalla finestra Maria si accorse che in lontananza, in alto, luccicava qualcosa.
Non era facile vedere, la neve schiariva l’oscurità, ma il buio faceva da padrone.
Chiamò Attilio, che con il bicchierino di rosolio in mano, si avvicinò ai vetri.
Sembrava la scia di una stella a brillare.
Ma come poteva essere che sotto un cielo da neve si vedesse una stella?
Immersi nei propri pensieri continuarono a fissare quella cosa luminosa, era la notte di Natale e qualcosa era accaduto.
Attilio mise il capo sulle ginocchia di Maria e si addormentò.
Si addormentarono tutti e due. I dolori erano passati, la guerra per una notte era uscita da quella casa.
Fu una notte di Natale senza paura, al calore di un camino, con una coperta grezza che copriva tutti e due.
Maria aveva ritrovato un figlio, non c’era nient’altro che potesse desiderare.

Con questo piccolo racconto auguro a tutti gli amici un Buon Natale. La storia di quel bimbo che nasce, si ripete ogni qualvolta ci siano persone pronte a donare non l’effimero dello sfarzo, ma la profondità della condivisione. Qualcosa da dividere alla luce di una straordinaria visione, un faro che illumina nel buio di ogni periodo difficile e che afferma con meravigliosa intensità, la nascita di Gesù.
(mcg)


E vorrei concludere con Roberta Lipparini e la sua dolcissima poesia “DONI DI NATALE” che magnificamente completa il racconto di Maria Concetta: In questa notte fredda/ d'un freddo che fa male/ sto incartando per te/ i miei doni di Natale./ Il ritmo quieto
di una marea infinita/ un tratto leggero/ lieve, a matita./ Il perdono/ per ogni tuo errore/ conforto dal buio/ riparo dal dolore./ La certezza/ che ti verrò a cercare/ anche se mi sfuggi/ se ti perderai nel mare./
La fiducia/ che nel tuo volo/ non ti fermerà/ la paura di esser solo./ Incarterò i tuoi doni/ questa notte/ mio amore/ poi verrò da te/ te li poserò nel cuore. 
Quanto amore oblativo nella reciprocità del donarsi in doni/DONO…
E Natale è ormai alle porte. La prossima volta, gli auguri? In reciprocità…

sabato 18 dicembre 2021

Sabato 18 dicembre 2021: il dolore si supera con l’amore? Proviamo a scoprirlo insieme…

Il dolore! Quanto è presente nella nostra vita! E come mai ne facciamo memoria più della gioia o della felicità? Alcuni anni fa scrissi una riflessione al riguardo che avrei voluto riportare qui, ma ho perso un giorno in ricerche varie, ma niente da fare. Riscrivo quello che più o meno ricordo di quanto detto in passato perché mi sembra un passaggio essenziale per comprendere il perdurare del dolore dopo anni e forse per tutta la vita. Ebbene, non così il ricordo della gioia. Quest’ultimo è effimero perché, dopo l’esplosione delle braccia alzate in segno di giubilo e di vittoria per qualcosa di bello che ci è capitato e ci capita (Hannah Arendt parla della visibilità immediata della gioia perché tutto il corpo si distende ed è come se mettesse le ali, mentre, nel provare il dolore muto, si raggomitola su sé stesso e si chiude quasi a riccio, rendendolo invisibile e impenetrabile), subentra una sorta di dimenticanza di quella pienezza di noi che non può durare, assaliti subito come siamo da inevitabili problemi di vita quotidiana. Il dolore, invece, si ripropone alla mente più e più volte perché ci procura un vuoto che non riusciamo a colmare in quanto ci viene a mancare proprio ciò di cui prima eravamo pieni: la salute, l’assenza di sofferenza e, quindi, presenza di benessere del nostro corpo che si risolveva anche in benessere della nostra mente (“mens sana in corpore sano”: locuzione di Giovenale). Il dolore allora si protrae. Non trova rimedi immediati e a portata di mano. Soprattutto quando esso ci strangola in seguito a una perdita che è per sempre. E qui non ci possono essere rimedi di sorta. E c’è anche il dolore meno drammatico ma ugualmente reale, che non ottiene rimedio o consolazione dagli altri perché è un dolore “guardato”, ma non “vissuto”. Spesso il dolore guardato e non vissuto non viene percepito e sentito nella sua reale portata. Può essere solo intuito dalla mimica del volto sofferente. Dalla postura sbagliata, dalla difficoltà del respiro o di un movimento, ma l’intensità del tormento fisico e la resistenza alla sofferenza sono appannaggio solo di chi le prova e fa immediatamente i conti con sé stesso. La condivisione si rivela difficile, la compenetrazione rara e altrettanto rara la consolazione, per cui il dolore intimo e muto permane più a lungo di quanto si possa immaginare. Quello poi di una irrimediabile perdita è talmente devastante da richiedere anni di metabolizzazione, senza più risorse interiori per innalzare palizzate su terrapieni che, come sabbie mobili, cedono. E noi, per non dare mai un addio definitivo alla persona amata e perduta, riaccendiamo all’infinito il dolore per riattualizzare la sua presenza, celebrandone il ricordo. Eppure una pozione magica esiste per ogni tipo di dolore, di ogni forma e dimensione, e avvertito anche nelle varie età della vita ed è l’AMORE, in tutte le più suggestive forme di oblatività. L’amore dato senza riserve. Difficilissimo da vivere, ma quando accade assistiamo al miracolo della cancellazione del dolore. Si pensi al bimbo che piange e che smette non appena la mamma con amore lo prende tra le braccia; al ragazzino che teme il castigo dei genitori per qualche marachella di troppo, e piange e si dispera dentro di sé perché ha bisogno di comprensione e non di punizione, ha bisogno di sentirsi avvolto dall’amore e non dal giudizio o pregiudizio dei suoi cari; al giovane innamorato e incompreso nella profondità dei propri sentimenti. L’amore levigherebbe ferite e incomprensioni. Molto spesso queste ultime nascono proprio in famiglia. Ci sembra assurdo e paradossale eppure accade più spesso di quanto si possa immaginare e accettare: anche tra genitori e figli o i diversi componenti della costellazione familiare. Anche qui basterebbe l’amore. Dubbi, incertezze, incomprensioni si nutrono di amore malato e di non-amore. Chi ama davvero non dubita, non ha incertezze, non nutre illusioni né si rammarica delle delusioni. A volte, si tratta semplicemente di superficialità più che di indifferenza o cattiveria. E può accadere anche quando pensiamo che le nostre parole o gesti siano dettati dall’amore (non mollare non lasciarti vincere dallo scoramento di passi che non t’appartengono e che prendono altre vie illuminate da neon e dimentiche di stelle… non mollare stringi i denti risali la china non mollare…), ma non vengono recepiti come tali. Come si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze di chi amiamo? Evidentemente si può. Ma oggi mi chiedo: sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra socialità, la nostra affettività. Siamo miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso nella stessa galassia. Si tratta, a mio parere, di una strana inevitabile condizione di imperfezione della natura umana. Nostro malgrado. A questo proposito, mi sembra calzante una poesia inviatami, con un commento, due giorni fa, qui sul blog, da Mariateresa Bari, cara a noi tutti: "Il dolore ritorna e ritorna ancora, come l’alta marea, come la risacca alla battigia, come il pianto del bimbo nella culla"... Quanta dolce poesia in queste tue riflessioni, Angela! Perché gioia e sofferenza sono la trama e l'ordito di quella splendida tela che è la nostra esistenza! Ti lascio alcuni versi nati la scorsa notte e ti abbraccio grata 💓 “Frana il dolore”: Schianto di neve incandescente/ una stilla di tramonto/ che incendia lanterne all'orizzonte/ Frana in un riverbero di parole il dolore/ e travolge il cuore/ Si offusca l'ora di lacrime. Sì, spesso “il dolore frana in un riverbero di parole”, ma anche l’amore spesso frana in un riverbero di parole che non sono quasi mai quelle giuste da dire, da ascoltare per poterle ricambiare nel loro giusto senso e significato, che l’altro/a da noi si aspetta. È come il cane che si morde la coda. Eppure è proprio l’amore l’unico rimedio. Come? Quando? Per dare una risposta, torno indietro di tre giorni, quando, nel Liceo Artistico di Corato (Bari), città del Sud dove abito da vent’anni, c’è stata la presentazione di un libro SECOP, nella collana editoriale “PARALLELI POETICI” con un canto a due voci. 

Raffaella Leone, PR della Secop, e coordinatrice della serata, ha introdotto i due autori, Luciana De Palma e Federico Lotito (già con altre individuali pubblicazioni alle spalle con la nostra Casa editrice) e i relatori Mariella Medea Sivo e Alberto Tarantini, entrambi carissimi amici dei protagonisti, elencando in più punti la straordinaria preziosità del libro-conchiglia perlescente, con il titolo sottolineato da sfumature di indaco, il colore spirituale per eccellenza, che racchiude in sé la bellezza della poesia, e dell’amore che di quella poesia si alimenta. L’originale quanto significativo titolo della raccolta è Istanteternità. La parola doppia, che ossimoricamente si fonde in una sola parola, avente un fonema in comune, definisce il suggestivo momento puro del loro incontro a comprendere l’infinito: un consegnarsi in un solo istante all’eternità. E non c’è niente che possa uguagliare lo splendore di questo neologismo, spiegato molto bene da Mariella Sivo in uno dei suoi acuti e dettagliati interventi. Forse ne parleremo anche dopo. Ora mi preme sottolineare il momento “giusto” dell’incontro: momento è sinonimo di “istante” e riguarda ciò che avviene in un battito di ciglia. Ma qual è il “momento giusto”? Né prima né dopo! Di cosa? Non prima di aver rivisitato tutto il passato, con la discesa nell’abisso del dolore vissuto, e con i voli della gioia provata. E non dopo aver compreso il senso della “reciprocità”, come ho detto proprio l’altra sera, visualizzando le bracciate in andata e ritorno di Federico nel mare da entrambi amato, per testimoniare il suo amore a Luciana, facendosi carico di alleviare la sua sofferenza, dovuta alla perdita del suo adorato papà quando era ancora bambina. Quel movimento descrisse ai miei occhi l’immagine della necessaria “reciprocità” in amore. E la reciprocità consiste nel “prendersi cura” l’uno dell’altra con la stessa intensità e generosità. Quanto importante è il prendersi cura in una qualsiasi relazione affettiva. Indispensabile in un rapporto d’amore. La reciprocità nel prendersi cura (chi non conosce la meravigliosa canzone “La Cura” di Franco Battiato? Mi viene la tentazione di trascriverla tanto è bella, anche perché riguarda il corpo il cuore e l’anima - in una mirabile fusione - della persona amata) comporta per i due innamorati entrare nel cerchio che disegna una curva senza soluzione di continuità che porta all’infinito dentro e fuori, nella convergenza di sogni, bisogni, certezza di essere in due. Il cerchio magico della volontà di appartenersi nel rispetto della reciproca identità e libertà. Divergere, invece, significa aprirsi ad altri orizzonti, ad altri incontri, ad altre intese col rischio di perdersi e di non ritrovarsi mai più (come due parentesi aperte con orizzonti opposti che non s’incontrano mai. Come ho avuto modo di dire nel mio intervento). Ed ecco, a conferma di quanto detto sin qui, le parole di Federico e Luciana all’unisono: F. “se non fossi stato capace di piangere,/ non sarei stato capace di farti ridere  . L. “si sgrana una nuvola e un improvviso bagliore appare.   E compari tu   ”. E ancora, seguendo il percorso tracciato in precedenza: dal dolore alla gioia attraverso l’amore, al momento giusto, nel posto giusto e con le giuste parole. (Quanto importanti anche le parole!). L. “Speronando la mia oscurità/ Irrompesti come una cometa nel buio/ E di una sola breve scia ti servisti/   Per condurmi a te   // Fosti come il crepitio nel ghiaccio/ Infrangendo la mia luce immobile/ E con irrefrenabili tumultuosi boati/   Arrivasti a me   ”    . F. “mi affacciai ai tuoi occhi,/ nel buio della mia notte/ indicarono l’uscita./ resistevo per il giorno che si fa/   e scaccia rinunce.   / nessuna forza, nessuna speranza   / t’infilasti nello spazio socchiuso./ - prendi quello che da sempre/ è la mia solitudine - dico./ ti affacciasti ai miei occhi,/ nel buio della tua notte faticai/ a detergere il sudore della ruga profonda./ avevi parole da darmi, avevi paura./ - riusciremo a sentire una canzone? - dici/ forse vinci! sicuramente vinciamo - dico/   e spiegammo liberi   /   i nostri sudari   ”. E ancora F. “dentro ho ancora una manciata/ di allegria, il passo è malfermo/ tuttavia ci credo e tutto ho di te in me./ parlo, dico, canto, rimpiazzo volgarità,/ sostituisco fondamenta marce,/ comprendo i miei disastri e sento/   la fortuna di averti.   /  sicuro è il tuo sguardo,  / forte come le tue braccia il tuo arrivo,/   audaci le tue labbra,   /  il tuo sapore, il tuo odore.  /  proverò ad amarti   /  avrà senso il futuro.   ”. L. “   Alle spirali del tempo   / Concedemmo di tenerci stretti/ finché l’universo non ci avesse/  Richiamati all’unica eternità  /  Che rende gli amori perfetti   ”.  Ed è giusto che si chiuda qui il cerchio del mio percorso intorno al dolore che, grazie all’AMORE, ripropone un futuro che rende persino la speranza un universo felice di eternità. Le poesie a specchio continuano con numerose riflessioni sul darsi e ricevere AMORE in ugual misura senza più paure e ripensamenti, ma col cuore libero di volare in cerchi concentrici di voluttuoso ritorno. Eppure, alle spalle ormai, quanta sofferenza raccontata e ascoltata. E compresa. Quanta accettazione di sé nella comprensione dell’altro/a. Quanta solitudine comunicata e vinta dall’essere in due, in una reciprocità senza più inizio né fine. E vorrei scrivere un trattato su ogni parola di rimando, ogni spazio dilatato, ogni istante vissuto con una nuova certezza nel cuore. Ma è giusto e salutare dare spazio anche all’intervento mordace, autoironico e sciabolante di Alberto Tarantini, che spiazza tutti con una domanda, che è nelle sue corde: “essendo un eterno perdente in amore, dopo numerose imprese finite male per vari motivi, come accorgersi dell’incontro giusto, quale preludio all’amore eterno?”. Più o meno questa la domanda a cui ho risposto più o meno con quanto detto sin qui. Ma altrettanto giusto e inconfutabile è stato l’intervento del nostro comune amico, nonché altro autore di qualità, firmata Secop, Zaccaria Gallo: “La mancanza”. Senti che è AMORE quando una persona ti manca sempre e in ogni circostanza del giorno e della notte, nei momenti di veglia”. Più o meno così. In sostanza l’assenza crea un vuoto che genera il senso della mancanza. Il desiderio, l’attesa. Bellissimo. Chi non ricorda le canzoni di Vecchioni, Concato, Venditti, ecc. su un reiterato e accorato “mi manchi”? Sì, è un ottimo metro di misura, ma non sempre ci regala la certezza del vero amore, a mio parere. È una possibilità, che potrebbe anche rivelarsi egoistica ossessione di possesso da parte dell’altro/a. Mariella Sivo, intanto, dispiaciuta di non poter intervenire opportunamente con le sue domande che avrebbero potuto dare ulteriori apporti sulla veridicità dell’amore con garanzie di eternità (e con la mia cara Mariella mi scuso tantissimo per la mia interferenza fuori tempo!), ha rivolto una domanda sapida e catturante sul desiderio fisico, sulla passione erotica che tiene ben saldo l’amore. Certo, neppure questo aspetto è da sottovalutare, anzi! Spesso è proprio il collante che tiene fortemente unite le giovani coppie, o le coppie formatesi da poco, purché si sia pronti, col passare degli anni, all’inevitabile cambiamento che, se sorretto da vero amore, si trasforma in godibile, consolante, vivificante e, dunque, rigenerante “tenerezza”, di cui tutti alla fine abbiamo estremo bisogno. E su questo tema così delicato e importante, a mio parere, concludo con la profonda e metaforica poesia della sensibilissima poetessa Antonella Coletti: Si sfogliò l’anima come una rosa/ nel gelo incauto dell’inverno,/ reclinò il capo quando il vento/ le recise l’ultimo bocciolo./ Non emise lamento, si nascose/ sotto le folte occhiaie/ dell’edera cupa./ Nessuno la vide piangere/ o chiedere aiuto./ Nessuno le prestò attenzione!/ Nemmeno tu, tu che ne eri “responsabile!”. Ed ogni parola delle tante metafore “a cometa” di questa splendida poesia meriterebbe di essere evidenziata per farne insieme tesoro. Farsi carico, con “responsabilità”, dell’altro/a è anche AMORE. E ora il mio caro Alberto non avrà più dubbi! Potrà scrivere un sapido e realistico trattato sul vero amore. Una sfida? Grazie a tutti per la pazienza e il coraggio di leggere una pagina moltiplicata per… 3 e mezzo. Alla prossima. Ancora con tante altre testimonianze.

martedì 14 dicembre 2021

14 dicembre 2021: "Ho conosciuto il dolore": vogliamo parlarne?

Oggi vorrei parlare del dolore sempre presente alla nostra vita, senza distinzione alcuna. Non c’è persona al mondo che non l’abbia conosciuto nelle sue innumerevoli forme fisiche, psicologiche, spirituali e vissuto in vari modi del tutto personali: chi tacendo, chi urlando, chi pregando, chi bestemmiando; chi con paura, chi con coraggio; chi subendolo stoicamente, chi ribellandosi e adottando tutti i mezzi per debellarlo. Ma anche una volta sconfitto esso ritorna e ritorna ancora, come l’alta marea, come la risacca alla battigia, come il pianto del bimbo nella culla. Anche la ricerca della felicità è una strada lastricata di pietre d’inciampo che fanno male. L’Arte, a mio parere, in qualche modo ci salva. C’è chi si distrae dalla sofferenza cercando rifugio nella musica, chi gettando colori su una tela, chi costruendo un puzzle, chi usando parole per gioco, passione, necessità, scrivendo un romanzo o poesie, chi esercitando la mente a pensare, leggendo e rileggendo il pensiero dei grandi filosofi dell’antichità o del cristianesimo e, via via, fino ai nostri giorni. Chi scrivendo a tale riguardo un saggio. Chi amando il teatro come attore o come spettatore. Ognuno impara strategie di sopravvivenza pur di non soccombere al male. È il nostro stesso spirito di conservazione o “slancio vitale” a darci la forza di tentare tutte le strade per venirne fuori. Fino al prossimo assalto. Non ho le conoscenze e le competenze giuste per poterne parlare a livello filosofico o scientifico. In letteratura forse. Ma in letteratura infiniti sono gli esempi di autori che hanno parlato del dolore, essendo uno dei temi più presenti in tutte le opere letterarie dell’intera umanità. Persino quando gli scrittori si propongono di far ridere a bel guardare non possono che filtrare la risata attraverso il pianto. Dovrei scrivere trattati e in un blog manca lo spazio e il tempo, manca anche la pazienza e la perseveranza dei lettori a leggere testi lunghi, come mi ammoniscono i miei figli ogni volta che scrivo una pagina che si moltiplica per quattro o più. E allora non mi resta che fare riferimento ai poeti e scrittori contemporanei, a quelli che conosco, che incontro su FB, che mi permettono ricerche brevi e a portata di mano, che però abbiano qualcosa di incisivo da dire e che quel qualcosa susciti emozione, empatia, condivisione. Regalandoci la possibilità di essere insieme e di sentirci meglio. Superare, in questo caso, per la frazione di un attimo, i nostri inevitabili dolori. Già parlarne è, a mio parere, catartico. E comincio dalla canzone di Vecchione “Ho conosciuto il dolore” perché mi ha dato lo spunto per parlarne: Ho conosciuto il dolore/ (Di persona, s’intende)/ E lui mi ha conosciuto:/ Siamo amici da sempre,/ Io non l’ho mai perduto;/ Lui tanto meno,/ Che anzi si sente come finito/ Se, per un giorno solo/ Non mi vede o non mi sente./ Ho conosciuto il dolore/ E mi è sembrato ridicolo,/ Quando gli do di gomito,/ Quando gli dico in faccia:/ “Ma a chi vuoi fare paura?”/ Ho conosciuto il dolore:/ Era il figlio malato,/ La ragazza perduta all’orizzonte,/ Il sogno strozzato,/ L’indifferenza del mondo alla fame,/ Alla povertà, alla vita…/ Il brigante nell’angolo/ Nascosto vigliacco battuto tumore/ Dio che non c’era/ E giurava di esserci, ah se giurava di esserci… e non c’era./ Ho conosciuto il dolore/ E l’ho preso a colpi di canzoni e parole/ Per farlo tremare,/ Per farlo impallidire,/ Per farlo tornare all’angolo,/ Così pieno di botte,/ Così massacrato stordito imballato…/ Così sputtanato che al segnale del gong/ Saltò fuori dal ring e non si fece mai più/ Mai più vedere./ Poi l’ho fermato in un bar,/ Che neanche lo conosceva la gente;/ L’ho fermato per dirgli:/ “Con me non puoi niente!”./ Ho conosciuto il dolore/ E ho avuto pietà di lui,/ Della sua solitudine,/ Delle sue dita di ragno/ Di essere condannato al suo mestiere/ Condannato al suo dolore;/ L’ho guardato negli occhi,/ Che sono voragini e strappi/ Di sogni infranti: respiri interrotti/ Ultime stelle di disperati amanti/ - Ti ho vuoi fermare un momento? – Gli ho chiesto -/ Insomma vuoi smetterla di nasconderti?/ Ti vuoi sedere?/ Per una volta ascoltami! Ascoltami/ … e non fiatare!/ Hai fatto tutto/ per disarmarmi la vita/ E non sai, non puoi sapere/ Che mi passi come un’ombra sottile/ sfiorente,/ Appena-appena toccante,/ E non hai via d’uscita/ Perché, nel cuore appreso,/ In questo attendere/ Anche in un solo attimo,/ L’emozione di amici che partono,/ Figli che nascono,/ Sogni che corrono nel mio presente,/ Io sono vivo/ E tu, mio dolore,/ Non conti un cazzo;/ Non conti un cazzo di niente.// Ti ho conosciuto dolore in una notte d’inverno/ Una di quelle notti che assomigliano a un giorno/ Ma in mezzo alle stelle invisibili e spente/ Io sono un uomo… e tu non sei un cazzo di niente. Un pugno nello stomaco davvero. Ecco, Vecchioni reagisce a muso duro per tenere a bada il dolore e, da uomo che sente ancora emozioni e vive ancora sogni e dignità di uomo solidale, è sicuramente vincente. Come vincente è Assunta Braì che scrive “Notte”: Stendi le mani/ e dammi una carezza/ amica notte/ e versa sul mio capo/ i raggi della luna/ bianca dea/ consegnami ai ricordi/ di una bimba/ senza ricordi/ se non quelli di giochi/ e d’innocenza/ che dicono trascorsa/ tu che di nero oblio/ ricopri il mondo/ tu che riposo dai/ a tutti i viventi/ donami requie/ e ritrai dal cuore/ crudeli artigli/ che da tanto tempo/ fanno male/ e fanno male atroce/ dammi il silenzio/ e poi che tutto tace/ placa il travaglio lungo/ che mi cinge/ prendi i ricordi miei/ portali via/ ricacciali nel buio/ tuo profondo/… lasciami solo il suono/ di una voce/ e sarà pace. Non così per Mariateresa Bari in “A perdersi”: Non muore la penombra/ nell’opaco di uno smalto// Stanco crepuscolo/ misero nella miseria/ di due nuvole spaiate/ si slabbra a perdersi/ ma non muore// Nell’ossatura della notte/ invisibili frammenti/ di un’occulta deflagrazione/ sisma che smuove// Ma il buio non muore ; e, ancora, “Contrabbando di ombre”: Smania il fuoco d’assolo/ abietta resta la materia// Siamo fantasmi / persi nel cunicolo . E, poi, il tanto rimpianto Giovanni Gastel con la sua speranza nella carezza di Dio a calmare ogni dolore: “Se come neve potesse/ la pace del cuore/ scendere su di noi./ Se il vuoto accogliesse/ il nostro dolore/ le nostre assenze/e restituisse presenza e gioia”./ Così mi hai detto/appoggiata alla notte./E non ho saputo rispondere/ ma ho pregato lo spirito del dolore/di alleggerire il nostro cammino./ Come angeli caduti/vaghiamo nel mondo/ aspettando il Dio che ritornerà/ a placare questa terribile solitudine/dell’anima./ Basterà una sua carezza a dare/ senso ad ogni cosa. Anche Eli Stragapede vede nella fede la possibilità di superare il dolore. Ed è una commossa invocazione a “Santa Lucia” perché dia forza e luce a chi non ha un tetto e si affida a una triste e buia strada d’inverno: Ci sono occhi nel piatto/ che non possono sopportare/ identità imposte/ a occhi che/ su di un marciapiede/ non ci vogliono stare./ Lo vedo pure io che/ nata sul lato opposto della strada/ col dito puntato a divinità/ invoco qualche cosa/ per quella miserella che non osa/ che occupa cartoni da abusiva/ e non si lascia tangere/ né da pubblicità/ né dal via vai convulso delle festività./ subisce il suo martirio/ con scura dignità. E di Mattia Cattaneo rubo dalla sua pagina FB ancora un accorato richiamo a non usare più violenza (uguale dolore disumano) alle donne. “STOP ALLA VIOLENZA SULLE DONNE” è il titolo: da questa finestra/ i segni lasciati dalle tue mani/ brucianti fuochi/ e una sera come tante// vene rotte/ di una follia impigliata/ nei respiri,/ lo svuotarsi/ lasciandoti andare alle urla// il canto muto delle stanze/ scendeva tra gli occhi/ pieni di spavento/ e io morivo da seduta// conosco il buio/ del non abitarsi più.
E il distico conclusivo è una pozza di inarrestabile dolore... E qui non c’è consolazione che tenga. Ma ritorneremo a parlare del dolore e delle possibili vie d’uscita. Anche il dolore si nutre di speranza e fa affidamento sull’amore. Alla prossima…

giovedì 9 dicembre 2021

Mercoledì 8 dicembre 2021: E la MAMMA CELESTE io canto...

Due anni fa, sul nostro blog, così il mio caro amico Beppe scriveva parlando della Immacolata Concezione: Non è forse l'Immacolata la parola della casa più splendente che sia apparsa nel mondo? E’ appena morto un tempo annuale e sta sorgendo un nuovo tempo nella casa dell'Immacolata. (…). Un tempo finisce, inizia un nuovo tempo. (…). Abbandona tutta te stessa al passato e vai incontro al nuovo che è racchiuso in una sola parola: «CRISTO». L'Immacolata giunge a te con il battesimo che è morte nell'acqua dalla quale risorgere immacolata invocando una sola parola: «CRISTO». (…). <Io, Signore, mi rivolgo a te, entro nella tua sfera, che mi assorbe e riplasma la mia coscienza. Tu, Signore, sei la mia Nuova Umanità, In te, Signore, io sono in piena comunione con Dio, col mio Principio, nella mia piena libertà, Donami, Signore, il tuo Spirito. In questa comunione, Signore, io sento la mia vera identità, la mia integrità, Sento i miei veri desideri: io voglio restare qui, con te, in questo Eterno Gioco che è la Creazione. . . . Questo è l'amore: essere una cosa sola con te e con il Padre. Essere uno con tutti: circolazione di vita è il vero Mondo: Gioco senza fine e gioia Nell'Eternità, che ora esplode e adesso mi risana. Amen> (di Marco Guzzi in Non ego, Cristus). Poi, la pandemia ha fatto dimenticare anche a me queste parole che riprendo volentieri perché in quel “CRISTO” reiterato c’è tutta la maternità dolente e coraggiosa di Maria, dal primo “fiat” fino ai piedi della croce e alla sua Assunzione nei Cieli gloriosi, dove ogni dolore si spegne alla Luce della visione di Dio. Ogni credente non può fare a meno di cantare questa evidente verità, innalzando un canto d’Amore a Maria, Madre di tutte le madri. Ed ecco il mio canto:

Immacolata Concezione

Vieni in punta di piedi

e lasci continue orme di sole

sul mio cammino di neve

con mani colme

delle tue infinite stelle

alla mia disattenta preghiera

(mia fanciulla di Nazareth

voce soave

dei miei giorni andati

e mani

di cura ancora presenti

a carezzare il mio pianto).

Signora dorata

adorata Patrona del tempo

innocente di bambina.

Solo frammenti di cuore

ti lascio in cambio

dei tuoi innumerevoli prodigi

(mollichine di speranza

su passi lievi

che attendono ritorni)

E tingi di rosa e turchese

i veli dell'attesa.

A te innalzo il mio canto,

Madre di tutte le meraviglie

mia eterna nostalgia

- Bella tu sei qual sole

Bianca come la luna

e le stelle le più belle

non son belle

al par di Teee... -

(e tornano antiche voci

a riscaldare i doni

della nuova alba)

Con una sintonia del cuore, Anna Mininno, la mia amica sempre presente, ha postato una bella immagine della Vergine di bianco vestita, col mantello di cielo e una corona di stelle intorno al capo e ha scritto: “Bella tu sei qual sole”, Santissima Maria Immacolata Concezione! Con tanti cuoricini e… Auguri a chi ne porta il nome! E contemporaneamente Arcangela Parrulli, altra cara amica di Gravina in Puglia scrive: In occasione della festa di Maria Immacolata, vi presento una mia poesia intitolata “T’INVOCO REGINA”… per chiedere il suo aiuto affinché il mondo segua le vie indicate da Suo Figlio, Gesù!!!: Il tuo diadema emana/ bagliori di stelle/ lucciole impazzite/ che avvolgono il mondo che muore.// Si combatte in più parti…/ sfollano genti dolenti/ a cercare una patri/ chiamata Pace.// Nessuno sa dove sia/ ora che i bimbi imploranti/ accendono fuochi d’orrore/ nelle alcove di belve umanizzate…// … o che scomparsi nel nulla/ rimpinguano avide tasche/ di truci commercianti di organi.// Io t’invoco Regina/ vessillo d’amore e di purezza/ traguardo estremo di salvezza/ Madre amorosa! Madre Luminosa! Con amaro realismo descrive le brutture e le violenze del mondo contemporaneo pe chiedere alla “Madre amorosa e luminosa”, in ossimorico contrasto, la salvezza di questa nostra umanità dolente e senza più una sola luce a vincere il buio di questa devastante disumanizzazione. Fa da piacevole contraltare il post di Cettina Fazio Bonina, altra dolcissima amica che ieri ha festeggiato il suo onomastico con la sua bella famiglia. Cettina scrive: Amore, calore, amicizia, famiglia, casa, semplicità hanno reso speciale la giornata di ieri in un periodo non facile per il mondo intero, ma un gesto, ina parole possono darti il sostegno per affrontare al meglio le difficoltà! Sono parole che allargano il cuore, dandoci la dimensione dei valori antichi che, se rimangono scritti a caratteri cubitali nell’anima, non possono morire nella nebbia dei ricordi di un passato che sembra del tutto dimenticato e che invece vive perché l’anima, essendo immortale, li attualizza continuamente e li restituisce all’Infinito. E non è l’otto rovesciato simbolo d’infinito? Basta solo girare un po’ il suo simbolo numerico per ottenere un richiamo mistico e misterico… e tutto riprende a volare e a diventate inno alla Vergine che infiamma i cuori d’amore e accende il buio del mondo e della nostra stessa anima desertificata con le sue luminose stelle! E farne prati fioriti d’attesa e di speranza per tutti gli uomini “di buona volontà” in cammino verso la Luce di una Stella Cometa… E, a proposito di Stella Cometa e del Santo Natale, Assunta Braì, speciale amica salentina, propone l’ironica poesia di Trilussa: Ve ringrazio de core, brava gente,/ pé ‘sti presepi che mi preparate,/ ma chi ve li fa fà? Si poi v’odiate,/ si de st’amore non capite gnente…//  Pé st’amore so nato e ce so morto,/ da secoli lo spargo dalla croce,/ ma la parola mia pare ‘na voce/ sperduta ner deserto, senza ascolto.// La gente fa er presepe e nun me sente;/ cerca sempre de fallo più sfarzoso,/ però cià er core freddo e indifferente/ e nun capisce che senza l’amore/ è cianfrusaja che nun cià valore. Grazie Assunta per avercelo ricordato con i taglienti versi di Trilussa. Ecco è solo e sempre questione d’amore! E vorrei concludere con le parole del nostro beneamato sindaco Corrado De Benedittis: Ritrovarmi con la Confraternita dell’Immacolata, ai piedi dell’antica statua, tanto venerata dalla pietà popolare, è stato come tornare a casa abbracciato e protetto, dopo giorni così amari e tristi. A Lei, ho affidato la città e soprattutto chi, in questi giorni, vive la desolazione, lo smarrimento, la perdita. Quanto amore nelle sue parole! Già la “pietà popolare” è sinonimo d’amore (da pietas = amore, appunto), ma anche il suo “tornare a casa” e sentirsi “abbracciato e protetto” dall’Immacolata, a cui ha affidato l’intera città e soprattutto “chi, in questi giorni, vive la desolazione, lo smarrimento, la perdita. Grazie, sindaco. Il riferimento di grande appassionata condivisione merita una nuova pagina su questo blog in tempi molto brevi. E sarà davvero un Santo Natale!

 

 

 

  

venerdì 3 dicembre 2021

Venerdì 3 dicembre 2021: Poesia è un lungo canto per una sola Donna: mia MADRE...

… Ho nostalgia del pane di mia madre del caffè di mia madre della carezza di mia madre. Diventa grande in me l’infanzia giorno dopo giorno e mi attacco alla vita perché se dovessi morire sarei mortificato per il pianto di mia Madre…
(Mahmud Darwish, stralcio della poesia “A mia madre”)

E desidero dedicare a lei quanto tempo fa scrissi sulla maternità e sulla paternità per dare origine a una vita, attraversando tutti gli stati d’animo di una madre prima di stringere tra le braccia il suo bambino. Stati d’animo anche da me attraversati come figlia e come madre:
La VITA si mantiene in vita grazie alla donna. Il miracolo dell’eternità nel suo grembo. E nel cuore che batte di un bimbo, che non sa ancora la luce.
Maternità: un lievitare di cellule vestite di speranza. L’amore che bussa all’esistenza e chiede di nascere e rinascere. Dal non essere all’essere: questo il miracolo della vita. Deflagrazione di un inizio che prorompe in miliardi di possibilità, in altrettanti possibili percorsi con trame infinite di incontri, di scontri.
Il bene e il male, concentrati nell’attimo in cui si origina una vita. E nello spazio di un agglomerato di cellule, un feto, fragile e indifeso, ma pur determinato a nascere, a crescere, a vivere: a farsi bambino, fanciullo, ragazzo, giovane, uomo. E andare incontro alla vita.
La sua avventura esistenziale è un’ansia negli occhi chiusi di sua madre su un antico sgomento che lei non osa dire: “come sarà mio figlio? Cosa ne sarà di lui?”.
Endimione sopravvisse alla realtà perché per trent’anni, sul monte Latmos, tenne gli occhi chiusi e continuò a sognare.
La madre sogna che il suo bambino non scopra mai la realtà. E la realtà è solo un pensiero d’amore sgomento negli occhi chiusi di sua madre: “nascerà sano mio figlio? Saprò prendermi cura di lui e preservarlo da ogni male? Saprò indicargli la giusta via dell’amore e della tenerezza perché sia un vero uomo nella libertà di piangere, di ridere, d’amare?”.
E il piccolo nasce. Prima strilla, poi si acquieta tra le braccia d’amore di sua madre.
E la realtà è solo un sogno/bisogno negli occhi grandi del bambino a cercare il volto materno, l’unico tra tanti volti. Il solo a dargli sicurezza. Nei loro occhi di abbandono condiviso la vita che sa la vita e la vita che ignora la vita. La mamma sa ma preferisce ignorarla. Il bambino la ignora ma desidera scoprirla, giorno dopo giorno, nei giochi di conquista delle sue mani bambine, nei giochi di scoperta dei suoi incerti piedini.
Sogno-realtà: il doppio volto della vita nei suoi incastri tra progetti e ricordi.
Sul ponte del presente: il passato e il futuro intrecciano incontri e sentimenti. Positivi. Negativi. Controversi. Ambigui. Con mille dubbi e poche certezze. E nessuna verità. O forse tantissime verità apparenti e una sola vera Verità. Spesso ignorata.
E il padre? Ha posto in questa diade, “involucro d’amore” (E. H. Erikson), il padre?
Certo, anche la presenza del padre è importante per la tensione che lo sostiene a realizzare per suo figlio una realtà migliore senza troppo indugiare nel sogno. Per proteggerlo e dargli sicurezza. Per difenderlo e incoraggiarlo. Per sollecitarlo ad accettare e a rispettare le regole. Per guidarlo a muovere passi più concreti e fattivi nella giungla del mondo. Con forza e coraggio.
La madre è penombra di mistero con una tenerezza di luce fra le sue carezze. Testimonianza di sorriso che illumina e riscalda il cuore. La dolcezza del canto e dell’incanto.
Il padre è il giorno certo, la via maestra da seguire, l’audacia della scoperta di orizzonti sempre più lontani. Il viaggio senza canto, ma con piedi lesti che vanno e sanno dove andare e quali ostacoli superare, i nemici da affrontare.
Testimonianza di lealtà e dignità nella forza delle braccia e nella chiarezza delle mete.
E la Vita procede con le sue luci e le sue ombre mentre le generazioni passano...


Emozione inesprimibile per l’incanto e lo stupore della vita che rinnova la vita: meraviglia degli universi che si rigenerano anche attraverso un uomo e una donna. Il loro amore.
(Nella Donna-Sorgente ancora una volta
cade una goccia dell’Uomo-Acqua,
dà vita, all’incontro, alla Pioggia-Bambino
(“La pioggia-bambino”, da Canto Navajo)

Oltre l’oblio, solo l’AMORE resta a fare spazio alla memoria…
Ed è memoria ancora e sempre di te, Madre mia. Certo, occorre cominciare dal primo giorno, seguendo il cammino di chi ci ha atteso e guidato fino a quando si diventa in grado di camminare da soli. Poi si ricomincia. E ogni nuova generazione prova con impetuosa curiosità a superare la linea tracciata da quella che l’ha preceduta per andare oltre. E la preghiera dei vecchi, come ben sai, è che i giovani non perdano mai la buona stella che vince il buio. Che quella luce rischiari ogni inevitabile notte del cuore e della vita. E in ogni inevitabile notte del cuore e della vita tu ci sei. Mi rimane, però, di te feroce questo tormento e il rimorso di aver per anni rimandato all’infinito i nostri rari incontri: per un lavoro ingrato/amato che mi attanagliava, logorando/divorando i miei giorni. Non avevo tempo neppure per te e sistematicamente deludevo la tua ansia di vedermi. Mi riprende anche oggi lo sconforto di aver ignorato i tuoi giorni di solitudine. E di attesa dei miei passi a confortarti di un ritorno. Mi rimangono le carezze alla tua mano, quando un soffio di tempo e di nostalgia mi riportavano da te in una fretta di minuti che ignoravano le ore. “Avremo tempo”, ti dicevo, tra lacrime non piante. Non c’è stato più il tempo. Solo il ricordo. Presente come la tua anima ai miei giorni.

E chiudo qui. Sulla mia pagina di FB la poesia che ti ho dedicato, Mamma, sintesi di questi miei ricordi. Di tutto il mio rimpianto. Per questo io ancora ti canto…