Il dolore! Quanto è presente nella nostra vita! E come mai ne facciamo memoria più della gioia o della felicità? Alcuni anni fa scrissi una riflessione al riguardo che avrei voluto riportare qui, ma ho perso un giorno in ricerche varie, ma niente da fare. Riscrivo quello che più o meno ricordo di quanto detto in passato perché mi sembra un passaggio essenziale per comprendere il perdurare del dolore dopo anni e forse per tutta la vita. Ebbene, non così il ricordo della gioia. Quest’ultimo è effimero perché, dopo l’esplosione delle braccia alzate in segno di giubilo e di vittoria per qualcosa di bello che ci è capitato e ci capita (Hannah Arendt parla della visibilità immediata della gioia perché tutto il corpo si distende ed è come se mettesse le ali, mentre, nel provare il dolore muto, si raggomitola su sé stesso e si chiude quasi a riccio, rendendolo invisibile e impenetrabile), subentra una sorta di dimenticanza di quella pienezza di noi che non può durare, assaliti subito come siamo da inevitabili problemi di vita quotidiana. Il dolore, invece, si ripropone alla mente più e più volte perché ci procura un vuoto che non riusciamo a colmare in quanto ci viene a mancare proprio ciò di cui prima eravamo pieni: la salute, l’assenza di sofferenza e, quindi, presenza di benessere del nostro corpo che si risolveva anche in benessere della nostra mente (“mens sana in corpore sano”: locuzione di Giovenale). Il dolore allora si protrae. Non trova rimedi immediati e a portata di mano. Soprattutto quando esso ci strangola in seguito a una perdita che è per sempre. E qui non ci possono essere rimedi di sorta. E c’è anche il dolore meno drammatico ma ugualmente reale, che non ottiene rimedio o consolazione dagli altri perché è un dolore “guardato”, ma non “vissuto”. Spesso il dolore guardato e non vissuto non viene percepito e sentito nella sua reale portata. Può essere solo intuito dalla mimica del volto sofferente. Dalla postura sbagliata, dalla difficoltà del respiro o di un movimento, ma l’intensità del tormento fisico e la resistenza alla sofferenza sono appannaggio solo di chi le prova e fa immediatamente i conti con sé stesso. La condivisione si rivela difficile, la compenetrazione rara e altrettanto rara la consolazione, per cui il dolore intimo e muto permane più a lungo di quanto si possa immaginare. Quello poi di una irrimediabile perdita è talmente devastante da richiedere anni di metabolizzazione, senza più risorse interiori per innalzare palizzate su terrapieni che, come sabbie mobili, cedono. E noi, per non dare mai un addio definitivo alla persona amata e perduta, riaccendiamo all’infinito il dolore per riattualizzare la sua presenza, celebrandone il ricordo. Eppure una pozione magica esiste per ogni tipo di dolore, di ogni forma e dimensione, e avvertito anche nelle varie età della vita ed è l’AMORE, in tutte le più suggestive forme di oblatività. L’amore dato senza riserve. Difficilissimo da vivere, ma quando accade assistiamo al miracolo della cancellazione del dolore. Si pensi al bimbo che piange e che smette non appena la mamma con amore lo prende tra le braccia; al ragazzino che teme il castigo dei genitori per qualche marachella di troppo, e piange e si dispera dentro di sé perché ha bisogno di comprensione e non di punizione, ha bisogno di sentirsi avvolto dall’amore e non dal giudizio o pregiudizio dei suoi cari; al giovane innamorato e incompreso nella profondità dei propri sentimenti. L’amore levigherebbe ferite e incomprensioni. Molto spesso queste ultime nascono proprio in famiglia. Ci sembra assurdo e paradossale eppure accade più spesso di quanto si possa immaginare e accettare: anche tra genitori e figli o i diversi componenti della costellazione familiare. Anche qui basterebbe l’amore. Dubbi, incertezze, incomprensioni si nutrono di amore malato e di non-amore. Chi ama davvero non dubita, non ha incertezze, non nutre illusioni né si rammarica delle delusioni. A volte, si tratta semplicemente di superficialità più che di indifferenza o cattiveria. E può accadere anche quando pensiamo che le nostre parole o gesti siano dettati dall’amore (non mollare non lasciarti vincere dallo scoramento di passi che non t’appartengono e che prendono altre vie illuminate da neon e dimentiche di stelle… non mollare stringi i denti risali la china non mollare…), ma non vengono recepiti come tali. Come si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze di chi amiamo? Evidentemente si può. Ma oggi mi chiedo: sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra socialità, la nostra affettività. Siamo miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso nella stessa galassia. Si tratta, a mio parere, di una strana inevitabile condizione di imperfezione della natura umana. Nostro malgrado. A questo proposito, mi sembra calzante una poesia inviatami, con un commento, due giorni fa, qui sul blog, da Mariateresa Bari, cara a noi tutti: "Il dolore ritorna e ritorna ancora, come l’alta marea, come la risacca alla battigia, come il pianto del bimbo nella culla"... Quanta dolce poesia in queste tue riflessioni, Angela! Perché gioia e sofferenza sono la trama e l'ordito di quella splendida tela che è la nostra esistenza! Ti lascio alcuni versi nati la scorsa notte e ti abbraccio grata 💓 “Frana il dolore”: Schianto di neve incandescente/ una stilla di tramonto/ che incendia lanterne all'orizzonte/ Frana in un riverbero di parole il dolore/ e travolge il cuore/ Si offusca l'ora di lacrime. Sì, spesso “il dolore frana in un riverbero di parole”, ma anche l’amore spesso frana in un riverbero di parole che non sono quasi mai quelle giuste da dire, da ascoltare per poterle ricambiare nel loro giusto senso e significato, che l’altro/a da noi si aspetta. È come il cane che si morde la coda. Eppure è proprio l’amore l’unico rimedio. Come? Quando? Per dare una risposta, torno indietro di tre giorni, quando, nel Liceo Artistico di Corato (Bari), città del Sud dove abito da vent’anni, c’è stata la presentazione di un libro SECOP, nella collana editoriale “PARALLELI POETICI” con un canto a due voci.
Raffaella Leone, PR della Secop, e coordinatrice della serata, ha introdotto i due autori, Luciana De Palma e Federico Lotito (già con altre individuali pubblicazioni alle spalle con la nostra Casa editrice) e i relatori Mariella Medea Sivo e Alberto Tarantini, entrambi carissimi amici dei protagonisti, elencando in più punti la straordinaria preziosità del libro-conchiglia perlescente, con il titolo sottolineato da sfumature di indaco, il colore spirituale per eccellenza, che racchiude in sé la bellezza della poesia, e dell’amore che di quella poesia si alimenta. L’originale quanto significativo titolo della raccolta è Istanteternità. La parola doppia, che ossimoricamente si fonde in una sola parola, avente un fonema in comune, definisce il suggestivo momento puro del loro incontro a comprendere l’infinito: un consegnarsi in un solo istante all’eternità. E non c’è niente che possa uguagliare lo splendore di questo neologismo, spiegato molto bene da Mariella Sivo in uno dei suoi acuti e dettagliati interventi. Forse ne parleremo anche dopo. Ora mi preme sottolineare il momento “giusto” dell’incontro: momento è sinonimo di “istante” e riguarda ciò che avviene in un battito di ciglia. Ma qual è il “momento giusto”? Né prima né dopo! Di cosa? Non prima di aver rivisitato tutto il passato, con la discesa nell’abisso del dolore vissuto, e con i voli della gioia provata. E non dopo aver compreso il senso della “reciprocità”, come ho detto proprio l’altra sera, visualizzando le bracciate in andata e ritorno di Federico nel mare da entrambi amato, per testimoniare il suo amore a Luciana, facendosi carico di alleviare la sua sofferenza, dovuta alla perdita del suo adorato papà quando era ancora bambina. Quel movimento descrisse ai miei occhi l’immagine della necessaria “reciprocità” in amore. E la reciprocità consiste nel “prendersi cura” l’uno dell’altra con la stessa intensità e generosità. Quanto importante è il prendersi cura in una qualsiasi relazione affettiva. Indispensabile in un rapporto d’amore. La reciprocità nel prendersi cura (chi non conosce la meravigliosa canzone “La Cura” di Franco Battiato? Mi viene la tentazione di trascriverla tanto è bella, anche perché riguarda il corpo il cuore e l’anima - in una mirabile fusione - della persona amata) comporta per i due innamorati entrare nel cerchio che disegna una curva senza soluzione di continuità che porta all’infinito dentro e fuori, nella convergenza di sogni, bisogni, certezza di essere in due. Il cerchio magico della volontà di appartenersi nel rispetto della reciproca identità e libertà. Divergere, invece, significa aprirsi ad altri orizzonti, ad altri incontri, ad altre intese col rischio di perdersi e di non ritrovarsi mai più (come due parentesi aperte con orizzonti opposti che non s’incontrano mai. Come ho avuto modo di dire nel mio intervento). Ed ecco, a conferma di quanto detto sin qui, le parole di Federico e Luciana all’unisono: F. “se non fossi stato capace di piangere,/ non sarei stato capace di farti ridere . L. “si sgrana una nuvola e un improvviso bagliore appare. E compari tu ”. E ancora, seguendo il percorso tracciato in precedenza: dal dolore alla gioia attraverso l’amore, al momento giusto, nel posto giusto e con le giuste parole. (Quanto importanti anche le parole!). L. “Speronando la mia oscurità/ Irrompesti come una cometa nel buio/ E di una sola breve scia ti servisti/ Per condurmi a te // Fosti come il crepitio nel ghiaccio/ Infrangendo la mia luce immobile/ E con irrefrenabili tumultuosi boati/ Arrivasti a me ” . F. “mi affacciai ai tuoi occhi,/ nel buio della mia notte/ indicarono l’uscita./ resistevo per il giorno che si fa/ e scaccia rinunce. / nessuna forza, nessuna speranza / t’infilasti nello spazio socchiuso./ - prendi quello che da sempre/ è la mia solitudine - dico./ ti affacciasti ai miei occhi,/ nel buio della tua notte faticai/ a detergere il sudore della ruga profonda./ avevi parole da darmi, avevi paura./ - riusciremo a sentire una canzone? - dici/ forse vinci! sicuramente vinciamo - dico/ e spiegammo liberi / i nostri sudari ”. E ancora F. “dentro ho ancora una manciata/ di allegria, il passo è malfermo/ tuttavia ci credo e tutto ho di te in me./ parlo, dico, canto, rimpiazzo volgarità,/ sostituisco fondamenta marce,/ comprendo i miei disastri e sento/ la fortuna di averti. / sicuro è il tuo sguardo, / forte come le tue braccia il tuo arrivo,/ audaci le tue labbra, / il tuo sapore, il tuo odore. / proverò ad amarti / avrà senso il futuro. ”. L. “ Alle spirali del tempo / Concedemmo di tenerci stretti/ finché l’universo non ci avesse/ Richiamati all’unica eternità / Che rende gli amori perfetti ”. Ed è giusto che si chiuda qui il cerchio del mio percorso intorno al dolore che, grazie all’AMORE, ripropone un futuro che rende persino la speranza un universo felice di eternità. Le poesie a specchio continuano con numerose riflessioni sul darsi e ricevere AMORE in ugual misura senza più paure e ripensamenti, ma col cuore libero di volare in cerchi concentrici di voluttuoso ritorno. Eppure, alle spalle ormai, quanta sofferenza raccontata e ascoltata. E compresa. Quanta accettazione di sé nella comprensione dell’altro/a. Quanta solitudine comunicata e vinta dall’essere in due, in una reciprocità senza più inizio né fine. E vorrei scrivere un trattato su ogni parola di rimando, ogni spazio dilatato, ogni istante vissuto con una nuova certezza nel cuore. Ma è giusto e salutare dare spazio anche all’intervento mordace, autoironico e sciabolante di Alberto Tarantini, che spiazza tutti con una domanda, che è nelle sue corde: “essendo un eterno perdente in amore, dopo numerose imprese finite male per vari motivi, come accorgersi dell’incontro giusto, quale preludio all’amore eterno?”. Più o meno questa la domanda a cui ho risposto più o meno con quanto detto sin qui. Ma altrettanto giusto e inconfutabile è stato l’intervento del nostro comune amico, nonché altro autore di qualità, firmata Secop, Zaccaria Gallo: “La mancanza”. Senti che è AMORE quando una persona ti manca sempre e in ogni circostanza del giorno e della notte, nei momenti di veglia”. Più o meno così. In sostanza l’assenza crea un vuoto che genera il senso della mancanza. Il desiderio, l’attesa. Bellissimo. Chi non ricorda le canzoni di Vecchioni, Concato, Venditti, ecc. su un reiterato e accorato “mi manchi”? Sì, è un ottimo metro di misura, ma non sempre ci regala la certezza del vero amore, a mio parere. È una possibilità, che potrebbe anche rivelarsi egoistica ossessione di possesso da parte dell’altro/a. Mariella Sivo, intanto, dispiaciuta di non poter intervenire opportunamente con le sue domande che avrebbero potuto dare ulteriori apporti sulla veridicità dell’amore con garanzie di eternità (e con la mia cara Mariella mi scuso tantissimo per la mia interferenza fuori tempo!), ha rivolto una domanda sapida e catturante sul desiderio fisico, sulla passione erotica che tiene ben saldo l’amore. Certo, neppure questo aspetto è da sottovalutare, anzi! Spesso è proprio il collante che tiene fortemente unite le giovani coppie, o le coppie formatesi da poco, purché si sia pronti, col passare degli anni, all’inevitabile cambiamento che, se sorretto da vero amore, si trasforma in godibile, consolante, vivificante e, dunque, rigenerante “tenerezza”, di cui tutti alla fine abbiamo estremo bisogno. E su questo tema così delicato e importante, a mio parere, concludo con la profonda e metaforica poesia della sensibilissima poetessa Antonella Coletti: Si sfogliò l’anima come una rosa/ nel gelo incauto dell’inverno,/ reclinò il capo quando il vento/ le recise l’ultimo bocciolo./ Non emise lamento, si nascose/ sotto le folte occhiaie/ dell’edera cupa./ Nessuno la vide piangere/ o chiedere aiuto./ Nessuno le prestò attenzione!/ Nemmeno tu, tu che ne eri “responsabile!”. Ed ogni parola delle tante metafore “a cometa” di questa splendida poesia meriterebbe di essere evidenziata per farne insieme tesoro. Farsi carico, con “responsabilità”, dell’altro/a è anche AMORE. E ora il mio caro Alberto non avrà più dubbi! Potrà scrivere un sapido e realistico trattato sul vero amore. Una sfida? Grazie a tutti per la pazienza e il coraggio di leggere una pagina moltiplicata per… 3 e mezzo. Alla prossima. Ancora con tante altre testimonianze.
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