mercoledì 27 dicembre 2017

I NOSTRI NATALI PASSATI


Con gli anni ho imparato che tutto passa
(passa ogni lama, passa il volo la rondine il pesco fiorito, l'usignolo e il suo canto, l'incanto del primo mattino con la luce che entra nel buio della casa e la rischiara. L'infanzia e la sua fiaba. Passano le stagioni, la neve e la rugiada le nuvole nere il temporale la paura lo spavento. Il tormento d'ogni inganno lo sgomento lo schiaffo il perdono l'urlo il silenzio la furia e la dolcezza. La risata il pianto.
Punto fermo, nel suo eterno movimento, il mare. Culla d’alghe e di onde. Suono di risacca. Tutto passa, lo so, passa la neve e il pianto passa il fiore e la ridente primavera passa l’estate e l’allegria delle onde, il mormorio delle conchiglie all’orecchio e le cinque pietre per giocare e l’autunno con le foglie gialle e il vino nel bicchiere e il fuoco dei tramonti e la tristezza delle scure sere. Tutto passa anche il sorriso su labbra assetate di acqua e libertà).
E sono passati i tanti nostri Natali. È vero, sono passati
(come sono passati gli inverni e i carnevali, l'adolescenza e i primi amori, le primavere e i ciliegi, il mare e i granchi da prendere tra gli scogli di sera e una lanterna per far luce. Come sono passati gli autunni e le foglie tra il vento e le stelle. Le notti insonni e le albe attese. I veli e le malinconie. Le risate al sole e le corse sulla sabbia. Sono passati i giorni della festa e quelli del dolore, i giorni dei progetti e quelli dei rimpianti).
Tutto passa
(e si trascina il tempo che non passa se non sul nostro corpo, arandolo, e tra i capelli, seminando bianchi cespugli invasivi, e sui sentimenti, inaridendoli per troppa siccità e troppa arsura.
Il tempo, una misura relativa, per ciascuno di noi, nel tempo infinito che tutti ci comprende).
Ed è passato anche un altro anno. Tra qualche giorno saremo nel 2018. E ritornano speranze, illusioni, sogni. Ritornano i progetti. Anche il tempo è un eterno ritorno per chi è ancora sotto il cielo e guarda il mistero delle stelle. Il loro incanto.

domenica 24 dicembre 2017

ANCORA SUL NATALE DELLA MIA INFANZIA


Gesù Bambino impiegava molto tempo a nascere. Veniva portato tra le mani-conchiglia del bimbo più piccolo, in testa ad una processione lunghissima che si snodava per tutte le stanze della grande casa (dei miei amatissimi prozii) che aveva un pianterreno, un primo e un secondo piano. Dopo aver salito, sceso, attraversato scale e stanze e camere e ogni più piccolo anfratto della casa e persino i balconi e il terrazzo, si ritornava giù per deporre il Bambino nella grotta tra Maria e Giuseppe, il bue e l'asinello.
              La lunga processione si illuminava di candeline bianche o rosse
(spente subito dopo con un brutto odore di cera bruciata e piccoli fili di fumo grigiastro, che si sperdevano ben presto tra le nostre mani giunte e non di rado il bambino più grandicello bruciava i lunghi capelli della bimbetta davanti a lui con grida e soccorsi immediati e scompiglio nella lunga fila e l’acre odore di fumo e di capelli bruciacchiati si spandeva per la casa… che si accendeva delle note divine di “Tu scendi dalle stelle”
(l’immancabile canto tradizionale che includeva voci adulte e bambine e mille inevitabili stonature e approssimate parole…).
Tu scendi dalle stelle, o Re del cieeelo
e vieni in una grott’al freddo e al geeelo
e vieni in una grott’al freddo e al geeelo…
A te che sei del mondo il Creeatoore
mancàno panni e fuocoomio Signooore
mancàno panni e fuocoomio Signooore…
Dopo la nascita di Gesù, noi bambini recitavamo le poesie.
Le donne di casa si affrettavano a preparare la tavola con ogni ben di Dio: pettole, dadini di massa sbollentati, capitone fritto e arrostito (a te e a mamma piaceva molto il capitone, che a noi bambini e ragazzi faceva ribrezzo perché ci sembrava un serpente e basta, e provavamo disgusto nel vedervelo mangiare con tanto gusto…); e, poi, frittelle, cartellate, calzoncelli, mostaccioli, taralli di ogni genere, fichisecchi, mandorle tostate, arance e mandarini, noci e nocelline. Vini e rosolÎ.
Era capitato anche a me di portare Gesù Bambino, ed era capitato a tutti noi bambini di recitare per la prima volta la poesia che zia Maria voleva insegnarci a tutti i costi perché la riteneva bella e facile per i più piccoli che non andavano ancora all'asilo:
 Tutti vanno alla capanna
 per vedere una gran cosa
anche io son curiosa
di veder che cosa c'è?
Guarda, guarda quel Bambino
come dorme, poverino!
Sembra far la ninnananna
tra le braccia della mamma.
Se io avessi un biscottino,
lo darei a quel Bambino.
Biscottino non ne ho
e il mio cuore gli darò!
Credo che la poesiola abbia attraversato secoli su bocche sdentate di nonne e nipotini e su quelle più morbide delle mamme, prima di giungere sulle labbra di farfalla colorata della mia amatissima prozia e tra le sue mani in volo per mimarla a dovere.
L'ho, poi, insegnata ai miei figli e ai miei nipoti non perché fosse particolarmente bella e facile, come sosteneva zia Maria, ma perché mi riportava a quei Natali, a quell'atmosfera magica e incantata, a quei profumi, a quegli odori, a quelle preghiere, a quei canti, a quelle braccia d'amore. A quei tafferugli. A quelle risate.
Capitava sempre qualche imprevisto, che coglieva di sorpresa la compagnia, creando parapiglia e disagio, risolti immediatamente da qualche battuta ironica o autoironica di zia Maria e tutto finiva in una grande corale fragorosa bolla iridescente di sapone, che aveva forma di labbra dischiuse al buonumore.
                               Labbra d’infanzia di latte e di panna.
                               Labbra di bianche perle di giovinezza.
                               Labbra concave di spietata vecchiaia.
Sì, quella tenera poesiola mi riporta a te, a nonna, a mamma, agli zii e a tutti i parenti e amici di allora. A quei tempi di rumorosa semplicità e di caotica armonia.
Ad un mondo, almeno per noi bimbi, sereno. Un mondo, che oggi esiste solo nella memoria del cuore.
Quel rito si è protratto negli anni quasi intatto.

martedì 19 dicembre 2017

IL NATALE: UN ETERNO RITORNO


Il Natale con te e la nonna mi rimaneva nel cuore senza passare mai. Non tutto passa? Chissà. Anche il Natale è un “eterno ritorno”…
Costruivi ogni anno un presepe grandissimo di carta spessa per le montagne e le vallate, che venivano sovrastate da rami di mandarini con i loro solari frutti. Un profumo inebriante si spandeva per la casa. Tappezzavi, poi, di muschio fresco e odoroso lo spiazzo davanti alla grotta e le stradine che s'inerpicavano fino alle stelle, dipinte su una lunga e larga stoffa di satin blu. E i pastori giganti di terracotta e di cartapesta. E le pecorelle e i cani. E la stella cometa e gli angeli. E un brulichio di luci a rendere magica l'atmosfera dell'Attesa. Il presepe portava in casa prati e montagne. E un senso antico di silenzio e di preghiera.
Durante l'anno, mettevi da parte quelle carte spesse e ruvide, di un colore marroncinoverdemarcio, con cui i negozianti di generi alimentari incartavano i maccheroni, che venivano venduti a peso, sfusi e senza involucro e non a pacchetti da mezzo chilo o da un chilo che, oggi, hanno tanto di etichetta sulla scadenza, che poi magari scopri contraffatta o sostituita per ringiovanire un prodotto scaduto da vari mesi o anni, ma dicono più sicuri (?) dal punto di vista igienico, più belli esteticamente.
Era un presepe grande che occupava una intera parete della sala da pranzo e che completavi, improrogabilmente, entro l'8 dicembre per la festa dell'Immacolata, con lunghi rami di pino ai quali appendevi quei piccoli soli, disseminati tra i verdi aghetti. Quel vellutato tappeto di muschio, dal profumo di terra bagnata, avrebbe agevolato poi il cammino di pastori e re magi verso la grotta. Lucette colorate e la stella cometa, sospesa al filo di nylon invisibile, che andava da una parete all'altra dell'ampia sala.
Il laghetto con le paperelle. La cascata di carta stagnola tagliata a striscioline. Le pecorelle sparse qua e là tra ciuffi d'erba vera e fiocchi di neve finti, di soffice ovatta. E il bue e l'asinello inginocchiati davanti alla mangiatoia con Giuseppe e Maria di terracotta in atto di preghiera. E, in fondo alla grotta, vuoto, il giaciglio dorato in attesa di Gesù Bambino.
Quanto stupore! Quanta soffusa bellezza! Quanto fiduciosa e vibrante quell’Attesa!
In tutta la casa un profumo mai dimenticato e mai più ritrovato di dolcetti natalizi: le cartellate (brune rose di vincotto), i calzoncelli o cuscinetti di Gesù Bambino con pasta di mandorle e cannella, i taralli “inginocchiati” e i tarallini col gileppo, e ciottolini di pasta a ricordarmi d'inverno il mare e il gioco delle cinque pietre sulla spiaggia, i mostaccioli con mandorle, cacao e vincotto, altra delizia di marmorea grazia!
Quel profumo impregnava le stanze e le chiacchiere delle donne che abitavano nel quartiere e venivano ad aiutare mamma e la nonna: Sabellina, Marietta, Angelina. Non si stancavano mai di raccontare fatti e misfatti del vicinato.
Ma il Natale con te era anche bello da vivere perché occupava di sé tutto il mese di dicembre.
Il presepe da far fiorire come un libro dell’Arte Pop-up nei primi otto giorni del mese e, poi, l’Immacolata, Patrona del nostro paese, e il digiuno interrotto la sera della Vigilia con le focaccine della Madonna, formate da pani schiacciati e tagliuzzati in superficie in tanti quadratini e con dentro i semi di anice o di finocchio;
ed ecco Santa Lucia, molto amata e venerata per la sua incrollabile fede
(che porta luce a chi fede non ha).
Dal 16 dicembre, infine, la novena che precedeva il Santo Natale:
Tempo di Attesa e di Preghiera. Tempo di rinnovata Speranza.
Prima della mezzanotte andavamo in chiesa per vedere nascere Gesù Bambino tra preghiere, canti, incenso.
Nella nostra casa nasceva sempre fuori orario: o molto prima o molto dopo.
In chiesa cantavamo insieme con le “signorine della parrocchia”, accompagnate solennemente da un pianista che suonava il maestoso organo, “Tu scendi dalle stelle” e altri canti natalizi…
Non c'erano allora quelli d’importazione americana, “Silent Night”, “White Christmas”, “Jingle Bells” che allietano il nostro Natale nei disincantati giorni dell’attesa.
Né c'era l'albero pieno di luci, di festoni scintillanti con fiocchi argentati, rossi, dorati... Né panettoni in eserciti composti e colorati sugli scaffali dei supermercati. Non c’erano neppure supermercati, ma negozietti alla buona, gestiti alla buona con tanta gente che andava alla buona “con un quadernino” - antesignano dell’attuale taccuino - su cui l’esercente scriveva la somma da pagare appena possibile, nonostante il cartello in bella vista “quì non si fà credensa".

venerdì 15 dicembre 2017

UN TARALLO DI FELICITÀ

  Il Natale di tanti anni fa è per me un tempo senza tempo che mi porto nel cuore.

Il ramo di pino con arance e mandarini è ancora oggi un dono di frutti da sbucciare per sentire l'odore intenso delle bucce bruciate nel camino. Un profumo particolare che mi è rimasto dentro. Dentro anche il profumo avvolgente di tutte le pietanze natalizie, mandate al forno di pietra, situato vicino alla nostra chiesa di San Giovanni.

Allora, il garzone veniva a prendere i grandi tegami rettangolari (di non so quale metallo smaltato di nero), con ben allineate lunghe file di rose zuccherine, le cartellate, e li metteva su un'asse di legno scuro; poggiava un “tarallo” di stoffa, che aveva colore di sporco e di fumo, sulla testa e l'asse in bilico sul tarallo e montava in bicicletta esibendosi in larghe piroette di qua e di là, mantenendo miracolosamente la lunga tavola nera in equilibrio perfetto sul capo fino al forno e fischiettando o cantando allegri motivetti. Più una esibizione che una vera necessità: il forno era a due passi. Ma quando passava, noi bambini facevamo “oh!” e lui ci sorrideva, ammiccando felice

 (quante storie deve fare se poi cade allora staremo a vedere quali guai combinerà…)


Quanto poco costava un tarallo di felicità!

Ogni volta, però, appena lui svoltava l'angolo e si perdeva alla mia vista, io cominciavo a preoccuparmi per la sorte di quelle delizie che, per fortuna, tornavano sempre a casa, spandendo per le strade un dolcissimo e intensissimo profumo di zucchero filato, vincotto, cannella e chiodi di garofano.

 Anche quel profumo mai più dimenticato, mai più ritrovato.

“Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente e solitamente nascosta delle cose sia liberata e il nostro vero io si svegli”, scriveva Marcel Proust.

lunedì 4 dicembre 2017

Ancora una volta Donna


“Sono nessuno! E tu?
Sei - nessuno - anche tu?
Siamo in due!
Non dirlo! Farebbero rumore, sai!”
Così Emily Dickinson.
Per definire la condizione femminile fino solo a poco più di un secolo fa. Condizione che - come sappiamo - per molte donne continua ancora oggi. Ma per molte altre, per fortuna, non più.
Il nostro universo troppo a lungo ignorato dall’altra metà del cielo.
Poi, il riscatto.
In passato, solo qualche voce isolata faceva sentire il suo canto.
Oggi, è un coro sempre più ampio e forte e alto e glorioso. Le donne contano e… cantano.
Perché tutti possano sentire. Ascoltare. Capire.
Le donne valgono.
Ieri facevano la storia dietro le quinte. Oggi sono la storia.
Graffiano rimorsi. Percorrono strade. Lasciano orme. Di forza. Di tenerezza. Di poesia.
Anche di Poesia. E tanta.
La donna ha percorsi interiori che l’uomo ignora.
Ha cieli di emozioni che l’uomo sfiora appena.
Ha parole per raccontare il proprio cuore, che l’uomo soffoca e tradisce.
In linea di massima, naturalmente. Non si possono fare - è chiaro - generalizzazioni.
Ma succede. E spesso avviene proprio così.
Da Saffo ad Emily Dickinson.
Appunto. E oltre.
Virginia Woolf è la madre di tutte le donne che scrivono.
A lei dobbiamo il coraggio delle parole e l’urlo per dirle. A lei, il coraggio dell’attesa e silenzio per ascoltarle.
In quella “stanza” segreta che nessuno ci può rubare.
Che nessuno può profanare.
Neppure se mille coltelli dovessero squarciare il sogno dell’alba o l’oro del tramonto.
Il canto di noi donne ha vinto la notte.
Il buio dei secoli bui …
E la donna …
… Non perderà più le rotte azzurre del mare. La libertà di osare. Di sognare. Viaggiare … con la mente … con il cuore … con l’anima …
Di progettare nuovi cieli. Di inventare nuove storie. Di tentare nuovi percorsi. Di vivere nuovi amori. Di costruire nuovi  e più gratificanti rapporti alla pari con l’uomo, fianco a fianco, mano nella mano, cuore dentro il cuore. In due. Con coraggio. Rispetto. Volontà di farcela. Per non essere mai sola. Per non essere mai solo. Per non essere mai soli.
Il coraggio di reinventare la vita.
È tutto qui il mistero di essere donna, di essere uomo, oggi: continuare a dare la vita, potendola quotidianamente reinventare. Potendo quotidianamente reinventarsi.
Per non avere più colpe.
Per non avere più rimorsi.
Per non avere più rimpianti.
Per non avere più nostalgie.
Per non avere più solitudini da raccontarsi. Da raccontare.
Per avere ogni nuovo domani tra le mani.
Come foglio bianco ancora tutto da scrivere. Col gusto di apporvi in calce la propria firma.

(non ho voluto parlare della violenza sulle donne e del femminicidio. Si è già fatto un gran parlare. Ho cantato, invece, la sua voce e la sua identità di donna del terzo millennio. Una donna che può, sa e deve scegliere con chi condividere i suoi giorni).