Il Natale di tanti anni fa è per me un tempo senza tempo che mi porto nel cuore.
Il ramo di pino con arance e mandarini è ancora oggi un dono di frutti da sbucciare per sentire l'odore intenso delle bucce bruciate nel camino. Un profumo particolare che mi è rimasto dentro. Dentro anche il profumo avvolgente di tutte le pietanze natalizie, mandate al forno di pietra, situato vicino alla nostra chiesa di San Giovanni.
Allora, il garzone veniva a prendere i grandi tegami rettangolari (di non so quale metallo smaltato di nero), con ben allineate lunghe file di rose zuccherine, le cartellate, e li metteva su un'asse di legno scuro; poggiava un “tarallo” di stoffa, che aveva colore di sporco e di fumo, sulla testa e l'asse in bilico sul tarallo e montava in bicicletta esibendosi in larghe piroette di qua e di là, mantenendo miracolosamente la lunga tavola nera in equilibrio perfetto sul capo fino al forno e fischiettando o cantando allegri motivetti. Più una esibizione che una vera necessità: il forno era a due passi. Ma quando passava, noi bambini facevamo “oh!” e lui ci sorrideva, ammiccando felice
(quante storie deve fare se poi cade allora staremo a vedere quali guai combinerà…)
Quanto poco costava un tarallo di felicità!
Ogni volta, però, appena lui svoltava l'angolo e si perdeva alla mia vista, io cominciavo a preoccuparmi per la sorte di quelle delizie che, per fortuna, tornavano sempre a casa, spandendo per le strade un dolcissimo e intensissimo profumo di zucchero filato, vincotto, cannella e chiodi di garofano.
Anche quel profumo mai più dimenticato, mai più ritrovato.
“Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente e solitamente nascosta delle cose sia liberata e il nostro vero io si svegli”, scriveva Marcel Proust.
Mi piace molto questo modo di scrivere, è tranquillo e dolce, con tanta dolcezza
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