venerdì 25 settembre 2020

Recensione a: Maria Montessori di Valeria Rossini

Come fiume, che prende vita da una sorgente zampillante e piena di luce e che scorre luminoso e agile lungo argini ben definiti di un percorso che attraversa vallate spazio-temporali di ben centocinquant’anni per versarsi nel mare turbolento e ricco di tempeste sotterranee e a pelo d’acqua dei nostri giorni, così si snoda il saggio di Valeria Rossini, Maria Montessori - Una vita per l’infanzia. Una lezione da realizzare - appena pubblicato dalla San Paolo edizioni. Un nuovo libro “di formazione” (sono da ricordare della stessa Autrice altri due saggi molto interessanti e originali: Educazione e potere. Significati, rapporti, riscontri - Guerini 2015; Convivere a scuola. Atmosfere pedagogiche - FrancoAngeli 2018); libro, che racchiude, nel sottotitolo, la motivazione della scelta di un argomento difficile e complesso. Valeria Rossini, infatti, rimane folgorata e ammirata dalla grandezza scientifico-etico-sociale della scienziata e pedagogista anconetana, che ha dedicato tutta la sua vita a rendere “viva” e “libera” l’infanzia.  Lo scopo, invece, è quello di voler continuare sulla sua scia, con le dovute rinnovate interpretazioni, per far tesoro della sua lezione e per realizzare ancora l’utopia di una società più giusta e solidale, attraverso un bambino “padre dell’uomo”, costruttore cioè della sua stessa persona con una personalità libera, responsabile, aperta alla curiosità intellettuale ed etico-sociale. Un adulto sicuro di sé e proiettato verso gli altri. Rivolto a realizzare un “nuovo umanesimo” nella società interplanetaria del prossimo futuro.

Alfa e omega, dunque, sorgente e foce di quel fiume, a volte anche carsico, oscuro, pietroso, che è stata la vita e l’opera di Maria Montessori, dalla sua nascita fino ai nostri giorni. Tra la sorgente e la foce (a delta) un racconto chiaro, scorrevole, con guizzi interpretativi personali, che toccano la punta dell’iceberg per lasciare intravedere il vasto e indistricabile mondo sotterraneo che essa comporta, tra la   cultura di un tempo che sembra molto lontano, quello in cui si è formata, è vissuta ed ha operato l’Educatrice anconetana, e la cultura del nostro tempo. Con altre esigenze e altre contraddizioni da quelle tipiche degli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.

Simone Weil afferma che noi siamo abitati da inevitabili e perciò salutari contraddizioni perché solo dagli innumerevoli contrasti viene fuori una possibile verità su noi stessi, sugli altri, sul mondo, sulla vita. È quanto Valeria Rossini riesce a fare, con molta maestria e straordinaria competenza, raccontandoci la vita complessa e, per alcuni versi, oscura e insondabile di Maria Montessori, e l’opera vivificante delle sue scuole, le “Case dei bambini”, sparse in tutto il mondo, con tutti i chiaroscuri e le incrostazioni che, nell’arco di un secolo, ne hanno offuscato luminosità ed efficacia.

Ma le conclusioni, a cui perviene l’Autrice, smontando pregiudizi e costruendo, tessera dopo tessera, con un apprezzabile fil rouge tra un capitolo e l’altro, l’intero mosaico del “metodo” montessoriano nella sua unicità e nella sua validità anche ai nostri giorni, sono confortanti perché recuperano la vivida intelligenza, non disgiunta da un ironico senso dell’umorismo e da una profonda umanità della grande pedagogista che, pur temendo per la sorte delle sue scuole, spesso snaturate dalla rigida applicazione delle regole del suo metodo, costruito in corso d’opera e, quindi, sempre “in fieri” nelle sue intenzioni e aspirazioni, riesce a rendere “universale e imperituro” il suo messaggio: la “necessità di sostenere il bambino nel percorso di autorealizzazione e di socializzazione, educandolo all’amore per il lavoro e alla collaborazione con gli altri”. Educandolo soprattutto con amore.

E il fiume della sua opera continua a farsi mare e infine oceano. Un po’ come ci insegna la poesia “Il fiume e l’oceano” di Kahil Gibran:

Dicono che prima di entrare in mare/ il fiume trema di paura./ A guardare indietro/ tutto il cammino che ha percorso,/ i vertici, le montagne,/ il lungo e tortuoso cammino/ che ha aperto attraverso giungle e villaggi./ E vede di fronte a sé un oceano/ così grande/ che a entrare in lui può solo sparire per sempre./ Nessuno può tornare indietro./ Tornare indietro è impossibile nell’esistenza./ Il fiume deve accettare la sua natura/ e entrare nell’oceano./ Solo entrando nell’oceano la paura sparirà,/ perché solo allora il fiume saprà/ che non si tratta di scomparire nell’oceano/ ma di diventare oceano.

                                                   Angela De Leo 

martedì 15 settembre 2020

Don Milani ritrovato

Sabato sera, allo SpazioleArti del Teatrermitage, presso il giardino del Museo Archeologico del Pulo di Molfetta, anch’io ho ritrovato Don Lorenzo Milani, grazie alla straordinaria Rassegna: “Futuro Anteriore” - Frammenti di una MAGNIFICA STAGIONE RITROVATA, organizzata dall'infaticabile Vito D'ingeo che, dopo tantissimo tempo, ho rivisto con grande piacere.

"Futuro anteriore", appunto, per ripartire dal passato in tutti i sensi e immergersi già nel futuro.

E così, commossa e felice, ho ritrovato il mio amatissimo  “prete scomodo”, e la sua “Scuola di Barbiana”, dopo circa vent’anni dagli ultimi miei incontri con la sua pedagogia al servizio degli ultimi.

In un giardino molto suggestivo, ricco di verde, di pietre e di storia antica, su un palco semplice semplice con un’unica sedia semplice semplice, è esploso il monologo di Luigi che ha raccontato il suo Don Milani, dalle origini fino al suo volo nel Cielo degli Eletti, di quelli cioè che si sforzano in tutti i modi possibili, badando che il cammello si assottigli a tal punto da poter realizzare, con determinazione e coraggio, l’impossibile impresa di farlo entrare nella “cruna di un ago”. Sì, il cammello. Anzi, i “Cammelli a Barbiana”.

La narrazione di un passo evangelico? Racconto e storia di un mito, una leggenda di un tempo ormai passato, ma forse non del tutto? Una fiaba? Un “C’era una volta” con tutto il bene e il male che crudelmente divide il mondo delle fiabe perché il lieto fine possa danzare col cuore dei bambini? Niente di tutto questo o forse tutto di tutto questo. Tutte le contraddizioni del mondo e di noi suoi abitanti, come ci ha insegnato Simone Weil, “in comodato d’uso:

Don Milani e l’infanzia dorata in una famiglia ricca e colta dell’alta borghesia e la sua lotta di classe contro i ricchi e i laureati per fare spazio ai poveri e agli analfabeti.

Don Milani e la sua fede accesa, a imitazione di Cristo, contro una chiesa cattolica severa nei suoi dogmi, ma contraddittoria e mercificata nell’asservimento ai ricchi e nella cecità verso i poveri.

Don Milani pessimo studente, ribelle ad ogni coercizione scolastica, ma grande maestro, come egli stesso amava definirsi, per la cura che riversava verso i più bisognosi nella sua scuola di Barbiana. Una scuola povera e mancante di tutto, ma ricca di fervore lavorativo dove tutto serviva per imparare nei trecentosessantacinque giorni dell'anno, compresi dunque i sabati e le domeniche. Una scuola da contrapporre a quella statale, dove "si guarivano i sani e si ignoravano i malati" e dove si aveva la presunzione di trattare tutti allo stesso modo, ignorando così di commettere una grave ingiustizia "facendo giustizia fra disuguali".

Uomo rude, scostante, severo, immerso in una realtà difficile, da lui condita anche di tante parolacce e, insieme, persona mite, ricca d’amore per il prossimo e di grande tenerezza verso i bambini, a cui insegnava l’importanza della parola e della voce per imparare ad ESSERE e a rivendicare gli individuali diritti di PERSONE nel collettivo della propria comunità di appartenenza, contro ogni ottuso e pervicace totalitarismo.

“I CARE”, scritto all’ingresso della sua scuola nella sperduta Barbiana, contro il “me ne frego” dei fascisti, arroganti e indifferenti ai bisogni del popolo che viveva di stenti e che non aveva mai imparato a sognare né tanto meno a progettare un futuro migliore.

Don Milani e la scoperta della “parola”; e l’identità restituita dalla “voce”. Quanto importanti l’una e l’altra per rivendicarsi nella propria unicità e per rivendicare la propria appartenenza al mondo sociale e solidale.

Don Milani, antesignano dell’appartenenza dei suoi alunni non solo al piccolo bosco di Barbiana, ma alla realtà ben più ampia di altri popoli europei di nazioni diverse per imparare altre lingue, altri modi di essere e di comportarsi. Perché la conoscenza derivasse dall’esperienza vissuta si dilatasse verso orizzonti più ampi di consapevolezza e socialità. Nella rivendicazione dei propri diritti non disgiunti dagli inevitabili doveri di uomini e cittadini, ma con riserva di "disubbidire" alle leggi ingiuste e inique.

Don Lorenzo Milani. Faro e Approdo per ogni nuova partenza. Ma scomodo, troppo scomodo per cattolici e laici.

Da sempre al centro di contestazioni e controversie per il suo ribellismo contro ogni forma di sopruso fisico ed etico fino a dare il fianco alla terribile macchina del fango a stritolarlo con i suoi meccanismi perversi e uncinanti l’anima.

Pura e Ribelle, la sua anima, fino a perderci la salute, ma non la fede. Fino a perdere la serenità, ma non la speranza in un mondo migliore.

Questo il suo inno alla libertà e a Dio, a cui aveva preferito gli oppressi e i vinti, svettante nel vento a portarlo, con la croce del suo stesso Cristo messo in croce, in alto sempre più su dove l'altra sera lo ha inseguito  il fiume delle nostre lacrime, esplose in un buio acceso di stelle.

Bravissimo l’attore Luigi D’Elia in una straordinaria narrazione, di cui in parte è anche autore; narrazione, che ha coinvolto e sconvolto, in silenzioso ascolto, il numeroso pubblico.

Questo genere di teatro, solo apparentemente povero, ha in realtà un legame ancora più intenso e vibrante con la letteratura, perché non nasce mai da un copione già scritto per la drammaturgia, ma si crea e si realizza con le mani, la mente, il cuore di chi abilmente cuce e ricama insieme le parole, i versi e le frasi di testi letterari, così ben definiti "lasciti" dei maestri ( in questo caso, tratti proprio dai libri di Don Milani) dagli ottimi organizzatori e dalle estenuanti ricerche sul campo compiute dagli autori.

Sì questo è un Teatro diverso perché non prevede posture, ma predilige la forma dialogica con il pubblico, interpellato ad ascoltare una storia proprio come se si trovasse di nuovo dinanzi ad un cantastorie d'altri tempi...

Grazie per l'emozione, di cui non si è spenta ancora l'eco.

E grazie ancora a Don Lorenzo Milani che mi ha insegnato ad essere un'insegnante che ha cercato di prendersi cura, negli anni, dei suoi studenti con Tenerezza, Amore e con tanta Poesia disseminata tra le Parole.

       Angela De Leo

venerdì 11 settembre 2020

11 settembre (2020): una data che ancora mi sconvolge

19 anni fa la tragedia delle Torri gemelle. Non si può dimenticare. Gli aerei kamikaze ad attraversarle, esplosioni di fuoco, crolli, urla, pianti, disperazione, corpi di uomini disperati in caduta libera, caos, confusione, fughe di ipotetica salvezza. E noi a guardare la TV tra orrore e tristezza, non capendo il perché.

A distanza di circa vent’anni, ancora un’alba di ansia, di angoscioso ricordo, di lacrime mai del tutto ingoiate. L’11 settembre ha per me sapore di perdizione, sperdimento, agonia di persone perdute alla mia fisicità, di cose disperse e mai più ritrovate. Tutto ciò che passa e lascia un dolore. Mi torna alla mente più bruciante che mai la perdita delle nostre “madri d’autunno”, di cui parlai un anno fa. Voglio riproporre quelle pagine con qualche variante, in tempo di altre paure, altre disperazioni, altra confusione. Di mai spento dolore.

Le mamme d’autunno. Ricalcano i colori caldi che si vanno spegnendo della terza stagione. Sono come i frutti autunnali, ricchi di doni che bisogna avere occhi e cuore per scoprire: le melagrane, per esempio, con tutta la maternità riposta in quei chicchi di rosso dolore e di infinito amore, protetti da una buccia spessa e dura che si spacca prima che sia facile aprirla e scoprire una nuova protezione: le membrane interne simili a veli di lacrime e dolcezza per ogni riparo dai pesanti colpi della vita. Oppure sono grappoli d’uva dorata e ottobrina che espongono la loro spettacolare maternità tutta offerta allo sguardo e alle mani di chi si accinge alla raccolta per farne mosto dolcissimo e vino forte e corposo a riscaldare le sere d’inverno che verranno. Alla mensa con gli amici. E c’è una maternità più oscura e nascosta, ma ricca di morbidezza antica: la castagna tutta chiusa nel suo riccio pungente a difesa di un’anima ancora candida e bambina a ricordarci una madre che conosce i mali del mondo e difende strenuamente la morbidezza della sua maternità ritornata ai tempi dell’infanzia e dell’attesa di mani premurose a salvarla da ogni caduta. E che dire delle olive, brune ampolle piene di olio lenitivo per il palato, la pelle, lo spirito? L’olio che è oro liquido per la nostra tavola; alimento di lampade votive nei bicchieri; soccorso estremo di malati e moribondi; viatico per innalzarsi al Cielo.

Le madri d’autunno sono le mamme distanti. Quelle che hanno brevi voli come le foglie nel loro ultimo tramonto dorato fino ad accartocciarsi, prima che il buio le assalga, e confondersi con la terra: Madre di tutte le madri.

Le madri d’autunno sono solitarie e tristi. Sono pesanti di dolori e d’affanni. Sono colme di lacrime soffocate e di carezze mai più date e mai più ricevute perché un pudore strano impedisce agli adulti e ai vecchi di abbandonarsi a una carezza desiderata nel cuore, ma trattenuta tra le dita.

Sono le madri che rimpiccioliscono man mano che il tempo passa e vince il loro vigore e turgore. Le mamme da tempo lasciate nella loro casa da passi di figli che hanno urgenza di andare per realizzarsi nella vita secondo scelte volute o subìte.

Oppure sono quelle che ci abbandonano perché non hanno più tempo per aspettarci o seguirci. Devono andare. Sono le madri dell’assenza e del vuoto, scavato nell’anima di chi resta. Sono le madri rimpiante e riscoperte sempre vive nel cuore.

Sono inno di nostalgia e pianto.

Sono farfalle stanche e lente nell’ultimo volo tra le ombre cupe della sera e il buio della notte fino alla… soglia della prima alba, come meravigliosamente scrive in una sua poesia , dedicata appunto a sua madre, Gjeke Marinaj. 

Solo i figli poeti sanno scoprirla attraverso la luce che filtra tra i rami della loro mai spenta poesia in un intreccio di parole tra mani cuore anima…

Ma ecco cosa scrive di sua madre il primo figlio poeta: Vincenzo Mastropirro. 

Se vorrai 
Se vorrai, posso essere tuo figlio sempre. 
Il bambino che rompeva gli occhiali, 
il figlio che ha cambiato i racconti del tempo, 
quello che piangeva sulle pagine a quadretti, 
quello che amava il gioco per il gioco. 
Posso carezzarti come solo un figlio fa 
e ora, che sei diventata esile e stanca, 
posso dirti che sei più bella di prima. 
La mia immagine è il tuo volto scavato 
come l'ultimo tratto dell'arcobaleno 
che si spegne nel mare degli assoli. 
Posso essere tuo figlio se mi abbraccerai 
con le forze residue delle tue braccia. 
Fallo e ti lascerò andare senza piangere. 
vm (Vincenzo Mastropirro) 

Vincenzo Mastropirro, amico carissimo, poeta soprattutto dialettale, ottimo musicista e compositore, docente, ha scritto questa intensa, tenerissima poesia, il giorno prima, appena qualche settimana fa, che sua madre si spegnesse “nel mare degli assoli”.

La pubblicò su fb come ultimo canto per la sua amatissima madre. E inaspettatamente in italiano. Inaspettatamente perché Vincenzo ha capovolto le regole, come solo un artista sa e può fare, in barba a tutte le teorie di molti studiosi di dialettologia, che vogliono la lingua materna la sola visceralmente usata nei momenti più aspri o più esaltanti della vita. Il dialetto, voce dell’anima, che parla la lingua del corpo in maniera forte, materica, vera, ogni volta che siamo noi senza orpelli grammaticali e senza costruzioni sintattiche anche della nostra personalità di status.

E, invece, ecco che qui Vincenzo scopre che la sua voce più appassionata, a poche ore dal distacco, non è quella che abitualmente usava per comunicare con sua madre, che si esprimeva sempre in un dialetto colorito, ironico, sentenzioso, vibrante di tutti gli accenti antichi e mai perduti.

Per la prima volta forse, con lei ha sentito l’urgenza di rivolgerle parole d’amore con una lingua quasi a lei sconosciuta, ma altamente poetica perché sicuramente più musicale e dolce del duro dialetto ruvese. Sì, Vincenzo ha sentito che ora l’omaggio più bello che potesse fare a sua madre “esile e stanca” rispetto alla donna forte e coraggiosa, battagliera e volitiva con cui era solito battibeccare in “duetti dispettosi” d’amore, era un ricamo di note tenerissime, quasi ad accoglierla nel nido delle sue braccia per aiutarla a volare via, in un sommesso suono di flauto dolce, suo strumento preferito e amato da tenera età. L’unico che riusciva a tenere “imbrigliato” quel ragazzino scavezzacollo che amava poco la scuola e i suoi quaderni a quadretti, quasi a farci visualizzare una prigione di reticoli e di numeri a spegnere la sua voglia di imparare. Il ragazzino, che amava “il gioco per il gioco”, tornando a casa con gli “occhiali rotti” e i “racconti del tempo” ancora da inventare… 

Come avrebbe potuto dire Vincenzo in dialetto a sua madre “fragile e bella”: La mia immagine è il tuo volto scavato/ come l'ultimo tratto dell'arcobaleno/che si spegne nel mare degli assoli?. Tre versi di una musicalità e bellezza ineffabili! Come le avrebbe potuto dire con infinito amore, in un sussurro di pudore e di tormento, Posso essere tuo figlio se mi abbraccerai/ con le forze residue delle tue braccia, in dialetto senza che piangessero in due privi, entrambi, della possibilità di salvezza da quelle lacrime come pioggia devastante sul loro reciproco addio e comune dolore? 
E, invece, l’italiano, tenero e melodioso, gli ha permesso di abbracciarla piano perché sua madre si addormentasse serena, cullata da quel flauto di dolcezza mentre Vincenzo in un grido muto le cantava, ninnandola: Fallo e ti lascerò andare senza piangere.

Ed ora siamo noi a versare lacrime di profonda commozione per tanta tenerezza, per tanto infinito silenzioso amore… 
Ed ecco il Canto nostalgico e “disperato” di un altro figlio poeta, che ha dovuto suo malgrado lasciare sua madre con passi di fuga verso una ipotesi di salvezza da una Patria, diventata improvvisamente ostile e nemica ai suoi sogni e ai suoi ideali di libertà e democrazia.
ALLA MADRE
La nostalgia di te
Dalla nostalgia di te sono devastato.
Rimpianto vasto come il mare
Sono gabbiano con ali spezzate
Se non odi che tuo figlio è morto
cercami sulla soglia della prima alba
Ma se a un flauto io dovessi somigliare
allora per amor mio, madre - anima mia,
abbandona meravigliose visioni e lacrime febbrili
Perché ultimamente sono angosciato anche nei miei sogni
Alla ricerca di te, perdo la strada in qualche
baratro sconosciuto
nel mio straziante volo grido il tuo nome
e l’incubo mi lascia attraversando una finestra rotta.
Gjeke Marinaj

Un Canto straziato di nostalgia racchiudono questi versi di Gjeke Marinaj, altro meraviglioso amico di tempi più brevi, ma di sintonie mente/cuore con lunghe ramificazioni fiorite nell’anima. Gjeke, americano di adozione ma di origini albanesi, è poeta, scrittore, docente universitario, ideatore della bellissima teoria del “Protonismo”, che valorizza ogni essere umano in funzione di un mondo migliore all’insegna della solidarietà e della pace. Teoria/disciplina socio-filosofico-filantropica che Gjeke va diffondendo nel mondo con lunghi estenuanti viaggi in tutti i Continenti e per la quale sta ricevendo meritatissimi premi e riconoscimenti a livello mondiale.

A lui va il mio affettuoso apprezzamento e abbraccio.

Ma, tornando alla sua poesia, ritendo che il suo Canto alla Madre sia “del dopo” e non “del prima”, come è avvenuto per Vincenzo Mastropirro, di cui ho parlato ieri con tanta commozione. 
Qui il poeta è “devastato” da un “rimpianto vasto come il mare”, che ha dovuto attraversare con le sue ali “spezzate di gabbiano” e non poteva essere diversamente in un reale attraversamento per raggiungere, tra mille tappe e innumerevoli difficoltà, la terra dove ogni bandiera del mondo viene issata: l’America californiana, fino al Texas, o Stato della “stella solitaria”. E a noi sembra di seguirlo nel suo interminabile viaggio di ansia e di paura, ma anche di indomito coraggio nella determinazione ad ANDARE incontro all’ignoto, con dentro l’anima, trafitta da mille pugnali, la madre, la patria, entrambe abbandonate fisicamente, e una tenue luce di speranza.

Ma un dubbio consolatorio coglie la grande sensibilità del poeta: Se non odi che tuo figlio è morto/ cercami sulla soglia della prima alba.

Bellissimi versi che, pur nati in terre e tempi diversi, ma in situazioni identiche di pericolo e di morte, somigliano, nel senso della precarietà esistenziale e del salvifico, indissolubile legame tra madre e figlio e tra parola poetica e speranza nel futuro (cercami sulla soglia della prima alba), ai versi del poeta curdo Abdulla Goran: Io vado, madre./ Se non torno…/ la mia anima sarà parola/ per tutti i poeti.

Per Gjeke il dubbio consolatorio iniziale è più complesso: riuscirà a raggiungere sano e salvo l’altra riva, sulla soglia della prima alba? Metafora bellissima della luce che rischiara le tenebre della notte e, quindi, della fuga notturna per evitare gli inganni del pieno giorno. Ed è là che sua madre dovrà avere il coraggio di cercarlo ancora. In entrambi i casi, la Poesia potrebbe salvare il futuro della nostra Umanità oggi alla deriva.

Ma, continua Gjeke, in un disperato presentimento (che per sua e nostra fortuna non si avvera), se io dovessi somigliare ad un flauto, ossia se la sua voce dovesse giungerla flebile come un suono dolente di flauto (e anche in questa poesia, geograficamente lontana mille miglia da quella di Vincenzo Mastropirro, ritroviamo, per altre vie mai percorse e non in termini di fuga, casomai di continuo ritorno, ancora questo strumento musicale dolcissimo), allora alla povera madre non resterà che abbandonare meravigliose visioni e lacrime febbrili, perché un sogno/incubo ha reso il figlio presago di un “qualche/ baratro sconosciuto”, mentre cerca ancora sua madre, con l’ansia di raggiungerla. E la Madre è, al di là dell’incubo stesso, anche la Patria abbandonata e vagheggiata in un ritorno impossibile, che potrebbe davvero farlo precipitare in un baratro senza ritorno. Non a caso, “baratro sconosciuto” è posto a fine verso, dove è più facile per il lettore prefigurarsi e visualizzare il precipizio che avrebbe potuto portare il poeta, se non si fosse trattato di un incubo, in uno “straziante volo” a “gridare il nome di sua madre”, unico appiglio al suo tentativo di salvezza. Per fortuna, non si è avverato il sogno. L’ultimo verso è per Gjeke la fuoriuscita dall’incubo, ma attraverso “una finestra rotta”. Altra splendida, anche se amara metafora, di una realtà che non ha risparmiato al poeta il frantumarsi dei sogni e delle illusioni con un passaggio pericolosissimo di vetri in frantumi tra il dentro/fuori del suo corpo/anima e, quindi, della sua stessa vita. 
Un presagio che, in realtà, non ha lasciato scampo al dolore. 

E ecco una poesia straziante di Abdullà Goran: ha accompagnato le eroine curde nella loro strenua lotta contro l’ISIS, in favore dell’Europa, oggi forse dimentica del sacrificio delle loro giovani vite. Per non dimenticare. Per regalarci ancora un filo di speranza. 
… Io vado, madre.
Se non torno,
sarò fiore di questa montagna,
frammento di terra per il mondo
più grande di questo.
Io vado, madre.
Se non torno,
il corpo esploderà là dove si tortura
e lo spirito flagellerà,
come l’uragano, tutte le porte.
Io vado, madre.
Se non torno,
la mia anima sarà parola
per tutti i poeti.
(Abdullà Goran)

Anche in questi versi l’amore protettivo e oblativo delle madri diventa forza e coraggio per i figli, capaci di affrontare la violenza delle torture e della guerra perché si sentono protetti dal loro amore, dalla loro presenza spirituale. Un filo resistentissimo a vincere persino la paura e la stessa morte. Il poeta curdo Abdullà Goran è il cantore di tanto amore e tanto coraggio. E lo fa con metafore ardite e dolcissime ad addolcire anche il nostro cuore.

Io vado, madre. Se non torno. Due versi anaforici, martellanti che percuotono le nostre coscienze come rintocchi di campane, come suono cadenzato di orologio nella piazza del paese, come “uragano” che “flagellerà tutte le porte”.

Si tratta di un canto che non può morire. Come la speranza. Che non abbandona mai una madre in attesa del ritorno del figlio. Parole che lasciano dietro di sé quale scia luminosa i poeti. Soprattutto quando i poeti parlano delle loro Madri d’Autunno. Della loro Terra di gelo, arrossata, dissacrata e svenduta. Delle Parole sacre ed eterne per salvarla. Versi dedicati, dunque, non solo alla Madre, ma anche alla Terra, e alla stessa Poesia. Gjeke, Vincenzo, Abdullà parlano del dolore per la perdita o per la lontananza, trovando alla fine motivo di luce e di conforto proprio nel vuoto avvertito dentro perché i poeti “servono”, come qualche critico ha affermato, soprattutto a colmare i vuoti che la vita ci scava nell’anima in vari momenti del nostro percorso esistenziale. E, dunque, alla fine, è sempre la poesia a farsi consolazione e luce: 

Dov’ero la scorsa notte? si chiede Gjeke nel titolo di una poesia che si accende di metafore e di amore per tutto ciò che è vita. E la risposta negli ultimi due impagabili versi è:

Dove le poesie cozzano contro il cielo/ Dove il poeta accende le parole.

Grazie, Gjeke, per avercelo insegnato con la grandezza della tua Poesia, con la semplicità, umile e vera, della tua Persona.

Poi, ecco il terzo figlio poeta venirci incontro con brevi versi dedicati ad una Madre molto speciale, unica, irraggiungibile nel suo ideale di realtà/irrealtà, spesso filtrato tra rami ombrosi e solitari di bellezza e nobiltà.

Parlo di Giovanni Gastel, stupendo amico di carta, parole, immagini, sensibilità artistica e umana oltre ogni dire. Fotografo di fama internazionale, poeta, scrittore. Artista a tutto tondo.

Madre che hai protetto le mie fragilità
con nobiltà da giardiniere
torna e convincimi
che il dopo sarà reale.
Che lascerò la strada principale
e libero da convenzioni sociali e religiose
salirò ad un’altezza superiore
e sarò di nuovo a casa.
(Castellaro 2015)
           Giovanni Gastel

Madre che hai protetto la mia fragilità è l’emblematico verso iniziale di una poesia senza titolo come tutte le poesie di questo poeta, che ama raccontarsi senza pudori e ama narrare, nella essenzialità del linguaggio poetico, il suo essere dimidiato sempre tra realtà e sogno, tra verità e mistificazione, tra appartenenza a una famiglia che ha luminose e secolari radici storiche e disancoraggio da tutto ciò che è e ciò che deve rappresentare sulla scena di un Teatro che s’illumina di Bellezza e di Apparenza.
Egli, pertanto, in rapidi dialoghi/soliloqui racconta spesso, come in questa poesia, di una Mamma che ha difeso coraggiosamente la sua infanzia da ogni impatto crudele con la realtà difficile e violenta contro il loro mondo ovattato, in un parco immenso, dove il silenzio pacificava il giorno. L’amara realtà era fuori dal grande giardino di verde d’alberi e di prati ad un passo dal lago. Ed era una realtà destabilizzante e devastante in quegli anni della sua infanzia dorata e della sua adolescenza incantata.

Fu una strategia vincente quella di preservarlo da ogni terribile verità negli oscuri anni Settanta-Ottanta del secolo scorso?

La risposta che il poeta ci offre è legata ai versi seguenti, quale invocazione alla Custode di ogni sua fragilità: con nobiltà da giardiniere/ torna e convincimi/ che il dopo sarà reale”.

Dunque, Giovanni Gastel sentì pesantemente precipitare la realtà esterna sulle sue fragilità così strenuamente difese, non appena si trovò fuori dal suo Hortus conclusus, vissuto in tutta la sua innocente irrealtà. La sua invocazione continua come preghiera che sale verso l’alto. Convincimi, chiede alla madre perduta ormai alla fisicità, ma fortemente ancorata nel suo cuore, Che lascerò la strada principale/ e libero da convenzioni sociali e religiose/ salirò ad un’altezza superiore.

È l’anelito della sua anima a scoprire una libertà mai provata, chiusa come era stata per anni nella prigione di regole, cui bisognava obbedire, e che non avevano niente di vero fuori da quel mondo circoscritto. Bisognava adeguarsi a convenzioni sociali e a dogmi religiosi, che il suo spirito creativo, ribelle e prigioniero mal sopportava, allontanandolo certamente dalla cruda realtà che i suoi coetanei vivevano fuori. Solo dopo, solo quando la libertà diventa quel Canto che colma il vuoto di ogni assenza e di ogni verità, solo allora il poeta sente che avrà ritrovato il sentiero fiorito di parole e di luce… che la poesia gli offre come àncora di salvezza contro le brutture del mondo che lo vedono estraneo e solitario. E solo allora Giovanni, in un’ascesa verticale, sentirà il coraggio di vincere le sue fragilità con un grido liberatorio e rasserenato, nella scoperta di un Dio che gli vive dentro e che, paziente, lo attende per accoglierlo nell’unica Verità assoluta del suo Amore immenso.

Qui tutto questo è appena intuito dal lettore assiduo che conosce la vasta produzione poetica di Gastel, ma è spesso raccontato dal poeta nelle poesie di questi ultimi anni, in cui sempre più si avverte la sua ansia di scoprirsi nelle braccia amorevoli di quel Dio che “atterra e suscita, che affanna e che consola” (Manzoni).

In questa scarna ma profondissima poesia, allora, Giovanni Gastel sente il bisogno di confidare a Lei, amatissima Madre, alle sue ali di Angelo protettivo e salvifico, la sua speranza di un felice ritorno: E sarò di nuovo a casa.

Dove la realtà, bellissima e luminosa, avrà vinto ogni finzione nella suprema saggezza e bontà di Dio.
A restituirgli Amore.

Ma desidero concludere con una pagina bellissima che un altro figlio attore, regista e poeta, mio amico carissimo dal tempo immemorabile della sua adolescenza e della mia giovinezza, ha dedicato proprio oggi (11/9/2020) a sua Madre ultranovantenne, che vive ormai in terra straniera, ma che come Donna, Insegnante e Madre - “Tonetta” semplicemente il suo nome - ha donato a tantissimi di noi, di più generazioni, tanto amore con le sue mani e il suo sorriso affettuoso, ironico, complice, ancora oggi sempre in volo verso gli altri…

Le madri d’autunno. Salvifiche sempre. Con il loro amore intatto. Oblativo. Eterno.

Le mani di mia madre.

Se le tue mani potessero raccontare la storia di tutto quello che hanno sfiorato, accarezzato, salutato per un "a presto!" come per l'addio. Se potessero raccontare quante mani hanno stretto con sincerità e amore, quante preghiere attraverso quelle mani sempre pronte a unirsi per l'altro, per i figli, preghiere non sempre ascoltate. Mani tese verso il cielo e verso chi ha avuto bisogno di aiuto, di una carezza, di un conforto come un diniego mai per punire, mai per giudicare, ma per salvare. Mani forti, mani leggere, mani dure, mani fragili, mani callose di chi ha lavorato sempre, mani che quando era necessario farsi sentire non hanno esitato, mani che come insegnante hanno indicato la strada all'allievo e placato, rassicurato, bloccato quei genitori smarriti. Mani di madre, di moglie non rispettata, di donna umiliata, mani che hanno lavato di tutto, anche il lutto, mani di figlia della guerra, della povertà, dell'umiltà vera, mani che non hanno mai chiesto nulla se non la semplicità come scelta di vita. Mani che hanno sofferto il freddo come il dolore, mani che hanno asciugato lacrime e non solo le tue. Mani capaci di cucire, di creare, mani che ci hanno riscaldato, che ci hanno nutrito, mani ferite, mani generose, mani mai violente, mani che hanno coperto e lavato la dignità di un anziano solo e abbandonato. Mani che hanno lavato bambini poveri, mani che hanno voluto servire il tuo Dio attraverso un disabile per offire la tua incrollabile fede. Mani che hanno scritto e che scrivono ancora, mani avvizzite che seguono ancora il rigo senza tremare, tra i tanti libri che ti fanno ancora compagnia. Grazie, mamma, per queste tue mani che ci hanno protetto, oggi avrebbero diritto a tante cose belle, ma si accontentano anche di un maquillage spiritoso e allegro, proprio come tu sei, nella tua saggezza di donna nonna madre e maestra di vita, solare, splendi, ma di luce propria. Nonostante i tuoi anni, con un sorriso ancora tendi la stanca mano a sconosciuti, in un paese dal tuo lontano. Mani che hanno accarezzato figli e nipoti, amici e parenti, gente che ancora ricorda quelle mani che hanno toccato tante storie, tante. E allora mi piace immaginare che quelle mani che hanno ricevuto qualcosa, che hanno avuto la fortuna di conoscere la bontà delle tue mute carezze, unite e strette attorno al ricordo, ti raggiungano lì, dove ogni giorno attendi, nella tua infinita preghiera, che il giorno lasci il passo alla notte nel silenzio e nella pace, senza disturbo, in silenzio. Mani mai vuote, perché colme di un amore limpido, stretto in un pugno. Mani sporche di terra, colorate di sogni lontani.

                                             Mimmo Mancini

E non servono commenti. Sentiamo solo una intensa, tenerissima commozione. Grazie, Tonetta. Grazie, Mimmo.


giovedì 3 settembre 2020

E venne settembre (2020)

 ... e venne settembre (2020)

E venne il vento di settembre

e mi scoprì paura

mani di ruvida corda

passi di pietra incatenati

a scogli di mare scuro

catramato immobile di sale

Mi scompigliò i grilli dei capelli

Fuggirono pensieri su velieri

in secca e senza vele

Venne settembre e piansi

- occhi senza lacrime -

e sciolse ogni dolore nella sera

Accese un lampione di luna

- cielo in frantumi

stelle addormentate

sul filo del ricordo dimenticato:

ottobre di rose e di spine

E fui racconto di gloria appena cominciato

e già spezzato a metà di una notte rossovino

e scale precipitate

abisso di ogni inferno

mai abitato -

Lembi di sole ha settembre

in dono oltre il vento

su lacrime già piante

- prodigio che allaga il cuore

i primi passi a volo di gabbiano -

mare mare mare mare mare

nella mia casa sorriso di foglie

- oceano attraversato -

settembre sul tetto del cielo

     luna immensa luna

impazzita di stupore negli occhi

("Rondine" festosa di ritorno

con passi di danza... di me)

 Sì, è giunto anche per me settembre due giorni fa, con folate di vento e un senso di sperdimento e di attesa. Del già vissuto e di un inizio da vivere. Sempre così da quando le vacanze hanno chiuso i battenti del mare o dei monti, dei laghi e delle colline per riaprire quelli della scuola e di tante altre attività lavorative. Anche se sono in pensione da decenni, non ho mai smesso di lavorare. Soprattutto di scrivere, mia incontenibile e incontrollabile passione.

La scrittura mi è quotidiana compagna da quando imparai, bambina maldestra e piena di paure, a penetrare nel mistero di vocali e consonanti, suoni e significati delle parole. La parola riempì il mio mondo, ricco di nuvole e sogni. Da allora non ho smesso più. Le nuvole catturano i miei occhi per farmi scoprire tutto l’azzurro oltre. I sogni permettono allo sguardo dell’anima di innamorarsi di tutti gli orizzonti possibili e di intraprendere lunghi viaggi per attraversare ogni altro e “altrove da me” senza mai perdere la strada del ritorno alle voci della mente e ai richiami del cuore.

Dunque, ieri il vento di settembre mi ha incontrato a metà strada tra la paura di osare e il coraggio di tentare. Dopo il franare delle ossa non è stato facile snidare la paura, ancora oggi tarlo invisibile che scava notturne gallerie e di giorno si manifesta con nuovi buchi nel legno antico e polvere di sabbia e segatura a ostacolare passi e stampelle (e se inciampo? E se scivolano? E se mi schianto di nuovo al suolo senza più scampo? I miracoli non sono a ripetizione né a comando. Accadono quando accadono). La Paura mi blocca. “ Ti basta poter camminare e fare attenzione a dove metti piedi e stampelle. Ogni fessura può farti inciampare. Ogni buca cadere, ogni goccia farti scivolare”. E io le do ascolto. Le do ragione. Cammino guardando il pavimento e mi dimentico del cielo, come mi è stato insegnato. Mi basta, così, contare passi che credevo non dovessero più appartenermi. Ogni giorno qualche passo in più. Penso ad Alex Zanardi, al suo coraggio e alla sua determinazione, alla sua impresa di vivere, nonostante tutto. E vado avanti… altri dieci passi… altri venti… trenta e ho il fiato corto e un dolore sempre più forte alle gambe. Al ginocchio inchiodato e placcato. Al femore ricostruito. Ai due arti ricuciti dentro e fuori. Ossa e muscoli. Nervi e arterie. Pelle e Vene. La carta geografica del mio corpo martoriato. “Ce la devo fare”. Il mio mantra dal 20 ottobre 2019. E Centri ospedalieri per gli interventi (due difficilissimi a distanza di cinque giorni e con più mani espertissime). E Centro di igienizzazione per sopravvivere (tre mesi di immobilità quasi assoluta e piaghe da decubito e ozonoterapia e mani solerte ad alleviare atroci dolori fra mille allergie e una sola speranza: ritornare dagl’inferi). E Centri di riabilitazione per rinascere uno-due (isolamento totale causa coronavirus, fisioterapia mattina e pomeriggio, mascherine e scafandri di angeli tutelari. Sedia a rotelle, girello alto sotto-ascellare, girello basso, stampelle: tutte le stazioni della via crucis, vissute “con molta molta molta cautela” per non franare ancora).

Giorno dopo giorno, notte dopo notte. Poesia dopo poesia.  Sul cellulare. Per vincere buio e paura. Per bloccare il tempo del dolore. Per lasciarlo scivolare nella clessidra argentata a contenere un mare verde smeraldo e sabbia rosa che, invece di precipitare come è normale che sia, sale a riportarmi indietro nel tempo (dono di mia figlia, la più giovane) perché ogni giorno sia un giorno nuovo: a salutare il mio primo vagito, la mai spenta giovinezza del cuore.

Sette mesi di clausura forzata con oltre duecentodieci poesie scritte di notte per non morire. E tre mesi e mezzo a casa. Nel tentativo di dimenticare tra braccia d’amore a lungo deserte per il covid 19 che non perdona...

E venne settembre. Con scompigli di nuvole improvvise e di tempeste rapide come il respiro, devastanti come gli uragani.

Giunto è settembre con una nuova speranza sulla mai sconfitta paura. Mia figlia Raffaella si è alleata con il vento di questo mese (tutto fuori la spenta stagione/tutto dentro la nuova stagione) e mi ha spinto a osare: “dai, il vento ti farà mettere le ali. Le gambe ti reggeranno e poi riuscirai ad andare da sola. Prendi la sedia. Lascia le stampelle e metti i primi passi come fanno i bambini lasciati dalla mamma presso il muro, felici di raggiungerla al suo richiamo. Dai, non aver paura. Dai, ci sono io qui. Dai, allontana la sedia e raggiungila! Allarga le mani e i piedi per sentirti in equilibrio come fanno i funamboli, che a te piacciono tanto perché camminano tra le nuvole”.

                                                          “Vaiiiii!”.

Ed io, con un tremore da non potersi dire, ho lasciato le verdi stampelle, ho spinto la sedia blu avanti per quanto possibile, ho fatto delle braccia ali e delle gambe remi e, barcollando, ubriaca di paura bevuta a litri, ho mosso i primi passi senza cadere. Esplosione di lacrime di gioia tra le braccia di mia figlia ad accogliermi tremante, mentre filmava la mia commozione, la mia vittoria, la mia gratitudine al suo coraggio/vento impetuoso più del vento di settembre. Ha inviato ai miei figli “romani” il video della temeraria impresa e subito la magia della videochiamata ha mescolato lacrime e incredulità. Daniela, a causa del mio svolazzante vestito nero e bianco, ha visto una rondine spiccare il volo di ritorno verso i Paesi ancora caldi di sole. Io ho visto il mare inondare la casa e farsi vela fino a forare il tetto e confondersi con la luna piena tra gli alberi del giardino, illuminando a giorno lo stupore dei miei occhi, le mie mani in preghiera, la mia anima che già trasformava le emozioni intense in Poesia.

E questa notte ho ripreso il cellulare e ho scritto i versi del dolore dischiuso alla gioia. Ancora un miracolo vissuto da raccontare…

 Che sia un buon settembre per tutti. Tempo di inizio, rigenerazione, rinnovate attese, ritrovati sogni, riaccese speranze. Oltre ogni sperdimento. Oltre ogni paura…