venerdì 11 settembre 2020

11 settembre (2020): una data che ancora mi sconvolge

19 anni fa la tragedia delle Torri gemelle. Non si può dimenticare. Gli aerei kamikaze ad attraversarle, esplosioni di fuoco, crolli, urla, pianti, disperazione, corpi di uomini disperati in caduta libera, caos, confusione, fughe di ipotetica salvezza. E noi a guardare la TV tra orrore e tristezza, non capendo il perché.

A distanza di circa vent’anni, ancora un’alba di ansia, di angoscioso ricordo, di lacrime mai del tutto ingoiate. L’11 settembre ha per me sapore di perdizione, sperdimento, agonia di persone perdute alla mia fisicità, di cose disperse e mai più ritrovate. Tutto ciò che passa e lascia un dolore. Mi torna alla mente più bruciante che mai la perdita delle nostre “madri d’autunno”, di cui parlai un anno fa. Voglio riproporre quelle pagine con qualche variante, in tempo di altre paure, altre disperazioni, altra confusione. Di mai spento dolore.

Le mamme d’autunno. Ricalcano i colori caldi che si vanno spegnendo della terza stagione. Sono come i frutti autunnali, ricchi di doni che bisogna avere occhi e cuore per scoprire: le melagrane, per esempio, con tutta la maternità riposta in quei chicchi di rosso dolore e di infinito amore, protetti da una buccia spessa e dura che si spacca prima che sia facile aprirla e scoprire una nuova protezione: le membrane interne simili a veli di lacrime e dolcezza per ogni riparo dai pesanti colpi della vita. Oppure sono grappoli d’uva dorata e ottobrina che espongono la loro spettacolare maternità tutta offerta allo sguardo e alle mani di chi si accinge alla raccolta per farne mosto dolcissimo e vino forte e corposo a riscaldare le sere d’inverno che verranno. Alla mensa con gli amici. E c’è una maternità più oscura e nascosta, ma ricca di morbidezza antica: la castagna tutta chiusa nel suo riccio pungente a difesa di un’anima ancora candida e bambina a ricordarci una madre che conosce i mali del mondo e difende strenuamente la morbidezza della sua maternità ritornata ai tempi dell’infanzia e dell’attesa di mani premurose a salvarla da ogni caduta. E che dire delle olive, brune ampolle piene di olio lenitivo per il palato, la pelle, lo spirito? L’olio che è oro liquido per la nostra tavola; alimento di lampade votive nei bicchieri; soccorso estremo di malati e moribondi; viatico per innalzarsi al Cielo.

Le madri d’autunno sono le mamme distanti. Quelle che hanno brevi voli come le foglie nel loro ultimo tramonto dorato fino ad accartocciarsi, prima che il buio le assalga, e confondersi con la terra: Madre di tutte le madri.

Le madri d’autunno sono solitarie e tristi. Sono pesanti di dolori e d’affanni. Sono colme di lacrime soffocate e di carezze mai più date e mai più ricevute perché un pudore strano impedisce agli adulti e ai vecchi di abbandonarsi a una carezza desiderata nel cuore, ma trattenuta tra le dita.

Sono le madri che rimpiccioliscono man mano che il tempo passa e vince il loro vigore e turgore. Le mamme da tempo lasciate nella loro casa da passi di figli che hanno urgenza di andare per realizzarsi nella vita secondo scelte volute o subìte.

Oppure sono quelle che ci abbandonano perché non hanno più tempo per aspettarci o seguirci. Devono andare. Sono le madri dell’assenza e del vuoto, scavato nell’anima di chi resta. Sono le madri rimpiante e riscoperte sempre vive nel cuore.

Sono inno di nostalgia e pianto.

Sono farfalle stanche e lente nell’ultimo volo tra le ombre cupe della sera e il buio della notte fino alla… soglia della prima alba, come meravigliosamente scrive in una sua poesia , dedicata appunto a sua madre, Gjeke Marinaj. 

Solo i figli poeti sanno scoprirla attraverso la luce che filtra tra i rami della loro mai spenta poesia in un intreccio di parole tra mani cuore anima…

Ma ecco cosa scrive di sua madre il primo figlio poeta: Vincenzo Mastropirro. 

Se vorrai 
Se vorrai, posso essere tuo figlio sempre. 
Il bambino che rompeva gli occhiali, 
il figlio che ha cambiato i racconti del tempo, 
quello che piangeva sulle pagine a quadretti, 
quello che amava il gioco per il gioco. 
Posso carezzarti come solo un figlio fa 
e ora, che sei diventata esile e stanca, 
posso dirti che sei più bella di prima. 
La mia immagine è il tuo volto scavato 
come l'ultimo tratto dell'arcobaleno 
che si spegne nel mare degli assoli. 
Posso essere tuo figlio se mi abbraccerai 
con le forze residue delle tue braccia. 
Fallo e ti lascerò andare senza piangere. 
vm (Vincenzo Mastropirro) 

Vincenzo Mastropirro, amico carissimo, poeta soprattutto dialettale, ottimo musicista e compositore, docente, ha scritto questa intensa, tenerissima poesia, il giorno prima, appena qualche settimana fa, che sua madre si spegnesse “nel mare degli assoli”.

La pubblicò su fb come ultimo canto per la sua amatissima madre. E inaspettatamente in italiano. Inaspettatamente perché Vincenzo ha capovolto le regole, come solo un artista sa e può fare, in barba a tutte le teorie di molti studiosi di dialettologia, che vogliono la lingua materna la sola visceralmente usata nei momenti più aspri o più esaltanti della vita. Il dialetto, voce dell’anima, che parla la lingua del corpo in maniera forte, materica, vera, ogni volta che siamo noi senza orpelli grammaticali e senza costruzioni sintattiche anche della nostra personalità di status.

E, invece, ecco che qui Vincenzo scopre che la sua voce più appassionata, a poche ore dal distacco, non è quella che abitualmente usava per comunicare con sua madre, che si esprimeva sempre in un dialetto colorito, ironico, sentenzioso, vibrante di tutti gli accenti antichi e mai perduti.

Per la prima volta forse, con lei ha sentito l’urgenza di rivolgerle parole d’amore con una lingua quasi a lei sconosciuta, ma altamente poetica perché sicuramente più musicale e dolce del duro dialetto ruvese. Sì, Vincenzo ha sentito che ora l’omaggio più bello che potesse fare a sua madre “esile e stanca” rispetto alla donna forte e coraggiosa, battagliera e volitiva con cui era solito battibeccare in “duetti dispettosi” d’amore, era un ricamo di note tenerissime, quasi ad accoglierla nel nido delle sue braccia per aiutarla a volare via, in un sommesso suono di flauto dolce, suo strumento preferito e amato da tenera età. L’unico che riusciva a tenere “imbrigliato” quel ragazzino scavezzacollo che amava poco la scuola e i suoi quaderni a quadretti, quasi a farci visualizzare una prigione di reticoli e di numeri a spegnere la sua voglia di imparare. Il ragazzino, che amava “il gioco per il gioco”, tornando a casa con gli “occhiali rotti” e i “racconti del tempo” ancora da inventare… 

Come avrebbe potuto dire Vincenzo in dialetto a sua madre “fragile e bella”: La mia immagine è il tuo volto scavato/ come l'ultimo tratto dell'arcobaleno/che si spegne nel mare degli assoli?. Tre versi di una musicalità e bellezza ineffabili! Come le avrebbe potuto dire con infinito amore, in un sussurro di pudore e di tormento, Posso essere tuo figlio se mi abbraccerai/ con le forze residue delle tue braccia, in dialetto senza che piangessero in due privi, entrambi, della possibilità di salvezza da quelle lacrime come pioggia devastante sul loro reciproco addio e comune dolore? 
E, invece, l’italiano, tenero e melodioso, gli ha permesso di abbracciarla piano perché sua madre si addormentasse serena, cullata da quel flauto di dolcezza mentre Vincenzo in un grido muto le cantava, ninnandola: Fallo e ti lascerò andare senza piangere.

Ed ora siamo noi a versare lacrime di profonda commozione per tanta tenerezza, per tanto infinito silenzioso amore… 
Ed ecco il Canto nostalgico e “disperato” di un altro figlio poeta, che ha dovuto suo malgrado lasciare sua madre con passi di fuga verso una ipotesi di salvezza da una Patria, diventata improvvisamente ostile e nemica ai suoi sogni e ai suoi ideali di libertà e democrazia.
ALLA MADRE
La nostalgia di te
Dalla nostalgia di te sono devastato.
Rimpianto vasto come il mare
Sono gabbiano con ali spezzate
Se non odi che tuo figlio è morto
cercami sulla soglia della prima alba
Ma se a un flauto io dovessi somigliare
allora per amor mio, madre - anima mia,
abbandona meravigliose visioni e lacrime febbrili
Perché ultimamente sono angosciato anche nei miei sogni
Alla ricerca di te, perdo la strada in qualche
baratro sconosciuto
nel mio straziante volo grido il tuo nome
e l’incubo mi lascia attraversando una finestra rotta.
Gjeke Marinaj

Un Canto straziato di nostalgia racchiudono questi versi di Gjeke Marinaj, altro meraviglioso amico di tempi più brevi, ma di sintonie mente/cuore con lunghe ramificazioni fiorite nell’anima. Gjeke, americano di adozione ma di origini albanesi, è poeta, scrittore, docente universitario, ideatore della bellissima teoria del “Protonismo”, che valorizza ogni essere umano in funzione di un mondo migliore all’insegna della solidarietà e della pace. Teoria/disciplina socio-filosofico-filantropica che Gjeke va diffondendo nel mondo con lunghi estenuanti viaggi in tutti i Continenti e per la quale sta ricevendo meritatissimi premi e riconoscimenti a livello mondiale.

A lui va il mio affettuoso apprezzamento e abbraccio.

Ma, tornando alla sua poesia, ritendo che il suo Canto alla Madre sia “del dopo” e non “del prima”, come è avvenuto per Vincenzo Mastropirro, di cui ho parlato ieri con tanta commozione. 
Qui il poeta è “devastato” da un “rimpianto vasto come il mare”, che ha dovuto attraversare con le sue ali “spezzate di gabbiano” e non poteva essere diversamente in un reale attraversamento per raggiungere, tra mille tappe e innumerevoli difficoltà, la terra dove ogni bandiera del mondo viene issata: l’America californiana, fino al Texas, o Stato della “stella solitaria”. E a noi sembra di seguirlo nel suo interminabile viaggio di ansia e di paura, ma anche di indomito coraggio nella determinazione ad ANDARE incontro all’ignoto, con dentro l’anima, trafitta da mille pugnali, la madre, la patria, entrambe abbandonate fisicamente, e una tenue luce di speranza.

Ma un dubbio consolatorio coglie la grande sensibilità del poeta: Se non odi che tuo figlio è morto/ cercami sulla soglia della prima alba.

Bellissimi versi che, pur nati in terre e tempi diversi, ma in situazioni identiche di pericolo e di morte, somigliano, nel senso della precarietà esistenziale e del salvifico, indissolubile legame tra madre e figlio e tra parola poetica e speranza nel futuro (cercami sulla soglia della prima alba), ai versi del poeta curdo Abdulla Goran: Io vado, madre./ Se non torno…/ la mia anima sarà parola/ per tutti i poeti.

Per Gjeke il dubbio consolatorio iniziale è più complesso: riuscirà a raggiungere sano e salvo l’altra riva, sulla soglia della prima alba? Metafora bellissima della luce che rischiara le tenebre della notte e, quindi, della fuga notturna per evitare gli inganni del pieno giorno. Ed è là che sua madre dovrà avere il coraggio di cercarlo ancora. In entrambi i casi, la Poesia potrebbe salvare il futuro della nostra Umanità oggi alla deriva.

Ma, continua Gjeke, in un disperato presentimento (che per sua e nostra fortuna non si avvera), se io dovessi somigliare ad un flauto, ossia se la sua voce dovesse giungerla flebile come un suono dolente di flauto (e anche in questa poesia, geograficamente lontana mille miglia da quella di Vincenzo Mastropirro, ritroviamo, per altre vie mai percorse e non in termini di fuga, casomai di continuo ritorno, ancora questo strumento musicale dolcissimo), allora alla povera madre non resterà che abbandonare meravigliose visioni e lacrime febbrili, perché un sogno/incubo ha reso il figlio presago di un “qualche/ baratro sconosciuto”, mentre cerca ancora sua madre, con l’ansia di raggiungerla. E la Madre è, al di là dell’incubo stesso, anche la Patria abbandonata e vagheggiata in un ritorno impossibile, che potrebbe davvero farlo precipitare in un baratro senza ritorno. Non a caso, “baratro sconosciuto” è posto a fine verso, dove è più facile per il lettore prefigurarsi e visualizzare il precipizio che avrebbe potuto portare il poeta, se non si fosse trattato di un incubo, in uno “straziante volo” a “gridare il nome di sua madre”, unico appiglio al suo tentativo di salvezza. Per fortuna, non si è avverato il sogno. L’ultimo verso è per Gjeke la fuoriuscita dall’incubo, ma attraverso “una finestra rotta”. Altra splendida, anche se amara metafora, di una realtà che non ha risparmiato al poeta il frantumarsi dei sogni e delle illusioni con un passaggio pericolosissimo di vetri in frantumi tra il dentro/fuori del suo corpo/anima e, quindi, della sua stessa vita. 
Un presagio che, in realtà, non ha lasciato scampo al dolore. 

E ecco una poesia straziante di Abdullà Goran: ha accompagnato le eroine curde nella loro strenua lotta contro l’ISIS, in favore dell’Europa, oggi forse dimentica del sacrificio delle loro giovani vite. Per non dimenticare. Per regalarci ancora un filo di speranza. 
… Io vado, madre.
Se non torno,
sarò fiore di questa montagna,
frammento di terra per il mondo
più grande di questo.
Io vado, madre.
Se non torno,
il corpo esploderà là dove si tortura
e lo spirito flagellerà,
come l’uragano, tutte le porte.
Io vado, madre.
Se non torno,
la mia anima sarà parola
per tutti i poeti.
(Abdullà Goran)

Anche in questi versi l’amore protettivo e oblativo delle madri diventa forza e coraggio per i figli, capaci di affrontare la violenza delle torture e della guerra perché si sentono protetti dal loro amore, dalla loro presenza spirituale. Un filo resistentissimo a vincere persino la paura e la stessa morte. Il poeta curdo Abdullà Goran è il cantore di tanto amore e tanto coraggio. E lo fa con metafore ardite e dolcissime ad addolcire anche il nostro cuore.

Io vado, madre. Se non torno. Due versi anaforici, martellanti che percuotono le nostre coscienze come rintocchi di campane, come suono cadenzato di orologio nella piazza del paese, come “uragano” che “flagellerà tutte le porte”.

Si tratta di un canto che non può morire. Come la speranza. Che non abbandona mai una madre in attesa del ritorno del figlio. Parole che lasciano dietro di sé quale scia luminosa i poeti. Soprattutto quando i poeti parlano delle loro Madri d’Autunno. Della loro Terra di gelo, arrossata, dissacrata e svenduta. Delle Parole sacre ed eterne per salvarla. Versi dedicati, dunque, non solo alla Madre, ma anche alla Terra, e alla stessa Poesia. Gjeke, Vincenzo, Abdullà parlano del dolore per la perdita o per la lontananza, trovando alla fine motivo di luce e di conforto proprio nel vuoto avvertito dentro perché i poeti “servono”, come qualche critico ha affermato, soprattutto a colmare i vuoti che la vita ci scava nell’anima in vari momenti del nostro percorso esistenziale. E, dunque, alla fine, è sempre la poesia a farsi consolazione e luce: 

Dov’ero la scorsa notte? si chiede Gjeke nel titolo di una poesia che si accende di metafore e di amore per tutto ciò che è vita. E la risposta negli ultimi due impagabili versi è:

Dove le poesie cozzano contro il cielo/ Dove il poeta accende le parole.

Grazie, Gjeke, per avercelo insegnato con la grandezza della tua Poesia, con la semplicità, umile e vera, della tua Persona.

Poi, ecco il terzo figlio poeta venirci incontro con brevi versi dedicati ad una Madre molto speciale, unica, irraggiungibile nel suo ideale di realtà/irrealtà, spesso filtrato tra rami ombrosi e solitari di bellezza e nobiltà.

Parlo di Giovanni Gastel, stupendo amico di carta, parole, immagini, sensibilità artistica e umana oltre ogni dire. Fotografo di fama internazionale, poeta, scrittore. Artista a tutto tondo.

Madre che hai protetto le mie fragilità
con nobiltà da giardiniere
torna e convincimi
che il dopo sarà reale.
Che lascerò la strada principale
e libero da convenzioni sociali e religiose
salirò ad un’altezza superiore
e sarò di nuovo a casa.
(Castellaro 2015)
           Giovanni Gastel

Madre che hai protetto la mia fragilità è l’emblematico verso iniziale di una poesia senza titolo come tutte le poesie di questo poeta, che ama raccontarsi senza pudori e ama narrare, nella essenzialità del linguaggio poetico, il suo essere dimidiato sempre tra realtà e sogno, tra verità e mistificazione, tra appartenenza a una famiglia che ha luminose e secolari radici storiche e disancoraggio da tutto ciò che è e ciò che deve rappresentare sulla scena di un Teatro che s’illumina di Bellezza e di Apparenza.
Egli, pertanto, in rapidi dialoghi/soliloqui racconta spesso, come in questa poesia, di una Mamma che ha difeso coraggiosamente la sua infanzia da ogni impatto crudele con la realtà difficile e violenta contro il loro mondo ovattato, in un parco immenso, dove il silenzio pacificava il giorno. L’amara realtà era fuori dal grande giardino di verde d’alberi e di prati ad un passo dal lago. Ed era una realtà destabilizzante e devastante in quegli anni della sua infanzia dorata e della sua adolescenza incantata.

Fu una strategia vincente quella di preservarlo da ogni terribile verità negli oscuri anni Settanta-Ottanta del secolo scorso?

La risposta che il poeta ci offre è legata ai versi seguenti, quale invocazione alla Custode di ogni sua fragilità: con nobiltà da giardiniere/ torna e convincimi/ che il dopo sarà reale”.

Dunque, Giovanni Gastel sentì pesantemente precipitare la realtà esterna sulle sue fragilità così strenuamente difese, non appena si trovò fuori dal suo Hortus conclusus, vissuto in tutta la sua innocente irrealtà. La sua invocazione continua come preghiera che sale verso l’alto. Convincimi, chiede alla madre perduta ormai alla fisicità, ma fortemente ancorata nel suo cuore, Che lascerò la strada principale/ e libero da convenzioni sociali e religiose/ salirò ad un’altezza superiore.

È l’anelito della sua anima a scoprire una libertà mai provata, chiusa come era stata per anni nella prigione di regole, cui bisognava obbedire, e che non avevano niente di vero fuori da quel mondo circoscritto. Bisognava adeguarsi a convenzioni sociali e a dogmi religiosi, che il suo spirito creativo, ribelle e prigioniero mal sopportava, allontanandolo certamente dalla cruda realtà che i suoi coetanei vivevano fuori. Solo dopo, solo quando la libertà diventa quel Canto che colma il vuoto di ogni assenza e di ogni verità, solo allora il poeta sente che avrà ritrovato il sentiero fiorito di parole e di luce… che la poesia gli offre come àncora di salvezza contro le brutture del mondo che lo vedono estraneo e solitario. E solo allora Giovanni, in un’ascesa verticale, sentirà il coraggio di vincere le sue fragilità con un grido liberatorio e rasserenato, nella scoperta di un Dio che gli vive dentro e che, paziente, lo attende per accoglierlo nell’unica Verità assoluta del suo Amore immenso.

Qui tutto questo è appena intuito dal lettore assiduo che conosce la vasta produzione poetica di Gastel, ma è spesso raccontato dal poeta nelle poesie di questi ultimi anni, in cui sempre più si avverte la sua ansia di scoprirsi nelle braccia amorevoli di quel Dio che “atterra e suscita, che affanna e che consola” (Manzoni).

In questa scarna ma profondissima poesia, allora, Giovanni Gastel sente il bisogno di confidare a Lei, amatissima Madre, alle sue ali di Angelo protettivo e salvifico, la sua speranza di un felice ritorno: E sarò di nuovo a casa.

Dove la realtà, bellissima e luminosa, avrà vinto ogni finzione nella suprema saggezza e bontà di Dio.
A restituirgli Amore.

Ma desidero concludere con una pagina bellissima che un altro figlio attore, regista e poeta, mio amico carissimo dal tempo immemorabile della sua adolescenza e della mia giovinezza, ha dedicato proprio oggi (11/9/2020) a sua Madre ultranovantenne, che vive ormai in terra straniera, ma che come Donna, Insegnante e Madre - “Tonetta” semplicemente il suo nome - ha donato a tantissimi di noi, di più generazioni, tanto amore con le sue mani e il suo sorriso affettuoso, ironico, complice, ancora oggi sempre in volo verso gli altri…

Le madri d’autunno. Salvifiche sempre. Con il loro amore intatto. Oblativo. Eterno.

Le mani di mia madre.

Se le tue mani potessero raccontare la storia di tutto quello che hanno sfiorato, accarezzato, salutato per un "a presto!" come per l'addio. Se potessero raccontare quante mani hanno stretto con sincerità e amore, quante preghiere attraverso quelle mani sempre pronte a unirsi per l'altro, per i figli, preghiere non sempre ascoltate. Mani tese verso il cielo e verso chi ha avuto bisogno di aiuto, di una carezza, di un conforto come un diniego mai per punire, mai per giudicare, ma per salvare. Mani forti, mani leggere, mani dure, mani fragili, mani callose di chi ha lavorato sempre, mani che quando era necessario farsi sentire non hanno esitato, mani che come insegnante hanno indicato la strada all'allievo e placato, rassicurato, bloccato quei genitori smarriti. Mani di madre, di moglie non rispettata, di donna umiliata, mani che hanno lavato di tutto, anche il lutto, mani di figlia della guerra, della povertà, dell'umiltà vera, mani che non hanno mai chiesto nulla se non la semplicità come scelta di vita. Mani che hanno sofferto il freddo come il dolore, mani che hanno asciugato lacrime e non solo le tue. Mani capaci di cucire, di creare, mani che ci hanno riscaldato, che ci hanno nutrito, mani ferite, mani generose, mani mai violente, mani che hanno coperto e lavato la dignità di un anziano solo e abbandonato. Mani che hanno lavato bambini poveri, mani che hanno voluto servire il tuo Dio attraverso un disabile per offire la tua incrollabile fede. Mani che hanno scritto e che scrivono ancora, mani avvizzite che seguono ancora il rigo senza tremare, tra i tanti libri che ti fanno ancora compagnia. Grazie, mamma, per queste tue mani che ci hanno protetto, oggi avrebbero diritto a tante cose belle, ma si accontentano anche di un maquillage spiritoso e allegro, proprio come tu sei, nella tua saggezza di donna nonna madre e maestra di vita, solare, splendi, ma di luce propria. Nonostante i tuoi anni, con un sorriso ancora tendi la stanca mano a sconosciuti, in un paese dal tuo lontano. Mani che hanno accarezzato figli e nipoti, amici e parenti, gente che ancora ricorda quelle mani che hanno toccato tante storie, tante. E allora mi piace immaginare che quelle mani che hanno ricevuto qualcosa, che hanno avuto la fortuna di conoscere la bontà delle tue mute carezze, unite e strette attorno al ricordo, ti raggiungano lì, dove ogni giorno attendi, nella tua infinita preghiera, che il giorno lasci il passo alla notte nel silenzio e nella pace, senza disturbo, in silenzio. Mani mai vuote, perché colme di un amore limpido, stretto in un pugno. Mani sporche di terra, colorate di sogni lontani.

                                             Mimmo Mancini

E non servono commenti. Sentiamo solo una intensa, tenerissima commozione. Grazie, Tonetta. Grazie, Mimmo.


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