martedì 25 ottobre 2022

Martedì 25 ottobre 2022: i miracoli accadono, asta saperli riconoscere... (conclusione)

Tornando indietro nel tempo, tanti sono i prodigi che hanno costellato misteriosamente la mia vita. Ne ho parlato ampiamente, come già detto, nel mio romanzo Le piogge e i ciliegi. Nel terzo parlerò più dettagliatamente anche della esperienza di pre-morte, solo in parte qui raccontata. Ma una sintesi dei prodigi del passato sarebbe opportuno farla per alcuni motivi che, via via, scopriremo insieme. Penso, in primis, che ci diano un motivo in più per sperare in un mondo migliore che ci accoglierebbe, dopo questa vita, in un universo parallelo e forse reale. il condizionale è sempre d’obbligo in questi casi. Ma credere non può farci male. La mia carissima amica di una vita, la raffinata e sensibilissima poetessa Ada De Judicibus, per esempio, così mi scrive al riguardo: Angela, seguo con grande interesse il tuo blog. Rimango fedele al mio agnosticismo ma ti stimo (…) per la tua dolcezza, il tuo idealismo, per la tua pazienza e tenacia (…). Ho omesso qualcosa di molto bello che riguarda solo il nostro meraviglioso rapporto di sororale amicizia, ma le sue parole mi spingono a continuare. E, allora, ecco altri ricordi.

<C’era, tra le tante figure salvifiche presenti alla mia vita, San Francesco da Paola, a cui ero anche devota, essendo stata miracolata a poco più di un anno per una brutta infezione a un braccino che, pare, dovesse essere amputato il giorno stesso in cui sognai il santo che scendeva dal quadro, appeso nella camera da letto dei nonni, con cui abitavamo in quegli anni di guerra e con babbo al fronte, per toccarmelo col suo bastone in segno di guarigione. Non ci fu più l’intervento chirurgico programmato perché l’infezione era prodigiosamente sparita. Tutti in casa gridarono al miracolo anche perché io guardavo il santo del quadro e, facendo segno a lui e al mio braccino, balbettavo “Di’… Di’…”. Si dedusse che dicessi “Dio… Dio…”, ipotizzando che avessi fatto davvero quel sogno e avessi ricevuto un miracolo. Mamma promise a San Francesco che avrei seguito la sua processione fino alla maggiore età. Poi avrei deciso da sola. Ho partecipato a quella processione per tantissimi anni, anche dopo la maggiore età, perché era come un “appuntamento” con il miracolo, con qualcosa di misterioso che mi affascinava. E ciò si procrastinò fino a quando ci fu la mia prima rovinosa caduta, subito dopo aver festeggiato i miei cinquant’anni, con frattura sotto capitata del femore e ben tre interventi che già da allora condizionarono sempre più i miei giorni. (La cosa che ancora oggi mi sorprende è la semplicità di quella fede certa che non aveva dubbi nel gridare al miracolo senza averne conferma scientifica o di alcun genere. E il miracolo più grande e più vero era proprio quell’accettazione del prodigio divino senza se e senza ma… Era accaduto. Era l’accadimento. Era, c’era e c’era stato).

Oggi so, comunque, che è una condizione piuttosto innaturale la mia. Spesso evito di parlarne perché temo il giudizio affrettato degli altri, che ancora oggi in qualche modo mi condiziona: qualcosa non le funziona nel cervello… non ha tutte le rotelle a posto… ha qualche vite spanata che gira a vuoto nella testa… ma prenditene sonno che è meglio… ma vedi se vai a farti benedire… so’ tutte chiacchiere… ma come fai a credere a queste baggianate, non sono degne di una donna intelligente… io credo solo a quel che vedo, il resto è tutta pura fantasia… bisogna usare la ragione, senza la ragione non si va da nessuna parte… semplificati la vita perché il tuo vero danno è proprio questo: non riesci ad essere in pace con te stessa… Più o meno così. Eppure io vivo così e sono in pace con me stessa e i miei pensieri, anche se alcune volte mi sento “diversa” e mi preoccupo, ma altre volte sento di essere fortunata perché è come se avessi occhi più grandi per afferrare altre realtà che pure sono, anche se invisibili ai più. In realtà, io non ho mai voluto precludermi la possibilità di credere o sperare che esistano, appunto, mondi altri che percepiamo soprattutto attraverso i sogni, ma non solo. Perché dovrei negare una verità che pure mi appartiene? Sarebbe come negare me a me stessa… Ed ecco un altro esempio, che mi sta a cuore:

Alcuni anni fa, eravamo a Roma in Castel Sant’Angelo per una mostra di quadri su “Fratello Sole e Sorella Luna”. Ad un tratto nel grande salone con grandi vetrate sul Tevere mi si avvicinò un signore a me del tutto sconosciuto e mi disse di chiamarsi Pacifico e che era stato colpito da lontano dalla mia aura molto luminosa. Rimasi sorpresa e impaurita già da quel nome strano che mi sembrò inventato, temendo fosse un ciarlatano in vena di attaccar bottone, ma lui con molta calma e semplicità continuò a parlarmi della mia vita, del dono della parola poetica che mi imponeva di scrivere per fare del bene agli altri e che avrei avuto ancora molti anni per compiere su questa terra la mia missione. L’ascoltavo incredula e affascinata. ‘Perché ha scelto me tra tante persone che ci sono in questo lunghissimo salone?’, mi chiedevo allibita. Poi dovetti arrendermi all’evidenza dei fatti. Lui sapeva di me senza conoscermi. Aveva indubbiamente facoltà straordinarie che fui costretta a riconoscergli. Mi salutò con molto affetto, incoraggiandomi a continuare per la strada intrapresa e a non sciupare la bellezza che era in me e fuori di me per poterla donare agli altri. Imperativo categorico perché Lassù ero molto amata. Non l’ho più rivisto. A volte mi chiedo se abbia solo sognato quell’incontro così misterioso, ma altrettanto vero. E ancora oggi non riesco a darmi una risposta. So che sono una persona mite che non farebbe del male a nessuno. È nella mia indole, non ho meriti. Ignoro, pertanto, se veramente ho dentro e fuori quella luce che Pacifico aveva scorto da lontano in me. Mi piacerebbe fosse vero. Ma non vedo perché io possa essere amata Lassù, con tutti i limiti che mi riconosco e gli errori commessi nella mia vita. Tantissimi. L’unica luce che forse mi contiene e da me si espande è quella meravigliosa della parola poetica. Mi piace crederlo. Devo ammettere che spesso avverto come se ci fosse, nella mente emozionata, un suggeritore che mi attraversa il cuore, prima che i pensieri di luce si facciano parole. Sempre meno belle, però, rispetto a quelle che mi vorticano dentro. Ed è sempre lo stesso suggeritore che mi parla in sogni profetici o premonitori, in intuizioni particolari che puntualmente si rivelano dati di fatto. Anche nell’antichità greco-latina il potere della poesia veniva indicato come potere di vaticinio. E il sogno o “visione” spesso era indice di conoscenza altra. E questo mi sgomenta e mi appaga. Sento che è per me forza e salvezza. E non so da dove provenga questa “grazia”, ammantata di prodigio, ma la sento in me. E, qualche volta, ne ho conferma attraverso le parole di chi con semplicità mi ama e non si sorprende.

Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte”, è Edgar Allan Poe a suggerirmelo, in un conforto di rami fioriti di mistero che non credevo potessero essere così semplici. Mi piace crederlo. Potrebbe essere una risposta alle tante scettiche o anche affettuose domande che mi rivolgono in silenzio i volti dei pochi che sanno di me e mi prendono teneramente in giro. Ma non possono mancare, ne sono consapevole, quelli che pensano di me che sono un’“esaltata” e basta. Comunque, devo ammettere non mi scalfiscono più i giudizi e pregiudizi di tanti. prima ero molto più vulnerabile, oggi mi rendono, forse, solo un po’ più cauta. La “follia”, del resto, non è una colpa. Forse una benedizione…

(“La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un fedele servo. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”, così mi conforta ancora una volta Albert Einstein).

Ma di quanto è accaduto dopo, in questi ultimi trent’anni della mia vita, con tanti altri prodigi vissuti dentro e fuori di me, avrò modo di parlare nel terzo volume de Le piogge e i ciliegi già in lavorazione, se ne avrò il tempo. Oppure anche in queste pagine se vorrete ascoltarmi, avendone anche il tempo, la curiosità. Per ora mi rimetto nelle mani della Vergine e del buon Dio fino alla Sua chiamata… Angela

 

sabato 22 ottobre 2022

Sabato 22 ottobre 2022: i miracoli accadono, basta saperli riconoscere... (continua)

Vorrei continuare a parlare dei miracoli che avvengono nella nostra vita e che il più delle volte non riconosciamo come tali per tantissimi motivi, tutti degni di rispetto, con qualche riserva che, se sarà il caso, andremo ad analizzare. E, intanto, sono contenta dei vostri commenti che vorrei qui riportare per un confronto “ragionato” che ci permetta, forse, di non saperci soli e spaventati di fronte a questi casi inverosimili che pure ci capita di vivere nostro malgrado, con segreto timore ma anche con profonda gratitudine versi quella “Entità Misteriosa” che tutto può. Almeno così credo. 

La mia carissima Roberta Lipparini scrive: mi hai messo i brividiAnna Mininno, sempre molto cara e presente: Incredibile… e, sì, che sa di miracolo (con un cuoricino rosso); Fra LlìIo, profondamente, ti credo e ti ringrazio (con mani in preghiera e rosso cuoricino); Angela Greco AnGreI miracoli accadono e dobbiamo tornare a credere in essi! Grazie (e cuoricino); la straordinaria Rita Bonetti Ritabù si è limitata ad un cuore infiocchettatoMaria Concetta Giorgi, con cui mi sorprendo sempre più in forte sintonia: Continui a scrivere di ciò che in altre forme ho provato anch’io… Intendo quella fede meravigliosaAngela Strippoli, sempre delicatamente vicina al mio cuore, mi conferma la sua presenza con un cuore rosso pulsante.  E per il momento mi fermo qui, facendo delle considerazioni che mi sembra possano accomunare un po’ tutte, Roberta, Anna, Angela G., Francesca, Rita, Maria Concetta, e ancora Angella S., se non in una adesione completa a questi misteriosi accadimenti, sicuramente con una forte suggestione ad ammettere con riserva o ad abbracciare in toto tali possibilità, di cui sentiremmo anche la necessità consolatoria nei momenti bui che, inevitabilmente, attraversiamo.  Ed io già mi sento in compagnia, soprattutto per quella “fede meravigliosa” che difficilmente possiamo affermare a cuor leggero perché non sempre è avvertita come tale dagli atei, dagli agnostici, dai razionalisti ad oltranza, dai materialisti, dagli scettici, e così via. E poi i tanti cuoricini mi confortano, mi danno vicinanza, amore, comprensione…

Altro discorso è il commento molto personale di Mario Sicolo, mio grande grande amico, che mi confessa una notevole apprensione (che ignoravo) per le mie condizioni disastrate: Eccome se li ricordo quei giorni, cara Lina. Furono giorni di trepidazione e dolore, e il pensiero che proprio non si staccava dalle tue condizioni di salute e gli occhi portati al cielo, che non so se fossero preghiere oppure no. Finché, dopo gli interventi, non arrivarono le videochiamate - sospiro di sollievo - per verificare quanto il tuo sorriso fosse sempre d’aurora e le tue parole aureolate di magia… Mio carissimo Mario, mi hai commosso sino alle lacrime con le tue parole così intime, affettuose, poetiche che, se non mi prendesse il timore di peccare di troppa autoreferenzialità, vorrei incorniciare ad una ad una tanto mi ricordano la sconfinata sensibilità poetica di un certo Apulo Scriba di preziosa vicinanza d’anima. Grazie, grazie, grazie! E a te affianco anche Mariateresa Bari che, con le sue profondissime parole, ogni volta, e questa volta ancora di più, mi conforta per totale consonanza di “sentire”: Siamo folli e “poverini” agli occhi degli scettici, ma niente di più bello può accadere a chi crede, nei momenti bui! Grazie, Angela per il tuo dono quotidiano! Un abbraccio ancora più forte (con significativi emoticon che sono luce e amore). Infine, Giulia Basile che mi segue con infinito affetto e grande stima tanto da spingermi ad omettere alcune sue parole iniziali al bellissimo commento che mi ha scritto sul blog e che è un formidabile invito a riflettere su quanto ci possa accadere di straordinario senza sentire in sé una piena accettazione, ma una sottile luminosa propensione ad accettarlo, a farlo nostro per la misteriosa vicinanza a chi abbiamo perso alla vista ma non agli occhi dell’anima sempre attenti a farsene dono nel sogni e nei ricordi vividissimi da sfiorare il vero:  Carissima, il tuo racconto rispecchia quello che tu sei per me(…). Rispetto quello che dici di aver provato e credo anch'io che, per tutti noi ci sia un qualche protettore che, all'improvviso e quando meno te l'aspetti, intervenga in qualche modo, direttamente o per interposta persona, per aiutarci e salvarci. E accade sempre in forme e modalità diverse, e ogni volta sconvolge le mie certezze, e ogni volta mi riporta alla necessità di una fede religiosa, che chiude i vuoti intorno a noi e mi riporta alla bambina di 8 anni, che ero, mentre accompagnavo ogni mattina mia nonna, piccola e curva, alla Messa mattutina (e poi correvo a Scuola leggera) come fossi stata il suo bastone, invece del contrario. L'ho persa quando di anni ne avevo 18, ma so e sento che qualche volta io e lei giochiamo a rimpiattino. Un abbraccio. Che meravigliosa emozione la conclusione altamente poetica che Giulia mi ha donato e che io dono a quanti mi leggono con costanza e affetto: “ma so e sento che qualche volta io e lei giochiamo a rimpiattino”. Quale testimonianza più vicina al mio cuore? E allora, “rincuorata” da questa “corrispondenza di amorosi sensi” riprendo il racconto dei prodigi di cui è costellata la mia, la nostra vita. E penso di non poter prescindere da quelli che mi hanno sempre stupita e salvata. Dunque, <Altri mesi di allettamento, di sofferenze inaudite, di fisioterapia. Altri angeli custodi a prendersi cura di me anche in altre strutture private di riabilitazione, fino al mio ritorno a casa. In piena pandemia. Il mio ritorno il 19 maggio, giorno in cui tanti mesi prima avevo rischiato di perdere la vita. E, se ottobre era il mese degli Angeli Custodi, maggio era il mese di Maria, a cui da bambina, con i nonni e mia sorella maggiore, affidate dai nostri genitori lontani alle loro cure, dedicavamo altarino, candele e preghiere e canti con tutto il vicinato a farci corona. Ma questa è tutta un’altra storia di devozione e incanto…

In verità, i miracoli hanno attraversato la mia vita sin dalla nascita. Dovrei scrivere un trattato. E sempre sono accaduti in modo tale da non poter pensare semplicemente al caso, ma a “segni” indiscutibili di una protezione particolare del Cielo, probabilmente perché sono nata, come ciascuno di noi, per una missione da compiere durante la nostra esistenza terrena, in base ai “talenti” che ci vengono elargiti dal buon Dio per un Suo disegno divino che a noi sfugge. A me e a tanti di noi, che ci ritroviamo in questa pagina, ha dato il dono meraviglioso della scrittura. Per giungere al cuore degli altri e farmi/ci testimone/i della Sua Esistenza, Grandezza, Bontà, Perfezione.  Non in termini filosofici, non in termini scientifici, ma semplicemente attraverso la poesia e il suo misterioso potere di addolcire i cuori. E, oggi più di sempre, ne abbiamo estremo bisogno. E, a rischio di ripetermi ancora e ancora, ribadisco con voce sempre più forte e dolente che stiamo vivendo giorni bui e notti insonni per la terribile guerra fratricida, improvvisa e devastante, in atto tra Russia e Ucraina; guerra, che sta seminando dolore e lutti con la morte di molti bambini innocenti, di donne disperate e sole, di anziani inermi, di uomini decisi a combattere, oltre ogni possibile ragione di offesa e invasione contro un popolo determinato a resistere, per difendere la propria terra, la propria memoria storica, la propria libertà. Certo, ci possono essere letture diverse da questa, ma è incontrovertibile che sempre più stiamo correndo il rischio di distruggere il nostro Pianeta e la nostra Umanità. E non è più tempo di analizzare torti e ragioni, come ho già detto. Motivazioni storiche e spiegazioni teoriche dei grandi soloni che giustificano il ricorso alle armi per giungere “miracolosamente” alla pace. Non è più tempo di ignavia e indifferenza (“non ci riguarda”). È tempo di urlare: “NO ALLE ARMI”, “NO ALLA GUERRA”, “NO AGLI INTERESSI ECONOMICI E AL LORO INDISCRIMANATO E AVVILENTE POTERE”. SONO TUTTI DELITTI CONTRO LA NOSTRA UMANITA’ ALLA DERIVA.

Sappiamo quanto si stia prodigando Papa Francesco, con fermezza e coraggio, perché si cessino le ostilità e si depongano le armi: “In nome di Dio, vi chiedo: fermate questo massacro”, bisogna “far cessare l’inaccettabile aggressione armata”, che sta riducendo “le città a cimiteri” (13 marzo 2022).

Come stanno facendo tutti i GRANDI della terra, che a tutt’oggi sembrano impotenti ad arginare atrocità e follia; ad assicurare corridoi umanitari per mettere in salvo tanti nostri fratelli che vivono nella paura e nel terrore di nuove morti e nuovo sangue a scorrere lungo i confini della loro terra martoriata. Inefficaci persino le sanzioni contro l’invasore, le soluzioni pacifiche ipotizzate. La distruzione continua e Dio non voglia che si giunga alla terza guerra mondiale, con armi nucleari e non solo.

Per non parlare del materialismo imperante, del nichilismo devastante soprattutto tra i giovani, della violenza gratuita, della droga facile, dell’alcolismo che uccide, dell’arroganza e dell’indifferenza imparentate in un contrasto di comportamenti distruttivi a nostra insaputa. Della conseguente solitudine e della desertificazione del cuore; del suicidio sempre più frequente anche tra i giovanissimi.

È a tutto questo che penso oggi. E penso che la poesia possa essere ancora un’àncora di salvezza per il futuro che ci minaccia e ci spaventa. “Ma Dio dov’è in tutto questo” è l’interrogativo ricorrente sulla bocca dei più. E penso che Dio non c’entri mai nei massacri voluti dalla sete di potere e di denaro di noi uomini. Penso che Lui pianga con noi per la sconfitta del Suo Sogno di farci a “Sua immagine e somiglianza”. Di qui, forse, l’origine dei miracoli: per compensazione e risarcimento? Penso, comunque, che avvengano e riguardino prima o poi tutti noi, ma che occorra saperli riconoscere, come sempre dico, con umiltà e riconoscenza perché nulla avviene per caso. Tutto ha un senso, un significato, un perché, che la nostra umana intelligenza non riesce a penetrare. Vorrei dire tanto altro su questo argomento così delicato e profondo come l’abisso degli oceani e l’immensità di tutti i cieli, oggi sempre più “carichi di nuove luminosissime stelle” (come scienza e fede vanno dimostrando), ma già mi sono azzardata a raccontare l’inverosimile, l’incredibile, l’opinabile. E potrei legittimare altri dubbi sulla mia sanità mentale, oltre quel pizzico di legittima follia che mi riconosco e in cui mi piace riconoscermi anche a ottant'anni "suonati". Mi piacerebbe, però, soprattutto ricevere ancora il vostro parere. Non desidero convincere nessuno, solo avere una possibilità di confronto. Grazie infinite a tutti. Alla prossima (continua).

giovedì 20 ottobre 2022

Giovedì 20 ottobre 2022: i miracoli accadono, basta saperli riconoscere...

Oggi è un anniversario da cancellare: sono passati tre anni dalla frantumazione delle mie gambe a Belgrado. Una esperienza terribile di cui non dovrei più parlare e invece ne parlo ancora. “La memoria”, qualcuno ha detto, “non è ciò che si vuole ricordare, ma ciò che non si può dimenticare”. E, per quanti sforzi io faccia, non riesco ad archiviare l’accaduto. Ma, paradossalmente, questa data ha un significato altamente profondo di rigenerazione, di ri-nascita, che dovrei ricordare fino alla fine dei miei giorni. Ed è il racconto più inverosimile e più bello che sto cercando di fare nel terzo volume del mio romanzo Le piogge e i ciliegi, perché non se ne perda memoria e lasci una traccia su cui riflettere ai nostri giovani e ragazzi affinché non perdano mai le vie della speranza. Qui faccio solo una sintetica anticipazione, sperando di essere in qualche modo credibile, creduta. Devo fare, però, una premessa, prendendo in prestito le parole del grande Einstein: Ci sono due modi di vivere la vita. Uno è pensare che niente sia miracolo. L’altro è pensare che ogni cosa è miracolo. Io propendo per questa seconda via e vado a spiegare il perché. Certo, non è facile parlare di certe esperienze, vissute nella non piena consapevolezza di sé e, nello stesso tempo, con la certezza di essere pienamente in sé, con una lucidità mai provata prima, nei pensieri all’unisono con il proprio cuore e la propria anima in volo. Non è facile perché, detta così, la frase di Einstein, e scegliendo la seconda soluzione, sollecita quantomeno un sorriso di divertito scetticismo; un “assecondare” con la mimica facciale contrita e compunta per evitare di manifestare il proprio pensiero “poverina, non ci sta più con la testa!”; un mettere le distanze per non pronunciarsi negativamente e non dare un dispiacere alla “poverina che…”. 

Per avere allora un minimo di credibilità, occorre andare indietro nel tempo e ricominciare dal “focus” spartiacque del “prima” e del “dopo”: 19 ottobre 2019. Qualche mese prima che si avesse contezza in tutto il mondo della deflagrazione della pandemia da Coronavirus. In pratica, ero in Serbia per la grande Festa d’Autunno a Smederevo, dove due giorni prima ero stata gratificata con un Premio, tra i più prestigiosi in tutti i Paesi balcanici, che coinvolge tanti autori a livello mondiale. Due giorni dopo ero a Belgrado, dove i cari amici serbi, che mi conoscono da quarant’anni ormai, mi aspettavano per festeggiarmi nel Salone del Libro e dove il giorno successivo avrei presentato il mio ultimo libro pubblicato in Serbia. Questo preambolo è importante perché, nell’arco di pochissimi giorni, passai dalla gioia totale alla perdita totale di me. La festa con gli amici fu semplice ma bella e profondamente sentita. Pasticcini e bevute al mio successo e alla mia salute (ironia della sorte!). Verso mezzanotte ci avviamo io e mio genero (che è anche mio editore e mio accompagnatore ufficiale in quasi tutti i miei viaggi culturali in Italia e all’estero) per fare ritorno in albergo. Ci seguivano i nostri amici tutti festosi e un po’ brilli. Dietro di noi il più caro (la nostra assoluta amicizia è durata, inossidabile, dalla giovinezza alla vecchiaia). Sulla lunga scalinata che dal Salone portava giù al parcheggio-auto e ai taxi in paziente attesa, io già al penultimo gradino al braccio di mio genero, lui inciampò, perse l’equilibrio e mi piombò addosso con il suo metroenovanta di altezza e qualche chilo di troppo, frantumandomi in un mare di sangue. Con mio genero che, per mia fortuna, non mi piovve addosso pure lui, come era da prevedersi data la posizione in cui eravamo, ma si ritrovò scaraventato per terra dalla parte opposta, in lacrime, mentre altri amici accorrevano per aiutarmi, chiamare l’ambulanza, col medico che mi suturò lì, seduta stante, alla bell’e meglio gli squarci delle ferite da cui fuoriuscivano le ossa e zampillava a fiotti il sangue. Poi, il ricovero in ospedale, dove fu subito chiara la mia condizione disperata tanto da sollecitare un rientro in Italia, via terra, per un possibile ricovero in un ospedale italiano appena giunti a Trieste. Ma mi precedeva la notizia diramata dall’ospedale di Belgrado sulle mie condizioni disperate e nessun ospedale era disposto ad accogliere una moribonda, accompagnata da un medico e una équipe sanitaria per praticarmi le cure necessarie nel disperato tentativo di tenermi in vita. Dopo 24 ore di viaggio in ambulanza, registrando il rifiuto a Trieste, Belluno, Padova, Bologna… approdammo, come Dio volle, in Puglia e anche qui incontrammo varie resistenze, fino a che non fummo accolti, grazie alla presenza di un caro parente cardiologo, alla Mater Dei, ottimo ospedale al centro di Bari. La Madre del Signore, dunque! E qui, dopo aver constatato le mie condizioni disperate e, con la assoluta meraviglia che fossi arrivata ancora viva, l’équipe dei chirurghi ortopedici, capitanati dal Primario uscente e da quello subentrante, programmarono, immediatamente, i due interventi urgenti per “sistemarmi le ossa” nell’arco delle successive 36 ore. Ma occorrevano almeno sei sacche di sangue che non c’erano, altrimenti non avrebbero potuto operarmi. Poi, non appena il problema “provvidenzialmente” si risolse, immediatamente decisero per il primo intervento. Quando mi portarono in sala operatoria: ben tre chirurghi, compresi i due primari, erano in attesa di operarmi. Ma io ero stranamente semicosciente e serena: nella saletta d’attesa, dove praticano la prima parziale anestesia per addormentare piano piano il paziente, “vidi” intorno alla mia barella i miei cari defunti in preghiera: mia madre, mio nonno (presenza costante e salvifica in tutta la mia vita) mio marito, mia nonna. Poi, in sala operatoria, mi misero dapprima con le braccia spalancate a mo’ di croce e, prima che mi praticassero una seconda anestesia con una specie di pistola solo per la prima gamba da operare, la più “sventrata” dall’acetabolo fino alla caviglia, mentre mi piegavano su un lato con le braccia e mani quasi fossi in preghiera, ebbi il tempo di sussurrare “come Gesù Cristo” e cominciai a sentire i colpi dei martelli, della sega fino ai punti di sutura lungo tutta la gamba. Persi il conto più e più volte degli infiniti punti di suturazione, mentre mi riportavano nella sala del “risveglio” prima di riportarmi nella mia stanza. Fuori dalla porta c’erano i miei figli in spasmodica attesa, ma rimasero meravigliati nel vedermi, dopo un intervento così difficile e complesso, tutta sorridente e felice quasi stessi tornando da una gita in campagna, che aveva dato anche un tocco di rosa alle mie guance. Ma il prodigio più grande e misterioso avvenne due giorni dopo, mentre mi preparavo ad affrontare il secondo intervento all’altra gamba con il ginocchio pieno di frammenti di ossa da recuperare e sistemare Dio sa come. Altri chirurghi ortopedici, altra metodica di intervento. Questa volta con epidurale prima di entrare nella sala operatoria. Nella saletta antistante, appena sistemata nel mio angolo d’attesa, mi sentii salutare con una voce dolcissima e tenerissima “ciao”, mi girai per salutare anch’io ma non c’era nessuno. Chissà perché, però, già sentivo nostalgia di quel sussurro, quasi una urgenza di sentirlo ancora. Mi girai, niente. Possibile che avessi sognato ad occhi aperti? Mi girai ancora e finalmente vidi una infermiera che si era avvicinata alla mia barella per praticarmi una flebo. Le chiesi se c’era già da prima e non l’avevo vista per rispondere al suo saluto. Mi disse di no. Che prima non c’era nessuno. Mi dissi che l’ansia dell’imminente intervento mi stava giocando brutti scherzi, ma intanto avevo bisogno di quel “ciao”, di quella voce, in cui mi sembrò di sprofondare non appena mi sistemarono nuovamente sul tavolo operatorio. Sentii di essere accolta in braccia materne che non erano quelle di mia madre, erano lievi come piuma e mi trasportavano tra terra e cielo. Avvertii un conforto senza aggettivi e una pace infinita, mentre “sentivo” e “vedevo” tutto l’intervento alla moviola. E stavo in paradiso. E avevo voglia di pregare, ma non sapevo più pregare. Da tempo immemorabile non pregavo. Neppure durante il lungo viaggio per giungere fino lì, nei rari momenti di lucidità mi riusciva di pregare. Avevo perso l’abitudine. In quei rari momenti avevo persino firmato gli autografi sul mio libro alle infermiere che mi circondavano, ma non una preghiera. Sentivo solo che stavo per morire ma che non sarei morta. Non “dovevo” morire. Anche questa volta, all’uscita dalla porta, incontrai lo stupore dei miei figli ad accogliermi nel corridoio tanto il mio aspetto era confortante, e il mio stupore nel vederli dall’alto come se vedessi il mondo capovolto. Ricordo indelebile che ancora oggi mi turba molto. E, nello stesso tempo, avvertivo il desiderio struggente di quella voce, che sentivo dentro e che mi sfuggiva, eterea e lontana. I medici parlarono subito di miracolo e si meravigliavano essi stessi di parlare in quei termini e non da scienziati. Sì, furono i primi a parlare di miracolo! Assurdo, ma vero. E non stavo sognando. E neppure i miei, che annuivano con le lacrime agli occhi. “Ma la degenza”, dissero, “sarà molto lunga. Anche se, miracolosamente, pure le sei sacche di sangue preventivate non sono servite. Ne sono bastate solo due”. Strano ma vero e dire che tutto sembrava remarmi contro: le mie gambe completamente frantumate, la irreperibilità in tutta la Puglia, fino all’ultimo minuto, delle sacche di sangue occorrenti per via del gruppo sanguigno 0 rh negativo, che può riceverlo solo dallo stesso 0 rh negativo; allergia agli antibiotici e agli antidolorifici, persino ai cerottini anallergici, ecc ecc. Poi, improvvisamente e provvidamente tutto si era risolto e avevano potuto operarmi senza difficolta. Il giorno dopo, uno dei due primari, quello uscente, venne a trovarmi in camera ancora sconvolto e incredulo. “Lei è un miracolo vivente”, mi disse, “e sono qui, mio malgrado, a testimoniarlo. Improvvisamente ho sentito dentro di me che Qualcuno stava guidando le mie mani durante l’intervento”. Cominciarono così le sue visite quotidiane e le nostre lunghe o brevi “chiacchierate” sul mio caso straordinario che lo aveva portato a recuperare la fede, perduta da tempo, nella presenza di Dio nelle vicende umane. E spesso, mentre mi parlava, vedevo i suoi occhi riempirsi di lacrime. La degenza fu più lunga del previsto per via anche di altre complicazioni al ginocchio destro. Si profilava un nuovo intervento che venne, per fortuna, scongiurato sempre all’ultimo minuto. I medici dovettero ricorrere all’ozonoterapia per curare una brutta infezione al ginocchio. Ma già ero stata trasferita in un’altra struttura privata di igienizzazione a due passi da casa: Oasi di Nazareth. E, ad un tratto, mi tornò in mente la voce dolcissima di fanciulla a dirmi “ciao” e seppi che ero capitata, non per caso, nel luogo giusto. Dalla Mater Dei alla Vergine Maria. E sentii anche che quella voce, mai dimenticata, ma radicata nell’anima, era della fanciulla di Nazareth, sempre Lei, la Madre di Gesù, a proteggermi, a salvarmi.  

Solo una considerazione “a latere”: questo mio racconto non vuole convincere nessuno sulle veridicità di quanto da me vissuto perché nutro enorme rispetto per le convinzioni altrui, legate a   tutte le esperienze esistenziali che ciascuno vive e di cui fa tesoro come meglio crede. Desidero solo farne testimonianza in prima persona, perché così è, pur nella inevitabile incredulità generale, rischiando davvero il ridicolo. Ma sento la necessità, che va oltre la mia volontà, di farlo per un auspicabile confronto con chi potrebbe aver vissuto esperienze simili alle mie senza aver avuto mai   il coraggio di parlarne. Parliamone, invece. Ascoltiamoci. Potrebbe aiutarci quantomeno a sfiorare appena appena l’insondabile il mistero della vita e della morte. E che dire del sogno ricorrente, fatto da bambina e poi ripetutosi più e più volte negli anni, che sarei caduta perdendo per sempre l’uso agevole delle gambe? Predizione avveratasi in pieno! A voi la parola… (continua)

  

martedì 18 ottobre 2022

Martedì 18 ottobre 2022: la guerra... la PACE... ancora qualcosa da dire...

 I giorni passano velocemente, ma non passano i “venti di guerra” sul nostro pianeta arrossato di sangue e funestato di morti e di lutti e le bare bianche sembrano nuvole leggere a mitigare l’orrore di tutte le guerre, a piantare nuove croci nel cuore delle madri senza più lacrime nel fiume di pianto che divalla a torrenti verso il mare che arrossisce di vergogna e di antico rimpianto, quando le sue azzurre acque lavavano colpe e si coloravano di cielo, dove era ancora possibile volare. Niente droni kamikaze e case sventrate come i ventri materni disperati, immobili nelle pozze d’acqua, di fango, di sangue e neppure un grido. 

Dove è sepolta l’umana pietà? L’abbiamo crocifissa e sepolta chissà dove con la nostra indifferenza, il nostro disinteresse, il nostro egoismo. La paura si dissolve di fronte al pensiero meschino: “non tocca a noi”. A chi tocca, dunque? A chi detiene il potere e continua il massacro per rafforzare il proprio potere? O a chi quotidianamente e coraggiosamente vive il suo credo di non-violenza, di rispetto della natura e in sua difesa pianta un alberello ad ogni morte che sanguina nell’anonimato della storia degli uomini, ma non nel proprio cuore? A chi si prende cura del vicino di casa, chiedendogli “posso fare qualcosa per te prima che si faccia sera, che venga l’inverno e ci blocchi la neve?”. Ma come salvare gli altri se non riusciamo a salvare noi stessi? Ma è proprio vero che la Pace comincia da ciascuno di noi, nonostante l’aberrante stasi dei nostri governanti per un loro tornaconto personale o per l’eterno intreccio, perlopiù occulto ai poveri mortali, di interessi di faziose fazioni, interessi oggi planetari, che vede i potenti della Terra gli uni contro gli altri armati da Caino fino ai nostri giorni? A cosa è servita l”etica pacifista” di Leone Tolstoi, l’autore russo del famoso romanzo Guerra e Pace? Eppure questa sua teoria si rifaceva a quella enunciata da Gesù nel Discorso della Montagna e che predicava l’amore e il perdono sopra ogni altra cosa. Si rifaceva anche alla “disobbedienza civile” di Henry David Thoreau. Oltre un secolo e mezzo fa persino il giovane Gandhi venne “illuminato” da queste straordinarie teorie sulla necessità della non-violenza. E oggi siamo ancora al punto di partenza, che a molti commentatori sembra quasi il “punto di non ritorno” con la minaccia sempre più incombente della guerra nucleare. A cosa servono, dunque, i proclami, le dichiarazioni, la Giornata Mondiale della Pace, istituita per la prima volta da Paolo VI il 1° gennaio del 1968, se poi si continua a insanguinare ogni angolo della Terra con infinite guerre? Invano cerchiamo un argine, una voce che ci redima e ci salvi da questo “inferno”. Ultimamente, sempre più Papa Francesco invoca la PACE contro la follia della guerra, intimando a viva voce di deporre le armi. Ma pare che persino il suo “grido di dolore” rimanga inascoltato.

 A questo punto mi tornano alla mente le parole di Don Tonino Bello, “urlate” circa quarant’anni fa e riscoperte di recente in uno dei suoi tanti discorsi, di cui ha lasciato testimonianza scritta. Discorsi, che parlano dei “volti” della violenza e della Pace. I volti? Cosa c’entrano i volti? Bisogna risalire, prima che a Don Tonino Bello, al filosofo di origini ebraico-lituane Emmanuel Lévinas, naturalizzato francese, il quale scrisse un bel po' di anni fa: Oggi, anche nella cultura contemporanea e laica, si va scoprendo l’etica del volto”. Lévinas che “il primo millennio dell’era cristiana è stato caratterizzato dalla ricerca dell’essere; il secondo millennio dalla ricerca dell’Io; il terzo millennio sarà caratterizzato dalla ricerca dell’altro. L’altro come volto da scoprire, da contemplare, da accarezzare. Don Tonino ne rimase affascinato e scrisse: vivere il “faccia a faccia”, non con gli occhi iniettati di sangue, ma con l’atteggiamento del “disinteresse” (…) quello che io debbo fare è depotenziare (dis) la pretesa del mio essere (esse) a porsi come sovrano. Pace, perciò, è deporre l’io della sua sovranità per far posto all’altro e al suo indistruttibile volto, instaurare relazioni di parola, comunicazione, insegnamento (…). Prima ancora che fatto politico la deposizione è un fatto di giustizia, anzi di alta moralità. Ma anche Papa Francesco, nell’anniversario della nascita di Don Tonino, il 20 aprile 2018, ricordando le sue parole e quelle del grande filosofo francese, gli dedicò questa riflessione: I conflitti e tutte le guerre trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti. E non ancora si era verificata l’invasione russa in Ucraina, una guerra spietata ancora in atto. Dunque, i volti. Ed io sono d’accordo. Se in ogni litigio, in ogni acceso confronto, in ogni dissidio, futile o profondo, imparassimo a scoprire e a leggere il linguaggio del volto, negli occhi, sulle labbra, nelle mascelle contratte, nel tremore di ogni silenzio, non avremmo dubbi a tendere la mano, a porgete l’altra guancia. Purché nell’altro si scorga una “coscienza vigile” nel rispettare la “propria verità” e “quella dell’altro”. Abbandonando ogni arroganza, ogni presunzione di essere “nel giusto”. Serve, dunque, anche il “senso della giustizia”, che ancora una volta deve tener conto dell’altro, come il proprio prossimo, colui nel quale ci rispecchiamo con tutti i possibili pregi e difetti insiti nella natura umana. È proprio questa equidistanza, a mio parere, che perlopiù ci manca, e la sua assenza è fonte di dubbi, di equivoci, persino di malafede, di cui non si ha neppure consapevolezza. Ma c’è spesso anche e soprattutto la mancanza della conoscenza profonda dell’altro: la sua infanzia, i luoghi abitati, la cultura familiare e sociale, le certezze e le paure, le esperienze pregresse vissute come vittorie o come sconfitte, i condizionamenti endogeni ed esogeni (l’ereditarietà e l’ambiente), gli incontri positivi o negativi, gli esempi, i modelli di vita scelti o subìti, il carattere, le inclinazioni e le idiosincrasie, i punti di forza e quelli deboli a definire la personalità di ciascuno di noi. Probabilmente conosciamo il volto che ci appare ad ogni buongiorno o buonasera, ma ignoriamo quello intimo, nascosto, velato, ignorato, sepolto. Già. Perché spesso il primo rapporto conflittuale è proprio quello che abbiamo con noi stessi. È tutto questo alla base di ogni incomprensione con l’altro diverso da me? Potrebbe! E sarebbe la fonte di ogni male? Forse! Anche le guerre nascono così? È probabile. Alda Merini, una poetessa che noi tutti amiamo credo, diceva e scriveva che le piaceva il verbo “sentire”: mi piace il verbo sentire…/ Sentire il rumore del mare,/ sentirne l’odore./ Sentire il suono della pioggia che ti bagna le labbra,/ sentire una penna che traccia/ sentimenti su un foglio bianco./ Sentire l’odore di chi ami,/ sentirne la voce/ e sentirlo col cuore./ Sentire è il verbo delle emozioni;/ ci si sdraia sulla schiena del mondo e si sente…

Occorre imparare a “sentire” il cuore di ogni nostro simile, della natura, degli animali, delle piante e scoprire che è solo questione d’AMORE. La PACE sarebbe solo la logica conseguenza! Banale? Io penso che niente sia davvero banale, trascurabile, scontato, senza importanza se proviene dal pensiero dell’uomo, dal suo cuore. Nell’anima, poi io “sento” la sorgente inesauribile della nostra umanità. Della più alta forma di spiritualità. E non bisogna essere necessariamente credenti per scoprirla! 

Che la Pace possa sconfiggere la parte buia della natura umana per realizzarsi attraverso la luce che promana dai volti degli uomini di “buona volontà”. E che ci porti la “lieta novella” con un ramoscello d’ulivo tra le mani. E che si faccia sorgente di Vita e di Speranza per l’umanità intera! Angela. Alla prossima…  

mercoledì 12 ottobre 2022

Mercoledì 12 ottobre 2022: qualche necessaria riflessione sulla guerra e sulla Pace...

In verità, per le mie riflessioni, oggi dovrei partire dal 12 ottobre 1492: Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America. <Chissà cosa avrebbe scoperto Colombo se l’America non gli avesse sbarrato la strada> sono le parole di Jonathan Swift nel suo racconto dell’avvenimento e della scoperta del tutto casuale del nuovo continente da parte di un marinaio genovese che voleva invece scoprire le Indie <per allargare i confini del mondo cristiano>. Sono passati oltre cinque secoli e l’America è diventata la prima potenza mondiale in eterna lotta con la Russia, altra superpotenza che estende i suoi domini dall’Europa all’estremo Oriente. <Si tratta di uno Stato composito e dalle caratteristiche imperiali, nel quale un centro forte ha da sempre esercitato il controllo su periferie deboli ed eterogenee, spesso animate da istanze indipendentiste>. Dopo la caduta dello Zar, nella rivoluzione di ottobre del 1917, e la costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), la Russia si trasformò ben presto in uno Stato totalitario con salde basi economiche e uno degli eserciti più forti del mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, poi, si costituirono nel mondo due blocchi ideologici, economici e militari contrapposti, che delinearono le due “superpotenze” in eterna lotta tra di loro. Si ebbe anche, come sappiamo, la Guerra fredda, caratterizzata dalla costante minaccia nucleare. Questo in estrema sintesi l’antefatto della guerra dei nostri giorni, con le violenze, le sopraffazioni, le minacce che stanno oscurando i cieli del nostro pianeta e ferendo quotidianamente e mortalmente l’Ucraina, nuova terra di conquista per Putin, prima ancora che da parte della Russia. E anche questo è noto, per cui senza fare qui il processo ai torti e alle ragioni di questo devastante conflitto (manca pure il tempo di pensarci), sempre più urgenti, a mio parere, si fanno i negoziati di Pace. È un imperativo categorico kantiano se vogliamo sopravvivere. Ma io avrei solo inefficaci parole poetiche da opporre a tanto strazio, per cui faccio riferimento alle parole di Papa Francesco e del XIV Dalai Lama, per avere il parere di almeno due autorevoli voci appunto a livello mondiale.

Sempre più insistenti e accorate le parole del Papa ad ogni incontro con i suoi fedeli, in Italia e all’estero: <Il mio appello si rivolge innanzitutto al presidente della Federazione Russa, supplicandolo di fermare, anche per amore del suo popolo, questa spirale di violenza e di morte. D’altra parte, addolorato, addolorato per l’immane sofferenza della popolazione ucraina a seguito dell’aggressione subita, dirigo un altrettanto fiducioso appello al presidente dell’ucraina ad essere aperto a serie proposte di pace. (…). Chiedo con insistenza di fare tutto quello che è nelle loro possibilità per porre fine alla guerra in corso, senza lasciarsi coinvolgere in pericolose escalation, e per promuovere e sostenere iniziative di dialogo” (…). Per favore facciamo respirare alle giovani generazioni l’aria sanata della pace, non quella inquinata della guerra, che è una pazzia! Dopo sette mesi di ostilità si faccia ricorso a tutti gli strumenti diplomatici, anche quelli finora eventualmente non utilizzati, per far finire questa immane tragedia” (...). Preghiamo per l’Ucraina, chiediamo il dono della pace… confidiamo nella misericordia di Dio, che può cambiare i cuori, e nella materna intercessione della Regina della Pace>.  

E il XIV Dalai Lama

<La pace nel mondo

Un approccio umano alla pace nel mondo

Ogni mattina, quando ascoltiamo la radio o leggiamo i quotidiani, troviamo sempre le stesse tristi notizie: violenza, crimini, guerre, disastri. Non ricordo un solo giorno in cui non sia venuto a conoscenza di qualche fatto terribile, accaduto da qualche parte nel mondo. È chiaro ormai che persino in questi tempi moderni la preziosa vita umana non è al sicuro. Nessuna delle generazioni che ci ha preceduto ha sperimentato così tante cattive notizie e questa costante consapevolezza della paura e dell’ansia dovrebbero far interrogare seriamente ogni persona sensibile e compassionevole su quale direzione abbia preso il nostro mondo moderno. È paradossale come i problemi più gravi si verifichino nelle società industrializzate più avanzate. La scienza e la tecnologia hanno fatto meraviglie in molti campi, ma i veri problemi dell’umanità rimangono. L’alfabetizzazione ha raggiunto livelli senza precedenti, ma questa universalizzazione dell’istruzione non sembra aver incrementato il benessere, quanto piuttosto l’agitazione e lo scontento. Non vi sono dubbi riguardo ai miglioramenti delle nostre condizioni materiali e tecnologiche, ma in una qualche misura questo non è sufficiente perché non siamo ancora riusciti a portare pace e felicità e a sconfiggere la sofferenza. La sola conclusione a cui possiamo giungere è che deve esserci qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel nostro progresso e nel nostro sviluppo; e se non ce ne rendiamo conto velocemente ci potrebbero essere conseguenze disastrose per il futuro dell’umanità.

Non sono affatto contrario alla scienza o alla tecnologia: esse hanno dato un immenso contributo all’umanità, al benessere materiale, alla nostra salute e a una maggiore comprensione del mondo in cui viviamo. (…). Nessuno può negare i vantaggi senza precedenti arrecati da scienza e tecnologia, ma i nostri problemi fondamentali rimangono: dobbiamo sempre, se non di più, affrontare la sofferenza, la paura, i conflitti. E’ quindi logico cercare di ritrovare un equilibrio tra sviluppo materiale, da una parte, e sviluppo spirituale e valori umani dall’altra. E perché questo grande cambiamento possa avvenire, dobbiamo far rivivere i nostri valori umani. Sono certo che molte persone condividano la mia preoccupazione per la crisi morale che sta attraversando il mondo intero e che si uniranno al mio appello, rivolto a chi pratica i valori umani o una religione, a sforzarsi di rendere le nostre società più compassionevoli, giuste ed eque. Non parlo da buddhista e nemmeno da tibetano. E neppure parlo da esperto di relazioni internazionali (anche se innegabilmente spesso esprimo il mio parere su queste questioni). Parlo da semplice essere umano, da sostenitore di quei valori umani che stanno alla base non solo del Buddhismo Mahayana, ma di qualsiasi grande religione del mondo. Da questa prospettiva, desidero condividere con voi la mia personale visione che è:

1. l’umanitarismo universale è essenziale per risolvere i problemi globali

2. la compassione è il pilastro della pace

3. tutte le religioni del mondo sono già a favore della pace perché tutte sono a favore dell’umanitarismo

4. ogni individuo ha la responsabilità universale di fare in modo che le istituzioni siano al servizio dei bisogni dell’umanità

Risolvere i problemi dell’umanità trasformando il nostro atteggiamento. Dei tanti problemi che oggi ci troviamo ad affrontare, alcuni sono dovuti a calamità naturali che vanno accettate e fronteggiate con equanimità. Altri, invece, sono problemi che noi stessi abbiamo creato a causa di incomprensioni e che per questo possiamo risolvere: il conflitto tra ideologie, politiche o religiose, o le controversie che sorgono per motivi futili e che ci fanno perdere di vista quell’umanità di base che ci unisce come un’unica famiglia. (…)

Quella che è di gran lunga il più grande rischio per l’umanità - o meglio, per tutti gli esseri viventi di questo pianeta - è la minaccia nucleare. Non c’è molto da aggiungere su questo punto, ma vorrei comunque rivolgermi a tutti i leader delle potenze nucleari, che tengono letteralmente tra le mani il futuro di questo mondo, agli scienziati e ai tecnici che continuano a progettare queste terribili armi di distruzione di massa, e in generale a tutte le persone che sono nella posizione di influenzare i propri leader: chiedo loro di usare la propria saggezza e iniziare a lavorare allo smantellamento e alla distruzione di tutte le armi nucleari. Sappiamo che nel caso di una guerra nucleare non ci sarebbero vincitori perché non ci sarebbero sopravvissuti! Non è terrificante anche solo prendere in considerazione questa distruzione inumana e spietata? E non è del tutto logico rimuovere le possibili cause della nostra distruzione quando le conosciamo e abbiamo il tempo e i mezzi per farlo? Spesso non siamo in grado di risolvere i nostri problemi perché ne ignoriamo la causa o, se la comprendiamo, non abbiamo i mezzi adatti. Questo non è certo il caso della minaccia atomica. (...)

Parlando in generale, vi sono due tipi di felicità e di sofferenza, quella mentale e quella fisica; delle due, credo che la sofferenza e la felicità mentali siano le più intense. Dunque, desidero mettere l’accento sull’allenamento mentale, perché può ridurre la sofferenza e permette di raggiungere uno stato di felicità più duraturo. Ho anche un’idea più generale e concreta della felicità: è una combinazione di pace interiore, sviluppo economico e, soprattutto, pace mondiale. Per raggiungere questi obiettivi penso sia necessario sviluppare un sentimento di responsabilità universale, una profonda preoccupazione per tutti, indipendentemente dalla fede, dal colore della pelle, dal genere e dalla nazionalità. (…)

Tutto ciò ci invita ad avere un nuovo approccio ai problemi globali. Il mondo sta diventando sempre più piccolo - e sempre più interdipendente - come risultato dei rapidi progressi tecnologici, del commercio internazionale e delle relazioni transnazionali. Dipendiamo profondamente gli uni dagli altri. Nei tempi antichi i problemi avevano dimensioni familiari e venivano naturalmente risolti a livello familiare, ma la situazione oggi è completamente cambiata. Ora siamo così interdipendenti, così interconnessi gli uni con gli altri, che senza un sentimento di responsabilità universale, un senso di fratellanza e sorellanza universali, una comprensione e la convinzione di appartenere tutti alla stessa grande famiglia umana, non possiamo sperare di superare i pericoli che mettono a repentaglio la nostra esistenza, prima ancora che la pace e la felicità. (…)

D’altra parte, se l’umanità continuerà ad affrontare le difficoltà soltanto con espedienti temporanei, le future generazioni ne sconteranno le tremende conseguenze. La popolazione mondiale è in continua crescita, le risorse naturali sono state velocemente depredate. Guardate gli alberi, per esempio. Nessuno sa con esattezza quali effetti negativi avrà la massiccia deforestazione sul clima, sulla terra e sull’ecologia globale nel suo insieme. I nostri problemi sorgono perché la gente si concentra esclusivamente sui propri interessi individuali, a breve termine, senza pensare minimamente al resto dell’umanità. Non si pensa alla terra a lungo termine e nel suo complesso, ma se non lo facciamo ora le generazioni future potrebbero non avere speranza.

La compassione come pilastro della pace nel mondo (…) sono convinto che l’amore e la compassione sono il tessuto morale della pace nel mondo…>.

Messaggio del Dalai Lama in occasione del 50° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il messaggio è molto più lungo, ed è attualissimo anche ai nostri giorni. Ho dovuto interromperlo per mancanza di spazio e di tempo, ma ho cercato di salvare ciò che oggi più ci preme: salvare con ogni mezzo la Pace nel mondo per lasciare alle future generazioni il respiro della Speranza.  Anche ciascuno di noi è chiamato a fare la propria piccolissima parte, con i propri mezzi, il proprio senso di responsabilità, il proprio coraggio. Noi sappiamo farlo con la scrittura. Potrebbe servire a denunciare il Male e a diffondere il Bene, a contaminare progetti di Pace, a sollecitare la coscienza di chi ha tra le proprie mani il destino del nostro pianeta.

Una goccia nell’oceano? Certo, ma l’oceano non è fatto di gocce? “Che la Pace sia con noi!”. Angela  

 

 

 

domenica 9 ottobre 2022

Domenica 9 ottobre 2022: ricordi e memorie per concludere... (senza concludere mai)

E ritorno a raccontare. Non ne posso fare a meno. C’è ancora una parte del mio difficile approccio alla lettura e alla scrittura che non è stata sviscerata come si dovrebbe per riflettere ancora tanto sul felice o infelice incontro con gli insegnanti nella scoperta e affermazione di sé. Riprendo, dunque, dal mio ritorno dai monti della Daunia.

<Ripresi ad andare a scuola per mettere a fuoco la realtà, che mi sfuggiva, e imparare a leggerla meglio con i segni dell’alfabeto, come tu mi avevi insegnato con il tuo esempio, e come la mia maestra dei monti non aveva saputo fare con le parole. Mi mandaste dalla signora Carmela, nostra parente, come aveva suggerito mamma a compare Luigi. La signora Carmela, come ben sai, era la suocera di Peppino, ormai diventato un giudice affermato. Era bravissima e forse un po’ severa, ma ci guardava anche con molta tenerezza e comprensione. Era alta e magra. Aveva i capelli grigi sul volto affilato e un’aria signorile che si riverberava nelle vesti e nei modi. Sua figlia, tua nipote acquisita, era docente di lettere nel nostro glorioso liceo. Ed era altrettanto brava. Ma io rimasi affascinata da sua madre, la signora Carmela. Mi piacevano molto le sue mani: lunghe sottili pallide. Erano, per me, ali in volo. Avendo un’ulcera allo stomaco, come seppi poi, era costretta a mangiare poco e spesso e portava a scuola, in un tegamino a chiusura ermetica, delle pappe morbide, in cui intingeva minuscoli tocchetti di pane che spezzettava lentamente con le dita e che masticava ancor più lentamente durante tutto l’intervallo. Io m’incantavo a guardare il movimento di quelle ali delicate come se ad ogni boccone spezzassero l’ostia consacrata per portarla in volo verso il cielo, che neppure si scorgeva attraverso l’angusta finestra dell’aula, ma che sicuramente doveva esserci da qualche parte molto più in alto, dove anch’io spesso volavo... Mi piaceva davvero tanto la signora Carmela, anche come spiegava, e l’amavo perché finalmente capivo e mi capiva, spingendomi con dolce fermezza ad apprendere. Ed io finalmente scoprivo che era bello imparare. E l’amai ancora di più quando, incontrando per caso mamma che era venuta da noi per pochi giorni, le disse che ero una bambina molto brava e molto intelligente, che imparava subito e scriveva dei compitini molto ricchi di fantasia e scritti molto bene. Tutti quei “molto” messi in fila uno dietro l’altro come un “treno lungo lungo” mi esaltarono. Ero brava. Ero finalmente considerata. Le mie parole avevano finalmente un senso un significato. E non solo per me. E vidi mamma tutta felice dopo quell’incontro. E mi sentii felice anche per lei. Frequentavo con la signora Carmela ormai la terza classe, si era alla fine dell’anno scolastico e già scrivevo compitini organici e ricchi di fantasia, ma in quarta, con suo grande dispiacere ed anche il mio, dovetti cambiare scuola perché quella dove lei insegnava, nel cuore del paese antico, era molto lontana dalla nostra casa, mentre a poche centinaia di metri c’era la scuola che aveva frequentato Lizia fino alla licenza elementare. Anche perché la sua maestra, che aveva per lei una vera adorazione, dovendo insegnare in una quarta (non amava farlo nel primo ciclo, che allora comprendeva le prime tre classi, perché “c’era troppo da sgobbare per scolarizzare i bambini”), pretese da mamma che mi mandaste da lei. Mi considerava già sua alunna. E fu così che mi iscriveste alla nuova scuola e cambiai maestra. Altro distacco. Altro dolore. Perdevo occhi teneri e attenti. Parole vibranti e appassionate. Guida sicura per la mia crescita.

Intanto, a ottobre, dell’anno precedente, il 1950, che era stato proclamato da Papa Pio XII “Anno Santo”, era nato l’altro fratellino. Bellissimo. Lo avevano chiamato come te. (…)  Poi, erano andati tutti via e io e Lizia rimanemmo di nuovo con te e con la nonna. Lizia ora frequentava la prima media e attraversava da un capo all’altro tutto il paese. Io, invece, solo un pezzo di via della Repubblica. Prendevamo strade opposte come prima, ma ora avevamo un maggiore equilibrio nelle distanze da percorrere, commisurate ai nostri anni. La nuova maestra era l’ossimoro della signora Carmela. Più giovane. Zitella. Più bassa e tarchiata senza essere grassa. Abbigliamento informale. Modi spicci e poco ortodossi. Una femminista ante litteram. Fumava le Marlboro e parlava come un uomo. Spiegava in maniera sbrigativa e ignorava le alunne provenienti dai ceti diseredati, le più lente e con difficoltà di apprendimento. A me, nonostante fossi molto alta per i miei anni, fece occupare il primo banco della fila centrale, proprio davanti alla cattedra, e mi diede per compagna un’altra bambina molto ordinata e diligente, che ben presto si sarebbe rivelata la più brava della classe. E fui anche nominata capoclasse. Avevo, con questo, pure l’incarico di correggere i compiti e di controllare i quaderni delle mie compagne in difficoltà. In pratica, se da un lato mi sentivo gratificata per il mio nuovo ruolo, dall’altra persi nuovamente interesse per lo studio. Venivo mandata spesso di qua e di là nelle altre classi a portare bigliettini e caramelle alle altre insegnanti e non riuscivo a stare attenta alle lezioni. Unica esperienza positiva fu, in quinta elementare, una rappresentazione teatrale della fiaba di Cappuccetto Rosso, per concludere l’anno scolastico prima degli esami di ammissione alla scuola media (allora non c’era ancora la scuola media unica, che prese il via in Italia solo nel 1962-‘63. Dopo i primi cinque anni di scolarizzazione gratuita e obbligatoria, bisognava sostenere il selettivo esame di ammissione per poter proseguire gli studi oltre la licenza media. I bocciati venivano preparati al lavoro attraverso il triennio della Scuola di Avviamento Professionale. Una chiara discriminazione sociale oltre che culturale. Venivano bocciati sempre gli alunni delle famiglie più povere. Fino a che don Lorenzo Milani, il “prete scomodo”, come i giornalisti lo avevano definito per le sue polemiche contro una chiesa conservatrice e autoritaria e una scuola discriminante e verbalistica, con la sua Lettera ad una professoressa, pubblicata poco prima della sua morte, nel 1967, in collaborazione con i suoi alunni di Barbiana, non evidenziò tutte le carenze di una istituzione che “curava i sani e lasciava morire i malati”).

In quel saggio di fine anno, di cui si occupava una brava insegnante amica della mia, mi fu assegnata, per via dell’altezza, la parte della mamma di Cappuccetto Rosso che fu impersonata, invece, da una vezzosa bimba di prima elementare. Fu un successo. Le repliche si protrassero per oltre un mese, con un pubblico sempre nuovo e numeroso. Tu e la nonna venivate quasi tutte le sere. Vi posizionavate ai primi posti per vedere e ascoltare meglio. La nonna mi permise persino di mettere degli orecchini pendenti di oro antico con perline e rose di Francia, preziosi e bellissimi. Anche mamma venne da lontano con gli altri miei fratellini ad applaudirmi. Fu allora che riscoprii, con maggiore consapevolezza, di essere bella. Quasi tutti i ragazzini che recitavano mi stavano dietro come cagnolini. Facevano a gara per accontentarmi in ogni minima necessità o desiderio. Anche Franco, il più bello del quartiere e appena tredicenne, s’innamorò perdutamente della mamma di Cappuccetto Rosso, ma di lui riprenderò a raccontarti. Avevo appena undici anni, ma mi spuntavano ali di felicità nel sentirmi così tanto ammirata e corteggiata. Mi ripresi tutti i terrapieni dell’anima perduti durante i due anni in quel nido di case e di silenzi e di lacrime e di solitudine di montagna. (…). Furono, quelli, gli anni anche delle intense e graduali letture. Dapprima io e Lizia compravamo i fumetti (Il Corriere dei Piccoli, Topolino, Intrepido, il Monello); poi, fu la volta dei romanzi di avventura di Salgàri e Jack London, di Verne e Stevenson; e ci appassionammo ai romanzi rosa di Luciana Peverelli, Liala, Brunella Gasperini, Delly (dalla dubbia identità), Pearl S. Buck; infine, imparammo a saccheggiare anche la fornita biblioteca di babbo che amava gli autori francesi, russi, americani. E fu amore infinito per i classici italiani e stranieri. La nostra formazione letteraria e culturale fu, all’inizio, frutto del lungo ascolto delle tue storie che ci spinse ad amare la lettura nella curiosità/speranza/certezza che molte di quelle tue parole le avremmo ritrovate nei libri. E per alcune fu ricerca vana, essendo molte fiabe parto esclusivo della tua fantasia o di quella più colta di un tuo amico italiano, incontrato in America, che aveva studiato tanto e ti raccontava ciò che aveva letto nei libri; per altre, invece, fu scoperta di racconti che l’oralità popolare aveva portato fino a noi e a Italo Calvino, che li aveva raggruppati e rielaborati nelle sue Fiabe italiane. Sta di fatto che fosti tu, con i tuoi castelli in aria e senza saperlo, a inculcarci la passione per la lettura. Poi, furono Teresa e babbo. Io e Lizia amavamo, dunque, leggere ma, mentre Lizia riusciva a conciliare l’amore per la lettura con lo studio scolastico perché amava imparare e amava la scuola ed era sistematica e diligente, senza mai affidare nulla al caso, io finii con l’ignorare i libri di scuola per dedicarmi esclusivamente a romanzi e poesie, alla musica e alle canzoni e ai miti radiofonici di quegli anni. Detestavo la scuola, come ben sai, e studiare per la scuola. La mia formazione prese subito altre vie più atipiche, divertenti, scanzonate. Leggevo leggevo molto per conto mio e a modo mio. Dapprima non m’importava conoscere gli autori, mi piacevano le storie quasi fossero il naturale prolungamento delle tue, o di quelle di Teresa; poi imparai ad apprezzare lo stile e a scoprire quello personale dei vari scrittori, romanzieri e poeti. Anche per la musica e le canzoni la maturazione delle scelte avvenne nello stesso modo graduale: passai da un ascolto acritico e superficiale delle canzoni italiane al desiderio di sapere chi suonasse o chi le cantasse. Quali fossero gli autori. Italiani e, via via, anche stranieri. Con qualche anno in più, cominciai a notare la diversità dei contenuti e degli stili nelle varie opere letterarie: la Provvidenza del Manzoni aveva un respiro più ampio di quella di Giovanni Verga; la prosa di Moravia era completamente diversa da quella di Bacchelli; le poesie di Ungaretti si differenziavano notevolmente da quelle di Montale, pur appartenendo entrambi i poeti alla stessa corrente letteraria… La diversità delle correnti letterarie, mai studiate a scuola, perché ero sempre distratta da qualcos’altro, le andavo scoprendo per conto mio, man mano che m’interessavo a qualche autore, di cui mi piaceva conoscere la vita e la formazione letteraria, culturale e umana. Mi piaceva scoprire quando come e perché avessero imparato a scrivere così, oltre al naturale talento che ciascuno possedeva. M’incuriosivano gli aneddoti e le notizie più che le nozioni. E, se queste ultime non m’interessavano perché erano appannaggio della scuola, i primi erano frutto delle mie letture e ricerche. Quando capitava. Come capitava...>. (da: Le piogge e i ciliegi, I vol.).

E penso che continuerò a raccontare come e quando tornai a pubblicare altri miei racconti prima di approdare a una scrittura sistematica e alle prime pubblicazioni di sillogi di poesie e, via via, di libri in prosa e poesia fino ai romanzi e ai saggi critici. Il lungo percorso del mio amore viscerale per la scrittura. Per me è davvero bello raccontare. Spero che sia altrettanto interessante leggere quanto scrivo per incontrarci tutti sul filo della conoscenza di noi attraverso il dialogo, che ci porta verso orizzonti sempre più ampi di ricordi, memorie, incontri… Fondamentale è il confronto. Angela

                                   

  

giovedì 6 ottobre 2022

Giovedì 6 ottobre 2022: ricordi e memorie lontane...(continua)

 Avevo salutato mamma, babbo, Anna Maria e Pino senza una lacrima. Mamma, invece, singhiozzava. Babbo sembrava confuso, incerto. I piccoli, indifferenti. Non si erano resi conto che stavo andando via. In macchina sentii lo strappo. Il cuore registrò la ferita. Mamma di nuovo era un punto luminoso lontano. Ero a metà strada tra te e lei. E mi sentii disperatamente sola. Come se quel viaggio lo stessi facendo a piedi con granelli di me che rotolavano in un deserto senza fine, fino a precipitare in un burrone che non vedevo ma c’era. E non ero più Lina Angelina Angela. Ero una pietruzza di raggrumato/frantumato dolore che precipitava giù giù giù sempre più giù. Solo allora scoppiai a piangere per la totale devastazione della mia anima. Piansi a lungo come non mi era mai capitato prima, neppure quando ti avevo lasciato. Allora avevo mamma e babbo e Lizia e Anna Maria e Pino con me. E un treno lungo lungo a farmi sognare meravigliose avventure tra alberi in fuga e lembi di mare e orizzonti lontani. Ora mi sentivo sola e abbandonata in quella macchina in bilico sulle curve e strette strade senza riparo di montagna e l’ansia di precipitare nel vuoto ad ogni tornante. Mi sentivo sola, nonostante la presenza protettiva e affettuosa di compare Luigi, che ad ogni mio singhiozzo mi stringeva più forte a sé e mi parlava parlava parlava come canto triste di infiniti violini… (suona solo per me/ oh violino tzigano/ … se un segreto dolor/ fa tremar la tua mano…). A tratti ritornavo alla realtà, lungo percorsi sospesi tra terra e cielo che non conoscevo. In quella macchina che mi sembrava più veloce del treno e della corriera e che mi metteva paura ad ogni curva a gomito che disvelava ancora burroni e campi di grano che una leggera nebbiolina e le mie lacrime rendevano di un verde cupo e lontanissimo sul fondo. Non ascoltavo. Non sentivo. Ero assordata da quella canzone di pianto e disperazione che mi urlava dentro, dal battito del cuore, dal rumore della macchina, dal rumore delle incomprensibili parole che mi giungevano ora all’orecchio come mormorio di foglie o scorrere di ruscello onde di mare vento di montagna tra gli alberi...

Poi… gli ulivi. Le strade conosciute. Il cuore placato. Le parole rassicuranti e chiare di chi mi cullava dolcemente. Il mare. I campi. Le vie con le prime case. La nostra casa. Le tue braccia ad avvolgere anche il cuore. Gli occhi di lacrime della nonna. L’abbraccio di Lizia. Il miagolio del gatto.

Per venire da te non avevo attraversato le strette viuzze deserte di sole del nostro paese antico. Avevo, invece, percorso le strade larghe con pochi palazzi e i tanti campi incolti della periferia oltre le vecchie mura. Via della Repubblica era una strada ampia e lunga che dalla piazza centrale del nostro paese portava all’Obelisco, un’alta colonna di marmo bianco posta lì a ricordo del miracolo della Madonna Immacolata, nostra Patrona, che salvò il paese nella battaglia del 1734 contro l’esercito spagnolo, comandato dal Generale Montemar. Avevamo già superato la chiesetta della Pietà (dove allora venivano portati i morti che avevano avuto incidenti in territorio straniero), e l’Obelisco, la grande scuola mussoliniana (come avrei appreso più tardi) con ampia entrata per i maschi e con tante finestre e un marciapiede che si slargava a definire quasi una piazza prima del secondo portone d’ingresso per le donne, molto più interno e riparato. A metà strada avevamo girato a sinistra e ci eravamo fermati, appena svoltato l’angolo, davanti ad un palazzo antico con ampio portone in legno grigio-verde affiancato da una grande saracinesca grigio-chiaro (il “portone di ferro” avremmo imparato a dire noi).

Lì c’eri tu con Lizia e la nonna ad aspettarmi.

Pioveva anche quel giorno. Una pioggerella sottile e leggera che ci bagnò nel nostro abbraccio commosso e senza parole. Le nostre lacrime si mescolarono con quelle del cielo. Poi tu mi racchiudesti sotto il tuo braccio e, attraversando il cortile, corremmo in casa a ripararci.

Avevo ritrovato il mio adorato nonno della pioggia e delle fiabe. Per questo il cielo aveva stabilito che quel giorno piovesse? Perché tu potessi fermarti ad aspettarmi? No, no. Sono certa che, pioggia non pioggia, tu saresti stato là a stringermi al cuore. E in quell’abbraccio avresti compreso e ricomposto anche la mia anima ridotta in frammenti di giorni delusi, di parole non dette, di pianto nascosto. “Fra due mesi mamma tornerà per stare con noi. Verso ottobre nascerà un nuovo fratellino o una sorellina. Staremo tutti insieme fino all’anno nuovo”, mi dicesti appena ci abbracciammo. Avevi intuito i miei pensieri. La mia profondissima pena. Desti un’occhiata d’intesa a compare Luigi che doveva andare via e licenziare macchina e autista. Stavi soffrendo per il mio stesso dolore e volevi cancellarlo prospettandomi tutto quello che di bello avrei vissuto di lì a poco, ricucendomi tu gli strappi, le separazioni, le distanze. Riportandomi a mia madre e lei a me.

                                                           Ero salva

Mio insostituibile papà, avevi compreso bene che dirti addio, dirle addio avevano inferto una ferita mai più rimarginabile nella mia anima, segnandomi per sempre. L’unico ad intuire. A sapere. A provvedere. TU.

(Ancora oggi i miei occhi asciutti non sopportano gli addii. Le lacrime sgorgano dopo. Irrefrenabili. Una valanga che mi travolge e mi distrugge. Sono incapace di chiudere con le persone. Anche con quelle che non mi corrispondono. Che non sono con me in sintonia. Che mi fanno del male. Che mi graffiano il cuore. Che mi strappano l’anima. So abbandonare solo le cose, le case, gli oggetti. Mi piace donare e spesso so privarmi di oggetti preziosi e cari, senza neppure pensarci. Non ne sento il possesso. Non la necessità. Dalle persone, invece, ogni distacco è un dramma. Che mi vede vinta e mai vincitrice. Ma nei rapporti umani non penso esistano vincitori o vinti. Siamo tutti acrobati sul filo dei sentimenti e della vita).

     Ero finalmente con te. Nella casa del gelso e delle rose. Sì, ero salva.

Eravamo proprio nella storica via Generale Montemar che, davanti al nostro palazzo, si slargava in un ampio marciapiede per poi restringersi con un muro piuttosto alto che segnava il confine del nostro giardino, da cui sbucavano chiome verdi di alberi da frutta. (…)

Ma era “u àrvə də rə cìlzə rùssə” (l’albero del gelso rosso), che svettava glorioso oltre il muro e la saracinesca d’ingresso nel cortile, a connotare la casa. Era maestoso, con grandi foglie e in attesa dei rossi frutti profumati e asprigni. Gioiosa esultanza di panieri d’estate, e tua disperazione di sanguigne macchie nel cortile e sui vestiti di chi sostava alla sua ombra (…)

 (Quante volte con te mi sarei arrampicata su quel tronco e tra i rami, pantaloncini e maglietta malandati, per raccogliere nel paniere, che tu mi affidavi, i rossi frutti che spesso finivano per creare enormi macchie dappertutto; non ero brava come te, ma tu m’insegnavi a mettere i piedi nel modo giusto sul ramo più robusto e sicuro.

Lizia se la cavava da sola come in tutte le azioni che richiedevano destrezza e autonomia. E anche Anna Maria e tutti gli altri, via via che crescevano.

Io avevo sempre il piede sinistro che avanzava prima del destro e la mano sinistra più veloce, che spesso contravveniva al tuo suggerimento che contemplava il rapido movimento della mano destra)>.

Era quella la nostra nuova casa, in cui avrei ritrovato me stessa e la mia gioia di vivere, di amare e di sentirmi amata oltre ogni mio inciampo, ogni mia diversità e paura. Ma una riflessione è doverosa, credo, e la prendo ancora dal primo volume del mio romanzo Le piogge e i ciliegi:

<(Sì, quando un bambino si ferma a pensare, un attimo di buio attraversa la sua anima. E, in quel buio, ha bisogno della presenza degli adulti che ama. Del loro amore. Il loro ascolto dei suoi pensieri, che sono nuvole scure a cancellare il sole. Perché piangono i bambini? Spesso il loro è un pianto disperato, che per gli adulti non ha senso. È solo un capriccio.  Per i bambini, invece, è un pianto di richiamo, un SOS d'aiuto.

Gli adulti di casa sono per loro magici e sanno i loro pensieri, per cui devono capirli al volo, comprenderli e aiutarli. È come per i sogni. Quando un bambino sogna pensa che quel sogno lo abbiano fatto tutti: la mamma, il papà, i fratellini. Tanto è vero che, quando lo racconta, il suo sogno, dà per scontato di dire quello che gli altri già sanno. E se non viene ascoltato o capito e corrisposto ecco formarsi un vuoto nella sua comunicazione con gli altri. Quanta delusione in quel vuoto di attesa, se la persona amata non ascolta e non sa leggere nel suo cuore sogni, paure, desideri.

Comincia da quell’attesa delusa a spegnersi il suo fiducioso sorriso?

È quello il primo anello di ogni altra delusione che si fa catena e condizionamento nella vita? O è, piuttosto, un modello d'amore insuperato a rendere difficile ogni altro incontro, ogni altro rapporto che al confronto non regga? Non ho saputo darmi mai risposte. Forse perché dovremmo farci prima tante domande sul perché non abbiamo risposte…).

E sui ricordi e le memorie mi fermo qui. Ma avrò modo di riprenderli appena avrò un nuovo appiglio per ricordare, grata a quanti mi seguono con tanto affetto e costanza. Grazie. Angela-Angelina-Lina  

 

 

 

 

mercoledì 5 ottobre 2022

Mercoledì 5 ottobre 2022: ricordi e memorie lontane... (continua)

Anche a casa ero costretta da mamma e babbo ad usare la destra, soprattutto a tavola, quando vedevo i loro occhi severi seguire i miei movimenti impacciati nell’usare le posate, il bicchiere e persino il pane da portare alla bocca. Li guardavo in silenzio e sempre in silenzio sentivo il solito polso che mi faceva lo stesso discorso, invogliandomi ad usare le posate con la mano giusta anche se per gli altri era quella sbagliata. Io mi attardavo ad ascoltare quella vocina e, con le labbra semiaperte e gli occhi persi nei pensieri e aria niente affatto intelligente (come oggi ricostruisco nella mente), perdevo tempo e voglia di mangiare. E leggevo (oh, come mi riusciva facile leggere!) negli occhi grandi e severi di babbo il pensiero ricorrente ‘ho una figlia che non è tanto normale’. E non aveva tutti i torti. E io sentivo la mia testa imbrogliata di nuvole mosche letterine cicale buchi. Sì, la sentivo. Quando vivevo con te, era la nonna a rimproverarmi perché non dovevo usare la “mano del demonio” ma quella di Gesù, ed io mi chiedevo come mai la mano destra apparteneva a Gesù mentre quella sinistra al diavolo, visto che era stato Dio a crearci dalla testa ai piedi. E anche con voi perdevo tempo a pensare e non riuscivo a farmene una ragione. Come non mi   facevo una ragione che fosse capitato proprio a me di usare meglio la mano del diavolo. ‘Perché?’, mi chiedevo. Ma non c’era verso che imparassi a fare le cose con la mano giusta. Facevo tutto con maggiore rapidità ed efficienza con quella sbagliata. ‘Sono io tutta sbagliata?’, mi tormentavo ad ogni rimprovero. Sta di fatto che quel dubbio non mi aiutò molto, soprattutto a scuola. Imparare a scrivere, e imparare in genere, per me divenne un incubo. (Oggi scrivo e mangio con la destra, ma lascio il monopolio alla sinistra per tutto il resto. Sono in pratica una mancina contrastata, come era normale ai tempi della mia infanzia. Oggi per fortuna le cose sono cambiate!). 

 A scuola, perciò, non mi sentivo a mio agio. Mi astenevo dal fare domande alla maestra per evitare che concentrasse la sua attenzione su di me e anche perché temevo che non volesse o non sapesse rispondermi. Quando mi azzardavo a chiederle di ripetere perché non tutto mi era chiaro, lei mi guardava inebetita, quasi parlassi un’altra lingua, quasi le chiedessi qualcosa che non stava né in cielo né in terra e io mi vergognavo per non essere riuscita a spiegarmi bene, a farmi capire. Eppure, dentro di me, ero certa di avere parole bellissime e luminose. Collane di parole colorate e leggere che mi sembravano di cristallo, d’argento e di oro; azzurre come l’acquamarina degli orecchini e dell’anello di mamma, dono di nozze della sua nonna. Le mie parole erano per me verdi smeraldi e rossi rubini, tutte le pietre preziose che avevo visto brillare sui gioielli antichi di nonna Angelina, che li conservava in un enorme fazzoletto color ocra, chiuso nel comò (non esistevano allora le casseforti nelle banche) (…) perdevo tutte le mie preziose e luminose parole! Pomodororossofuoco non le capiva. Ed io, in quel primo anno di scuola, avevo avuto sempre paura di pronunciarle con lei e con gli altri. Le avevo chiare nella mente ma le perdevo prima che si facessero parola, suono, voce. Anche le compagne di classe parlavano una lingua a me sconosciuta, il loro dialetto, e spesso le sentivo ridere per frasi un tantino maliziose che riguardavano il sesso, i baci e gli abbracci fra innamorati, le parti più nascoste del loro corpo (…). Non ero riuscita ad entrare nelle loro confidenze. Mi sembravano sconcezze che mi lasciavano dubbi e curiosità e che mi portavo dentro come un fardello pesante, di cui non ero riuscita a liberarmi e di cui non riuscivo a parlare con nessuno. Neppure con mamma.

A fine anno, in prima elementare, proiettarono nell’androne della scuola il film “Il mago di Oz” ed io non ci capii assolutamente niente e ciò mi prostrò molto. Quella sera, chiusa in un silenzio di buia tristezza, mi feci mille domande, come mai mi era capitato prima: ‘Perché non capisco e non so farmi capire? Perché non imparo? Perché la scuola non mi piace? Perché perdo le parole? Dove vanno a finire le parole? Chi le raccoglie o dove si nascondono quelle che perdo io? Perché non so più capire neppure le fiabe che con papà capivo? Perché non me le racconta più nessuno? (…)

Babbo, dunque, mi rimproverava per ogni nonnulla, dicendomi continuamente che ero una “incapace”. Ed io lo diventavo per davvero. Cercavo di fare del mio meglio e inevitabilmente mi accadeva di dare il peggio di me. Babbo entrava in sala da pranzo ed io tremavo perché già prevedevo un suo rimprovero e quel tremito delle mani aveva sempre delle conseguenze disastrose: lasciavo cadere un bicchiere, che si frantumava in mille schegge facendo un rumore assordante di casa che franava; versavo il vino che finiva col prendere la direzione della tovaglia; dimenticavo le posate o i bicchieri o i tovaglioli. Il pane i fratellini me stessa. Inevitabilmente la sua rabbia aumentava perché registrava sistematicamente che ero davvero una “incapace”. Soprattutto quando notava la mia mano sinistra in azione, che si affrettava a lasciare il comando alla mano destra per evitare che lui pensasse anche e ancora e ancora ‘ho una figlia incapace, stupida e diversa’. Avevo paura di lui. (…)

Si era a fine febbraio e mamma ti scrisse una lettera, dicendoti che le sarebbe piaciuto rimandarmi a casa da voi perché non le ero granché di aiuto. (…) scrisse che non voleva neppure aspettare la fine dell’anno scolastico per farmi completare la seconda elementare. Avrei frequentato quegli ultimi mesi nel nostro paese, con l’aiuto di Lizia perché studiavo poco e male e nessuno poteva seguirmi. Non so se fu davvero per caso o fosti tu a mandarlo (sicuramente fu opera tua!), ma ai primi di marzo si materializzò in caserma il buon compare Luigi, il mio eroe venuto a salvarmi.

“Passavo da queste parti e mi è venuta voglia di salutarvi”, disse col suo fare burbero e commosso, adeguandosi a parlare in italiano, essendo in caserma e in terra straniera, “come state? tutti bene? e Angelina come va a scuola?”. “Non la chiamiamo più Angelina, ma Lina. Per una bambina è più breve, più leggero” (l’unica leggerezza che mi era stata concessa da mio padre!). Ma io ero già stretta a lui e lo supplicavo con quel solo abbraccio. “Portami con te. Portami da papà. Non voglio stare più qui”. “Perché non vuoi stare più qui? Stai tutta intera. Vedo che non ti manca nessun pezzo. Sei cresciuta. Forse un po’ sciupata perché sei diventata così alta. E che? Vuoi diventare quanto l’Obelisco che abbiamo al nostro paese? Poi se diventi troppo alta non ti vuole più nessuno”, rideva per nascondere la commozione. E mi prendeva in giro per stemperare un po’ l’atmosfera tesa e come in sospensione. “Babbo è sempre nervoso e mamma ha sempre mal di testa. Anna Maria mi ha combinato un bel guaio al braccio. Vedi questa ferita così grossa e rossa? Me l’ha fatta lei con una gruccia e quando viene il dottore a medicarmela io piango sempre. E pure Pino piange sempre. E mamma piange sempre. E io ho pure il naso rotto. Ti sembra bello stare qui?”. “Beh, allora me la porto davvero la bambina, se qui non serve”, concluse sbrigativo. Mamma sospirò con le lacrime che allagavano silenziose e torrenziali i suoi occhi di tristezza: “Io non vorrei. Mi piacerebbe tenerla con me. Ma starei più tranquilla se tornasse giù da mamma e papà”. “E per la scuola?”. “Potrebbe andare dalla mamma di Nina, la moglie di mio cugino Peppino. La signora Carmela è così brava, garbata e so che quest’anno ha proprio la seconda elementare. Se lei vuole, può accettarla nella sua classe, e poi dall’anno prossimo Lina potrà continuare con lei fino in quinta. Potrà essere aiutata da Lizia. Noi facciamo fare subito il nulla osta e lo mandiamo per posta con urgenza”. “Va bene, va bene. Ho capito tutto”, la interruppe compare Luigi. “Prepara la roba. La bambina viene con me”.

                                         E fu così che tornai da te

intanto, desidero ricordare che il 5 ottobre è la Giornata Mondiale degli Insegnanti. Ebbene, quanto da me raccontato dovrebbe farci riflettere molto sul felice o cattivo incontro con gli insegnanti nel percorso di formazione dei loro alunni, che ne porteranno per tutta la vita i segni del mancato calore empatico, dell'aver ignorato nel tempo talenti e "diversità", e di non aver saputo colorare di creatività  e solidarietà con i pari le ore vissute insieme a scuola... Quanti "delitti sommersi" ieri come oggi nelle scuole di ogni ordine e grado. Imperativo categorico per chi sceglie questa nobile "professione/vocazione": evitarli ad ogni costo, "prendendosi cura" di tutti con competenza e amore, dando a ciascuno quello di cui ha realmente bisogno!  Angela (continua. A domani)