sabato 25 maggio 2024

Sabato 25 maggio 2024: Una Maestra ma non Troppo di Raffaella Leone...

Questa sera mia figlia Raffaella, con cui condivido i miei giorni, in una casa dove abitiamo io, lei, suo marito, Peppino Piacente, con Nicola e Anna Paola, i miei amatissimi nipoti e miei angeli tutelari (+ gatti e micini, gazze, passeri, allodole, storni, una lucciola, un riccio e tanti fiori, alberi, siepi e rose a volontà), presenta un libro, a cui stava lavorando da qualche anno senza portarlo mai a termine. Finalmente, eccolo bello e pronto e in procinto di essere presentato da lei, senza altri relatori, perché lei è, sì, scrittrice per ragazzi e per adulti “col cuore bambino”, come dico io, ma è anche P.R. della SECOP editrice, presentatrice di libri, coordinatrice di eventi culturali e di laboratori per bambini per sollecitarli ad amare i libri e la lettura, raccontando loro anche storie meravigliose che nascono dalla sua accesa fantasia. Dopo tutto questo preambolo per presentarvela, ora penso sia opportuno fare qualche anticipazione sul suo libro Una Maestra ma non Troppo.

 

È un libro che cattura immediatamente l’attenzione degli adulti (in particolar modo degli insegnanti) e dei bambini (come scolari, alunni, studenti) per tre particolari motivi: il titolo, la copertina, il retro-copertina.

Il titolo è simpaticissimo nel suo ossimorico significato, tutto da scoprire nelle sue innumerevoli accezioni, tra realtà e immaginazione.

La copertina attira immediatamente col suo bianco candore su cui prende vita una divertentissima figurina stilizzata e in situazione di pericolosa precarietà, mentre si azzarda a iniziare il percorso, solo apparentemente semplice e lineare, su una grande H, che lascia meno dubbi sul suo reale significato perché l’Autrice si affretta a svelarne il mistero: si tratta di un’H che sottintende “handicap” e di una insegnante di sostegno, che rischia di fare una rovinosa caduta, senza appigli di sorta.

Il retro-copertina, dove si esplicita, in maniera calvinianamente leggera e scanzonata, “ma non troppo”, di cosa si parla nelle pagine ancora inesplorate. Il riquadro serve a rafforzare quanto detto in precedenza, ma in sorridenti termini iconografici, che definiscono meglio quanto serve a comprendere il tutto, ma “non troppo”!

Anche i colori hanno un loro significato simbolico e metaforico. Ma un libro non è solo un titolo, una copertina e un retro-copertina. Un libro è fatto di pagine da scoprire in sequenza logica. Pagine da leggere per comprendere, dedurre, riflettere, valutare, concordare o dissentire.

Un libro è fatto di una Presentazione. Questa volta, eccezionalmente, è lo stesso Editore, Peppino Piacente, in veste di “compagno di vita” dell’Autrice, a raccomandarne la lettura, date le sfide che la Scuola sta vivendo in questi ultimi tempi, per realizzare fattivamente l’inclusione di tutti i discenti senza alcuna discriminazione.

Un libro è fatto anche di Dedica (o Dediche), Premessa, Capitoli (suddivisi per argomenti), Conclusioni. Ma questo saggio è del tutto insolito perché ha un modo tutto suo di procedere: originale, immaginifico, problematico. È rivolto da Raffaella Leone ai suoi alunni, agli insegnanti di ruolo e a quelli che desiderano diventarlo. Poi, si snoda per capitoli che tali non sono eppure presentano argomenti che vanno sviscerati sin dall’inizio perché occorre chiarire da dove nasce il titolo, e il perché del viaggio che Raffaella si appresta a intraprendere per ritrovare la sua identità di insegnante, consapevole della propria vocazione ad esserlo. E il cammino ha tante sfaccettature anomale, simili agli errori che si vogliono evitare, simili alle imperfezioni che si vogliono lasciare perché tutto sia rivedibile, riscrivibile, modificabile per apportarvi un ripensamento, un miglioramento. Magari supportato da un punto di vista diverso che ribalti la certezza di quanto in precedenza conquistato. Magari proprio il punto di vista dei bambini suoi alunni.

È, infatti, un libro, che ha uno scopo preciso. Inderogabile. Un imperativo categorico che non può essere ignorato da qualsiasi adulto chiamato a educare un bambino: Occorre saperlo ascoltare per mettersi al suo fianco e imparare insieme le strategie del cambiamento, attraverso i suoi occhi “nuovi” che fanno nuovo il mondo.

E l’Autrice, per realizzare tutto questo, mette in luce la necessità della metacognizione per restituire a ciascun alunno del passato e di oggi la sua identità emotiva, affettiva, cognitiva, familiare, scolastica, sociale, e lo fa sapientemente con tante “storie” che illuminano ciascuna “storia reale” su cui riflettere per cercare nuove impreviste svolte e scoprire nuovi orizzonti per procedere lungo il cammino, la cui meta è lontana. La meta, come si sa, è fatta di conquiste che, giorno dopo giorno, arricchiscono i viaggiatori di nuove esperienze che si trasformano in conoscenze. Ma anche di nuovi dubbi, incertezze, ripensamenti. Di nuovi versi, nuovi aneddoti, nuove stelle da accendere lungo tutto il percorso per fare più luce. Con maggiore attenzione, maggiore pazienza, maggiore perseveranza. “Attenzione” significa, secondo me, focalizzare uno o più problemi. Riguardanti ciascun alunno. “Pazienza” dovrebbe significare “non stancarsi mai e non scoraggiarsi o arrendersi di fronte alle inevitabili difficoltà che si incontrano nell’essere al fianco di ciascun bambino che ha bisogno di aiuto e di sostegno. “Perseveranza” significa, sempre a mio parere, procedere lentamente per dare il tempo giusto a ciascun bambino di imparare. E scoprire, in ciascun bambino, nuove sfumature che fanno di lui quell’essere unico e sorprendentemente bastante a sé stesso, che ha bisogno solo di una guida amorevole ed empatica per affermarsi in tutta la sua originalità. E ciascuno diventa il protagonista della sua storia in mezzo a tante altre storie simili e mai uguali… Che ogni lettore farà sue per comprendere l’importanza di questo libro ancora tutto da scoprire…

Per questo assaggiamo insieme la prima pagina:

Nella mia vita sono andata a scuola due volte: la prima da alunna, la seconda non è ancora finita.

Da alunna ho imparato che per imparare avevo bisogno di capire i meccanismi interni ad ogni fonte di conoscenza. Le cose stanno tutte una dentro l’altra, anche le più lontane tra loro e tutte si possono comprendere.

Da maestra ho imparato che per insegnare ho bisogno di capire i meccanismi interni ad ogni stile di apprendimento di ciascun bambino e tutti, ma proprio tutti, i bambini si possono comprendere.

Vi starete chiedendo: “Tutto qui?”.  No. Naturalmente. C’è tanto tanto altro da focalizzare per scoprire la validità di un libro!

Occorre soltanto averlo tra le mani e leggerlo attentamente e poi, magari, rileggerlo ancora per riscoprire altre sfaccettature, altri dettagli, altre lievi sfumature che fanno la differenza, una sorta di plus valore da annotare per poter meglio valutare la sua validità. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. Perché è la base da cui partire per accettare o dissentire, per aprire un dibattito o un contradditorio sempre salutari per confrontarsi a più voci in ulteriori, più proficui incontri! Buona lettura!

                                                         Angela De Leo

                                                             

    

mercoledì 22 maggio 2024

Mercoledì 22 maggio 2024: Santa Rita. La Santa dei casi impossibili: la spina e la rosa...

Oggi si venera una Santa molto cara al mio cuore: Santa Rita da Cascia. La “Santa dei casi impossibili”. La madre di mio nonno si chiamava Rita e questo me l’ha resa più familiare da quando ero bambina e andavo al Camposanto con i nonni e ci recavamo sistematicamente nella Cappella della Madonna di Loreto per rivolgerle una preghiera e un saluto. Santa Rita l’ho sempre abbinata alle spine e alle rose: due miracoli straordinari che mi hanno sempre affascinata: il primo riguarda la spina, che volò dalla corona di Cristo per conficcarsi nella sua fronte, come da sua richiesta per condividere in qualche modo le sofferenze del Figlio di Dio, morto sulla Croce per redimere l’intera umanità. Il secondo avvenne sul suo letto di morte, dove quelli che si stavano prendendo cura di Lei poggiarono una rosa appena colta sull’unico ramo fiorito del giardino del monastero, dietro sua richiesta e indicazione, quando era ancora in vita e sentì avvicinarsi l’ora della morte. Io sono stata a Cascia in viaggio di nozze, accompagnata con Primo, da zio Padre Leonardo, di cui ho già parlato. Si era a settembre del 1967 e da Perugia a Cascia fu un viaggio davvero allucinante, tra mille pericolosissimi tornanti che ci sembrarono davvero “impossibili” per la nostra incolumità. Zio Padre Leonardo sorrideva beato e ci incoraggiava, ma noi, al ritorno, giurammo che non saremmo mai più tornati a sfidare la buona sorte. E così fu. Ma io ho avuto sempre un debole per le rose di maggio, comprese le spine, che il nonno aveva la delicatezza, quando ce le porgeva, di togliere dai rami prima che ferissero le nostre mani. Gesto che ho visto fare molto più tardi ad un amico che coltivava le rose nel suo campo. Rose e spine, dunque. E Santa Rita diventa solo un pretesto, ma non troppo. È soprattutto ricordo e nostalgia.

Poi, quante rose e quante spine nella mia vita. Nella vita di tutti. “Se son rose, fioriranno”: un vecchio detto/monito per alleggerire l’esistenza, per non darci pensiero. Forse solo una speranza. “Son tornate a fiorire le rose”: un’attesa appagata. Un sogno di piena primavera che diventa realtà. Avevo una casetta al mare con un minuscolo giardino con i bordi fioriti di roselline tenere, di bisquit, che attendevano la carezza del mio sguardo innamorato. Profumo d’altri tempi. Ma anche oggi ho un giardino che ha un viale di rose: da quelle rosse, profumatissime e splendenti, a quelle blu, insolite e sorprendenti, che rivaleggiano con una collana raso-gola di tante preziose roselline blu che indosso raramente per il timore di sciuparle. La bellezza non va sciupata. E ci sono anche rose più piccole, rampicanti. Ieri sera tra le foglie la prima lucciola ha acceso di sé il giardino e il mio cuore. Sta tornando l’estate. La stagione che mi fa sentire viva. Con il desiderio di rivedere il mare. E gli impossibili percorsi per raggiungerlo che si fanno possibili grazie a mani amorevoli a spingere la mia carrozzella. E oggi la Santa dei casi impossibili me lo ricorda. Niente è impossibile all’amore. Anche l’amore è fatto di rose e di spine. Bisogna avere l’accortezza di esaltarne i boccioli prima che sfioriscano e di eliminare le spine prima che feriscano. Non è facile, ma può accadere. Basta non arrendersi mai e attendere il momento giusto. Né prima né dopo. L’attimo ha il respiro dell’eternità e non ce ne accorgiamo. Anche se tutto scorre “panta rei” in un flusso senza fine. 

Un giorno a Parigi lessi su un muro in riva alla Senna: Pour etre heureux dans la vie/ il faut simplement laisser venir/ ce qui vient e laisser partir/ ce qui s’en va… (Auteur inconnu): Per essere felice nella vita/ occorre semplicemente lasciar venire/ ciò che viene e lasciar partire (o andare)/ quello che se ne va. Mia pessima traduzione. Ma quella frase in riva al fiume mi fece germogliare, come rosa azzurra cantata da mille archi e violini, la seguente poesia: Concerto d’archi e bistrot:

       Concerto d’archi e bistrot

                    a Parigi

e un sogno d’acque e di alberi

di foglie e malinconie

lungo il lungofiume e i boulevard

sonnolenti

Al languido lucore di lampade accese

il ferro de La tour Eiffel esplode

cristallo di luce     Ed è poesia

quando la notte è un inno ai lampioni

e capovolge il cielo nella Senna

Il fiume scorre e ignora di ponti le stagioni

che si sfogliano d’ombre e tornano

mai uguali a sé stesse

Mai uguali

- Le temps fait comme

l’eau des torrentes

Il ne revient jamais -

Leggemmo su un muro a Lion

(Parigi già ricordo d’acque e di trine

  aveva echi d’improbabile ritorno)   

                                                   Così gli asfodeli

                                                sulla fronte degli anni

Ma ho cantato tanto anche le rose. Non ne potevo fare a meno. Anche queste, non solo accarezzandole con lo sguardo nel giardino di casa, ma anche in terra straniera come Belgrado, per decenni mia seconda patria.  

Dovidjenja, Beograd

Incendio di rose questo tramonto

con intermittenze d’oro e di blu

sul Danubio sonnolento

che respira con me la sera

e sa la tristezza dei gabbiani,

l’indomita pietra di ponti e palazzi

a fargli da manto e corona.

Altere sentinelle mute

ascoltano parole come voli

e un mescolarsi di voci

tra volti fraterni e stranieri

all’inesausto canto di antichi

amori e rinnovate nostalgie.

Ride Belgrado coi bicchieri

colmi di vino e di canzoni.

Fiera e ferita, ride Belgrado

sotto una luna di panna e mistero

che rischiara un intreccio di mani

al fuoco di vene in danze slave,

sensuali tenere rituali selvagge,

con occhi grandi di nuova pace

e pesanti catene mai dimenticate.

Sapore d’altre rive d’altro rimpianto

dilata l’ansia del dovuto ritorno.

E Belgrado, incendio di rose di spine,

avvolge di braccia calde il nostro addio

o solo un canto d’arrivederci…

                Dovidjenja, Beograd.

                Dovidjenja, amici, aquiloni di giorni

                leggeri che già volano via.

                (E il filo stretto ancorato alle dita…

                                   Dovidjenja…)

Le mie rose. Le mie spine.

 A Barcellona le rose i libri  

                 (aprile 2012)                                                 

 Un luogo non è mai solo‘quel’ luogo

 quel luogo siamo un po’ anche noi.

  In qualche modo, senza saperlo

 ce lo portavamo dentro e un giorno,

   per caso, ci siamo arrivati.

                         (Antonio Tabucchi)

 

Barcellona è una festa di libri

e di rose lungo la Rambla

che dal porto sventola bandiere

al cuore della città

San Jordi e la leggenda del drago

dal cui sangue fiorirono rosse rose

per la fanciulla che il cavaliere salvò

La gente impazza  

di musica e d’allegria a Barcellona

Incendi d’amori e di rosse labbra

i balli e le risate ch’esplodono

quasi fuochi d’artificio per le strade

di Gaudì e di Mirò - la loro follia -

Rose rosse di esili steli le ragazze

di spine e profumo

hanno bocche di ciliegie e denti

di neve e rugiada

polpa di pesca i seni da mangiare

e tacchi a spillo su cui navigare

Libri che raccontano storie

d’amore e di morte sono i ragazzi

rose tra le mani e un pizzico

di fortuna negli occhi sfrontati

Cantastorie d’avventure a fumetti

bruciano strade arroventate

di desiderio e zaini sulle spalle

in cerca di sogni

Barcellona sfavillio di pazzi giorni

fanfara di colori giostra di parole

turbinio di strade onde di pietra

la Sagrada Familia stracci di guglie

sospesi agli uncini del cielo

e fiabe nei giardini dove il verde

ha mani d’incontri da vivere in due

 

(e la nave dei libri chiacchiera

della nostra ansia di tornare ancora)

E chiudo qui. Per non annoiare chi ha la pazienza di leggere i miei pensieri in libertà legati a un fil rouge che mi balena nella mente per un motivo qualsiasi o per un bisogno del cuore ben preciso. Oggi è stata Santa Rita ad ispirarmi e a ben ragione. Ho una preghiera da rivolgerle e Lei lo sa. A presto! Angela/lina

 

 

domenica 19 maggio 2024

Domenica 19 maggio 2024: Stivaletti rossi danzano e lanciano al Cielo una nuova Preghiera...

Quattro anni fa, dopo sette mesi di soggiorno forzato in varie strutture ospedaliere: dalla Mater Dei di Bari, (clinica di eccellenza dove vari Primari con diverse competenze di chirurgia ortopedica in due giorni fecero due interventi difficilissimi all’anca, ingabbiando l’intero arto in una struttura metallica da manuale, e al ginocchio, mettendo insieme ossa praticamente frantumate con vari chiodi e viti e… in soggetto allergico persino ai cerotti anallergici) all’Oasi di Corato (Centro di sanificazione e di prima mobilitazione degli arti, nonché soggiorno per anziani con varie patologie) a Riabilia nei pressi di Santo Spirito (Centro rinomato per la riabilitazione psico-fisica dei pazienti operati in varie Centri ospedalieri della Puglia), il 19 maggio tornai finalmente a casa…

Ed ecco il racconto, già pubblicato allora su La Gazzetta del Mezzogiorno (se non ricordo male), per ricordare una giornata di grandi emozioni nel sapermi viva e attesa con tanta gioia da tutti i miei cari. Elodie è lo pseudonimo dei miei primi lavori di scrittura, quando ero appena adolescente, e non avevo il coraggio di firmare col mio nome e cognome.

<Elodie attese con ansia e pazienza che suo genero andasse a riprenderla, dopo sette mesi di lunga degenza in vari centri ospedalieri e diverse strutture di riabilitazione nei reparti di ortopedia, per riportarla finalmente a casa.

19 maggio 2020: dimissioni. Le erano state comunicate qualche giorno prima per farla abituare all’idea del ritorno. E lei aveva impiegato quei giorni a rimettere un po’ di ordine nella sua testa formicolante, dove tempo e spazio non trovavano più posto né il senso della gente che vociferava fuori. Tutto per lei era ormai fermo in quello spazio di camici bianchi e verdi, di pareti azzurrine, di vetri ad escluderla dal cielo, di attrezzature con cui esercitare gambe e braccia a riprendere a funzionare. Per ore la paziente Anna, sua fisioterapista di elezione, la aiutava a venire fuori dal tunnel di due gambe offese, fragili, deboli, incapaci di sperare. Per ore le Beatrice, Angela, Annamaria lavoravano con i disastrati pazienti sui lettini del “dolore buono” per il recupero di un arto un dito, un pensiero, la parola, lo sguardo. Lei guardava anche gli altri per vincere la sua inerzia e districare matasse dolorose nei pensieri. E Giacomo di pomeriggio l’aiutava con altre conquiste: salire e scendere i pochi brevi gradini per sentirsi ancora in volo libero. Missione impossibile. E Icaro lontano. Ma era bello andare oltre quel generatore che nella testa faceva brulicare continui ricordi vaganti, ondivaghi, destrutturanti, che tentava di afferrare di qua e di là e che, simili a folate di vento, le sfuggivano come i fili dei palloncini nelle mani dei bambini. E li ripescava di notte, quando il cielo era un mare calmo di silenzio più facilmente raggiungibile; i corridoi si acquietavano; le corsie si addormentavano a tratti scosse da lamenti e urla e richieste di aiuto. Rapidi passi silenziosi distribuivano cure e parole rassicuranti e tutto risprofondava nell’abisso del nulla.

Lei non si lamentava. Amava quei passi rassicuranti che frantumavano la notte e il buio, ma non chiedeva aiuto per sé. Sapeva che Mara, tenero sorriso di complice premura, sarebbe entrata silenziosa, con le sue ali d’angelo, e l’avrebbe aiutata, cambiata, lavata, asciugata, rivestita come si fa con i neonati. Protetta. E lei rinasceva ogni notte grazie a quelle mani, a quelle ali. Prendeva il cellulare dal comodino, lo accendeva, cercava l’icona di “note” e scriveva il vuoto/pieno dei suoi pensieri che magicamente si trasformavano in parole colorate di poesia. E ogni notte così si salvava. Ritornava a vivere. Poi di giorno si ricominciava: le dottoresse, le infermiere, le assistenti. Annamaria… Laura… Anna… le sue infermiere col sorriso e l’allegria. E Isa… la sua premurosa compagna di stanza… e Teresa sempre pronta ad affacciarsi con il suo “buongiorno” carico di sorrisi esibiti e lacrime nascoste… E poi Maria più ingabbiata di lei e più bisognosa di lei in un alternarsi di prestazioni di reciproco aiuto, avendo imparato il dono della “cordata della solidarietà”, insegnatale da suor Maria Paola nella precedente struttura ospedaliera, dove per fortuna i frammenti del suo corpo martoriato avevano trovato rifugio e ristoro nella sua saggezza e umanità. E, ancora prima, altra struttura, altre infermiere (Elena), altra fisioterapista a salvare le sue gambe inerti, e altri angeli ad assisterla: Mimmo, Nicola, Luisa… Volti… voci… mani… passi… Risorse e Speranze per rinascere…  Ed ora, dopo ben sette mesi, e tante turnazioni, lei restava lì a guardare dai vetri il mondo lontano… Fino alla vigilia di quel 19 maggio, che aveva immaginato scritto di rosso sul muro azzurrino, intoccato. Fuori la paura del Covid 19. Ancora un 19. Uno di ritorno alla vita. L’altro di perdita della vita. Eterna contraddizione della vita stessa.

Quel giorno aveva chiesto a Mara quale fosse il suo turno. “Di mattina”, le aveva risposto lei. “Dopo la palestra vieni a farmi bella per il ritorno a casa?”, aveva mormorato Elodie, vincendo il senso di alienazione che l’attanagliava in un abisso di non ricordi.  Scotomizzati volutamente, dimenticati involontariamente. “Certo”, avevano risposto le sue ali con quel sorriso luminoso che la rassicurava: acqua sui capelli e sul corpo a rivoli, a cascata, e poi riccioli appena accennati tra ciocche asfittiche di neve sfilacciata e sole radente e sfinito. “Voglio unghie smaltate di rossofuoco come i papaveri a primavera”, Elodie le aveva chiesto con un’occhiata di complicità birichina, mentre stava pensando, compiaciuta, che magicamente “sentiva” il cervello a posto senza formiche e senza vento, senza abissi e spaventi. Stava ricordando bene. Sì, era proprio primavera ed era maggio, il mese dei papaveri a riempire di baci ardenti il verde delle foglie bambine al primo canto. Il suo mese di meraviglie e magie: rose accese di rosso nel cortile; anni giovani da sfogliare come petali di rosso profumo; preghiere di rosso tramonto che s’inerpicavano al cielo delle dodici stelle a incoronare una Madonnina come tenera carezza d’anima che i nonni donavano ai vicini di casa in un coro di canti e di fede ingenua e vera. I suoi sogni che non andavano lontano eppure si libravano in volo. Oltre il cortile.

Quando era adolescente era un rito andare in campagna con le amiche per fare un gioco divertente e simpatico, che le metteva addosso tanta allegria e tanta voglia di vivere, di amare ed essere amata: prendevano a turno le spighe di grano non ancora maturo e, spingendo con le dita le piumette verso l’alto sulla schiena di ciascuna a turno, le vedevano uncinarsi, impigliate, nella trama dei loro maglioncini leggeri. Si contavano le piume e si ipotizzavano i vari ammiratori da prendere in considerazione. Poi prendevano le bocche ridenti dei papaveri accesi di vento leggero e ogni petalo veniva racchiuso a palloncino fra le dita e schiacciato sulla fronte: se vi lasciava un cuoricino rosso stampigliato sulla pelle, avrebbero ricevuto a breve un bacio dal ragazzo abbinato, nella mente o ad alta voce, a quel petalo fino a raggiungere il numero delle piumette raccolte nell’altra mano, cioè di tutti i ragazzi elencati…Il gioco si faceva sempre più coinvolgente, soprattutto se nella comitiva c’erano anche i ragazzi, alcuni dei quali erano proprio quelli che facevano battere il loro cuore e a cui silenziosamente era rivolto l’intenso, trepidante desiderio di quel bacio… Il ricordo le accese gli occhi della rossa allegria dei papaveri che di riflesso imporporò le guance e fece vibrare le labbra ardenti dello stesso colore. Quanto tempo era passato da quella allegria? “Forse solo un minuto o un’eternità”, si disse Elodie con lo sguardo sognante, che nonostante tutto le era rimasto ancorato sul volto di eterna Alice.

Avrebbe chiesto a suo genero, che tutti pensavano fosse suo figlio per le quotidiane cure che le prestava, anche ora a distanza per via del virus, di portarla al mare prima del ritorno a casa. Lungo la strada avrebbe, poi, visto tra l’erba dei declivi i papaveri che l’avrebbero salutata e resa felice. Come un tempo sempre le accadeva ad ogni suo rientro a maggio da altri Paesi e Città. Elodie amava molto viaggiare, zingara nell’anima. E amava la poesia che riempiva la sua anima di colori di… versi.  

E Pietro arrivò da solo, puntuale. Il Covid aveva ferree leggi da rispettare. Solo in due in macchina. Anche lei era pronta. Con una piccola stretta al cuore per quella solitudine subìta anche ora che avrebbe voluto cantare la sua libertà di nuovi abbracci e baci con i suoi di casa. E uscì oltre la vetrata, oltre il cancello. Con un vestito nero su cui ridevano papaveri squillanti come campane a festa a portarle una poesia di giorni nuovi, di unghie e rossetto dimenticati e ritrovati. Un filo di matita sugli occhi a ingigantirle lo sguardo di stupore. Per innamorarsi di nuovo del mondo, fuori e dentro di lei. Una coccinella smaltata di rossofuoco si posò sulle sue mani a salutarla festosa con l’intento non troppo nascosto di portarle fortuna. Oltre la vetrata che l’aveva tenuta prigioniera, incartata come una caramella alla fragola.

Era il suo primo giorno di vita.

Mara e Gianni e Anna e Giacomo, commossi quanto lei, l’accompagnarono, col girello e le due stampelle di colore verde prato, fuori fino alla macchina. Per aiutarla a salirvi. Le lacrime a stento trattenute. Si salutarono con un “arrivederci” e con un battito d’ali che non prevedeva un “addio”. Era fuori ed era libera! Dopo l’inferno, la luce del primo nuovo giorno. La LUCE.

Solo più tardi Elodie si ritrovò tra le braccia di sua figlia Nike, sguardo d’amore ali di vittoria su ogni male. Prima, suo genero Pietro, roccia che sostiene e protegge, senza che lei glielo avesse ancora chiesto, la portò al mare dei suoi tuffi bambini nel profumo intenso d’alghe e di vento alla scogliera rumorosa di bianco merletto d’improvvisata sposa, spuma leggera nuvola dorata di appena sole. E le fece una fotografia-ricordo persa nell’azzurro cielo-mare, per immortalare il suo sguardo a rincorrere l’orizzonte sfiorato da una vela in gara col suo cuore acceso. Poi la riportò a casa lungo campi punteggiati di verde e di rosso. E davanti al cancello l’aspettava, non più il suo cane “nuvolabianca”, ma un ciuffo di papaveri rossofuoco a colorare di gioiosa festa le pietre vive del muro in attesa del suo ritorno.

Dentro, ad aspettarla, c’erano sua figlia e i due suoi adorati nipoti, in un coro di gioiosa esultanza, che era cerchio d’AMORE INFINITO. E gli altri figli lontani già in videochiamata per salutare il suo ritorno alla vita, al loro cuore e a quello di tutti i suoi cari. Ignari della sua decisione di andare ad incontrarli quanto prima in un luogo tra mari e monti e tanto cielo dove il Covid non era di casa. Lei zingara anche ora. Viandante senza scarpe e senza catene. Anche le stampelle erano ali.

Ma, prima di entrare in quella vetrata illuminata dalla luce del loro sorriso, Elodie, oltre il cancello, corse a perdifiato, con gli occhi grandi di sogni e ricordi, lungo quel campo di baci ardenti per non mancare all’appuntamento con il ragazzo che aveva avuto un tempo tra le mani il suo cuore. E si sentì finalmente rinata con mille papaveri in fiore tra i pensieri.

Sul filo dei ricordi

stivaletti rossi danzano

funamboli di sogni

mai dimenticati

E il rosso del vestito

a incendiare

i tuoi occhi le tue mani

incapaci di afferrarlo

Negli anni più volte si spezzò

quel filo strattonato dal vento

ma sempre riuscì ad agganciarsi

al cielo delle infinite lune…

(rossi i papaveri ubriachi di sole)> (Angela De Leo) 

Spero che i papaveri ubriachi di sole illuminino questa domenica, che ha ancora ali di preghiera per nuovi miracoli che chiedo al Cielo perché sia un ritorno a casa anche per chi adesso ne ha bisogno per tornare a Vivere e a Sperare. Insieme ogni Rinascita è possibile. Grazie. Angela/lina 

sabato 18 maggio 2024

Sabato 18 maggio 2024: Poesie di maggio di Angela De Leo... così... per ritrovarci nella Poesia con Poesia...

Sono passati alcuni anni dalla pubblicazione della mia ultima raccolta poetica L’ora dell’ombra e della riva (della SECOP Edizioni) ma, rileggendo alcune poesie dedicate al mese di maggio, mi sono accorta che nulla è cambiato in me e nel mondo e che persino la pioggia, il vento, gli improvvisi squarci di sole continuano a rendere questa primavera solo un desiderio, un’attesa, un improvviso ritorno di una quasi estate. E, allora, le ripropongo. Per chi non avesse mai letto il libro. Per chi "sente" che la primavera - che sa già d’estate - prima o poi ritorna. E rende leggero il cuore…

Nata di maggio                     

 

Se quel che insistiamo a chiamare  

Fato sembra inspiegabile e crudele

È soltanto perché

Manchiamo d’immaginazione

Per desiderare quel che con sé porta

Per illuminarlo con qualcosa di più inventivo

Dello sgomento.

                          (John Burnside)                                                                

 

Nata di maggio
appartengo ai colori accesi
di papaveri rose tulipani
Profumo di scalpitante
allegria mi arde nelle vene
percuote questo autunno
che cede all’inverno
i tramonti suoi dorati
In abissi di taglienti lame
riafferro il mio arcobaleno

distrutto e sempre rinasco            

- Culla tra le tue mani calde                                                          

le mie vili attese del sole
scaccia i miei pensieri di neve

cancella quella ferita rosso fuoco

che soltanto sogna di farsi risata -

 

(tra ridenti labbra di fragole e ciliegie)

 

Ritornano sinfonie di rose blu

C’è come una festa di ali

in questo tiepido pomeriggio

di piena primavera con rose

che tornano a ridere in giardino.

Petali blu franano lungo pareti

trasparenti del vaso sul tavolo.

Dipingono di voli i miei occhi.

Nell’azzurra penombra ricordi

s’affacciano dai sotterranei

della mente in lotta col cuore

- sinfonia d’archi flauti e violini -.

(solo la musica è immortale?)

Volteggiano mezzelune gialle

comprate al mercato delle pulci

sul mio capo di nuvole e sogni

nella camera che ha per cappello

il cielo e una fronte quasi obliqua

che di sole sghimbescio colma

pensieri e cautamente l’infutura.

La bambola di organdis e bisquit

mi guarda preziosa più del ricordo.

Dono di tenere mani, il suo sorriso

di corallo mi consegna un rimpianto.

(solo il ricordo ci rende immortali?)

Guardiana del tempio dell’amore

ho perso il filo del mio starti accanto.

Da lunghe braccia giovani circondata

misuro ormai il mio tempo arreso

dalle loro corse alle attese primavere

avare ora per me di fiori erbe chimere.

“L’amore è nostalgia” decretò Freud

con occhi di nebbia rivolti al passato.

Darei il mio regno di carta stampata

per un (in)canto d’amore a perdifiato

che coniughi il mio tempo all’infinito.

(può l’amore rendere immortali?)

Agli inganni della mente lama affilata

che in opposti macigni taglia il pensiero

- e buone intenzioni e incontri ferisce -

io del cuore salvo le antiche ragioni

di Pascal e il suo esprit de finesse:

rami fioriti di fresca primavera pini

svettanti e fragranze di tiglio e cedro

che imbrigliano ali e le dispiegano.

Non omnis moriar per noi Orazio cantò.

Se la Parola è monumento aere perennius.

Se Musica Memoria Amore è il VERBO…

(rose blu sinfonia di saggezza e sogno

   illusione di preludio all’eternità)

 

 

Scroscia a maggio la pioggia                                                                         

Sono qui seduto su un tappeto

di foglie e fiori di primavera

e il mio silenzio è una preghiera

ed ho con me la coppa e il vino.

                               (Giuseppe Conte)

S’abbatte sui tetti rossi e i lucernari

(“riccioli rossi” e occhi di cristallo)

un cielo liquido che frana di gocce,

e di terra bagnata e di rose profuma.

Richiamo a gloria di campane l’alba

della domenica, giorno del Signore.

S’infrange di pioggia e cinge il capo

non d’alloro come s’addice ai poeti

ma di mirto e d’uva come vogliono

amore e follia, ebbrezza e sogno

che un giorno m’appartennero

come ago e filo, sonno e cuscino,

fiamma e calore, come ti dissi,

“dorso e palmo della stessa mano”.

(ma la pioggia dilava campane e ricordi)

Il giardino è scintillio di petali d’acqua.

Agli occhi mi dardeggiano,

di rosso e di giallo,

rose tulipani papaveri e fresie

e un canto di foglie di un maggio

che s’affretta a donarmi

un altro anno di tormenti e magie,

di silenzi e frastuoni, di pause e poesie.

Cadono petali di cielo

sul glicine blu innamorato

di trine e ricami agli altari sconsacrati,

che lavano capricciose nuvole

al respiro degli arcobaleni.

E nuove ali ricamano i miei giorni di sole.

Lontano il mondo dei violenti e dei folli,

degli assassini in marcia

per “prendere il potere” ad ogni costo,

 e Brecht il denaro e i bimbi violati

e la bellezza umiliata.

Rumore che assorda, smog che uccide.

Lontano Caino che si finge Abele

e ogni Abele massacrato senza pietà

perché Caino trionfi ancora

ed abbia altari e onori e moltiplichi

i trenta denari di Giuda.

Per vantarsi dell’agnello innocente

sgozzato

e nuovi riti pagani via etere

con foto e video a stordire menti

e rattrappire l’anima, il cuore.

E fingere un niente di sentimenti

in liquida fuga

per negare il limpido candore

delle mani intrecciate.

(la pioggia lava colpe e misfatti

lava ferite e tormenti la pioggia)

Sapeva di pioggia, di gelsi, di rose

e di gatti il mio cortile,

sapeva di sere chiare di stelle,

di fiabe e misteri,

voli d’angeli, riso di cielo.

C’era sempre, nella voce

di mio nonno, una fata buona,

uno gnomo innamorato. E ci fu

un cavaliere gentile e coraggioso

che, in una sera di pioggia, trovato

aveva rifugio nel castello del re

quando con doglie di madre la regina

s’affidò al suo canto per avere un figlio.

Cantò il cavaliere per tutta la notte,

per tutta la notte il cavaliere cantò

purché da bere gli dessero

e da mangiare.

- Piove e lascia piovere

ché al coperto mi trovo

nient’altro chiedo per me.

Il mio cavallo s’asciuga.

Signore un bel bambino dai

alla regina e al potente mio re… -

All’alba di sole e pianto di bimbo

lo videro felice sul suo bianco destriero

lo videro correre con occhi di sogno

tuffati nel suo cielo arcobaleno,

grande quanto grande il suo cuore

bambino…

(ritornano di pioggia e di vento

le sue magiche parole che sotto

il piombo di giorni di sgomento

raccolgo in un canto d’amore

 e del sogno che non può morire).

 

Non so vivere

non so vivere

come quelli che non nacquero mai

che vanno ad occhi spenti per il mondo

- avide mani tra oggetti impolverati

carezzano denaro schiaffeggiano vento -

Non so nutrirmi di ideologie

vesti desuete e disperate

che fingono bandiere multicolori

e ignorano sorrisi

in assalto contro nuovi lidi

- tormento di molteplici verità

alla ferocia del pensiero unico -

Amo l’idea nastro colorato controvento

libera io di essere libera

su bianche vele lontane dalla rada

Nella pratica delle ore quotidiane

non so stabilire record di perfezione

in giro per la casa o per le strade

fingendo una sicurezza di mete

e destinazioni colme di sgomento

Aliena come rondine d’inverno

stellata gemma di neve a primavera

mi manca il senso finito delle cose

Mi sfuggono opportunità e circostanza

Mi spaurano rabbia e indifferenza

la volontà di uccidere ad ogni alba

- bagliori di coltelli affilati nel buio

di livide notti insonni ed assassine -

Mi trafigge il vuoto d’inutili parole

aggrappate a silenzi che non so capire

dove mai s’incontrano navi da crociera

solo rapaci galeoni di feroci pirati

al canto di certezze addormentate

 

Io nacqui alle otto di una sera

che sfogliava petali di rose

per farne farfalle profumate

in un campo di ciliegi e melograni

- tra papaveri da scoppiare tra le dita

scrivevo i miei ti amo ad un amore

volto di sole e un buco dentro il cuore -

Io nacqui con negli occhi gli aquiloni

a conquistare un cielo di turchesi

barchette di carta al gioco dei bambini

in un altrove che mi strania e mi cattura

Ma ho versato lacrime di sale

per ogni veliero sparito in fondo al mare

Però nacqui e non m’importa dovecome

se non so vivere come gli altri sanno

se non dormo sull’altrui dolore

se dentro mi vola un gabbiano

sotterraneo sogno di giorni delusi

tra ragnatele di anni sempre uguali

e scuse banali per non sapere amare

Io nacqui sotto feroci bombe nel cielo

ma contai sempre i passi delle stelle

ad ogni rombo che mi franava il cuore

Però nacqui e più non m’importa

se una ferita lunga è questo amore

da ricucire con cento fili di seta

su corazze di ferro arrugginito

(... e fingersi un sogno in differita

                per non rimpiangere

                       di non essere mai nata...)

 

Amo                                                                            

Il cuore vola

Dove la mente non sa

neppure camminare

                     (Colette Haddad)

 

Amo le epifanie di giorni come questi

quando è sorpresa e dono il tuo nome

ai cancelli dischiusi ad ogni attesa

 

Amo i treni che improvvisi ritornano

e hanno fasci di rose ai finestrini

e un fischio lungo che promette

un arrivo senza più partenze

 

Amo il trillo di un telefono muto

tenero pensiero o stupido errore

Viene nella mia casa senza canto

a darmi ad un tratto compagnia

e mi trova opaca luna solitaria

inutile come sogno dimenticato

Ferita dalla luce del nuovo giorno

(colori accesi e notte cancellata)

l’insonnia mi fa vivere due volte

e mi regala sempre qualche verso

tra labbra d’arsenico e coralli

perché io non muoia mai del tutto

 

Amo la notte accesa che mi riporta

insane insonnie di menta e cioccolato

quando negli occhi anticipi racconti

di fughe abbandoni che non vuoi dire

e che io fingo di non aver letto ancora

e i lunghi silenzi che non voglio capire

Cronaca d’inganni ogni altro da noi

che non osiamo più ricordare

quando in fiore era quel sentiero

lungo il muro perduto e straniero

che rare pagine di diario dipinse

strappate a pezzi e poi dimenticate

nello scrigno del tempo abbandonato

 

Amo la libertà del mare il suo mistero

quando i velieri dei giorni prigionieri

lasciano la rada per navigare a vista

in tumultuose acque di terre lontane

straniere agli smarginati scogli di sale

tra ormeggi di vino e onde di gabbiani 

 

Amo fanfare e bande di paese la danza

l’orchestra i tamburi i fuochi tra le stelle

feste del patrono da spiare dentro casa

le luminarie i gelati e di Sicilia le cassate

e palloncini e aquiloni e zucchero filato

 lucciole e lampare quadri da guardare

I mercatini le cianfrusaglie le bancarelle

fiori tra i capelli e souvenir da inondare

le stanze gli angoli mensole scale e muri

su cui disegnare mille poesie d’amore

Poi fermagli spille e carabattole e anelli

foulard sciarpe colorate cappelli d’estate

carte e libri e musica e canzoni dell’addio

(leggere e leggere e poi intrecciare parole)

 

Amo poi la tua maschera apotropaica

che sul viso dissimula misteri e sortilegi

di gatti randagi cani fedeli e ore ballerine

Recide abbracci e cela oscuri volti di verità

                  (la mia? la tua?)

Spergiuro specchio di triste afasia la terza

verità ancora tutta da ascoltareconfessare

                  (e… io amo le bugie)

 

Oltre un maggio di rose

(3-4 giugno 2013 - cinque anni dopo)

Il maggio di rose si sfinisce

in un giugno di pioggia

che mi rema contro

alla conta degli anni passati

nel reiterato ricordo

delle tue impronte nella casa

vuota di parole e di silenzi

E c’è ancora un rovesciarsi di luna

all’assalto di tetti addormentati

e una furia di vento a scompigliare

i rami intricati della notte

E c’è ancora la mia insonnia accesa

di mille perché e non una risposta

Tutto si ripropone nel tempo

e tutto si rinnova e si perde

in questo giorno foriero di presagi

e di attimi aggrovigliati  

         di senso oscuri

 

domani sarà un giorno lungo

da scrivere sul mio calendario

sui tuoi giorni ormai spenti altro

anno attraverserà forse il mio cielo

(forse… anche… la pioggia… domani…)

E basta così, per ritrovarci in poesia con poesia. Alla prossima. Angela/Lina