sabato 11 maggio 2024

Sabato 11 maggio 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (fine)

<Con te abbiamo vissuto il dono dell’amore in tutte le sue innumerevoli forme fino ad identificarsi con il dono della poesia. (…). Ecco, nonno mio carissimo, che ritorna la parola Amore nella sua essenza più pura, profonda e vera. L’Amore: Palpito del Cuore, Volo e Abisso, Luce dell’Anima in cui è riposta davvero ogni Speranza… In realtà, dell’amore non si dovrebbe parlare perché è un sentimento talmente intimo e profondo che va soltanto sentito, assaporato, vissuto, sofferto. Eppure, tutti parliamo d’amore quasi a colmare il vuoto che ci lascia questo bisogno inappagato perché è tanto grande da comprenderci tutti, ma tanto fragile da lasciarci sempre e comunque una ferita. Anche quando è reciproco. Condiviso. La inevitabile diversa intensità è fonte di dolore. La felicità, in amore, è l’attimo in cui i sensi sono accesi in entrambi e i cuori battono all’unisono… Ma non è facile che ciò avvenga, occorre appunto “cogliere l'attimo”.

Tu sei stato sempre l’eccezione a confermare la regola. Il tuo amore è sempre sopravvissuto a tutto. Forse perché era troppo grande per arrestarsi davanti a un limite, un confine. Tu rendevi positivo ogni sentimento e lo nobilitavi. Anche il sentimento, comunque, ogni sentimento nasce sempre da un “incontro”: quello della madre col proprio bambino, che “sente” forse sin dal momento del concepimento; quello tra padre e figlio, appena il papà prende tra le braccia quel batuffolo di carne e di pianto; quello tra nonno e nipotino comincia con la prima carezza; quello di due destinati ad amarsi o a volersi bene o ad odiarsi, a diventare amanti, amici o nemici, comincia così quasi sempre per caso, ed è dovuto ad una folgorazione e non è mai un qualsiasi incontro.

In alcuni casi si parla di anime gemelle, destinate ad incontrarsi sempre e comunque e a riconoscersi per continuare ad amarsi per l’eternità. Mi affascina questa teoria esoterica, che mi riporta indietro fino a Platone e al Simposio, in cui ogni essere umano tenta di ricongiungersi alla sua metà, separata da un fulmine di Zeus. Una teoria, dunque, che viene da lontano e va lontano, come la teoria del Karma di alcune religioni orientali (buddismo, induismo…), che predicano la reincarnazione come mezzo di elevazione e di ritorno nell’Assoluto da cui l’anima proviene. A questo punto mi si confondono le idee. Non so più dove cercare una qualche verità.

Con te non esistevano teorie o altre religioni. Sapevi che la fede cristiana parlava d’amore santificato dal matrimonio in chiesa, davanti al sacerdote celebrante. L’anima gemella era quella che avevi accanto e che dovevi amare e onorare nella buona e nella cattiva sorte. E ce ne hai offerto un indimenticabile esempio fino all’ultimo tuo respiro. Pure, a me oggi piace confrontarmi con altre realtà, altre possibilità. Mi piace cimentarmi con riflessioni e teorie varie. Nessun orizzonte deve rimanere inesplorato. Non si sa mai. Nessun orizzonte deve essere precluso alla vista e alla conoscenza degli uomini. Il più grave peccato è, secondo me, l’ignoranza, da cui deriva una serie molteplice di errori, dovuti perlopiù a deleteri pre-giudizi. Quando un rapporto dura nel tempo, avviene perché ci si “consegna” all'altro reciprocamente, perché si impara a conoscere l'altro/a e a riconoscersi in quello che si è, si può dare e ricevere; a fidarsi, a capirsi, a stimarsi e ad affidarsi: ci si abbandona all'altro/a dopo aver conquistato la consapevolezza di sé e di ogni altro da sé, oppure per trasporto naturale o, semplicemente, per amore. Soltanto per amore.

Ecco, l'amore. Non è facile parlarne perché tra tutti gli “incontri” è quello più misterioso, complicato, complesso. Non credo, come alcuni studiosi sostengono, che sia pura chimica biologica o un fatto di ormoni o di feromoni; credo che alla base ci sia quella misteriosa attrazione che viene da lontano perché si vada lontano insieme. Perché fra migliaia di persone, che si incontrano nella vita, proprio lui, proprio lei? E magari nel luogo giusto e al momento giusto?

L'amore, dunque, è mistero. Come tutto ciò che è immenso rispetto alla nostra finitezza di piccoli uomini, venuti a far parte, senza sapere come e perché, di un arcano: ricamo di universi, anch'essi innamorati, che vanno a generarsi e a rigenerarsi all'infinito.

L'IMMENSO nell'IMMENSO! Allora, l'AMORE è, almeno per me, quella meravigliosa fragilissima FORZA che si porta, centuplicando all'infinito la sua POTENZA, per tenere in vita il TUTTO. Parlo di quella energia incommensurabile che tiene insieme fortemente coeso, per l'attrazione dei corpi celesti, anche il Creato. Immensamente grande, perciò, è l'AMORE per essere compreso e vissuto nella sua totalità da esseri immensamente piccoli, quali siamo noi uomini. E tra l’immensamente grande e l’immensamente piccolo si snoda la vita, che è “culla e urna”: nascita e morte.

Sono passati così ancora anni: altre vicende, altre gioie, altri lutti, altri presagi e misteri, altri addii feroci e definitivi. Altre parole. Altri silenzi. Una vita altra dopo la caduta e gli interventi mai riusciti e mai risolutivi. La perdita di me con ogni altra perdita. Altre destinazioni. Altri distacchi. Altre disarmonie. Tutto quello che avrei voluto evitare. Tutto quello che ho dovuto accettare. E tra migliaia e migliaia di parole dette, ascoltate, lette, corrette, sussurrate e mai urlate… i silenzi… i Silenzi… I SILENZI…: Ho conosciuto il silenzio delle stelle e del mare/ e il silenzio della città quando si placa/ e il silenzio di un uomo e di una vergine/ e il silenzio con cui soltanto la musica trova linguaggio

il silenzio dei boschi/ prima che sorga il vento di primavera/ e il silenzio dei malati quando girano gli occhi per la stanza. (…). C’è il silenzio di un grande odio/ e il silenzio di un grande amore/ e il silenzio di una profonda pace dell’anima/ c’è il silenzio degli dèi che si capiscono senza linguaggio/
c’è il silenzio della sconfitta/ e il silenzio di coloro che sono ingiustamente puniti/ e il silenzio del morente la cui mano stringe subitamente la vostra/ c’è il silenzio che interviene tra il marito e la moglie/ c’è il silenzio dei falliti.
(…). E c’è il silenzio dei morti./ Se noi che siamo vivi non sappiamo/ parlare di profonde esperienze/ perché vi stupite che i morti non vi parlino della morte?/ Il loro silenzio avrà spiegazioni quando li avremo raggiunti. (Edgar Lee Masters, stralci da “Il silenzio”). Silenzio. Paradossalmente è una parola che mi piace. Se penso al silenzio che fa parlare il cuore. Come dicevi tu, quando sorprendevo te e la nonna seduti vicini nella penombra della sera, dietro i vetri di casa, in silenzio, a salutare il buio che annullava le cose e i rumori e le voci del nostro piccolo mondo quotidiano: la strada di casa, allora ancora un po’ in periferia, o la semplice scia di un amore che vi teneva indissolubilmente uniti. Sereni, nonostante gli innumerevoli dolori e dispiaceri vissuti da entrambi. Anche a Primo, il mio tempestoso compagno per circa quarant’anni, piaceva il silenzio del nostro raccontarci il giorno con gesti d’amore; lui, che aveva come codice preferito di comunicazione l’urlo, e si meravigliava del mio accoglierlo in silenzio. Per lui ero “la lite senza lo scontro”. Se torna il silenzio: era una aspirazione ed una invocazione. Una necessità di vita per riscoprirci insieme. Eppure c’è stato anche il tempo dei nostri “disperati silenzi”. Non ho più saputo dei suoi pensieri. Lui ignorava i miei o forse li intuiva. Ecco perché il silenzio è anche una parola che mi sgomenta, quando penso al silenzio che crea un vuoto; che separa con fratture e divisioni; che è culla di odio e di rancore; che cova vendetta; che coltiva un equivoco e lo fa ingigantire nella mente; che nasconde un sentimento mai rivelato e, quindi, mai conosciuto e riconosciuto, mai vissuto nella pienezza del gesto e delle parole e delle accorciate distanze. Silenzio atteso e temuto, dunque. Silenzio invocato e nutrito. Infranto e chiacchierato. Silenzio raccontato. Come il nostro silenzio, caro papà. Invocazione muta dell’anima. Preghiera. Nella nostra casa c’erano spesso, dal tardo pomeriggio fino a sfiorare il buio della sera, penombra e silenzio.

Penombra e Silenzio lasciavano parlare il cuore. Penombra e Silenzio si facevano compagnia. Ci permettevano di incontrarci nell’ascolto delle parole non dette ma sentite ugualmente. Ed era bellissimo ritrovarci nei volti che via via si cancellavano mentre si facevano più evidenti e vivi e veri i sentimenti che provavamo per noi, tra di noi. Lontano il mondo con la sua realtà.

In quella penombra e in quel silenzio forse registravamo i nostri anni vissuti insieme con i ricordi belli, ma anche tutte le lacrime per ogni perdita, ogni sconfitta, ogni ferita difficile a rimarginarsi. E ancora oggi, caro papà, tu mi guardi con rassegnata comprensione. Lo so, vedo i tuoi occhi, scorgo il tuo sguardo, l’accenno di un sorriso di malinconia. Solo con te avevo stabilito quel rapporto empatico che era immediata conoscenza da parte tua della mia anima. Ma quanto io ignoravo di te? Era soltanto la mia anima a ricevere tenerezza e consolazione nel nostro involucro che escludeva il mondo. Un involucro di conforto e protezione che sentivo tutto per me, non potendo fare altrettanto io con te: troppo piccola e spaventata io, troppo forte e coraggioso tu. Almeno ai miei occhi. E, così, al di là delle mie paure, mi rannicchiavo nel tuo cuore sicura di essere amata, protetta, capita. Sensazione mai più ritrovata in tutti questi anni senza te. Dopo di te: in una società non più patriarcale ma nuclearizzata, ognuno di noi, tuoi nipoti, vive, come è giusto che sia, i propri problemi e le proprie gioie nella propria famiglia ed è sempre più raro il tempo del nostro incontrarci per parlare di noi, per ascoltarci e capirci. Nei rari incontri ci ritroviamo in una confidenza, in una battuta, in una risata amara. Ci ritroviamo. Ma quanta parte di noi rimane sconosciuta nella stessa costellazione familiare?

Neppure i miei amati ragazzi, non più ragazzi, che sono altri me ma altro da me, mi conoscono profondamente. Né io conosco loro. Eppure dovrebbero essere il mio prolungamento. Mi amano tantissimo come i figli sanno e possono amare una madre. Ma cosa sanno realmente di me? Cosa intuiscono, immaginano, ignorano? Spesso si stupiscono ancora di fronte alle mie parole che percepiscono come esagerazioni. Si allarmano. Mi rimproverano. Per amore. Con amore. Hanno a loro modo ragione: non riesco a rimanere incasellata in quello che loro credono io sia, o vogliono che io sia. Sempre spaiato il mio pensiero, come i calzini dopo ogni lavaggio. Ho le mie fragilità che non accettano. I miei molti dubbi che non accettano. Le mie àncore tradizionali che non accettano. Le mie poche certezze (o probabilità che sbandiero come tali)) che non accettano. Salvo poi ad accettarmi in toto così come sono. E questo rapporto “a specchio”, in fondo, è reciproco. E ci si ama incondizionatamente. Come avviene in tutte le famiglie normali. Ma cosa è oggi la normalità? Me lo chiedo ancora!!! Dopo di te, ho incontrato tanti amici, tante persone care che mi hanno dato parole e mi danno amore, ignorando in parte il mio mondo interiore, le mie emozioni. Alcune volte ritenute anche da loro spropositate. E, senza saperlo o volerlo, mi fanno sentire, come da bambina, “tutta sbagliata” (sempre sulle righe… sempre in eccesso ogni cosa che dici e che fai… sempre cervellotica… cerca di semplificare di distenderti di evitare… tu e le tue tiritere da strizzacervelli… Possibile che ogni volta con te è come se fosse la prima volta? Ci sei o ci fai? Te la tiri o che? Fingi di essere accogliente ma poi sei così distante…). Non ho mai negato la mia complessità, ma mi sembra un’offesa definirmi cervellotica né posso confessare a cuor leggero ai tanti, conosciuti in brevi incontri, che sempre più negli anni ho scoperto con dolore e disagio una prosopagnosia più o meno lieve che non mi consente, però, di riconoscere volti e di ricordare nomi di persone incontrate solo poche volte. Nonostante la mia proverbiale memoria di ferro in altri ambiti. In quelle circostanze mi sento come una bambina sperduta tra la folla indefinita ed estranea, con un senso di paura che mi vince e mi avvilisce. Mi occorrono più e più incontri per mettere a fuoco chi finisce col diventarmi poi amico/amica. Mi viene in soccorso Raffaella che, con disinvoltura e senza darlo a vedere all’interlocutore di turno, mi ripropone il nome e il luogo e il momento del primo incontro, illuminando così le mie tenebre. Fino ad un nuovo incontro e al mio nuovo perdermi… Sono anche queste, oggi, le mie ferite che molti ignorano.

Solo tu sapevi. Non di questa sorta di patologia forse congenita forse acquisita; non dei miei tormenti intimi e inespressi; non delle mie paure e fragilità, ma di sicuro sapevi la mia anima. Neppure io, però, sono stata e sono in grado di conoscere profondamente gli altri. Cari e meno cari. È questo l’inganno della vita. Noi perfetti sconosciuti a noi e agli altri con l’illusione/presunzione di sapere tutto di noi e degli altri.  Siamo nuvole che si aggregano e si disgregano, si formano e si disfano, assumono sembianze diverse che fluttuano nello spazio e si dileguano… Vanno/ vengono/ 
ogni tanto si fermano/
e quando si fermano/ sono nere come il corvo/ sembra che ti guardino con malocchio/ Certe volte sono bianche/ e corrono/. (…)./ Vanno/ vengono/ ritornano/ 
e magari si fermano tanti giorni/
che non vedi più il sole e le stelle/e ti sembra di non conoscere più/ il posto dove stai.  (…)/ e si mettono lì tra noi e il cielo/ per lasciarci soltanto una voglia di pioggia. (Fabrizio De Andrè, stralci di “Le nuvole”).

Come conoscerci e riconoscerci nella proteiforme realtà che ci circonda e che noi stessi siamo? Diventa quasi impossibile. In realtà, più ci amiamo e più ci feriamo (… ogni uomo uccide ciò che ama… dalla intensa Ballata dal carcere di Reading di Oscar Wilde)>.

Poi, mia figlia Daniela, ormai lontana e in pena per ogni mia pena, raccontata più con i generosi silenzi che con le parole palesi, mi ha mandato non una ballata ma una ninnananna per addolcire i miei giorni delusi e stanchi in una casa sempre più vuota, dove lei più non abita e dove anch’io non abito più.

                                            RESPIRANDOTI ACCANTO

Ecco la mia ninnananna per te. Ogni notte potrai rinchiudere qui i tuoi sogni per far sì che non si disperdano durante il giorno, e ricordare che non bisogna mai smettere di sognare, perché fa bene al cuore. Ogni notte potrai sentire il mio sussurro e la mia mano stringere la tua mano, il nostro “ABBRACCIO ETEREO” prenderà forma e colori e non avrai più paura del risveglio dell’alba. Il mio bacio della buonanotte ti sfiorerà i capelli, ti accarezzerà il viso, ti soffierà tra le ciglia, ricamerà nuovi sogni da costruire insieme… io sarò sempre accanto a te, e ti farò dono del mio sogno più bello. Daniela con la sua ninnananna per te che non dormi mai…

“NINNANANNA DELL’ACCHIAPPASOGNI”: Dormi, bambina, dormi/ c’è un’altra notte da creare/ per il mondo ci han messo sette giorni/ a te basta una notte per farlo cambiare// Dormi, bambina, dormi/ che non c’è niente da regalare/ tranne un fagotto di sogni/ per vivere e non dimenticare// Dormi, bambina, dormi/ il vento va dal monte al mare/ e accanto al fuoco una ninnananna/ è tutto quel che resta da cantare// Dormi, bambina, dormi/ non aver paura di sognare/ troverai la nostra voce migliore/ all’ombra di un albero di parole// Dormi, bambina, dormi/ per te gli anni non passano/ per te ancora non si contano/ per te son sempre musica// Dormi, bambina, dormi/ nel tipì c’è polline di sole/ la tela si tesse adagio/ un filo per ogni colore// Dormi, bambina, dormi/ per te gli anni non passano/ per te ancora non si contano/ per te sono sempre musica// Dormi, bambina dormi/ una piuma è come una nuvola/ niente ti sfiorerà le palpebre/ per te basta che sia musica (anonimo indiano)

E ora sono ancora una volta a Roma presso i miei figli che cercano di alleviare la mia ansia e la mia pena perché lontana da casa in un momento difficilissimo per tutti noi. E scrivo perché non so, né posso, fare altro.

In questi anni altri punti di riferimento affettivo mi sono venuti meno. Sono davvero tanti. E tutti sono in me presenti e arricchiscono la mia anima con lo splendore della loro presenza. TANTI. TUTTI. Non posso elencarli tutti. Ma di tutti e tanti parlerò ancora e ancora “fino all’ultimo respiro”. A presto. Con tutti voi. In uno scambio di autentica Amicizia. Di autentico Amore. Angela/Lina

 

 

 

 

 

  

venerdì 10 maggio 2024

Venerdì 10 maggio 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

<Ed ecco il terzo volume del mio romanzo dedicato a quell’uomo straordinario che sei stato (e continui ad essere), mio caro “papà”. Cosa mai potrei raccontare di te che non abbia ancora detto? Sono passati oltre cinquantacinque anni dal tuo sorriso rivolto a noi in un presagio di stelle, mentre l’alba si vestiva di campane festose nel tuo cortile d’inverno, ma le tue parole sono ancora qui, scolpite nel cuore e ancorate all’anima che non dimentica. È ancora la tua voce a parlarmi, a guidarmi, a salvarmi. La tua presenza in ogni nuova alba e nuovo tramonto. La mia vita tutta ne è impregnata perché devo a te la mia continua rinascita dopo ogni naufragio. A te devo quanto di bello ho realizzato fino ad oggi anche attraverso la scrittura. Sì, devo a te anche la mia inesauribile capacità di narrare storie, di sentirle vibrare dentro prima che prendano forma di parole e si vestano di poesia. Tu sei stato il mio FARO dopo tutte le tempeste. Tu con le tue fiabe, i tuoi ricordi, la poesia, dolente e dolce, della tua vita. Ecco perché la tua storia si riversa continuamente dalla brocca inesauribile del tuo passato nella ciotola della mia storia presente e in quella dei miei figli e dei figli dei miei figli, che stanno già scoprendo il futuro. E niente più ha inizio né fine. Tutto rimane in sospensione, agganciato soltanto all’attimo che si fa eterno. E mi rimanda ai sentimenti che ci appartennero e alla creatività che ereditammo, al buio e alla luce che attraversammo per ritrovarci, noi tuoi nipoti, ma soprattutto i pronipoti, ancora insieme.

E, dopo noi 6, i tuoi nipoti sempre più deboli e fragili, sempre più “in prima linea”, come eri solito dire tu alle soglie dell’Eternità, saranno loro, i tuoi pronipoti, a parlare ancora di te con ancora tanta Bellezza negli occhi oltre ai nuovi possibili naufragi, che tu con il tuo Faro li aiuterai a scongiurare per giungere sempre nel porto sicuro del loro cuore. Ed è già un nuovo giorno. Il canto improvviso dell’alba mi ha riportato alla realtà dei colori, delle forme e delle dimensioni. E tutto si fa definito, certo, chiaro. Almeno in apparenza. Sì, solo in apparenza. Perché è un giorno che ha trovato rifugio in una rada insicura e accidentata, dopo più di mille naufragi. Occorre farsene una ragione e cercare sulla riva i sentieri meno impervi, più ampi e lineari, magari fioriti, e con ventagli di chiome d’alberi a creare un’ombra che ci possa riparare dagli abbagli dell’ultimo sole di un tempo che comprende tutte le stagioni della mia vita. Siamo tutti cercatori di certezze che mai saranno, mentre i dubbi fanno a gara per intrufolarsi nei pensieri e creare nuove paure, dare la stura a nuove pagine. E i sentieri larghi e chiari e fioriti, appena immaginati, si perdono tra sterpaglia e rovi e “pietre d’inciampo”. Meglio trovare rifugio nella propria casa, dove i muri sono muri e le finestre sono finestre e tutto ha un suo ordine anche nel disordine di una casa viva e vissuta. Ma la mia voglia di libertà mi porta ancora a desiderare insoliti spazi e imprevedibili orizzonti.

Oggi, intanto, sono a Roma, e non è più inverno, ma primavera inoltrata. È quasi estate. E sono tra le braccia conosciute e amorevoli dell’attico di mia figlia Ombretta. Esco sulla terrazza romana affacciata sul verde degradante fino al mare di Ostia, che si distende in un fiume di luce scintillante. Ecco la prima bellezza che si offre al mio sguardo e si fa parola. Come non descrivere quanto gli occhi colgono e raccolgono quasi fossero oceani di meraviglia ad incontrare il mio stupore? E tutto si fa armonia, musica, inno a questa stagione che amo e mi esalta. Mi restituisce forza e allegria. Sono felice di questa vita che mi scorre nelle vene e mi fa esplodere il cuore di gratitudine per i tanti doni che riesco ancora a racchiudere tra le mani prima che mi sorprenda la notte. (…). Dono è questo nuovo risveglio e il canto e l’incanto. La vita che mi rimane. Nel tempo che rimane: In questo tempo che mi rimane,/ breve come un volo di farfalla/ che mi vibra dentro/ e lungo come il rimpianto/ che non mi lascia tregua,/ conservare vorrei/ in uno scrigno da maneggiare/ con cura/ tutti i respiri del cielo che non ho/ saputo afferrare/ la voce di mio nonno perché/ non vada perduta,/ gli occhi di mia madre/ che sapevano la carezza non data,/ i pensieri di luce delle mie figlie/ e per me la cura d'amore/ Peter Pan cuore del figlio/ matto da legare,/ e mani di tenerezza antica/ per i sogni/ dei miei due ragazzi d'oro puro/ perché ne conservino il ricordo/e la presenza quotidiana/ per i giorni dell'assenza/ che verranno./ E lasciare andare vorrei,/ sparse al vento della notte/ perché nessuno le veda,/ le lacrime versate e i pensieri/ "corvi neri" che atterrirono/ le ore senza scampo dei tormenti./ Le parole inutili lascerei,/ quelle mai pronunciate/ per troppo pudore o timore/ che non ebbero suono/ di risentimento o di perdono./ E quelle scritte che non ebbero/ Senso./ La tristezza di ogni inganno./ L'amarezza di ogni dono rinviato./ Il canto della nostalgia e l'incanto/ per chi mi ha abbagliato/ senza donarmi la luce di una stella./ Il dolore per ogni indifferenza/ lascerei andare/ e per tutto quello che non meritava/ tanto dolore./ Lasciare vorrei/ a chi non mi ha creduto/ il peso di ogni macigno a curvarmi/ le spalle e l'anima./ E tremante come margherita/ dopo il disgelo librarmi vorrei/ nell'immenso azzurro cielomare/ portando tra dita di preghiera/ lo stelo dorato di una poesia/ non ancora sbocciata alla Vita... // (un puntino luminoso/ essere/   vorrei   /     nell’infinito)… (a.d.l. “Nel tempo che rimane”, poesia inedita per tutti quelli che amo, per gli altri che ancora mi circondano e per quelli che verranno).

Ma, intanto, “lancia il tuo cuore davanti a te e corri a raggiungerlo’’, dice un proverbio arabo e io, solo qualche anno fa, correvo stampelle o non stampelle, io correvo spalle curve ormai e passi incerti ma correvo correvo correvo… Ora non più, inchiodata purtroppo su una sedia a rotelle che si fa beffe dei miei sogni di abbandonare le stampelle, del mio coraggio nell’esercitare continuamente le mie gambe fragili e vacillanti nell’intento di dare tonicità ai muscoli a sostegno delle ossa, ma il mio karma aveva in sé un’altra storia. (E tu mi vieni incontro e mi dici che va bene così, che non devo smettere mai di sperare fino a quando Dio vorrà).

Se non fosse per te/ Cosa avrebbe un senso/ Sotto a questo cielo immenso/ Niente più sarebbe vero/

Se non fosse per te/ Come immaginare/ Una canzone da cantare/ A chi non vuol sentirsi solo/ Se non fosse per te/ Crollerebbe il mio cielo/ Se non fosse per te/ Sarei niente, lo sai (…)/ Chiudo gli occhi e già volo/ D'improvviso la malinconia se ne va/ Dai pensieri miei cade un velo/ E ritrovo con te l'unica verità/ Solamente tu sai/ Anche senza parole/ Dirmi quello che voglio sentire da te (…)/ Una pioggia di stelle/ Ora brilla nell'aria/ Ed il mondo mi appare/ Per quello che è/ Un oceano (stralci della canzone “Tutto quello che un uomo” di Sergio Cammariere).

E mi ritornano ancora alla mente le tue parole che mi dicesti in sogno. Parole luminose che sapevano di perfezione e di poesia e che oggi si fanno eco di verità: Anche il dolore passa. E ritorna la serenità, forse la gioia. Sì, la gioia, quella pienezza di noi che ci danza dentro e fa capriole e sparge sul viso una morbidezza di rugiada. E, con la GIOIA, ecco affiorare la NOSTALGIA, che spesso ci riporta ad un tempo vissuto in quella pienezza che avevamo dimenticato e che, invece, era annidata nella culla più profonda della nostra anima. Saranno le ali della Nostalgia a salvare il mondo. Le ali della Bellezza, della Bontà, dell'Altruismo e dell'Amore, che oggi si sono perse lungo un cielo che abbaglia e non illumina. Colori di Luce ha la Nostalgia che farà riscoprire la Semplicità delle cose vere. La Verità delle cose giuste. La Speranza negli occhi bambini. La NOSTALGIA. Nella consapevolezza di un tempo che non può tornare, ma può far sentire nel profondo del cuore la necessità di recuperare quanto di buono abbiamo vissuto e dimenticato per farne nuovo seme per nuovi domani. Con nuovi mezzi nuove modalità nuovi passi nuove strade nuovi volti nuove voci su antichi richiami.

Ogni domani è il passato capovolto come il cielo in una pozzanghera. Come chiome d’alberi che hanno radici. Come occhi di bimbo ancorati agli occhi della sua mamma. E i domani si sognano prima di realizzarli. E il sogno non vive e si alimenta nel fondo più profondo della nostra anima? La Nostalgia è Sogno che viene da lontano e va lontano. È Ricordo che si specchia nel Futuro. Memoria della nostra Umanità! È Tenerezza che Accoglie Protegge Ama. E in tutto quello che continuamente hai seminato tra sogno e realtà TU VIVI VIVI VIVI. (…). E la nostra storia/fiaba continua: c’era una volta e c’era c’è e ci sarà

A mio nonno, (faro dei miei giorni bui): Sei silenzio e canto/ orma che incanta occhi stanchi/ sul confine indistinto delle cose/ Luce lontana che squarcia il cielo// Sei latte d’innocenza che mi nutre ancora/ e gesto di tenerezza che sazia di spine/ il roseto mai spento di petali a primavera/

in un tramonto di vene che dilata il mare// Sei acuto imbroglio d’abbandono/ e dolore sei più d’ogni altro dolore/ Io con te esploratrice di terre bambine/ assetata d’incanti ora smemoria di canto// Sei ala d’aquilone a raccontarmi l’azzurro/ tormento e perdita d’ogni altro incontro/ Tornano fiabe di ciliegi innamorati/ in panieri di rossi respiri colmi d’amore// C’è sempre una preghiera a raccomandarti/ alle stelle che mi parlano ogni notte di te/ E la tua voce ancora a farmi compagnia/

richiamo di confidenze e rose nel cortile// (nei momenti di sgomento/mai assenti le tue mani fiorite di prodigi). (a.d.l. “Sei silenzio e canto” da L’ora dell’ombra e della riva)                                                

Così si concludeva più o meno il secondo volume di questo romanzo/fiume a te dedicato dalla prima parola alla penultima perché l’ultima non verrà scritta mai… Tu eri, sei, sarai… Eri nel sentimento che ci legava, nelle storie che raccontavi, nella generosità che ti contraddistingueva. Sei in ogni parola che scrivo, in ogni pensiero che riempie il giorno, in ogni preghiera che vince il buio della notte. Sarai l’eredità dell’amore che conoscemmo, il gesto gentile che da te cogliemmo come fiore che vince il deserto e la sabbia, la pietra e il cemento, la cima aguzza del monte, gl’inesplorati fondali marini, la neve che intirizzisce lo scricciolo e riscalda la terra e i suoi semi.

Sarai la fantasia che colorerà il mondo attraverso le fiaccole accese di nipoti e pronipoti fino alla generazione che scriverà ancora il tuo nome sui libri del tempo senza tempo e diventerai mito, santo, eroe, leggenda senza fine. Così accade per i giusti e i puri di cuore. Per chi rinasce infinite volte per le infinite vite che inventò e ne fece dono agli altri>.

E chiudo qui per riprendere domani l’ultimo mio “SPOON RIVER” e passare ad altri argomenti che potrebbero starci ugualmente a cuore per continuare un percorso di riflessioni insieme. Angela/Lina 

mercoledì 8 maggio 2024

Mercoledì 8 maggio 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE ... (continua)

<1976. E l’anno dopo ecco ancora una nascita nella mia casa: Daniela, la mia ultima nata. Salmone contro corrente a risalire fiumi di stanca nostalgia perché la vita fosse ancora nascita e rinascita dopo la perdita del quarto “bambino mai nato” e tanto difeso e tanto amato. Daniela, occhi di stelle fiorite con il “paggeggino” a portarla a lungo per il lungo corridoio e per le stanze. Nacque di notte, mentre correggevo temi da consegnare e mamma a sorprendersi e a rimproverarmi: “Ma come fai a scrivere con le doglie!?! Non ho mai visto una cosa del genere. Mettiti a letto. Riserva le energie per i dolori e per le spinte. Pensa al bambino che sta per nascere”. Completai l’ultimo tema che consegnai a Primo (per l’esame scritto del Concorso, che si sarebbe tenuto alcuni giorni dopo, per il reclutamento di nuovi insegnanti nella scuola) e mi predisposi al parto. Era mezzanotte. Primo andò via. Mamma mi seguì, con l’ostetrica che aveva fatto nascere anche i miei primi tre bambini. Durante le spinte, mamma spingeva più di me sui miei omeri nel tentativo di aiutarmi, quasi volesse sostituirsi al mio travaglio. E così anche per la respirazione “a cane”. Ma il risultato era disastroso. Non riuscivo a concentrarmi e ci perdevamo in inevitabili risate per tanto inutile sforzo. Le stesse risate che ci videro complici di felicità quando mi nacque Raffaella tra scoppi di risa e l’inevitabile dubbio materno: “Ma sei sicura che stai per partorire? Non sono questi i dolori del parto, devono venire quelli più forti… non è che ce ne dobbiamo tornare a casa?”...

“Signora, il bambino sta già per nascere è solo questione di pochi minuti”…  In realtà, Daniela provvide da sola a venire al mondo subito dopo la mezzanotte e… appena mi vide, non finì di seguirmi con lo sguardo, qualsiasi movimento facessi. Forse era curiosa di conoscermi dopo aver ascoltato per nove mesi la mia voce che parlava parlava parlava, anche e soprattutto di bambini da scoprire conoscere ascoltare amare (‘ma chi sarà questa pazza forsennata che si riempie e mi riempie di parole? parla parla parla sempre di bambini da amare di scuola di insegnanti e si dimentica completamente di me che le abito sotto il cuore’). Fatto sta che prese subito a guardarmi. Ed io mi sentivo seguita, osservata, studiata. Divenne ben presto anche lei la leggenda della clinica. Avevo partorito una bambina bellissima che seguiva con gli occhi sua madre fin dal suo primo alito di vita. Anche i medici rimasero stupiti. Solo due giorni dopo tornai a casa, dove i nonni paterni si stavano prendendo cura di tutti gli altri. Per aiutarmi, rimasero con noi per circa un mese. Con premure e cure materne e paterne, che non ho mai dimenticato. Daniela venne a consolarmi di un altro lungo periodo di lavoro, stanchezza, lacrime, incomprensioni (…). Sì, fu la mia rinascita e la mia consolazione, come ben sai, mio adorato papà. Anche lei bambina di precoci parole: a nove mesi, mentre il medico del Comune, le praticava una vaccinazione con una iniezione, lei si girò di scatto al dolore della puntura e infuriata chiese: “chi è?”, e scoppiò in lacrime. Io e il medico rimanemmo senza parole. Chiedendoci con gli occhi che materializzavano un’aliena “discesa in terra a miracolo mostrare”: “ma siamo sicuri di aver sentito bene?”. Poi, come se non bastasse, anche se tutto sembrò rientrare nella norma, alcuni disguidi linguistici continuarono, a nostro uso e consumo, a sorprenderci, a regalarci un buonumore da lungo tempo latitante e silenzioso nella nostra casa. Io: “di’ con me: casa” = “tasa”… “cane” = “tane”… “cubo” = “tubo”... “cosa” = “tosa”. E suo padre: “di’ con me culo” e lei subito in una esaltazione liberatoria: “culo!”.

Daniela mobilitò tutta la famiglia col suo caratterino forte/fragile e impositivo. Ore ed ore di passeggiate nel “paggeggino” lungo il lungo corridoio nella nostra casa per soddisfare il suo capriccio di andare a “paggeggio” anche in casa senza muovere un passo. Alla guida si alternavano, non senza riluttanza e proteste, le sorelle maggiori. Solo Giuliano si rifiutava categoricamente di fare da bambinaio a quella piccola peste sbucata chissà da dove per creare scompiglio in una casa già affollata di troppi bambini, e trovava repentino rifugio nella sua cameretta, che pullulava di figurine dei calciatori (“Panini”) e innumerevoli “chianelle” (i tappi a corona di bottiglia), infilate dappertutto. I suoi tanto amati videogiochi erano di là da venire.

E, a proposito di Giuliano, ecco tornarmi alla mente un episodio simpatico ma non troppo, accaduto sempre in una delle periodiche obbligatorie visite nell’ambulatorio del Comune per le vaccinazioni.

Ci incontrammo io e un’altra mamma con i nostri rispettivi bambini nelle rispettive carrozzine. Ebbene, Giuliano si portava a spasso la sua testa leonina, che mi aveva procurato, per ben tre mesi, una brutta “artrosi da parto”, mentre l’altro bambino esibiva, suo malgrado, una testolina striminzita che, a mala pena, emergeva tra i lenzuolini della carrozzina. Entrambe noi mamme fummo prese, di primo acchito, da atroce dubbio: ‘quale dei due presenta una testa normale?’. Erano entrambi una esagerazione nell’uno e nell’altro senso. Stemmo tutto il tempo a guardare le teste dei nostri figli in silenzio, senza avere il coraggio di esternare il nostro pensiero con la scontata, evidente, conclusione. Che mi permise, a casa, di fare le mie considerazioni, mimandole, per ridere di cuore tutti quanti insieme. (E tu a ridere con noi).

Daniela smise di pretendere che “la paggeggiassero” che aveva oltre cinque anni. Aveva quattro anni e, in vacanza sui monti della Maiella, dove incontrò nel cameriere Biagio il primo amore della sua vita, ebbe la forza testarda e impavida di rimanere ferma nel suo passeggino, dopo il nostro rifiuto di portarla a spasso come una bimba di pochi mesi e il nostro apparente allontanarci per sostare in realtà dietro l’angolo della via allo scopo di sollecitarla a seguirci. Dopo un bel po’ di clessidre girate e rivoltate, fummo costretti noi a cedere, sconfitti, e a tornare sui nostri passi per recuperarla: statua di granitica volontà a non lasciarsi scalfire dalla sindrome di Pollicino che non era neppure per sbaglio nei suoi pensieri. Fu la chiara rivelazione di una personalità forte e determinata, di innumerevoli fragilità nascoste e via via superate con la sola forza della sua volontà a superarsi sempre e comunque. E a poco più di sette anni mi regalò la sua prima poesia a farci scoppiare di tenerezza e di risate. Piccolo pensierino per mamma da Daniela: a colazione non mangio/ perché penso a te/ a pranzo non mangio/ perché penso a te/ a cena non mangio/ perché penso a te/ la notte non dormo/ perché… penso a mangiare… Danielina tua <3 <3 <3…

Più tardi, verso i suoi dodici-tredici anni, impastati di pigrizia, io le lanciavo il mio appello disperato sotto forma di filastrocca, imparata a scuola forse tra i monti della Daunia o, prima, dalle suore, e che da lei veniva bellamente ignorata: “La pigrizia andò al mercato/ ed un cavolo comprò/ mezzogiorno era suonato/ quando a casa ella tornò./ Prese l’acqua e accese il fuoco/ ed intanto riposò,/ mentre il sole a poco a poco/ dietro i monti tramontò”…

Solo quando andò via, a diciannove anni, lo fece prontamente e con determinazione, superando ogni indugio ed io, guardandola col tremore che solo le mamme hanno quando vedono andare lontano quel puntino luminoso, che si è sganciato dalle loro braccia sicure, pensai tra le lacrime, per darmi una speranza e un tono: ‘io e te gireremo il mondo insieme e tu mi farai da guida e da sostegno e io ti farò compagnia per non farti andare via mai da sola… mi troverai sempre dietro l’angolo con una valigia piena d’amore per non lasciarti con il cuore vuoto di me…’. Proposito diventato, poi, il mio pensiero quotidiano, rivolto a lei e agli altri miei due figli (dei quattro e mezzo) andati via, in una sorta di sogno o di utopia, quando ho registrato che non sarebbero più tornati… (Ancora oggi vado io a trovarli, almeno un paio di volte all’anno, con i miei acciacchi in crescendo e con la stessa valigia, ormai invecchiata con me, ma, come me, ancora pronta a sfidare distanze col suo segreto, ma non troppo, contenuto. Altrimenti non partirei!). E tu a farmi compagnia. A consolarmi, con la tua presenza, della loro assenza. Ancora oggi Daniela ama dedicarmi canzoni, mandarmi lettere e poesie. E la mia silenziosa promessa di andare insieme in giro per il mondo solo qualche volta si è fatta realtà. Va spesso da sola per il mondo, inseguita silenziosamente dal mio amore.

Vorrei puntualizzare che Daniela non ama solo viaggiare, ama anche, come tutti noi di casa, scrivere. Già da ragazzina ha scritto intensi e originali racconti, che feci pubblicare come dono per i suoi diciotto anni. Poi, aveva cominciato a scrivere con suo padre un romanzo a quattro mani, molto particolare, ormai interrotto. E io continuo a sollecitarla perché riprenda a dipanarlo con l’assenza/presenza di chi non può più fisicamente condividerne la scrittura. Sdoppiandosi e ricomponendosi in una unità che possa racchiudere il respiro di suo padre e il rimpianto di lei, sua figlia, che un po’ di anni fa ha scritto per lui “darei nove anni della mia vita per vivere anche un minuto del tuo ultimo giorno”. Non sempre, del resto, la morte delle persone amate ci distrugge, come era capitato a me dopo la tua perdita, spesso ricompone i fili scompaginati della nostra esistenza. (…). Oggi Daniela sta attraversando un periodo difficile tra mille impegni di lavoro: laureata in Grafologia con specializzazione in Criminologia è di fatto impossibilitata a svolgere una professione, per cui ha acquisito tante competenze, a causa di ostacoli indipendenti dalla sua volontà. Lavora in una grossa Ditta aziendale con gravosi impegni che non le consentono tempo libero e serenità, a cui si aggiungono anni di solitudine subìta e cercata, per via di un amore che le ha lasciato amarezza, diffidenza, disincanto. Ha, però, una deliziosa casetta tutta sua. Si districa, come già detto, in varie attività professionali che l’affaticano, ma le procurano anche notevoli soddisfazioni. Vorrebbe una situazione più stabile e sicura in tanta precarietà. E io sono fiduciosa. “La vita è una ruota”, dicevate tu e la nonna per rincuorarvi e rincuorarci nei momenti bui della vostra e nostra non sempre facile esistenza (non sempre si può stare in alto non sempre in basso la ruota gira). Sì, girerà anche per lei. Ne sono certa. La vita distribuisce gioie e dolori. Occorre resistere. Non mollare mai. Andare avanti. Anche lei, come tutti noi che amiamo visceralmente gli animali domestici, ha un gatto tenerissimo e tremebondo, sempre in ansia per qualche catastrofe che non sa dire e non saprebbe scongiurare. È Zaghiro (o Zaghi) ora a farle compagnia e a movimentare le sue notti. Gli animali domestici, del resto, trovano tra molti giovani, oggi, braccia d’amore ad accoglierli per ovviare anche ai bambini che non vogliono o non possono cullare per via di un mondo sempre più precario e complesso, violento e disumano che fa paura. E, anche se questo non lascia molti margini alla speranza, può darsi che offra qualche appiglio alla evoluzione positiva della società. Tra tante brutture e cattiverie spiragli di luce. E proprio Daniela, proprio lei, che ora ha bisogno di carezze materne, mi ha fatto ancora una volta un dono dolcissimo: mi ha dedicato “La cura”, una canzone meravigliosa di Franco Battiato. 


Il cuore ha avuto un sussulto. Da tempo non mi capitava. Che bello il prendersi cura di qualcuno…Ma è bello anche sentirsi tra le braccia protettive di qualcuno e lasciare che siano gli altri a prendersi cura di ogni cellula del tuo corpo, pur sapendo che sono quelle invisibili dell’anima a fare più male. Ho ritrovato la sensazione di essere al centro di quell’universo d’amore che formavamo io e te. Ma anche la vibrante/dolente sensazione del dolce naufragio leopardiano che non sempre viene interpretato nella sua abissale possibile verità. Non di pessimismo, come si è soliti dire, ma di infinito, deluso amore per la natura il poeta parla. Il suo immergersi beato in essa fa da contraltare alla nostra finitudine sempre in agguato, mentre egli avverte tutto l’infinito dentro di sé, quello che va ben oltre gli orizzonti che “nel pensier si finge”… (ma è solo una interpretazione personale, che anche tu, ora, potresti smentire o confermare). Forse ho ripreso a scrivere anche per questo. Forse perché i nipoti sono cresciuti e si prendono cura di me e sono loro ora i portatori di sogni, i cercatori di stelle contro i muri della notte. Forse perché è giunto anche per me il tempo del non avere più tempo: ‘sono io ora in prima linea’, senza aver perso per fortuna il senso magico del mondo e della vita. Ritengo oggi che la nostra esistenza sia stata costellata più di prodigi che di esperienze negative. Persino queste ultime, alla fine, mi sembrano salutari perché ci hanno insegnato a crescere e, in qualche modo, a diventare più forti. Ancora oggi “leggo”, nei sogni che si aggrovigliano e si dipanano, segni e simboli della gioia e del dolore. Occorre ritrovarne ogni volta il bandolo per scongiurare nuove ansie, nuovi timori. E riscoprire la meraviglia di esserci in ciò che è, muta e ridiventa uguale. Con la dovuta attenzione a tutti gli orizzonti possibili da afferrare per continuare a vivere, anche quando si ha voglia di lasciarsi andare. NON DOBBIAMO PERDERE MAI LA CAPACITA’ DI SOGNARE…> (dal solito romanzo). 
E l’8 maggio è la Giornata Mondiale della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa, giornata che rende “omaggio a tutti i volontari impegnati nel sostenere e dare aiuto al prossimo. Sono gli eroi che la storia non racconta” (Wikipedia). Non dobbiamo perdere mai la capacità di donare il nostro tempo e i nostri talenti a chi ha bisogno di una parola amica, a chi ha bisogno della nostra “cura”.
E anche per oggi queste pagine si concludono qui. Nella speranza di aver regalato a tutti noi un po’ di sorriso e tanta voglia di andare avanti senza mai “perdere la capacità di sognare”. Di donare un po’ di noi agli altri… A presto. Lina

martedì 7 maggio 2024

Martedì 7 maggio 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

E, tra oggi e domani, voglio parlare di due estremi: guerra-morte, nascite-risate. Per stemperare un’atmosfera soffocante che rischia di avvolgerci tutti e di farvi scappare a gambe levate. Come vado registrando in questi ultimi incontri sul nostro blog. Credo che il mio “Spoon River” sia giunto al capolinea. Ancora un paio di puntate e stop. C’è tanto altro di cui parlare, su cui interrogarci per riflettere e darci delle risposte. E, intanto, riprendo dalla guerra, così tragicamente presente ai nostri giorni.

La guerra. Niente di più folle, di insensato, di devastante. Oggi più che mai. Bastano poche bombe nucleari per distruggere il nostro pianeta. Ma ne sono state costruite molte di più per la follia della mente umana. Per il potere del denaro. Per il potere del potere. Così, banalmente, senza avere minimamente coscienza della nostra follia di piccoli uomini nella nostra precarietà di abitanti a tempo determinato e in “comodato d’uso” del nostro “piccolo mondo”. Persino una studiosa come Hannah Arendt, nel processo contro Eichman, ritenuto il Male assoluto, per le esecuzioni di milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale, dopo aver assistito alle 120 sedute del processo a Gerusalemme nel 1961, ebbe a scrivere, ne La banalità del male del 1963, che in quell'uomo non avvertiva consapevolezza del male compiuto perché si difendeva dicendo che aveva obbedito agli ordini.

<Tu avresti detto: “Attacchì u ciùccə addo’ vəlè u patrónə  (“Legò l’asino dove volle il padrone”), ma probabilmente avresti aggiunto ironicamente: “Attacchì u ciùccə addo’ vəlè u ciùccə stèssə   (“Legò l’asino dove volle l’asino stesso”), non ritenendo giusta quella ubbidienza per una causa ingiusta. Avevi dentro di te un senso della giustizia molto equilibrato che probabilmente nessuno ti aveva insegnato ma che sicuramente avevi respirato in casa con i tuoi morigerati genitori.

Ci furono molte polemiche allora contro la grande studiosa e feroci accuse da parte degli ebrei, che si aspettavano una strenua difesa da una ebrea e non una sorta di difesa dell'operato della belva del Terzo Reich; da parte dei cristiani, che videro offesa la loro dottrina della piena avvertenza e del deliberato consenso; da parte di tutto il mondo civile e non, con minacce di morte e un vero e proprio ostruzionismo che gli editori perpetrarono per impedire l'ulteriore diffusione del libro incriminato e di ogni altra pubblicazione della Arendt. Eppure la sua posizione, a mio parere, era chiara e riguardava non la difesa o l'offesa, ma la constatazione evidente della natura umana di cui Eichman divenne per lei metafora e simbolo. Senza etichette. Quale piena avvertenza e deliberato consenso, dunque? Nessun uomo è, quindi, colpevole? Chi ammetterà mai di fare del male in piena libertà e in tutta coscienza? Saremmo tutti dei rei confessi e, invece, ognuno proclama la propria innocenza.

È una sfida al pensiero, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alla radice delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale”, ancora Hannah nella sua ampia disquisizione su La banalità del male.

L'unica coscienza pura di autentico cristiano io la scoprivo di volta in volta in te, nelle tue scelte di vita, e in pochi altri come te, di cui tessevi le lodi per l'onestà e la coerenza nei principi professati. Ricordo che una sera ti sentii raccontare proprio a tuo fratello sacerdote, che si trovava in vacanza da noi, quasi in confessione, che avevi commesso un peccato grave di cui ti vergognavi e che avevi prontamente confessato a don Mincucciodue: eri entrato nel campo di un tuo vicino confinante per prendere due olive “pasóle”, grosse e invitanti, per seminarle nel tuo campo che di ulivi ne aveva tanti ma non di quella qualità: nere e dolci, da mangiare fritte “jndə au frəsuìcchjə” (nel tegamino) o arrostite sotto la cenere. Zio padre Leonardo ti ascoltò dapprima sorpreso, poi incredulo e, infine, commosso. E ti disse che c'erano peccati ben più gravi che la gente non avrebbe mai confessato per ignoranza o scarsa consapevolezza, soprattutto i peccati contro il prossimo. Noi rimanemmo senza parole. Poi ridemmo di cuore per quel peccato minuscolo come due olive in una coscienza grande come un oceano.

(E più volte negli anni, ricordando quell'episodio, mi son chiesta: ma davvero due olive? Avevo sentito e capito bene quella sera di tanti anni prima? E più volte mi è tornata in mente la terzina dantesca del terzo canto del Purgatorio, quando Dante, accorgendosi del rimorso di Virgilio, sua guida, per i rimproveri di Catone, in quanto avevano rallentato il passo per ascoltare il musico Casella, esclama: El me parea da sé stesso rimorso/ o dignitosa coscienza e netta/ come t'è picciol fallo amaro morso. Ma anche tutto questo è avvenuto molto più tardi). (…)

Zio Padre Leonardo: alto, snello, con la lunga barba brizzolata, il neo sulla guancia destra, gli occhiali “trifocal” dorati, che aveva portato dall'America, il “clergyman” al posto del saio francescano, che invece indossò fino alla morte l'altro tuo fratello, zio fra' Francesco. Era elegantissimo e metteva soggezione tanto era bello. Pronunciava le parole con l'accento umbro un po' aspirato come il toscano, con un’intonazione morbida, suadente, catturante. Bellissima la sua voce, sapientemente modulata. Tutti rimanevamo affascinati dalla sua voce e dalle sue parole: colti e ignoranti, adulti, bambini, vecchi. Orchestra di mille suoni ad ascoltarlo. Eravamo fortunate ad averlo come zio. Tu lo adoravi. Ti facevi piccolo piccolo di fronte a lui, nonostante fosse il più piccolo dei tuoi fratelli. Era un grande oratore. Conosceva molte lingue (cosa rarissima per quei tempi) ed aveva una cultura enciclopedica. Da poco era tornato in Italia ed ora era Padre Provinciale a Perugia, nel convento che aveva fatto ristrutturare e ampliare con i dollari che aveva mandato da New York e dovunque si trovasse. A noi di casa portò sfiziosi, e forse utili, regalini: il portafoglio di pelle color cuoio e l’elegante orologio da taschino (“la cipolla”) per te, lo scialle di lana per la nonna, la borsetta di vernice nera per mamma e giocattoli e cioccolatini per noi. Più tardi, i suoi regali sarebbero stati qualche libro, qualche coroncina di madreperla, qualche penna stilografica. E la sciarpa per te, le pantofole per la nonna. Poi avrebbe regalato una bellissima macchina fotografica, una Zeiss, a Lizia per aver superato brillantemente gli esami di Stato. La dentiera per nonna. Ma il regalo più gradito era averlo con noi. Con noi!

Era imponente, autorevole, amante del bello. Da esteta, sosteneva che una donna avrebbe dovuto sentire l’imperativo categorico di essere sempre gradevole nelle vesti e nella persona, dai dieci ai cento anni. Diceva che era un dovere, per lei, curarsi e rimanere bella il più a lungo possibile per suo marito, per i figli, per sé stessa. E ci dava consigli di buon comportamento. (a tavola i gomiti non vanno messi sulla tovaglia ma bisogna tenere le braccia ben aderenti al corpo per non intralciare il commensale vicino le posate si portano alla bocca e non la bocca alle posate il capo e il busto devono essere sempre in perfetto allineamento con tutto il corpo non bisogna piegarsi né a tavola né quando si cammina è molto importante mantenere una posizione eretta per evitare malformazioni alle ossa della schiena delle scapole dello sterno non bisogna mai sussurrare parole all’orecchio di qualcuno se si è in presenza d’altri non è permesso non è concesso non si deve... si deve attendere che sia il più importante a dare per primo la mano da stringere nelle presentazioni o nel saluto... si deve chiedere sempre il permesso di dire o fare qualcosa in presenza di altri... si deve sempre ringraziare chi ti ha usato una gentilezza… si deve). Ma non ci annoiava mai perché aveva una voce che era musica. Armonia di mille arpeggi. Io ogni volta m’incantavo ad ascoltarlo, e pensavo al flauto magico e ai topolini che seguivano quella musica irresistibile, come mamma ci aveva più volte raccontato quando stavamo insieme…

Era, perciò, bellissimo ascoltare le sue memorabili prediche che commuovevano tutti i presenti, accorsi per vederlo e per ascoltarlo. Cosa rarissima per il nostro paese. Nonostante spesso nelle chiese venisse chiamato un “prədəcatòrə” (predicatore), Padre cappuccino o domenicano a ritemprare, zelante, con alcuni sermoni dal pulpito, la fede dei numerosi fedeli. (Le chiese, oggi deserte e spesso sconsacrate, erano gremitissime in quegli anni di innocente analfabetismo e di convinta e sentita partecipazione a tutti i riti ecclesiastici nella sconosciuta “lingua di Dio”: il latino). 

Accanto a lui spesso incontravamo anche zio fra’ Francesco, con le sue massime sagge e i suoi aneddoti divertenti e il suo sandalo con una zeppa molto alta per sopperire alla mancanza di parecchi centimetri alla gamba sinistra (dislivello dovuto ad una ferita di guerra e ad un immediato intervento, persino senza anestesia, da parte del chirurgo cappellano, che così gli evitò l’amputazione dell’intero arto e ulteriori immani sofferenze, come lui ci raccontava) e fra’ Felice, il sempre arguto e sorridente vostro nipote, fratello di Peppino e Pasquale, figli di tuo fratello Michelino. Io ero sempre bianca nuvola di bianco sogno e mi sentivo fiera di me e ancora di me. E tanto fiera di zio Padre Leonardo, di te e di tutti gli altri (altro che Cenerentola apprezzata solo dal Principe!). Zio Fra’ Francesco, in verità, s’incantava a guardare gli occhioni di Anna Maria, che era uno splendore di bimba. E tutto il giorno ad ammirarla e a parlare, giocando, con lei: “bella bella bella… buooona!!!”. E Anna Maria rideva felice. Anche zio Fra’ Francesco ci affascinava con le sue storie e le sue arguzie per farci scoprire il mondo giocando. Insomma, eravate quattro fratelli meravigliosi. Il più taciturno e solitario era zio Michelino. Gli altri due, Antonio e Peppino, non li avevamo mai conosciuti. Quando zio Padre Leonardo andò via fu come se si spegnesse un faro nella nostra casa.

(…) 1975. Caro papà, a fine ottobre, in viaggio io e Primo verso Roma per l’Anno Santo, voluto da Papa Paolo VI, vedemmo per l’ultima volta, nella sua Perugia, zio Padre Leonardo. Facemmo sosta nel suo convento, dove fu felicissimo di ospitarci. Ma lo vedemmo già stanco e sofferente. Sentii che non l’avrei rivisto più e che avrebbe ben presto illuminato solo il tuo Cielo>. (solito romanzo, vol. I)

Mi fermo qui per non annoiarvi, ma domani riprendo per farvi ridere un po’ con la nascita di Daniela, l’ultima di casa Leone che da subito si fece conoscere per il suo carattere forte-fragile, ma sicuramente impositivo e coraggioso. Fonte, comunque, di mille risate che desidero condividere con voi in questi ultimi incontri sul mio reiterato “Spoon River”… A domani. Angela/Lina

 

domenica 5 maggio 2024

Domenica 5 maggio 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

No. Non parlerò di Napoleone cantato dal Manzoni nel suo inno di requiem al grande statista e al geniale stratega, che concluse la sua vita terrena su un’isoletta (Sant’Elena) sperduta nell’Oceano Atlantico oltre 200 anni fa, continuerò a parlare, invece, di quanto avvenne dopo il passaggio degli Alleati americani in Italia a conclusione della Seconda Guerra Mondiale, attingendo sempre dai due volumi citati.

<Poi sembrò tutto passato, con gli Alleati che avevano portato nelle stesse case, non più impaurite ma con le finestre spalancate e tanta voglia d’aria nuova, il DDT contro pulci, scarafaggi, pidocchi, mosche e zanzare, un tormento d’insetti che aveva angustiato la tua generazione e sicuramente ancor di più quelle precedenti. Tu ci raccontavi divertito che quando andavate in chiesa era “tutto un grattarsi tra una preghiera e l’altra, tra l’Introito e l’Ite missa est”…  Gli Alleati portarono anche la cioccolata e l’allegria dei vincitori per quelle stesse strade, ora attraversate da camionette e biciclette e traini. I ragazzini sull’uscio delle case a pianterreno guardavano con occhi di meraviglia e mani veloci cioccolatini e caramelle che piovevano da quelle camionette con quelle divise assiepate, ora diventate amiche… Spesso compare Luigi, amico carissimo tuo e di babbo, veniva a prendermi per portarmi con sé in qualche chiesa, dove era quasi sempre impegnato nell'addobbo floreale di nuove processioni, nuovi matrimoni e nuove feste religiose. Conservo ancora tre fotografie scattate dal fotografo per eternare i suoi capolavori floreali: in una sono da sola con un fascio di gigli tra le mani, gli occhi sognanti e un caschetto di capelli bruni con un fiocco chiaro ad illuminarli. È bellissima. Mi piace (candore e sogno). L'altra mi vede seduta sulle ginocchia di compare Luigi, che porta un cappello a larga tesa, come si usava negli anni Quaranta-Cinquanta del secolo scorso, ed ha occhi grandi e intensi che rendono fiero e bellissimo il suo viso ancora giovane (protezione e appartenenza). Nella terza precedo il Legno Santo, e per gli altri spiego che è una costruzione artistica fatta di fiori sulla falsariga dei più famosi Duomi d’Italia e completata da fitte e lunghe candele accese. Orgoglio, allora, di compare Luigi, chiamato Luìggə u Tròmbə (perché suo padre suonava la tromba nella banda del paese, come molti anni dopo mi è stato raccontato). Lui era il deus ex machina di quella composizione floreale artistica che era vanto del nostro paese sempre in sfida con gli altri paesi limitrofi e sempre vincente. Nella foto, ho tra le mani un fascio di fiori e sul visetto un’aria compunta di chi non sa perché si trovi lì (smarrimento e dubbio). Compare Luigi è appena appena distante con un suo operaio. È prestante, giovane, fiero. (Aveva conservato una bellezza altera e malinconica anche in età matura: alto, atletico, possente, fronte ampia e capelli appena brizzolati, lisci e corti, occhi tempestosi, saette scure e scintillanti, e baffetti sottili su labbra carnose e risata bianchissima in un volto ambrato che non prometteva niente di buono, aprendosi improvvisamente alla tenerezza). Mai e poi mai in quei giorni di rinnovato canto alla vita avrei potuto immaginare il suo declino, la sua morte. Fummo, però, a lungo viandanti di sogni intrecciati tra braccia allacciate di affettuosa protezione lungo orizzonti ancora vergini da esplorare fino a perderci nelle nebbie della lontananza, che avrebbe diviso i percorsi e le mete.

Un giorno di tanti anni fa, avevo già perso te e non vedevo più lui da moltissimo tempo, provai uno stringente bisogno dell'anima di rivederlo e andai a cercarlo nella sua casa, dove tante volte in passato ero entrata per un saluto, un abbraccio, un come stai. Mi si strinse il cuore. Lui era lì, seduto al tavolo della cucina con la testa tra le mani e aveva uno sguardo allucinato di solitudine, un volto lacerato di tristezza e disperazione. “Da dò vìnə?” (“Da dove sbuchi?”), mi apostrofò ruvido e commosso. Non riuscì a trattenere le lacrime al mio tenero abbraccio. “Sono venuta a salutarti. A vedere come stai”, gli dissi con un sorriso di tristezza. “Nàn avìva vənójə. Jójə sò mùrtə. Nàn vógghjə vədàje nəscìunə” (“Non dovevi venire. Io sono morto. Non voglio vedere nessuno”). “Neppure me? Cosa ti ho fatto io?”. “Nemmanghə. Tìuə mə sì lasséutə sìulə. E mòuə vattìnnə! Nàn zò avìutə méjə abbəsùgnə də nəscìunə jójə! Nàn ténghə abbəsùgnə də nəscìunə. Vattìnnə!” (“Neppure. Tu mi hai lasciato solo. E adesso vattene via! Non ho mai avuto bisogno di nessuno io! Non ho bisogno di nessuno! Vattene!”). “Lo so, lo so, ma lascia che mi fermi un po' con te, a parlare. Sono io che ho bisogno di te. Parliamo un po', come ai vecchi tempi...”. “Sò dìttə vattìnnə. Nàn jèjə chìuə póstə pə tàjə cùssə. Nàn avìva vənójə. Nan vógghjə nəscìunə, sì capəscìutə? Nəscìunə. Vattìnnə” (“Ho detto vattene. Non è più posto per te questo. Non dovevi venire. Non voglio nessuno, hai capito? Nessuno. Vattene”). E lanciò un urlo di belva ferita. Mi guardai intorno sconfitta. La camera era buia e lercia. I panni ammassati sulle sedie. La sua roba sparsa dappertutto. Nel lavandino i tegami e i piatti sporchi. Dall'uscio dischiuso della camera da letto s'intravedeva il letto disfatto e sudicio. Un tempo, quando viveva comare Rosina, sua moglie, tu lo sai bene, le camere erano al primo piano e giù, al pianterreno, c'era la cucina grande, con la sala da pranzo e il salotto e altre stanze sempre chiuse, dove, se non ricordo male, compare Luigi aveva il deposito dei fiori per conservarli al fresco. E tutto era lindo e in ordine. Ma tu sai benissimo anche la sua storia d'amore e di disperazione. Sai di Vituccio, il nipote amato più di un figlio. Ricordi quanto fosse bello? Era snello, bruno, con capelli ricci, occhi chiari e un sorriso dolce. Ricordi? Mi regalava sempre dei fiori ogni volta che passavo dal suo negozio “Irmaflor”, dal nome della bellissima ragazza di cui si era innamorato e che subito sposò, ma anche subito lui si ammalò di leucemia e ad appena ventisei anni morì e il suo letto e la sua camera e il palazzo, che compare Luigi aveva comprato per lui, furono uno sterminato campo di fiori. Morirono con Vituccio il suo orgoglio. La sua speranza. Il suo amore per la vita. Il suo lavoro. Gli amici. Perse tutto. Tutto si spense in mezzo a quello sterminato campo di fiori ormai appassito e senza profumo. Dopo la morte di comare Rosina, avvenuta alcuni anni dopo, lui divenne solo abisso di silenzio. Tutto questo, quel giorno, trafisse in un lampo la mia mente, vedendo in quale stato si fosse ridotto quel gigante buono che con passi enormi e felpati aveva attraversato parecchi anni della nostra vita, vegliato sulla nostra infanzia e adolescenza, rimasto nel tuo e nostro cuore. Andai via perché la sua ostinazione si stava trasformando in violenza. Lo salutai senza neppure abbracciarlo e prima di varcare la soglia mi giunse alle spalle un richiamo roco, soffocato, tremante. Non mi girai. Avevo gli occhi pieni di lacrime e una pena immensa tra ciglia e anima.

Lo rividi ancora, per caso, tanto tempo dopo. Io già madre di quattro figli. 

Era seduto per terra davanti ad un portone con lo sguardo perso nel nulla e la barba bianca incolta. Non mi fermai. Anzi, presi a camminare più in fretta. Perché non si accorgesse di me. Perché non volevo vederlo in quello stato. Perché non volevo che scorgesse il mio sguardo perso nel suo sguardo perso. Fu come frantumare la mia infanzia. Perdere l'innocenza così luminosa e chiara di quelle fotografie fattemi scattare quando era ancora un uomo forte, ricco, grande bestemmiatore e paradossalmente tanto timorato di Dio. Morì a ferragosto di un anno che non ricordo più, ingozzandosi di angurie e di vino. Piansi a lungo. Piansi l'uomo amato e l'infanzia ingoiata da quella perdita. Non mi era più capitato di piangere così tanto dopo la tua morte. Non avevo pianto neppure così tanto quando morì l’anno dopo nonna Angelina e, poi, via via zia Maria, Rita, zia Lauretta. Tutte puntelli fondamentali della mia infanzia, adolescenza, prima giovinezza. Piansi così tanto solo per lui. Per me. Per il nostro “piccolo mondo antico” definitivamente franato. Io sotto quelle macerie. Ormai donna, ma ancora tenacemente aggrappata alla magia dei miei brevi anni nei suoi occhi che misuravano di tenerezza la mia crescita. Poi scrissi la sua storia. E quella storia asciugò le lacrime. Ricucì brandelli di me bambina, riconciliandomi col passato, che avevo già perso perdendo te e il campo dei ciliegi e tutti gli appigli e i punti fermi e le strade attraversate e i miracoli ascoltati e le iatture intuite sulle porte dei pianterreni e sottani e le mani in croce sui letti delle sere e i rintocchi di mezzanotte di quegli anni lontani. Difficili Amati Semplici Amari. Grazie a quella storia imparai a colmare i vuoti con le parole. La storia di compare Luigi, quando ancora era la storia di un uomo, si era intrecciata naturalmente, negli anni remoti della mia infanzia, con quella della guerra e degli Alleati inglesi e americani, che erano venuti a liberarci dai tedeschi e dai fascisti, e che ben presto erano diventati suoi e, poi, tuoi amici. Spesso tu e lui mi portavate da un ufficiale inglese, che abitava con altri ufficiali in quello che a me sembrò subito un grande castello e che in realtà era stato un antico monastero benedettino, appena fuori le mura del paese, dirimpetto a Porta Santa Teresa, una delle quattro porte che delimitano il perimetro del nostro antico centro feudale. Si ergeva, e si erge ancora, maestoso con una grande scalinata accanto alla chiesetta di Santa Teresa (“sòttə a Sànda Trèisə”) oltre il ponte sul fiume Tiflix, che in passato aveva attraversato i nostri campi e anche le vie, e che ora, ormai in secca da moltissimi anni, aveva ceduto il suo letto a case e strade costruite prima della guerra. Più tardi quel castello/monastero sarebbe diventato sede della scuola media e del Liceo-ginnasio.

Quando da adolescente vi tornai per frequentare le medie, ricordai perfettamente il percorso esterno e interno che portava fino all'appartamento abitato dal nostro amico inglese, che aveva una moglie bionda e alta quanto lui, e due figli maschi. In quel castello, da bambina, volavo principessa. Bimba bellissima e vezzosissima, mi regalavano grossi pezzi di cioccolata, barattoli di caramelle gommose e intere confezioni di farina lattea, in cui affondavo occhi di desiderio prima di portarla alla bocca con cucchiaiate golose (ancora oggi compro le “galatine” per ritrovare quel sapore che veniva da lontano). La casa di compare Luigi era proprio a due passi, nella strada che dal ponte portava all’interno del paese. Era, dunque, facile per tutti noi andare con lui dal suo/nostro amico inglese. Il tenente era felicissimo di vedermi e, subito dopo i baci e gli abbracci sempre molto calorosi, mi sollecitava a ballare, a cantare o a recitare qualche filastrocca; poi rideva, rideva rideva e, facendomi volare tra le sue braccia, mi ripeteva come un mantra: “Tu venire con noi in Inghilterra. Sposare mio figlio Henry. Ti verremo a prendere. Baby fantastica!”. Io cantavo - ricordo ancora - quella canzoncina dispettosa che mi aveva insegnato Michelino perché alla fine facevo una piroetta spettacolare. Era il mio cavallo di battaglia e la ripescavo ogni volta che venivo invitata ad esibirmi di fronte a qualcuno. Faceva più o meno così...

                                                         

 Ho un sassolino nella scarpa, ahi!/ Che mi fa tanto tanto male, ahi!/ Batto il piede in giù./ Batto il piede in su./ Giro, mi rigiro, sembro belzebù! E la piroetta velocissima mi trasformava in un angelo con le ali, non sapendo neppure cosa volesse dire “belzebù”. Le parole sconosciute m'incuriosivano molto e chiedevo spiegazione a te che con pazienza mi ascoltavi, ma non sempre mi davi le risposte giuste perché non sempre ritenevi opportuno darmele, come, per esempio, parlarmi del diavolo che s'intrufolava in una canzoncina buffa e innocente.

Poi il tenente inglese con la sua famiglia andò via, lasciandomi con un abbraccio, tanta cioccolata, montagne di farina lattea e una promessa: “Ritornerò in Italia per portarti via”. Io mi sentii importante. E mi sollevai da terra di mille metri. Scrisse spesso per alcuni mesi, ma nessuno era in grado di capirci niente e nessuno sapeva rispondergli, neppure in italiano. Tu parlavi l'americano, ma era un'altra cosa. Leggere e scrivere, poi, una impresa impossibile per tutti, una improponibile fatica anche per te. E così, piano piano, non ricevemmo più lettere e, su quell'amicizia di parole mai comprese, di cioccolata e zucchero a zollette e di pani di farina lattea e promesse d'amore, cadde il silenzio. Compare Luigi parlò di lui per anni, rammaricandosi di non saper scrivere né leggere e di aver paura di viaggiare. (Caro, caro, caro compare Luigi, una montagna d'uomo con due fari accesi in viso e quella risata larga sulla sua faccia triste. Burbero e irascibile, ma con un cuore tenero di bambino cresciuto troppo in fretta e con facili lacrime di commozione per ogni vicenda infelice, di cui era stato o era protagonista, o di cui veniva a conoscenza. Tutti i guai degli altri diventavano suoi e cercava in tutti i modi di risolverli).

Quelli furono, comunque, ancora anni difficili, vissuti da noi piccole senza sapere e senza capire la fragilità di quella pace, spesso interrotta dalla violenza di animosi partigiani e vendicativi fascisti che, appena e come potevano, si facevano sommaria giustizia dei lutti subiti e dei torti e delle ragioni che li animavano, da soli o in assetati branchi. Divampavano, così, all’improvviso incendi mai sopiti sui due fronti. Tu e compare Luigi ne parlavate in un sussurro. Giungevano da fuori notizie poco rassicuranti e tu e lui vi preoccupavate soprattutto per noi (jndə a cè mùnnə sìmə sciótə a fərnèscə… pòvərə mənìnnə…) (in che mondo siamo andati a sprofondare… poveri bambini). Compare Luigi si moltiplicava per quattro quando quelle stesse notizie si facevano realtà nel nostro paese, per perorare la causa di un conoscente o amico o compagno di partito (a cùrə povərìddə ‘ngə jònnə fàttə vèivə angòurə d’ùgghjə də rìcənə còmə a prójmə də la uérrə e jójə u so’ scìutə ad ajətéuə còmə mégghiə sò pətìutə… cè brutta razzə chìrə capélastrə də fascìstə…) (a quel poveraccio gli hanno fatto bere ancora dell’olio di ricino come prima della guerra e io sono andato ad aiutarlo come meglio ho potuto… che brutta razza quei brutti ceffi dei fascisti…). Ma soprattutto si moltiplicava all’infinito quando si trattava di bambini e di anziani (nàn mə sìtə attəccuànnə rə mənìnnə e rə vìcchjə…)(non mi toccate i bambini e i vecchi…)

Compare Luigi è una lacrima sconfinata nelle mie preghiere.

Tu, un racconto e una riconoscenza mai spenti in quelle dei tanti tuoi “figliocci”, molti dei quali sono ormai venuti a farti compagnia tra le stelle. (…).

Ti prendevi cura di noi e ci amavi di quel tenerissimo amore che solo gli anziani spesso sanno dare ai bambini, vivendo sullo stesso orizzonte di realtà e fantasia, di giochi condivisi, di piccole complicità misteriose. In perfetta sintonia. Come se un filo magico legasse i brevi ai lunghi anni. Noi palloncini colorati nell'azzurro. Tu, sapienti mani a reggerne i fili per una libertà ancora da guidare. Tornavi dai tuoi campi al tramonto, sul carro alto e il cavallo fulvo e i cani... e noi ti correvamo incontro rotolando per le scale tra le tue braccia spalancate, che ci serravano al cuore. Poi, con pazienza, quasi rito quotidiano, ti sedevi sul primo gradino della lunga scala e ci prendevi a cavalluccio sulle spalle. Salivi “al galoppo” con me, assordato dai miei gridolini di gioia e dai fremiti di piacevole paura, e ridiscendevi per prendere Lizia, in spasmodica rassegnata attesa. Lei aveva un anno e due mesi più di me e tu ti fidavi di più a lasciarla da sola, sia pure per la frazione di qualche secondo appena (al galoppo! dai papà dai…). Nella grande cucina ti sedevi un poco a riprendere fiato, e avevi il volto arrossato dalla fatica e dal sole e il profumo d'erba e di terra tra i capelli e sulle mani. Quando la corsa finiva, il gioco ricominciava. “Stringi forte così, e indurisci le braccia”, dicevi, mentre con mani forti, puntellate sotto i nostri pugnetti serrati, ci sollevavi in alto fino a toccare il cielo... oppure, tenendo racchiuse le nostre manine nel cavo poderoso delle tue, ci facevi fare capriole ad un palmo da terra… e, ancora, prendendoci per una caviglia e una manina in corrispondenza ci facevi provare il brivido del volo dell’aereo… aerei di giochi e di allegria contro gli aerei di paura che in quegli anni solcavano sinistramente i nostri cieli… Ancora oggi il rombo degli aerei mi crea ansia anche se molto spesso sono stata costretta a salirvi per viaggiare in molte città europee, non avendo il coraggio di avventurarmi oltre…

A presto, come sempre. Angela/Lina                             

 

 

venerdì 3 maggio 2024

Venerdì 3 maggio 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

E oggi è un giorno particolare, come ha scritto stamattina, sulla sua Pagina di FB, la mia carissima amica scrittrice e poetessa Anna Mininno, “Messa sul faceto… giorno in cui si sposano rospi e rane. Un giorno così si potrebbe anche non immaginare… Ma, intanto, ieri ha scritto: Come si fa a non amare il cielo per nulla estraneo alle gioie e ai dolori. Come si fa a non amare il sole che illumina la terra e fa emergere crepe e splendori. - ad occhio nudo, tutto è più semplice e le verità si liberano da sole - . Non a caso, anch’io ieri ho condiviso una poesia scritta qualche anno fa e ripropostami da FB, perché mi è ricca di amore per la natura e per la spinta formidabile a nascere e ad esistere contro ogni ostacolo o “pietra d’inciampo”: Grappoli di cielo nel giardino/ e rose e margheritine/ narcisi tulipani e violette/ ma due papaveri innamorati/ hanno bucato la pietra/   stamattina   / col fuoco del loro sorriso/ profumato del misterioso sogno/   di giorni mai vinti   /   e sempre nuovi… (a.d.l.)    

Ma, tanti ma tanti anni fa, un amico coratino DOC, incontrato nella stessa scuola, mi raccontò del matrimonio dei rospi con le rane in questo giorno di inizio maggio, e mi sembrò una fiaba bella che mi spinse a scrivere una poesia perduta nella notte dei tempi. Non così una sua poesia, “Ebbrezza”,  che ha sfidato la notte dei tempi per la sua incoercibile voglia di vivere. Il mio amico non ha mai amato le vetrine e ha sempre preferito l’anonimato: Infornare pane/ pigiare uva/ raccontare poesia./ Identità di tempi e luoghi/ lacerata/   dalla storia/ sublimata dalla terra/ profumato antico/       orgasmo di vita/nell’abbraccio di ulivi/  contorti di dolore/ verdi dell’invincibile/ realtà dell’esistere

Oggi, però, la mia adorabile GAZZA, di cui ho tanto parlato nel recente passato, SELVAGGIA C SERINI, firma in inglese, lingua a lei molto congeniale, cinque mesi di presenza nel cielo delle stelle che illuminano il mondo con la loro Luce, ed io ho bisogno di dialogare con Lei, come è accaduto tra una madre e una figlia di adozione reciproca:

Angela mia, il pacco recuperato con i tuoi preziosi libri e il dolce pensiero di Djeke, che ti prego di ringraziare quando lo sentirai… Grazie mille, lavorare per e con te rimane una delle grandi soddisfazioni della mia vita! Ti adoro, mia mamma bis!

Che sollievo! Menomale. Torneremo ad incontrarci. A Roma, spero. Devo ancora rimettermi in sesto. Purtroppo. Ma ci sono ancora tanti progetti in cui mi stanno coinvolgendo a più livelli. E per alcuni dobbiamo ancora lavorare insieme. Poi le tue poesie, i tuoi racconti sulla nostra Rivista cartacea ecc ecc. Per ora ricambio il tuo immenso affetto con il mio immenso + + +. Sei una forza della natura ed io ti ammiro moltissimo anche per questo. Con tutto il mio cuore.

Mia Selvaggia, spero che tu possa andare sulla Pagina facebook di Gjeke Marinaj perché c’è un lungo e dettagliato dossier, corredato da una settantina di foto riguardanti le sue innumerevoli attività culturali, letterarie e poetiche in tutto il mondo, ma partendo soprattutto dal Premio Genjma e concludendo con il Premio Gjenima. Se non ti è possibile andare sulla sua Pagina, dimmelo e cercherò aiuto ai miei angeli domestici perché ti giunga in qualche modo tutto il dossier. Io purtroppo non so farlo. Ti abbraccio forte forte forte. A prestissimo. Angela.

Buongiorno, mia Angela, appena possibile cercherò la pagina del dolce Djeke… a proposito, non ho i suoi contatti ma tu sì… puoi ringraziarlo da parte mia per il regalo e la ancor più bella dedica? Ti bacio tanto.

Tesoro mio, come faccio per metterti in contatto con Gjeke? Sai che mi ha proposto tante nuove collaborazioni? E tu sarai coinvolta come traduttrice e non solo… Devo chiedere ai miei appena sono con me a casa… (9 agosto 2023).

Questo è il profilo di Gjeke, puoi inviargli la tua richiesta di amicizia e sentirvi direttamente. Un abbraccio grande. A presto.

Grazie mille e infiniti baci. (21 agosto).

Come va Selvaggia mia? Ti sei sentita con Gjeke? Se chiedi la mia amicizia su FB potrei taggarti per farti leggere il mio blog e altro. Piano piano sto ritornando a scrivere… Tu? Quando puoi, parlami di te… questa volta infiniti baci da me a te. (30 agosto).

Ciao mia Angela! Purtroppo ho avuto giorni intensi e ho rimandato per trovare il tempo di mandargli un messaggio all’altezza, che credo riuscirò a fare domani. Tra poco chiederò la tua amicizia senza dubbio, e sono felicissima che tu stia tornando a scrivere… e ti adoro e ti immagino di nuovo libera e ricca di parole! Ti adoro, un abbraccio enorme!

Ti adoro anche io. Lo sappiamo. A prestissimo con tutto il nostro amore! (30 agosto).

Selvaggia, amoremiogrande, finalmente ti sento e siamo amiche di FB. Che gioia!!! Come stai? Grintosa come sempre? Ti sei sentita con Gjeke? Tra non molto dobbiamo lavorare insieme e questo mi fa un immenso piacere. Sei d’accordo anche tu? Il primo giorno d’autunno con le prime gocce autunnali ti ritrovo. Benvenuto equinozio autunnale, porta a Selvaggia il mio cuore (21 settembre).

 Mia Angela!!! Devo scrivere a Gjeke assolutamente ma quest’ultimo mese è stato frenetico! Spero i tuoi dolori siano migliorati, ti penso sempre, la tua gazza ladra! (22 settembre).

Tesoro mio, la mia salute è ancora altalenante, ma esorcizzo ogni paturnia con i tanti progetti che voglio ancora realizzare. Cara la mia gazzina, con te al mio fianco ce la faremo!!! Se puoi via a leggerti il mio blog. Potresti trovare delle riflessioni condivise molto interessanti. Con tutto il mio amore ti abbraccio forte forte. Stammi bene-benissimo!

 Mi piace sentirti entusiasta! Corro a leggere e ti mando tutti i baci che ho! (25 settembre).

Selvaggia carissima, come stai? Hai avuto modo di leggere il blog con il tuo racconto? Mi stanno mandando bellissimi commenti. Ho dovuto parlare anche di Dylan, il mio amatissimo cane, e del cane di un altro mio carissimo amico tanto simile a Dylan. Il tuo racconto troppo breve mi ha permesso di sollecitare i lettori alle consuete riflessioni che sono l’anima del blog… dammi tue notizie, se puoi. Ti abbraccio con tutto il cuore. (15 novembre).

Selvaggia mia, come va? Spero bene e anche piena di progetti anche con me. Puoi mandarmi in tempi brevi o un racconto o una poesia sul tema: PERSONA, ARABA FENICE che continuamente risorge dalle sue ceneri per riconoscersi nel continuo cambiamento della società… Spero di ricevere belle e buone notizie. Bacissimo. Angela.

Ciao Angela mia, periodo difficile con continui ricoveri, quindi immagina la stanchezza e lo stress… cerco comunque di mantenermi attiva quanto posso. Quando dici tempi brevi puoi quantificarli? Così posso dirti subito se ci riesco nei tempi a te necessari. Ti mando un abbraccio affettuosissimo!

Quanto mi dispiace e quanto mi stanno a cuore la tua salute e il tuo ben-essere psicofisico! Spero che tu ne venga fuori quanto prima e nel migliore dei modi. Oggi è possibile… Una settimana potrebbe bastarti? Il tema è bello e ci carica di speranza per il futuro. Io desidero impegnarti per darti un motivo in più di ripresa. Tempo massimo fine del mese… ti stringo al cuore!

Ci provo in una settimana!!!

Magari!!! Ma non affaticarti più del dovuto. Mi raccomando! Deve essere un impegno non una fatica…

Prometto! (ancora e per sempre 15 novembre).

Lei: Prometto: Con un cuore per suggellare la promessa. E, solo cinque giorni dopo, ecco giungermi una email: 

Carissima Angela, ho scritto una poesia per te sul tema Fenice come mi avevi chiesto. Devo dire che è molto che non scrivo col pensiero che qualcuno leggerà, e questa tua proposta è stata una sfida che mi lascia con un briciolo di insicurezza. Spero tu trovi il testo all’altezza delle tue produzioni e di quelle che selezioni. Ti abbraccio come una figlia stringe la madre che la guida. La tua Gazza.

Le ho risposto immediatamente: Gazza mia Gazza, grazieeee. La poesia è bellissima, non avere dubbi di sorta. Farò il commento, se lo spazio me lo permetterà, ma spero proprio di sì. Come stai? Non ti sto taggando per il blog per non farti affaticare ulteriormente. Ma non mollare mai. Abbiamo da fare ancora tanto insieme. Però riguardati, questo sì. Con amore di madre ti stringo forte al cuore. Angela. Le sue ultime parole. Le mie ultime parole.  Era il 20 novembre. E non nascondo che ogni volta che le mandavo un messaggio, dopo questa estate, attendevo con ansia di vedere la sua faccina per avere conferma che c’era, anche se il suo messaggio tardava di qualche ora o di un giorno a raggiungermi. E trepidavo sempre. Trepidavo. Ma ecco la poesia intitolata “FUOCO”:

Una foglia d’acero/ Lentamente col suo colore di fiamma/ Scende a terra, a nutrire, a dare vita/ Nella propria morte rossa// Una foresta che sembra un incendio.// Un incendio di rinascita/ Ali spalancate ed esistenze circolari// Ogni volta, quello che sembra una resa/ È la violenza della fiamma/ Una nuova presenza, una nuova forza,// una piuma rossa pronta a un nuovo volo/ a una nuova vita/ a nuovi desideri. Selvaggia c Serini

E ancora una volta piango perché sento l’urgenza ormai di una doppia lettura, un duplice commento: prima della tristissima notizia quando ancora speravo nella sua rinascita su questa terra da vera Araba Fenice, e dopo che è “volata” via “Ali spalancate ed esistenze circolari”. E niente è più come prima. La foglia d’acero rossa (ricorrente nei versi il rosso, esplicitato o meno), ma anche la piuma rossa stanno ad indicare il colore della sofferenza, della forza poderosa e fragile della voglia di rinascere? Penso proprio di sì. Ma oggi sono troppo provata per riflettere e dare una risposta un po’ più aderente alle intenzioni di Selvaggia. Così come gli stessi versi, letti oggi, si colorano di altre sfumature, altri significati, del mistero di un Oltre che ci accoglie in invisibili “esistenze circolari” di forte “energia cosmica” che io non escludo affatto. Desidero, però, dal più profondo del cuore esprimere tutta la mia immensa gratitudine a Selvaggia (ma lei lo sapeva già e lo sa oggi più che mai!) per aver dedicato tantissimo del suo prezioso tempo alla traduzione in inglese delle mie poesie, nate di notte nei vari Centri ospedalieri, di igienizzazione e riabilitazione che per circa otto mesi mi avevano ospitato dopo il mio devastante terribile franare a Belgrado. Gjeke Marinaj me ne aveva fatto più volte richiesta per essersi innamorato anni prima della mia scrittura in prosa e in versi. Selvaggia tradusse le mie “visionarie e difficili” poesie talmente bene da essere apprezzate da Gjeke così tanto da farmi meritare il prestigioso Premio Gjenima a Roma, dove il 27 maggio scorso entrambi la incontrammo per la prima volta (e l’ultima volta). Felici io, Selvaggia e Gjeke di quell’insperato incontro…

Ieri mi sono armata di coraggio e ho scritto a Gjeke che la nostra Selvaggia non c’era più fisicamente tra noi. Questa la sua risposta immediata che, dietro suo permesso, riporto nel nostro blog (e rispetto la traduzione di Google): Non potresti darmi notizia peggiore in questo momento. Quando mi hai detto che sarebbe stata disposta a tradurre le mie poesie per il mio nuovo libro, ho pensato che solo perché sta cercando di essere d’aiuto, anche nei suoi giorni peggiori, non avrei mai dovuto approfittare della sua gentilezza e della sua bella anima. Ecco perché non ho risposto a quella offerta. È una grande perdita non solo per noi come amica, ma per le arti e le discipline umanistiche e per l’arte e il mestiere della traduzione. Pregherò per lei con tutto il cuore. Mi mancherà tantissimo. (…) Che Dio sia con lei in paradiso (…).

Quanto dolore anche in Gjeke Marinaj e quanta ammirazione da parte sua per il tuo lavoro e quanta delicata rinuncia in considerazione della tua “anima bella”, per la pronta e generosa disponibilità a tradurre in italiano il suo ultimo libro, nonostante i tuoi pressanti problemi di salute.

Ritornerò presto a parlare di te, Selvaggia mia, appena avrò fatto silenzio nei pensieri in tumulto, ma già ti sento stretta tra le mie braccia di madre adottiva, mentre tra le lacrime abbraccio la croce ferita di Francesco, tuo innamoratissimo sposo, di Fedra, tua amata sorella che non ho purtroppo conosciuto, e di un’altra madre in lacrime… Angela tua 

Ho riportato qui quanto già scritto nel nostro blog all’alba del 3 dicembre 2023. Solo 5 mesi fa. E il dolore è ancora qui uncinato nell’anima.

Di Selvaggia parlerò ancora e ancora perché è sempre con tutti quanti l’anno conosciuta e amata, sia pure per lo spazio breve e infinito di un’alba che sa di tramonto e non conosce sera… Angela