Al bel tempo di maggio le/ serate si fanno lunghe; e l’odore/ del fieno/ che la strada, dal fondo, scalda/ in pieno lume di luna, le allegre cantate/ dall’osterie lontane, e le risate/ dei giovani in amore, ad un/ sereno/ spazio aprono porte e petto… (Giorgio Caproni, stralcio della poesia “Maggio” da Tutte le poesie, Garzanti, 1983). E siamo a maggio. Riprendo a scrivere e a ricordare dopo alcuni giorni di silenzio. Salutari per tutti, credo. Ed ora ci ritroviamo con la gioia di esserci ancora. Insieme. E continuo a rovistare nei primi due volumi del mio romanzo Le piogge e i ciliegi, dove trovo ancora motivi di salvezza contro ogni nuovo naufragio più del corpo, ormai fiaccato dagli anni, che della mente e del cuore, per fortuna ancora vigili.<Quando improvvisamente le antiche voci ritornano, improvvisamente mi torna il desiderio di ritentare vie al passato remoto, che fu sano e sincero nella sua povertà di mezzi e ricchezza di cuore, uncinandomi ancora alla lingua dell’anima per comprendere meglio quanto mi sia stato dato, quanto mi sia stato tolto: “Na’ stèjə chió ‘nu pàlmə néttə” (“non esiste più un palmo netto”), diresti tu, come ti capitava di dire, deluso e amareggiato, oltre cinquant’anni fa, di fronte alla malafede o al malaffare di quei pochi che deviavano dalla retta via. Oggi quei pochi si sono moltiplicati a dismisura. ‘Cosa diresti oggi?’, mi piacerebbe saperlo. Probabilmente, pensando al mio esiguo margine di forza in questo mondo che mi devasta, diresti anche, guardandomi dispiaciuto come ti capitava allora: “Cìndə də nùddə accədérənə ‘nu ciùccə” (“cento di niente uccisero un asino”). E ti meraviglieresti che io, nonostante tutto, continui a resistere (sì, sono diventata, come già detto, quasi forte… quasi inossidabile… quasi inattaccabile, non perché non abbia limiti, di cui rammaricarmi, o armi caricate a salve che decretano sconfitte, ma solo perché non ne sento più i colpi, le trafitture… o quasi… come l’alpinista che si è già bruciato i palmi delle mani e le piante dei piedi nella salita su rocce aguzze e solitarie e non ci fa ormai più caso al dolore… non lo sente più e sa che non può contare sugli altri. Esiste anche il mitridatismo del cuore?). Ecco perché io oggi invecchio male: per tutti questi dolorosissimi muri che sono costretta ad innalzare tra me e la realtà per risparmiarmi, per evitare l’abisso. Il mondo è cambiato e anche io in parte non sono più la stessa. La mia fiducia negli altri si è trasformata mio malgrado in diffidenza E sento la tua totale comprensione. La tua “com-passione”. Il tuo “patire” con me. E, come te allora, la donna “invecchiata male” si chiede oggi ‘dov’è la verità?’. Quante le verità da non potersi dire per non ferire e distruggere come si è stati feriti e distrutti in questo mondo di desertificato sentimento? Dove la fiducia si rivela sempre più una merce rara da scambiare con parsimonia. Dove ognuno vive di sé e per sé, non preoccupandosi di quanto male possa aver fatto all’altro e ignorando che può porvi rimedio solo con un rammarico sincero, col beneficio del dubbio sulle proprie verità, con una parola di scusa, come le “parole gentili” che tu avesti premura di insegnarci un giorno perché nessuno potesse essere oggetto di indifferenza o di mancato rispetto. Come dirlo ai miei figli senza devastarli? Come evitare che commettano gli stessi errori, sentendosi nel giusto e nella verità? Io voglio ancora per loro una fede certa, amori da vivere, sogni da realizzare, amici da incontrare… Come desideravi tu per tutti noi. E, per tutta questa amarezza che mi porto dentro, ho smesso anche di cantare. Sì. Si è spento l’ardore del canto dolente e appassionato. Non canto più né la GIOIA né la DISPERAZIONE. Si è perso il CANTO. Si è PERSO. Il canto esorcizzava il mio dolore… E tu hai letto già tutto lo sgomento nelle mie desolate parole e sei preoccupato per questi pensieri negativi perché sono nuvole o forse pioggia: poche gocce, tante, tantissime, sottili, pesanti, acquazzoni, diluvi che mi sommergono. Mi soffocano. Spengono neuroni e illusioni. Non so rimanere indifferente. A volte, è un precipitare d’acque che annebbia la vista. Toglie il respiro. E rischio il naufragio
(tttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt).
Poi torna l’arcobaleno. E non so
più se è un segno di speranza o ancora un’illusione questo insieme di colori
che mi prefiguro per dipingere giorni migliori. Mio caro papà, non so più. Non
lo so. Come tu mi dicesti quel giorno del nostro raccontarci e dirci addio. Mi
perdo nei meandri subdoli di ogni verità nascosta, delle innumerevoli e
contrastanti realtà, il cui filo unificatore ci è sfuggito di mano, come gli
aquiloni, i palloncini della mia infanzia e delle infanzie di tutto il mondo
con occhi chiari e il gioco insopprimibile dei bambini. Per le nuove generazioni questo vuoto
esistenziale è forse inevitabile. Sembra che i giovani non ne facciano un
dramma. Riempiono quel vuoto con nuovi miti e nuovi eroi, nuovi gusti musicali
e letterari. Con un nuovo modo di incontrarsi, di conoscersi, di amarsi. Sembra
che la realtà virtuale offra spesso rifugio, svago, consolazione. Ma io non ci
credo molto. Anzi non ci credo affatto. I ragazzi mascherano il malessere con
la disinvoltura del loro sbandierato agnosticismo. Leggo con interesse e dolore
le amare poesie di quei pochi che le amano e le scrivono e hanno talento.
Spesso mi chiedo: ‘possibile che i giovani di sempre non si accorgano
dell’arroganza delle certezze che preclude orizzonti più ampi sotto e sopra le
stelle? Possibile che la giovinezza non riconosca l’importanza dell’umiltà del
dubbio a concedere una briciola di speranza ancora? Sempre così l’assoluta
giovinezza?’ Sì, sempre così l’assoluta
giovinezza di ogni tempo e di ogni luogo! Ma conosco anche alcuni giovani
che oggi si nutrono di libri e di impegni civili e sociali, pur non credendo
più in quello religioso o politico. Giovani migliori di me alla loro età: più
consapevoli, più preparati, più colti, più veri. Più impegnati, quando sono impegnati! Ma cosa
realmente pensano i giovani, oggi? Cosa temono e cosa li esalta? Cosa vogliono
realmente, al di là delle mode e dietro l’apparente ribellione e originalità? I
giovani sono il mio assillo quotidiano. Per questo mi attardo a parlare di
loro. E con loro. Ho imparato da te ad
amarli. Quanto gioioso ascolto hai dato tu a noi, ai nostri amici!
Qualche
tempo fa, una ragazza mi confidò di essere delusa perché gli adulti giudicano
senza ascoltare. Non mi sorprese la sua denuncia. Lucida, amara, inconfutabile.
Mi rammaricai. Mi dispiacqui. E allargai il discorso a tutti: NESSUNO ASCOLTA PIÙ NESSUNO. Dunque,
non abbiamo tempo per gli altri. Spesso amiamo solo ascoltarci. S’è perso il tempo dell’ascolto che era un
fare spazio all’altro. Un incontrarsi per confrontarsi e riflettere
approfondire imparare. Reciprocamente.
Dunque, come “invecchiare bene” in tanto
vuoto esistenziale? E, nonostante tutto, io, “invecchiata male”,
ma eterna acchiappanuvole e acchiappasogni, ci credo ancora nell’ascolto perché
con te era un ascoltarsi continuo e attento. Un ascoltare prima di ascoltarsi. Purtroppo, papà, sono proprio i
ragazzi oggi le vere vittime di questo scempio che noi, adulti e anziani, non
mi stancherò mai di ripeterlo, abbiamo prodotto con grande superficialità, non
so più se per ignoranza e inconsapevolezza o per necessità. E tu sei estraneo a
tutto questo. Lontano molto più del secolo che t'appartiene. (Non esiste un altro uomo/ così caro come lui/
sogna ancora ad occhi aperti/ e non ama la tristezza/ noi ci somigliamo tanto/ ma non sogno ad occhi aperti/ io appartengo a
un altro mondo/ dove lui vivrebbe male/ caro caro vecchio mio/ ora corri
insieme al tempo/ e non corri più nel
vento/ Ho il tuo sangue nelle vene/ e ti porto nel mio cuore… Iva Zanicchi
e la canzone che un tempo mi piaceva dedicarti). Ma tutto passa lina tutto passa.
Allora, quando andasti via, mi crollò addosso ogni verità. Ogni realtà con te
vissuta e ritenuta per sempre. Scoprii il relativo, ma anche il relativo
conobbe la mia presunzione di assoluto. Nell’assoluto i vuoti di ogni relativo.
Quei vuoti venivano vissuti da me come altri assoluti. Eterna presunzione della giovinezza. ‘Il vuoto dell’assenza di papà durerà
per sempre’, mi dissi allora. Oggi scopro che non esiste un “per sempre”. Non
esiste un “mai”. (Persino il
ricordo, che si riferisce a qualcosa di già vissuto e codificato, storicizzato,
quando si riaffaccia alla mente è già altro. Rifiuta il per sempre e si prende
gioco del mai. Ad ogni nuovo suo affiorare e riaffiorare alla mente si
aggiungono particolari. Si sottraggono particolari. Si omettono parole ritenute
inutili o superflue. Si aggiungono parole che si erano ritenute inutili o
superflue ma che, nel frattempo, sono diventate importanti. E quelle che erano
importanti si rivelano prive di senso, vuote di significato in una condizione
di vita diversa. In una situazione di vita diversa. In un sentire diverso di
emozioni e sentimenti). Anche l’amore cambia. Si affievolisce. Si spegne.
Rinasce. E non si sa quando bariamo e quando diciamo la verità, ammesso che se
ne possa azzardare una. E non è soltanto artificio letterario. È realtà. Non si
può barare quando c’è di mezzo il cuore o il dolore. Anche per salvarsi, spesso l’assoluto si fa relativo. Sfuggono
certezze. Si integrano verità. Si dubita che tutto sia accaduto realmente. Si
teme che tutto sia accaduto realmente. E tutto cambia nella forma e tutto
rimane immutato nell’essenza. (Tempo
verrà/ in cui, con esultanza,/ saluterai te stesso arrivato/ alla tua porta, nel tuo proprio specchio,/
e ognuno sorriderà al benvenuto/ dell’altro,/ e dirà: “Siedi qui. Mangia./ ”Amerai di nuovo lo straniero che era il
tuo Io./ Offri vino. Offri pane./ Rendi
il cuore a sé stesso, allo straniero/ che
ti ha amato per tutta la tua vita,/ che
hai ignorato per un altro/ e che ti sa a memoria./ Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,/ le fotografie, le note disperate,/ sbuccia via dallo specchio la tua/ immagine./Siediti. È festa.
La tua vita è in tavola. - Derek Walkott, “Tempo verrà”). E non è un caso
che mi torni in mente quanto abbia scritto qualche anno fa che è la sintesi di
quanto vissuto, amato, odiato, riabilitato, compreso. Finalmente, compreso
attraverso i grandi cambiamenti epocali, generali e individuali, quando tutto
sembra diverso e tutto si ripropone. (Nietzsche me lo avrebbe insegnato molto
più tardi). Parlo del dopoguerra, papà. Tutto era già diverso e tutto mi sembrò
uguale. Anche se in paese la gente sembrava ritornare a vivere. Certo, avevamo
pasticciato con le alleanze durante la guerra, ma il fascismo era stato
spazzato via in un bagno di sangue dagli Alleati e da quella terribile guerra
civile tra fascisti e partigiani che alla fine ci vide tutti sconfitti nella
nostra dignità di esseri umani. Eravamo tutti fascisti e non lo sapevamo. Eravamo
tutti partigiani e non lo sapevamo. Non c’era consapevolezza e, quindi, neppure
colpevolezza. Il re aveva abdicato in favore del figlio, ma anche questo
giovane rampollo di casa Savoia, il “re di maggio”, fu obbligato a scegliere,
non senza polemiche e per evitare nuovi lutti, la via dell'esilio, essendo
stata proclamata in Italia la Repubblica con il Referendum del 2 giugno 1946. (Ricordo ancora, come un incubo, la
paura che mi sorprese, subdola e infinita, quando tu, mamma, nonna e babbo
foste costretti a lasciarci da sole in casa per andare a votare. Avevamo, Lizia
e io, cinque e quattro anni appena compiuti. Le donne votavano per la prima
volta e non sapevano come fare. Avevano bisogno di voi uomini per farsi
coraggio e dare il loro voto. In casa già nei giorni precedenti lievitò una
grande nebbia di incertezza e di tensione. L’unico ad avere le idee chiare
forse era babbo, chiuso nel laconismo di chi è sopravvissuto all’orrore. E don
Mincucciouno, il nostro amico sacerdote, che curava tutte le pratiche
burocratiche delle tue proprietà e che vi aveva suggerito più e più volte come
votare, dove apporre la firma o la croce (la cròcə sòpə all’alta cròcə), ma voi
respiravate perplessità e ingoiavate preoccupazione e dubbi e paure. Nonna
Angelina dichiarava che lei non ci capiva niente e che avrebbe preferito non
votare tanto avrebbe comunque sbagliato e che, alla fine, “non era col suo voto
che si salvava l'Italia”. Mamma si sforzava di mantenere la calma, ma si
tagliava a fette il suo timore per qualcosa che le sembrava oscuro e minaccioso
per il nostro futuro. Io e Lizia attendemmo impaurite che usciste di casa per
quella missione per noi misteriosa, oltre che carica d'insidie. Ricordo che ci
stringemmo vicine vicine in attesa del vostro ritorno, aggrappandoci al
davanzale della finestra della cucina, dopo essere salite sulle sedie, per
guardare attraverso i vetri la strada e i rari frettolosi passanti. Io e lei, pendoli silenziosi del tempo con
il cuore pulsante in tutta la casa. Spaventate dai passi che sentivamo
pesanti lungo la via e da quelli ancora più minacciosi e vicini che ci
assalivano alle spalle, ci ghermivano, c'impedivano di respirare, di parlare, di
piangere. Un secolo. Due secoli. Tutto il tempo del silenzio, della paura e
dell'angoscia. Poi tornaste e ci sembrò il miracolo atteso per le nostre
preghiere soffocate “Angelo di Dio...”. Mai avevamo tremato tanto. Forse solo
quando, stando sempre appollaiate sulle sedie, dietro i vetri della finestra
della cucina, nostro quotidiano rifugio quando volevamo “guardare fuori”,
vedemmo piovere cenere dal cielo. Tutti in casa si spaventarono. E noi con loro
per contagio. Si disse poi che era stata l’eruzione del Vesuvio. E noi
scoprimmo un nuovo fenomeno del tutto sconosciuto. Io avevo appena due anni, ma
quella cenere mi piovve tra la strada e gli occhi e si fermò nella memoria. La pioggia di cenere finì. La paura rimase.
E anche per oggi penso sia giusto
fermarmi qui. Sono le storie di maggio: mie, della mia famiglia, della Storia
di una intera generazione, che quelli della mia età indubbiamente ricorderanno
per farne, con me, memoria e nuovi motivi di riflessione. A presto. Angela/Lina
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