giovedì 23 febbraio 2023

Giovedì 23 febbraio 2023: "IN VERITA' VI DICO..." di Enzo Quarto e Vito Zaza...

Ieri è stato il Mercoledì delle Ceneri, che ha cancellato l’allegria del Carnevale per vestire i panni viola della Quaresima. Un tempo c’era il rito delle Ceneri in ogni parrocchia con una fila di fedeli, come formiche nel freddo di un febbraio che ci regalava ancora brividi di gelo, col capo coperto dal velo e il volto contrito dei penitenti. Il sacerdote sull’altare cospargeva di cenere il nostro capo, recitando in latino “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris” (“Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai”). Una locuzione che sembra celebrare il trionfo della morte sulla vita nel ricordo della passione e morte di Cristo. Ma mi trovo tra le mani un libro prezioso che conta solo pochi giorni e già sta volando, lieve come piuma sollevata dal vento, in giorni di sole e di nuvole e di tempo incerto come il nostro cuore, arreso a questi tempi bui di guerre, violenze, catastrofi naturali, di cui noi, uomini del nostro tempo, dobbiamo sentirci in buona parte responsabili.

Si tratta delle “Meditazioni poetiche della Via Crucis” di Enzo Quarto, “In verità vi dico” (SECOP edizioni, Corato-Bari, 2023). Il libro è impreziosito dalle suggestive tavole pittoriche del compianto Vito Zaza, eccellente artista, dall’animo intriso di dolore e di poesia.

Leggo con attenzione e raccoglimento, quasi in preghiera tanto mi suggestiona e mi commuove il volto di Cristo, che prende forma e luce e dolore pensoso su uno sfondo di desertica sabbia, già simbolo, per me, di solitudine e di abbandono in cui sembra “sbalzato” non Cristo ma il mondo contemporaneo.  Parlo della copertina, insolita, originale, suggestiva, come solo il talento innato di Nicola Piacente, graphic designer della nostra casa editrice, è solito realizzare. Anche il titolo ci trafigge come lama a fermare lo sguardo sulla nostra perenne e vana ricerca di verità, che solo in Lui, nel Nazzareno, è possibile trovare. Con Coraggio, Umiltà e rinnovata Fede.

Poi, mi colpisce profondamente la metaforica affermazione di Don Tonino Bello, amatissimo Vescovo di Molfetta, in odore di santità, “La Croce è collocazione provvisoria”, ripresa, nella Postfazione al libro, da Mimmo Muolo, vaticanista di <Avvenire>, che ne spiega anche il senso: la Croce non lascia spazio alla morte perché è soprattutto simbolo di Resurrezione.

Il messaggio è stato prontamente messo in atto, qualche anno fa, dal giornalista rai, scrittore e poeta, Enzo Quarto, e dall’artista Vito Zaza. Entrambi, nella loro Via Crucis, non si sono fermati alla XIV Stazione, ma hanno proseguito fino all’alba della Santa Pasqua, in cui la Croce si è fatta Luce di Redenzione, sconfiggendo con la sua “collocazione provvisoria” il dolore, il pianto, la morte per restituirli alla Vita che non conosce tramonto.

Questo libro è, allora, anche un canto a più voci e non solo una nenia funebre. Vi hanno lavorato Enzo e Vito, circondati dalle autorevoli e amorevoli parole di Don Tonino, del Cardinale Carlo Maria Martini, di Don Pinuccio Megarelli, parroco della Santa Famiglia di Molfetta, di Pietro Maria Fragnelli, Vescovo di Trapani, del già citato Mimmo Muolo. Coadiuvati da Uccio Papa con le sue   splendide fotografie, da Giuseppe Dante Tamborrino e la sua imperdibile musica elettronica, da Antonella Radicci, con la sua inconfondibile voce recitante. E da Don Vito Marotta, sacerdote, comunicatore, amico fraterno, alla cui memoria il libro è dedicato.

Tutti presenti in questo volume di non più di 75 pagine? Sì, tutti presenti, perché “In verità vi dico” prodigiosamente si trasforma in qualcosa d’altro, quasi un suggestivo spettacolo poetico con varie contaminazioni artistiche, che abbracciano i nostri sensi per giungere all’anima e depositarsi nello Sguardo accogliente di Dio, “nella totalità del suo abbraccio” e nella immensità del Suo Regno dei Cieli. Sarebbe auspicabile che uno spettacolo itinerante prenda linfa vitale da questo libro, scrigno prezioso di emozioni.  

E ora ecco posarsi il mio sguardo inadeguato sulle commoventi pagine, che hanno una doverosa ma non scontata alternanza: ai brevi testi dei quattro evangelisti Giovanni, Luca, Matteo e Marco sulla passione e morte di Gesù, a partire dall’Ultima Cena, corrisponde una formella di Vito Zaza, che esplicita con rapide ma esperte e talentuose spatolate il tormento di Cristo lungo tutta la Via Crucis, a cui si accompagna il dolente commento poetico di Enzo Quarto. Con alcune “intrusioni” altamente liriche in prosa e in versi: il Libro delle Lamentazioni (3, 1-66), ricco di pathos, lacerante come un fendente in pieno viso, in sostituzione del consueto passo evangelico (p. 31) e il salvifico Saluto alla Beata Vergine Maria di S. Francesco d’Assisi (p. 35): … Tu in cui fu ed è ogni pienezza di grazia e ogni bene./   Ti saluto, suo palazzo.   /   Ti saluto, sua tenda.   /   Ti saluto, sua casa.   /   Ti saluto, suo vestimento.   /   Ti saluto, sua ancella.   /   Ti saluto, sua Madre.

Solo poche parole di commosso commento: quanta venerazione da parte di Francesco verso la Vergine con le parole che meglio Le si addicono: palazzo (costruzione sontuosa che tende verso l’alto), tenda (dimora umile, rifugio, dove accamparsi per sostare un po’ a riposare, per poi continuare il viaggio), casa (luogo sicuro di appartenenza e di protezione), vestimento (difesa dell’intimità del corpo e della mente, e ancora protezione in una vicinanza che è il “prendersi cura” con complicità, con amore), ancella (dolcissima parola pronunciata dall’Arcangelo Gabriele alla Fanciulla di Nazareth per annunciarLe il miracolo dell’incarnazione di Gesù, figlio di Dio, nel suo grembo immacolato), Madre (la parola che comprende tutte le altre e le sintetizza nella oblatività del Suo Amore materno nei riguardi di tutte le creature del Creato).

E che dire della eco di finissimo ricamo psicologico dei commenti poetici di Enzo Quarto? Nei suoi versi, lo sgomento, il dubbio, gli interrogativi amari sulla nostra umanità alla deriva; il senso dell’Oltre, che va oltre l’angoscia e la paura mentre si fa lentamente Speranza, nel sentire, forte, innanzitutto il rifiorire/ delle radici/ secolari dell’ulivo/ sempreverde/ intricate nella roccia. Meravigliosi versi che, prima dell’Oltre, “sentono” il “fiorire” di una possibilità di Pace nei “secolari” ulivi, “sempreverdi”, che si radicano nella roccia, forte e stabile, della terra in cui siamo nati, della nostra gente, in un legame atavico di appartenenza che ci rende coraggiosi nelle avversità e sicuri della benevolenza di Dio nell’accoglierci nelle Sue braccia di Padre. Spesso l’egoismo prevale e prevarica, ma Quanta fame d’amore/ c’è nel cadere. (…). Cadere è fame d’amore,/ a volte casuale,/ ma con sé palesa/ la richiesta di essere amati/ consolati/ aiutati/ benedetti. Ed io ravviso qui un duplice significato: cadere fisicamente per essere aiutati, per sentire lo sguardo dell’altro su di noi, l’attenzione, la mano tesa, la premura, che riscaldano il cuore; e cadere nel peccato, come la pecorella smarrita che il buon pastore va a cercare, dimentico per un attimo di tutte le altre pecorelle docili al pascolo. Qui l’amore si avverte più forte, la consolazione più agognata, la benedizione più invocata per sentirsi nuovamente nella grazia di Dio. Nel Suo atto che redime e salva. E anche il Cireneo è, a mio parere, conferma di entrambi i significati. Il suo gesto è una carezza per il corpo fiaccato e l’anima umiliata da tanta crudeltà, tanta ingratitudine. Ne consegue il pianto, delle “pie donne” di fronte a tanto strazio. Un pianto che Enzo definisce gravido/ che diventa/ sorgente. Sgorga, zampilla, lava, purifica dalla violenza del mondo.

Ma ciò non basta a scongiurare la crocifissione di un giusto. Quanto tempo ancora/ per capire? È il grido di Enzo Quarto, straziato da tanto orrore, tanta ingiustizia. Il mondo, purtroppo, nei secoli dei secoli, si è rivelato sempre ingiusto, violento, spietato. È storia antica quanto l’uomo. Sei ancora quello della pietra e della fionda/ uomo del mio tempo… dirà Salvatore Quasimodo di fronte alle atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Pure, nell’ora della morte, il ladrone pentito ottiene il perdono del Crocifisso: in verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso. (Lc 23, 32-43)

La morte non vince sulla vita, anche se ciò accade continuamente sotto i nostri occhi turbati. La Vita Eterna è la meta del nostro viaggio. Enzo lo sa perfettamente e continua a cercare Cristo oltre la Croce. E Inaspettata/ si mostra la Verità/ trasfigurata/ magnificata/ immortale/ materica/ glorificata. (…) I sassi del passato/ saranno/ un selciato nuovo/ aureo e splendente.

La nostra salvezza attraversa il giorno nuovo e tutto si fa LUCE. E tutto questo trova realtà e verità anche e soprattutto nei bassorilievi di Vito Zaza. Miracolosamente esprimono l’inesprimibile. E si rimane senza parole. Attimo per attimo il percorso doloroso della Via Crucis trova il suo perfetto adempimento nella tristezza del volto di Gesù e nell’ansia sgomenta dei suoi apostoli, dei suoi discepoli, dei suoi fedeli. Bassorilievi, vinti da una sofferenza disumana che si umanizza negli sguardi trafitti dal dolore e nelle membra macerate dall’angoscia, che è timore di perdita del bene più prezioso, di una presenza che non può farsi assenza. È là tra le pieghe degli abiti di creta e di fango, nelle pietre/macigno che pesano sul cuore. Si legge, con sorprendente chiarezza e misterica aderenza alla realtà, nel dialogo che si fa richiesta di aiuto, che si fa ascolto e preghiera. Nudità dell’anima. Caduta sotto il peso delle colpe altrui. Immolazione. Sostegno. Invocazione accorata della Madre. Accorata fermezza del Figlio. In un abbraccio muto. La Croce e il suo mistero. L’amore sconfitto dal pianto. Il pianto sconfitto dall’amore. Il buio della morte vinto dall’esplosione trionfante dello splendore della Resurrezione. Il miracolo umano a esaltare il miracolo divino. Il talento che abbraccia il dolore e lo rende immortale. In verità vi dico… àncora di salvezza Oltre… Enzo Quarto, Vito Zaza e tutti gli altri cantano per tutti noi. Ed è infinita emozione. Angela      

martedì 21 febbraio 2023

Martedì 21 febbraio 2023: tutti i Bambini, da 1 a 100 anni, sono oggi Coriandoli in libertà...

In questi ultimi giorni di Carnevale i bambini, a cui già la pandemia e la guerra e il terremoto e le alluvioni e cataclismi vari hanno tolto l’infanzia e i voli degli aquiloni in giochi di libertà e spensieratezza, hanno diritto a vivere con gli adulti e gli anziani una manciata di allegria: risate, coriandoli, stelle filanti, mascherine sorridenti (e non quelle della precauzione e della paura).

Dopo la brutta parentesi sanremese e un pieno di volgarità su cui è meglio sorvolare, come pure sulla spettacolarizzazione delle canzoni (belle brutte così così), e rari momenti di autenticità e poesia (come la canzone di mister Rain e i suoi bambini supereroi), è sopraggiunto Carnevale a portarci un’allegria diversa (colorata bizzarra danzante vorticante di mille colori mille suoni mille emozioni). Mi piace festeggiarlo con un qualche mia filastrocca, senza togliere alla mia bravissima sorella Anna Maria il primato di questo delizioso genere dedicato soprattutto ai bambini. Lei è padrona della rima e del ritmo filastroccoso. Oggi forse non sarebbe il caso, nel ricordo della perdita, negli scorsi anni, di due splendide persone a cui ero molto legata: mio cognato Pinuccio Parisi e il mio amico fraterno Livio Sossi. Ed è per ricordarli come meritano che festeggiamo insieme questo scorcio d’allegria con un pizzico di leggerezza. Semel in anno con quel che segue… 

FILASTROCCA DELLA BELLA COMPAGNIA

Amiamo stare in compagnia:

insieme scacciamo la malinconia.

Siamo tanti bambini vestiti a festa,

prendiamo i coriandoli dalla cesta.

Volano in alto con mille e più colori,

sembrano lucciole sembrano fiori.

Sembrano caramelle e meno male

che a Carnevale ogni scherzo vale.

Vale per me vale per te,

vale anche per la figlia del re.

Una volta all’anno per tutti vale

non tutti ridono. Ma è Carnevale!

                     II

FILASTROCCA TONTA E TOCCA

Filastrocca filastrocca

Filastrocca tonta e tocca.

Filastrocca un po’ bambina

ingenua candida piccolina.

E se viene il batticuore

Filastrocca è anche amore.

Con mille giochi colorati

non ci siamo mai annoiati.

Abbiamo gridato a tutto spiano

facendo tutti un gran baccano.

Abbiamo cantato pian pianino

schiacciando pure un sonnellino.

Con una ninnananna tutta d’oro

per ogni bimbo dolce tesoro.

Abbiamo cantato a più non posso

come mille grilli dentro il fosso.

Sotto a chi tocca, tocca proprio a me,

se siamo uniti vinciamo per tre.

Vieni con noi ci sei anche tu

e la nostra filastrocca vale di più.

                     III

FILASTROCCA DEL SI’ E DEL NO

Filastrocca del sì e del no

a cantare io più non ci sto,

non ci sto per i bimbi trafitti

dalla guerra e i suoi conflitti.

Filastrocca del no e del sì

per cantare ti dico solo ni.

Filastrocca del ma e del se

più non ballo ma canto per te

questa nenia con tanto amore

per ogni piccolo grande dolore.

Non sono fiori le bombe di guerra  

ma a nessuno importa sulla terra.

Importa a noi ora farci sentire

stelle filanti gettiamo per gioire.

Tocca a noi tutti, a noi tutti quanti

 pregare e lo faremo proprio in tanti.

Filastrocca non essere mai sciocca

sai che ogni bambino non si tocca,

salviamo dei piccoli giochi e sorrisi

il dolore non può vederci divisi.

Ci sono cento mille e più motivi

per dire no al pianto, siamo vivi!

Se saremo in tanti ce la possiamo fare

a contrastare le armi da impugnare.

Gettiamo coriandoli contro il cielo nero

e costruiamo aquiloni per il mondo intero.

                        I V                  

 FILASTROCCA DEL MARTEDI’ GRASSO

È Carnevale e io me la spasso:

mi piace molto questo fracasso.

Vado in giro vestito da Zorro:

faccio una piroetta e poi corro.

Vado a lottare con la mia spada

contro i briganti d’ogni contrada.

Mi viene incontro la Fata Turchina

tutta trafelata e stanca poverina

per Pinocchio ch’è andato al mare:

babbo Geppetto lui vuole trovare.

Bella è la fata con i capelli turchini

ed ora si mescola con noi bambini.

Corriamo di qua spingiamo di là

vogliamo fare tutti un gran varietà.

Carnevale lo sappiamo finisce qui

come ogni anno, sempre di martedì.

 

 

venerdì 17 febbraio 2023

Venerdì 17 febbraio 2023: non è una data che porta sfiga! A me ha portato la gioia di un figlio...

Siamo in pieno carnevale come sempre a febbraio e come tanti anni fa. Esattamente 51 anni fa. Proprio di venerdì 17 febbraio, a ridosso del giovedì grasso. Ed io battezzai subito quel figlio, maschio finalmente, “Coriandolo pazzo!”. E così fu ed è. E brevemente desidero parlare di lui, rifacendomi al mio romanzo Le piogge e i ciliegi, dedicato a mio nonno, come già detto qualche giorno fa. Scrigno di ricordi a cui attingere per non dimenticare, ora che sono vecchia e la memoria va piano piano in pensione: <1972. Infatti, manco a dirlo, ecco Giuliano. (…). Alle tre del mattino mi “si ruppero le acque”. Ne seguì un trambusto che svegliò Raffaella che corse da Ombretta (già comunque sveglia) per dirle tutta allarmata e festosa: “mamma si è fatta la pipì addosso”. Lasciammo le due bimbe da zia Lizia, che abitava al quinto piano (noi al quarto) di quella nuova casa in via Mazzini, e ci precipitammo alla clinica Santa Maria. 

                                                             E fu alba

Dopo un lungo periodo di stanchezza, di lacrime e delusioni, di ansie ignorate, e di attese dietro i vetri della disperazione (riderà riderà riderà/ tu falla ridere perché/ riderà riderà riderà/ ha pianto troppo accanto a me… Little Tony tentava di consolarmi per darmi una voce di rinascita…). ‘Questa è la felicità’, mi dissi al suo primo vagito di figlio maschio. ‘Grazie, mio Dio, per tanta gioia dopo tanto dolore. La felicità esiste ed ora si fa culla fra le mie braccia’. Anch’io vittima, a mia insaputa, di una società che prediligeva il figlio maschio e guardava allarmata alle figlie da maritare (oh quante belle figlie madama dorè…). Giuliano! Il figlio tanto atteso e difeso perché venisse al mondo. Quando mi accorsi di aspettare un figlio per la terza volta, Primo era assente per un Convegno. Glielo dissi per telefono. Mi rispose che sarebbe stata un’altra bambina. Il culto del figlio maschio riaffiorava anche in lui dopo alcuni anni di lotte e di rivendicazioni femministe, culturali e sociali. E che, comunque, sarebbe stata una pazzia mettere al mondo ancora un figlio. L’oltre Sessantotto, già preda di atti sconsiderati e cruenti, lo rendeva più razionale e pessimista. Realtà evidente che feriva i nostri giorni… “E se fosse un maschio?”, dissi, avvertendo come un presagio. Realtà nascosta che mi fioriva nel cuore. Primo era spaventato e perplesso. Determinato: un nuovo bambino in tre anni e mezzo di matrimonio era una follia. Me lo disse così, a bruciapelo. Maschio o non maschio, io cominciai da subito ad amare quel bambino. A difenderlo. Da sola. E nacque in un giorno di carnevale. E fu il bimbo del sorriso>.

Coriandolo pazzo per tutta la vita. E Primo vive in lui. Nelle sue battute folgoranti. Nel suo amore per l’elettronica, per il cinema per la musica. Per tutto quello che ci aveva visto uniti e divisi. Non passò molto tempo che un nuovo bimbo bussò al mio cuore, ma non ebbe fortuna. Si perse per strada verso i quattro mesi in fiumi di sangue e di dolore. Era un altro maschietto che difesi con tutta me stessa fino al momento di perdermi in quella corsia di ospedale dove incontrai solo una vaga carezza sulla mia pena… un aborto oltre il quarto mese e un nuovo dolore da ingoiare con labbra mute. Esperienza lacerante con l’anima in frantumi da ricomporre ancora e ancora.  Ma è più giusto stemperare le ferite con i ricordi delle risate. Ed ecco tornarmi alla mente un episodio simpatico ma non troppo, accaduto sempre in una delle periodiche obbligatorie visite nell’ambulatorio del Comune per le vaccinazioni. <Ci incontrammo io e un’altra mamma con i nostri rispettivi bambini nelle rispettive carrozzine. Ebbene, Giuliano si portava a spasso la sua testa leonina, che mi aveva procurato, per ben tre mesi, una brutta “artrosi da parto”, mentre l’altro bambino esibiva, suo malgrado, una testolina striminzita che, a mala pena, emergeva tra i lenzuolini. Entrambe noi mamme fummo prese, di primo acchito, da atroce dubbio: ‘quale dei due presenta una testa normale?’. Erano entrambi una esagerazione nell’uno e nell’altro senso. Stemmo tutto il tempo a guardare le teste dei nostri figli in silenzio, senza avere il coraggio di esternare il nostro pensiero con la scontata, evidente, conclusione. Che mi permise, a casa, di fare le mie considerazioni, mimandole, per ridere di cuore tutti quanti insieme… (…)>.

Figli come gocce di pioggia. Figli come ciliegie a primavera: l’una tira l’altra. Giuliano a donarmi la felicità nella frazione di un attimo: il suo affacciarsi al mondo. Il mio bimbo di sorrisi in un dilagare di giorni che speravo più sereni. Figli come ciliegie da mangiare a ciuffi a manciate. L’una tira l’altra. Tenerezza di rosee labbra di bimbi al mio seno. Latte di madre da succhiare. Notti insonni da cullare. Mattini di stanche ore e di carezze pensate tra i palmi delle mani sotto il capo sul tavolo a reggere un recupero di sonno nelle ore del lavoro rimandato e presente. Pressante.

Poi, Daniela, l’ultima nata. Nuova consolazione ai miei giorni di fatica e delusione. Quattro figli in appena otto anni. In un tempo in cui si cominciava a programmarli: non più di due, massimo tre. <E letterine da insegnare a tutti prima che la scuola bloccasse la loro gioia d’imparare (a come Avventura/ b come Bravura/ c come il Cestino della frutta e la verdura/ d come Diamante/ e come Elefante… f come Farfalla che nel prato prenderò…). E i figli che crescono e si crescono senza una regola certa da seguire. “Che dite se oggi non andiamo a scuola?”, io seduta in cucina dopo la colazione a invogliarli a rimanere a casa, e i loro occhi increduli ad interrogarmi ed io incredula a registrare la loro voglia di andare, e il loro senso innato del dovere a chiamarli nonostante le tenere persuasive parole materne a trasgredire, e io a perdermi nella loro incredulità. Quella voglia di non andare a scuola era la nostra bandiera di descolarizzatori, mia e di Primo, issata sul pennone della nostra navepirata sempre in viaggio tra mille flutti e marosi, in mattine di pioggia o di neve, ma anche in azzurre giornate di sole (che dite? ce ne andiamo in campagna a vedere i ciliegi in fiore? conosco un campo che conosce i passi ridenti della mia infanzia…). (…). Non avevo mai amato la scuola sin da bambina, come ben sai, e non l’ho amata neppure da insegnante amando, quasi più dei miei stessi figli, gli alunni; rovistando, soprattutto negli occhi dei più ribelli, dei più timidi, dei più lenti e svogliati, le loro difficili, amare, improponibili storie. Invogliando i più diseredati a recitare meglio dei più preparati le drammatizzazioni e le rappresentazioni teatrali che imbastivo durante l’anno scolastico soprattutto per loro: la loro e la mia rivincita in una scuola che li voleva perdenti e sconfitti. Che mi avrebbe voluto perdente e sconfitta senza riuscirci mai (‘non mollare mai non mollare di fronte alla regola… a due più due che deve dare quattro mentre per te è sempre più di nove… non mollare di fronte alla banalità di uno studio mnemonico di una lettura consigliata e non vissuta… di una grammatica o sintassi studiata sui libri e dimenticata nei testi da leggere e da scrivere… di una interrogazione che non ha senso se non ami quello che ti chiedono di dire’…)>.

<E, ancora, i figli che crescono in una casa nuova, finalmente tutta nostra, finalmente comprata in parte con i proventi di una vincita di Primo in lingotti d’oro e in parte con un mutuo di semplici lire. A sfatare il mito di grattacieli di denaro accumulato. Io che non ho mai trattenuto per me una sola lira. Con l’unica gioia di una casa arcobaleno che sorride di colori: una quasi sera di sole caldo arancione, la nostra camera da letto; azzurro rettangolo di cielo, la cameretta dai tre letti uguali per gli azzurri sogni delle nostre tre bambine; verde prato fiorito, la cameretta d’avventura e di coraggio dell’unico figlio alle prese con i mille giochi che suo padre gli procura; gialla, di luminoso sole, la cucina dalle panche di legno chiaro e il lungo tavolo per la lunga nidiata; e rosso tramonto infuocato, lo studio di Primo con tele e pennelli e mille sfumature colorate da intrecciare con le dita; blu come tutti i mari conosciuti, come tutti i cieli respirati, come tutti i sogni raccontati o taciuti (e tende ai balconi con onde a darci un suono di risacca, e una vela di legno a restituirci spazi di libertà): il grande salone, con moquette e pedane e angolo per la musica da ascoltare distesi, avvolti da tanto azzurro in attimi di serenità e di tempeste infinite. La filodiffusione in ogni spazio della casa. E il marchingegno della sveglia che azionava elettronicamente, e contemporaneamente, l’accensione della radio e della macchinetta del caffè per un buongiorno che accarezzava tutti i nostri sensi (altro mirabolante acquisto, quasi subito venduto dal padrone di casa, che gestiva così anche le nostre vite). E il lungo balcone per le mie passeggiate d’estate e il lungo corridoio per le mie passeggiate d’inverno, surrogato di passi che non possono andare lontano, stritolati da un lavoro che martella ore e giorni e notti e che mi impedisce ogni via d’uscita, ogni respiro>.

<Giuliano, figlio di ogni possibile sorriso ad allagami il cuore, ebbe subito la sua cameretta con leoni, giraffe ed elefanti nella foresta incantata che suo padre dipinse per lui sulle pareti, e una solitudine di giochi e di parole, mentre continuavo a cullare Ombretta che dilatava ancora le mie notti col suo interminabile pianto (lui, piccolissimo e già solo, aveva la sua nicchia di sopravvivenza in quella solitudine di foresta e in un lenzuolino col bordo ricamato per fare col ditino “il grattamento” e guai a non avere quella sua “coperta di Linus” per addormentarsi. Giuliano e il suo incanto nel vedere i   tergicristalli muoversi nei giorni di pioggia e seguirli col ditino puntato e occhi immensi (ci-ci… ci-ci… ci-ci… tic tic tic tictic ci-ci tictictic ci-ci…tttt ci-ci ttt ci-ci… ci-ci…). (…) Giuliano e il suo tornare a casa con sempre un racconto strampalato da inventare per sorprenderci o farci preoccupare. Una fantasia indomabile di parole la sua conquista di libertà. Ma la vita è sempre un richiamo d’amore per restituirci alla vita>. In realtà, subito dopo la nascita di tutti e quattro i figli, ben presto dovetti fare i conti con una nuova realtà: <tre figli piccolissimi, il lungo pianto di Ombretta, il lavoro insonnolito a scuola, l’attesa di un nuovo figlio da me subito accettato, ma ugualmente perduto dopo oltre quattro mesi del suo crescermi dentro, infransero nuovamente tutti gli equilibri che tentavo di crearmi per non naufragare>. Daniela, inoltre, poco dopo la sua nascita <mobilitò tutta la famiglia col suo caratterino impositivo. Ore ed ore di passeggiate nel “paggeggino” lungo il lungo corridoio nella nostra casa per soddisfare il suo capriccio di andare a “paggeggio” anche in casa senza muovere un passo. Alla guida si alternavano, non senza riluttanza e proteste, le sorelle maggiori. Solo Giuliano si rifiutava categoricamente di fare da bambinaio a quella piccola peste sbucata chissà da dove per creare scompiglio in una casa già affollata di troppi bambini, e trovava repentino rifugio nella sua cameretta, che pullulava di figurine dei calciatori (“Panini”) e innumerevoli “chianelle” (i tappi a corona di bottiglia), infilate dappertutto. I suoi tanto amati videogiochi erano di là da venire>.

E le voci di amiche e colleghe <(ma sempre abbracciata stai con tuo marito?... i miei abbracci si vedono e ne sono felice… vuol dire che respiriamo ancora amore nella nostra casa… sì ma oggi è da incoscienti mettere al mondo più di uno massimo due figli… con i tempi che corrono poi… in questa società… i figli costano e richiedono tempo e soldi che non abbiamo… tra il lavoro la casa i mariti che non muovono un dito… abbiamo diritto anche noi a riservarci uno spazio tutto nostro per ritrovarci… banalmente lo penso pure io forse ma non lo dico anzi in silenzio mi dico ‘mi piacerebbe adottare qualche bambino per dargli una famiglia e tanto amore dove ce ne sono quattro ce ne possono stare anche cinque-sei noi siamo sei e siamo vissuti bene ma bisogna essere in due purtroppo a volerlo’…)> La realtà contrasta spesso con i nostri sogni, con i nostri desideri più profondi. E la realtà, in quegli anni, era arrotolata in una lista enorme di problemi da dipanare quotidianamente. Arrotolavo la lista per riaprirla il giorno dopo sulla realtà del nuovo giorno.  E sull’incognita di ogni nuovo giorno. Ma tutto passa e tutto ritorna nell’incessante movimento dell’esistere. Il mare la sua risacca. E nascite e morti ancora. I due poli estremi della vita e in mezzo giorni senza date, senza nomi, senza definizioni. Furono vissuti? Sì, furono vissuti, se mi vengono incontro scampoli di ricordi, orlati di gioia alcuni, e altri ricamati di pianto. Dall’amalgama indistinto del passato più recente si definiscono via via i contorni sempre più chiari di altre condizioni di vita, altri sogni e ideali e progetti, altre situazioni.

<Anche Giuliano, lo sai, non ha saputo resistere. Fa parte della generazione allevata a merendine e Nutella, con i cartoni animati e le guerre stellari e gli ufo nel giardino e la paura dimenticata (heidi heidi ti sorridono i monti… dolce remì… anna dai capelli rossi… jeeg robot d’acciaio… goldrake e l’alabarda spaziale e mazinga e…). Teneri cartoni animati di prima generazione, in cui c’erano quasi sempre bambini orfani o abbandonati con un nonno come te oppure con tante persone di cuore che se ne prendevano cura, in una natura incontaminata e felice… bella da guardare. Da vivere. Poi, arrivarono dall’America tutti i meravigliosi cartoni animati della Walt Disney a colmarci di bellezza, musica, fantasia gli occhi e il cuore… E più tardi i videogiochi (pong… tetris… nintendo… spizzico… commodore 1 e 2 e 3 e 4 e la play station 1 e 2 e 3 e 4… e via via fino ai nostri giorni…) per trattenere in casa i bambini e i ragazzi ed evitare così i pericoli della strada, senza dare fastidio ai genitori sempre più alle prese con il loro lavoro e la loro realizzazione nel sociale. I sottani e le case a pianterreno furono divorati dai “grattacieli” di sei-sette piani con gli ascensori e le porte di casa chiuse e ostili ad aprirsi agli altri per fare amicizia o andare lontano. Quante vite viviamo nell’arco di una vita? Niente è come appare. Attimo per attimo noi siamo altro da noi. Ed ogni volta è come se nascessimo per la prima volta. Se non conservassimo memoria di noi. E nuove voci e nuovi richiami e nuove storie a venirmi incontro dai muri delle nuove case, dalle strade e le piazze, che mi hanno vista sempre più decisamente viandante e sempre più prepotentemente fuggitiva… E voci che si perdono e volti che spariscono sostituiti da altre voci che nascono, da altri volti da altri incontri amori lacrime rifiuti rinunce rifugi in vie di deviazione per rinascere sempre, rinascere ancora. E altri sentimenti perduti, altre emozioni rinate, altre illusioni deluse. Altre unioni. Altri amori. Giuliano e le sue tante ragazze in una continuità di fughe e di nuovi incontri, nuovi abbracci e convivenze…>   

Giuliano è ancora oggi un fuoco d’artificio di battute, del paradosso, dell’ironia e dell’autoironia sia sui social sia via radio. Ora è anche intrattenitore e speaker in una importante radio della Capitale. E scrive divertentissime ministorie che definisce “true story”. E fa altro e altro ancora. Giuliano ha da parecchi anni una nuova compagna, Viviana: bella e allegra conchiglia ad accoglierlo con complicità, quasi canto di sirena ad incantare il mare. Insieme colorano di mille avventure e vivaci allegrie gli annuali calendari, anche profumati di ottimi manicaretti (Viviana è ottima cuoca e impagabile padrona di casa) nella cucina della pazza e accogliente dimora, che vorrebbero guscio solido e duraturo per il loro amore. E anche questo lascia ben sperare ad una madre che segue da lontano e trepida e non si arrende, pur invecchiando. Buon compleanno, amoremio. Mamma

E a risentirci anche noi! Buon Carnevale! A dopo martedì grasso… Angela

  

martedì 14 febbraio 2023

Martedì 14 febbraio 2023: San Valentino: festa degli innamorati, di chi si vuol bene (e non solo)...

Buon San Valentino a tutti con tanto amore da dare, da ricevere. Mamma era la prima destinataria dei miei auguri per San Valentino. Lei si meravigliava. Ogni volta. Si schermiva. “E io che c’entro?”, mi diceva ogni volta. E io ogni volta le rispondevo “c’entri, c’entri perché sei il mio primo amore. San Valentino è anche la festa di chi si vuol bene!”. E lei ogni volta sorrideva felice. Non sempre, però, o quasi mai, io andavo a trovarla a causa del mio lavoro incessante, amato e detestato, di preparatrice dei Concorsi a Cattedra per il ruolo nella Scuola di ogni ordine e grado, con cadenza biennale, fino a togliermi il respiro per oltre trent’anni. Lavoro amato, perché svolto con assoluta passione e dedizione; detestato, perché mi impediva letteralmente di prendermi cura dei miei cari: nonni adorati e figli in primis, mamma, marito, sorelle, fratelli, parenti, amici. Per oltre trent’anni “non ho vissuto” per “vivere per i concorsi e i miei allievi”. Ma anche per telefono io sentivo la gioia di mia madre, il suo amore, la sua comprensione, il suo perdono con il sorriso. Mio eterno rimorso ancora oggi che sto per raggiungere tutti i miei cari che mi hanno preceduta. Oggi sono io “in prima linea”, come diceva mio nonno. Ma la tradizione del San Valentino ad una voce tra di noi continua.

Sabato, complici i miei di casa, Ombretta e Daniela, le mie due figliole che vivono a Roma, mi hanno fatto la sorpresa di raggiungermi con tanti cuori di baci in dono, ma ieri sono già ripartite per via del lavoro. Lavoro che ha impedito a Giuliano e a Viviana di raggiungermi. Ed io stanotte, ripensando alla loro tenerissima presenza/assenza in questa casa, ho sintetizzato così il nostro momento magico: rose e tulipani e orchidee/ dietro vetrate aperte/ da complici mani/ in frammenti di sole che ignoro/ e passi inattesi/ e un palpitare furioso del cuore/ impreparato alla voce/ improvvisa tra capelli/ vinta da sorrisi di sguardi/ nella casa ritrovata/ e rivissuta con rinnovata allegria./ Ci ritroviamo nell’abbraccio/ che stringe l’attimo in sé/ conchiglia di fragoroso rumore/ più forte della lontananza/ del gelo delle ore rubate al sonno/ in un anticipo di San Valentino e cuori in dono./ A doppia mandata/ l’amore ci lega col filo/ della commozione lunga/ quanto la silenziosa attesa./ Acrobata io a capriolarmi/ nel silenzio delle intenzioni/ su improvvise nuvole rosa/ tra soffitto e scrivania/ e un ritrovarci appena di ritorni/ con parole e lacrime di gioiosa intesa/ E SIAMO ANCORA INSIEME / Sapore di baci da conservare/ tra dita intrecciate/ a treccia di pane di sere brevi/ da assaporare piano/ alla mensa del passato/ (per ritardare il fischio del treno/ zaini e spalle a scivolare via/ dai miei occhi perduti/ sulle code dei gatti/ nel tramonto solitario/ … del giardino).

Ma oggi è anche il compleanno di nonna Uccia, la mamma di Primo che festeggia con lei tra le stelle, con l’altro fratello, Nelio (dei due rimasti), e la sorella Rina. Ed io li ricordo oggi con un abbraccio immenso a contenerli tutti.

Ed è anche il compleanno di mia sorella Lizia.  Con lei ho vissuto, in discontinuità di tempi e di luoghi, infanzia, adolescenza e prima giovinezza. Ci legano due personalità diverse, ma ricordi comuni. Vissuti nella “casa del gelso e delle rose” all’ombra solare, protettiva e amorevole dei nonni. Lizia timida, discreta, silenziosa, almeno fino al liceo; io spavalda, logorroica, sempre presa dallo specchio e dal bighellonare di qua e di là, senza una meta certa che non fosse il cuore. Lizia, innamorata degli studi classici e del suo secolare e famoso liceo; io completamente disamorata dello studio e della scuola. Spesso assente per evitare interrogazioni e compiti a casa. Ma sempre fiera dei suoi meritatissimi e bellissimi risultati scolastici con borse di studio, viaggi premio, stima dei professori, ammirazione di tutti i compagni di scuola, tra cui alcune amiche che di pomeriggio venivano a casa per i compiti da svolgere insieme. Io evitavo le amiche per evitare di studiare.

Così diverse eppure sempre presenti, noi due, l’una all’altra nei momenti della necessità di essere presenti, l’una all’altra, con le parole e con i fatti: il primo esame all’università (il suo e più tardi il mio); la mia prima figlia Raffaella e il suo primogenito Gianfranco, e poi via via tutti gli altri…

Ma proviamo ad andare con ordine, partendo dall’infanzia. E attingo da quello scrigno inesauribile di ricordi che sono i due romanzi dedicati al nonno, protagonista, insieme con tutti i miei cari, cani e gatti compresi, fiori e piante di un giardino in cui svettava il gelso rosso, fiero guerriero del tempo che fu. Ma andrò zigzagando tra passato e presente perché così sono i ricordi. E, essendo a febbraio e in pieno inverno, comincio con un ricordo di davanzali e strade innevate: <Tu, io, Lizia, la nonna, ancora insieme, si restava al buio. Per guardare quella coltre soffice come di luna a regalarci il silenzio delle cose e degli uomini. I volti rischiarati dalla penombra rossastra dei carboni accesi nel braciere e gli occhi persi su quel sognante volo, su cui fiorivano le immagini evanescenti che le tue parole accendevano davanti ai nostri occhi. (…). Allora la neve portava le tue fiabe su cavalli alati che entravano nella nostra casa e avevano un manto bianco e occhi di brace come ciocchi ardenti a riscaldarci... La tua voce ferma, che ascoltavo trasognata, era il nostro pane quotidiano. Mai spenta l'eco delle tue parole che, nel reiterato annuncio, dilatavano il tempo e lo stupore, il sogno e la magia (‘ngèjrə e ‘ngèjrə ‘na vóltəc’era e c’era una volta…)”

Immensa rosa bianca il cielo/ sfilacciato di petali/ in caduta trasognata/ e un lento volteggiare nel vento/ Ulula la bufera e stride/ Bussa impetuosa alle porte/ della mia casa stretta nel suo scialle/ Nessuno va ad aprire/ incatenati gli occhi ai vetri lunari/ Bianche piume come di nido/ danzano leggere sfogliando/ la rosa incantata/ che su merletti d’erba frana/ stranita/ Pigolio affamato di scriccioli/ in cerca di ciliegie infreddolite/ che di rosa fioriranno a primavera/ Spolvera di bianco il giorno/ questo gioco di ciglia/ dischiuse su strade d’antiche/ stagioni/ Incontro mi viene/ sul cocchio di bianco cristallo/ e fiocco di ghiaccio nel cuore/ la Regina delle Nevi/ Rabbrividisce la vecchia bambina/ ai ricordi d’un tempo fioriti/  su labbra di parole ora in disuso/ Al rosso fuoco del braciere acceso/ il cuore di gelo della perfida sovrana/ si scioglieva in un lago incantato/ che rideva di bianchi cigni/ sculture bianche di zucchero filato/ Briciole di tenerezza allora/ che i fiocchi di neve erano farfalle/ da cullare tra mani di geloni/ e pane e olive nere sotto la cenere/ (noi vincevamo il sonno

al tenero mormorio della sua voce…) (“Rosa bianca il cielo”, poesia inedita). (…).

Ho incontrato prima di ogni altro incontro le tue mani Brune. Nodose. Rugose di terra e di sole. Esperte. Nella cura delle rose toglievi, con inaspettata delicatezza, le spine perché non ferissero le nostre mani (oh, quante spine nell'arco degli anni si sarebbero conficcate non solo nelle dita!). Sicure. Nel controllo delle redini che indicavano al cavallo il cammino da percorrere per portarci ai tuoi campi di ulivi e di ciliegi, di mandorli e di gelsi, di fichi e fichidindia, lungo i parieti di pietra che dividevano le proprietà dei singoli agricoltori e dei tanti contadini. Forti. Nel sollevarci come piume per capriole e voli verso il cielo. Possenti. Molti anni dopo, nell'accogliermi di peso nella culla delle tue braccia: io ventenne e svenuta per un malore; tu ottantenne e ancora guerriero, a portarmi da solo, e non so come, sul mio letto nella cameretta che condividevo con Lizia. Miracolo dell’amore. (…). Referendum del 2 giugno 1946. Ricordo ancora, come un incubo, la paura che mi sorprese, subdola e infinita, quando tu, mamma, nonna e babbo foste costretti a lasciarci da sole in casa per andare a votare. Avevamo, Lizia e io, cinque e quattro anni appena compiuti. Le donne votavano per la prima volta e non sapevano come fare. Avevano bisogno di voi uomini per farsi coraggio e dare il loro voto. In casa già nei giorni precedenti lievitò una grande nebbia di incertezza e di tensione. L’unico ad avere le idee chiare forse era babbo, chiuso nel laconismo di chi è sopravvissuto all’orrore. E don Mincucciouno, il nostro amico sacerdote, che curava tutte le pratiche burocratiche delle tue proprietà e che vi aveva suggerito più e più volte come votare, dove apporre la firma o la croce (la cròcə sòpə all’alta cròcə), ma voi respiravate perplessità e ingoiavate preoccupazione e dubbi e paure. Nonna Angelina dichiarava che lei non ci capiva niente e che avrebbe preferito non votare tanto avrebbe comunque sbagliato e che, alla fine, “non era col suo voto che si salvava l'Italia”. Mamma si sforzava di mantenere la calma, ma si tagliava a fette il suo timore per qualcosa che le sembrava oscuro e minaccioso per il nostro futuro. Io e Lizia attendemmo impaurite che usciste di casa per quella missione per noi misteriosa, oltre che carica d'insidie. Ricordo che ci stringemmo vicine vicine in attesa del vostro ritorno, aggrappandoci al davanzale della finestra della cucina, dopo essere salite sulle sedie, per guardare attraverso i vetri la strada e i rari frettolosi passanti.

               Io e lei, pendoli silenziosi del tempo con il cuore pulsante in tutta la casa

Spaventate dai passi che sentivamo pesanti lungo la via e da quelli ancora più minacciosi e vicini che ci assalivano alle spalle, ci ghermivano, c'impedivano di respirare, di parlare, di piangere. Un secolo. Due secoli. Tutto il tempo del silenzio, della paura e dell'angoscia. Poi tornaste e ci sembrò il miracolo atteso per le nostre preghiere soffocate “Angelo di Dio...”. Mai avevamo tremato tanto. Forse solo quando, stando sempre appollaiate sulle sedie, dietro i vetri della finestra della cucina, nostro quotidiano rifugio quando volevamo “guardare fuori”, vedemmo piovere cenere dal cielo. Tutti in casa si spaventarono. E noi con loro per contagio. Si disse poi che era stata l’eruzione del Vesuvio. E noi scoprimmo un nuovo fenomeno del tutto sconosciuto. Io avevo appena due anni, ma quella cenere mi piovve tra la strada e gli occhi e si fermò nella memoria.

                             La pioggia di cenere finì. La paura rimase. (…).

Ti prendevi cura di noi e ci amavi di quel tenerissimo amore che solo gli anziani spesso sanno dare ai bambini, vivendo sullo stesso orizzonte di realtà e fantasia, di giochi condivisi, di piccole complicità misteriose. In perfetta sintonia. Come se un filo magico legasse i brevi ai lunghi anni.

                                  Noi palloncini colorati nell'azzurro

Tu, sapienti mani a reggerne i fili per una libertà ancora da guidare. Tornavi dai tuoi campi al tramonto, sul carro alto e il cavallo fulvo e i cani... e noi ti correvamo incontro rotolando per le scale tra le tue braccia spalancate, che ci serravano al cuore. Poi, con pazienza, quasi rito quotidiano, ti sedevi sul primo gradino della lunga scala e ci prendevi a cavalluccio sulle spalle. Salivi “al galoppo” con me, assordato dai miei gridolini di gioia e dai fremiti di piacevole paura, e ridiscendevi per prendere Lizia, in spasmodica rassegnata attesa. Lei aveva un anno e due mesi più di me e tu ti fidavi di più a lasciarla da sola, sia pure per la frazione di qualche secondo appena (al galoppo! dai papà dai…). Nella grande cucina ti sedevi un poco a riprendere fiato, e avevi il volto arrossato dalla fatica e dal sole e il profumo d'erba e di terra tra i capelli e sulle mani. Quando la corsa finiva, il gioco ricominciava. “Stringi forte così, e indurisci le braccia”, dicevi, mentre con mani forti, puntellate sotto i nostri pugnetti serrati, ci sollevavi in alto fino a toccare il cielo... oppure, tenendo racchiuse le nostre manine nel cavo poderoso delle tue, ci facevi fare capriole ad un palmo da terra… e, ancora, prendendoci per una caviglia e una manina in corrispondenza ci facevi provare il brivido del volo dell’aereo… aerei di giochi e di allegria contro gli aerei di paura che in quegli anni solcavano sinistramente i nostri cieli… (…). E ridevamo con il cuore che ci batteva all'unisono per l'audace impresa perfettamente riuscita. Tu ci scompigliavi i capelli con una carezza lieve e sparivi nel “gabinetto” (che solo più tardi avremmo mutato in “bagno”), per lavarti e cambiarti prima di sederti a tavola per la frugale cena. Non amavi mangiare molto di sera (colazione da re pranzo da principi e cena da poveri) (…) Per te era sacrosanta la preghiera del “Pater Noster”: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, intesa dapprima come esigenza del corpo e, poi, come nutrimento dello spirito. E al nutrimento del corpo e dello spirito tu provvedevi quotidianamente: ad ogni ritorno dai tuoi campi amavi tirare fuori dal tascapane che portavi sempre con te le primizie di stagione: “rə amìnuə frèscəchə” (mandorle fresche, che sgusciavi per noi), “rə cəràsə” (le ciliegie), nespole profumate e prugne piccole e dolci, “rə chelùmmə” (fioroni) verdi e viola (nostra delizia), grappoli d'uva bianchi, neri e dorati, gelsi bianchi (ben custoditi nel nido di due grandi foglie di fico intrecciate).  C'invogliavi a mangiarne (màngə ca pòuə a mà jéssə mangiàtə…) (mangia che poi saremo mangiati…) per recitare subito dopo l'avemaria di ringraziamento alla Vergine che ci aveva concesso di gustare quei frutti, ancora, nel nuovo anno. E ci guardavi mangiare, felice della nostra golosa felicità. I frutti più grossi e maturi erano destinati a noi piccoline. Alla nonna. Agli occasionali o quotidiani ospiti alla nostra mensa. Avevo forse tre o quattro anni compiuti allora, e i ricordi di quella età mi ritornano alla mente come nitide istantanee che hanno eternato, di volta in volta, quella bimba ribelle e ciarliera che solo tu riuscivi a domare e a far tacere con le tue tenerezze, le mille strategie di sopravvivenza, i prodigi che fiorivano dalle tue mani per la tua quiete e quella delle altre donne di casa. Era tempo di molte donne e pochi uomini nelle case. Era tempo di guerra. (…).

Io e Lizia, nate durante la guerra, eravamo già in grado di essere tue compagne di viaggio, di fiabe e di avventure (quando la devi smettere di parlare che mi hai fatto la testa quanto un pallone? vieni col nonno a mangiare il pesce fritto con l'aceto e il sarago affumicato così non parli più e stai zitta zitta… zitta senza dire niente a puzzo puzzo… qui c'è un puzzo di pesce cosa avete mangiato? noi? niente...) Io sempre pronta ad essere tua complice di “misfatti” culinari perché amavamo gli stessi cibi piccanti o in salamoia. Lizia era per te “puzzo puzzo”, restia com'era a mangiare e pronta a scappare di fronte agli odori forti della cucina. Per lei, però, compravi quotidianamente “u fəléttə” (la fettina di vitellino) perché non c’erano frigoriferi per conservare i cibi allora, e la nonna gliela preparava ai ferri o in padella perché s’irrobustisse, essendo più gracile di me di costituzione. E compravi “rə panàns” (le banane), che non potevi coltivare nella tua “chəcələvénə” (la cocevola), cioè nell’orto oppure nei tuoi campi. Ma anche la nonna ti affiancava, sempre attenta e premurosa, nella cura di noi due. Ogni mattina, dopo la messa delle sette e prima dell’orario scolastico, si affrettava a portare Lizia dal nostro medico di famiglia, ed era un lungo percorso per raggiungere il suo studio da via Montemar alla piazza “du Canónəchə Də la Nòcə” (del Canonico Della Noce), per delle iniezioni ricostituenti che avrebbero dovuto “aprirle lo stomaco”, visto che era perlopiù inappetente. Tutti e due dosavate cure e premure in base alle esigenze di ciascuno di noi in famiglia. Gli altri tuoi quattro nipoti nacquero dopo il ritorno di babbo dalla prigionia (Anna Maria Giovanna Giuseppa Francesca Caterina dove tiene gli occhi tiene le mani Peppino è l'amico del nonno e viene con me in campagna Mincuccio è piccolo e fa solo danni e la più piccola di tutti deve starsene buona buona sul cuore della mamma sua...).  Noi eravamo il tuo orgoglio, il tuo futuro. Ma anche la tua costante preoccupazione. Ti sforzasti sempre di costruire un solido ed equilibrato rapporto tra di noi perché fosse l'esempio, più che i dinieghi e le proibizioni, fossero i consigli e i suggerimenti, a renderci piano piano più consapevoli e responsabili delle nostre azioni in libertà controllata, con maglie via via sempre più larghe. Sì, eravamo i tuoi aquiloni, liberi di toccare il cielo sospesi al filo delle tue mani sicure, e generose di spazi e tempi di gioco. (…). (E il giornale radio ad interrompere l’incanto e la fantasia per darci scampoli di realtà). (…).

In primavera, poi, con lo splendore della natura che esplodeva d'erba, di pratoline e di fiori di campo, tu andavi a casa dei nostri tanti amici e li invitavi a venire con noi in campagna all'alba del giorno dopo. Molti venivano in bicicletta, altri salivano sul traino con noi. E il cielo era un ricamo d'alberi. L’alba spegneva le stelle e vinceva lentamente il buio, rischiarando i nostri occhi spalancati di stupore su quella natura rigogliosa e ricca di frutti. Le nostre labbra chiacchierine si confidavano, in bisbigli d'intesa, confidenze di amori appena nati. Nel campo dei ciliegi sciamavamo tra i rami e tu, appena di ritorno, vestivi a festa il nostro quartiere con ceste di rossi frutti che distribuivi in tutte le case. E le case si accendevano di colore e di allegria: adulti e bambini si riempivano le mani delle accese ciliege, raggruppate dai lunghi gambi e ricoperte dalle verdi foglie…>. 

Insieme, dunque, io e Lizia siamo cresciute a lungo con i nonni: la nostra prima Comunione (e lei ad aiutarmi a imparare l’atto di dolore!); insieme abbiamo imparato a vivere con gli anziani (zii e prozii e i loro figli), e con i giovani (amici e figli di amici, vicini di casa della nostra età); insieme, con alcune divergenze ma sempre unite nelle cose importanti come i libri da leggere, i film da vedere, le prime scelte scolastiche, sociali, amorose: io con Primo, lei con Pinuccio. Le mie esternazioni-fiume, i suoi consigli anche decisi, severi, concreti. Io con la mia eterna visionarietà. Lei con il suo senso critico della realtà. Andammo persino a vivere, durante i primi anni di matrimonio nello stesso stabile in affitto, per darci una mano e una voce. E ancora insieme nelle nostre case comprate con modi e soluzioni diverse anche con Anna Maria. Insieme a veder crescere i nostri figli e, via via, a coltivare interessi e passioni simili su percorsi sempre più diversificati per le alterne vicende della vita di ciascuna di noi. E siamo invecchiate. Abbiamo superato gli anni di nostra madre, delle nonne, di nostro padre e dei nostri compagni di vita. Ci vediamo sempre meno e sempre più a fatica ci raccontiamo. Ma siamo ancora legate da tanti punti di luci ed ombre che ancora fioriscono sul nostro cammino. Io sorrido più alla luce per farmi coraggio. Lei si rifugia di più nell’ombra per affrontare il nuovo giorno. Ma, acciaccati e stanchi, ci siamo ancora tutti e sei, fratelli e sorelle e ancora, appena possibile, ci diamo una voce. Con immutato affetto. Trepidando in silenzio da lontano gli uni per le altre e viceversa. Conservando passioni e sogni, come tutte le persone anziane che non si arrendono all’“ingiuria degli anni”. E, come tutti ormai, ci seguiamo sui social, più per necessità di rapido contatto che per sostanziale convinzione.

Auguri di sereno compleanno, mia carissima sorella. Spero di sentirti prima che finisca il giorno! Angela   

  

sabato 11 febbraio 2023

Sabato 11 febbraio: alcune testimonianze su La Giornata del Ricordo per non dimenticare...

In realtà, in passato l’11 febbraio si festeggiavano i Patti Lateranensi, concordati tra il Regno d’Italia (con il re Vittorio Emanuele III) e la Santa Sede (con Papa Pio XI) per risolvere l’annosa “questione romana” con la Conciliazione tra i due Stati Sovrani e la nascita della Città del Vaticano (Palazzo del Laterano, Roma). Nel 1936 fu costruita la via della Conciliazione, che collega Castel Sant’Angelo alla Basilica di San Pietro e che venne completata per il Giubileo del 1950. Era una festa civile con chiusura delle scuole, ma dal 1985, con la revisione del 1984 del Concordato, non fu più contemplata la chiusura della scuola. Ma questa è una notazione “a latere” per “rimediare” al fatto di non essere riuscita ieri a completare il lavoro sulla Giornata Del Ricordo, istituita in Italia il 20 marzo del 2004, per ricordare le vittime delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata.

E sono letteralmente commossa nel fare testimonianza con delle “voci” a me care che hanno vissuto sulla propria pelle quelle esperienze devastanti, ma anche fortificanti, e decisamente autentiche, e perciò più credibili della stessa “verità storica”, che non è mai “vera” perché inficiata dall’essere spesso “di parte”, dal sapere a priori che le testimonianza saranno presto divorate da utenti di testate giornalistiche o di trasmissioni televisive, il più delle volte, per non dire sempre, “confezionate ad hoc”. Io, invece, parlo di Tea Dalmas, Nico Mori, Manuela Mori, loro amatissima figlia, che non avevano certamente intenzione di pubblicare alcunché fino a quando, parlandone in una nostra serata conviviale tra vecchi amici, non è venuta fuori l’esigenza di fare testimonianza diretta di quanto realmente accaduto in quei tragici anni, attraverso il diario scritto dalla nonna di Tea. Ne è venuta fuori “a posteriori” una pubblicazione, sollecitata dalla Casa editrice SECOP e subito accolta con entusiasmo dai diretti interessati, con il titolo alquanto sibillino di Puse. Ma lascio la parola a Tea, Nico e Manuela:  

LETTERA DELL’AUTRICE

Miei cari,

Ho custodito gelosamente questo diario scritto per mia madre e affidatomi dalla nonna Vinka, con l’intento, un giorno, di tradurlo in italiano, perché ne restasse memoria nella nostra famiglia. Ora il proposito è diventato realtà, grazie anche al grande aiuto di Nico e Manuela: Nico ha saputo trasformare la mia traduzione “letterale” in un testo più “letterario”, vivo, conservando ed esaltando l’ironia e la curiosità intellettuale che animavano lo scritto e le parole della nonna e tracciando utili riferimenti storici. Manuela è stata impagabile per il lavoro al pc, la correzione delle bozze e l’impaginazione. Man mano che traducevo, mi tornavano alla mente i tanti pomeriggi d’estate a Spalato, a casa della nonna Vinka, dove trascorrevamo le vacanze estive. Seduta sulla sua poltrona a dondolo, sul balcone, all’ombra dei rami di un grande fico mi raccontava della nostra famiglia, degli zii Ivo e Braco e dei nostri antenati. In questo diario sono citate delle persone che ho conosciuto da piccola, per cui tutto quanto scritto dalla nonna mi è ancor più familiare. Aver tradotto questo diario è stato per me un atto d’amore verso la nonna, i miei genitori, mio fratello, i nostri figli. Per questo vorrei che i ragazzi avessero questo ricordo della “none Puse” e del meraviglioso nonno Franco, che non hanno conosciuto, il mio amato “papacci”, come lo chiamavo da piccola. Traducendo e rileggendo questa storia, più di una volta i miei occhi si sono inondati di lacrime… ma non di dolore, piuttosto di tenerezza e nostalgia. Spero che questo scritto abbia anche per voi un grande valore sentimentale, come lo ha per me. Vi voglio bene

                                                       Tea

Solo alcuni stralci della mia prefazione al libro per dare importanti ragguagli esplicativi: <Puse è innanzitutto un atto d’amore di Tea Dalmas nei riguardi di sua madre Jelka, chiamata Puse, e di sua nonna Vinka Šperac Bulić, giornalista e femminista ante litteram nei primi anni del Novecento in quella terra mittleuropea tra Italia, Croazia e Dalmazia, che ha, nella storia di questa famiglia, come fulcro Spalato. (…). Si tratta, infatti, della pubblicazione del diario, che sua nonna aveva scritto dalla nascita della terzogenita, avvenuta nel febbraio del 1919, dopo parecchi anni da quella dei primi due figli, al 1953, anno in cui con una lettera accorata Vinka, dopo circa dieci anni di silenzio per aver chiuso il diario con le nozze della sua amatissima Puse, lo riprende per cercare col suo amore e la sua tenerezza materna di consolarla per la morte prematura dell’adorato marito Franco, stroncato da una grave malattia cardiaca. Tea Dalmas ha conservato gelosamente per decenni il diario ereditato da sua nonna per poterlo un giorno tradurre, come poi coraggiosamente ha fatto, e lasciarlo in dono ai suoi familiari. (…). Ma Puse è anche la straordinaria testimonianza di uno spaccato di vita che coinvolge sì due donne, madre e figlia, quindi due generazioni a confronto, ma anche un intero popolo, anzi più popoli con la loro tormentata storia che riguarda ideali di libertà e soprattutto di rivendicazione d’appartenenza ad un ceppo storico-culturale piuttosto che ad un altro; ideali e rivendicazioni, che fecero di quegli anni e di quei territori veri e propri campi di battaglie, acerbe e devastanti, a volte anche cruente o di forte tensione propagandistica e sociale, senza ottenere reali soluzioni di giustizia e di equilibrio tra le sacrosante aspirazioni indipendentistiche, talvolta anche romantiche, dettate, anche in quelle terre, dagli “eroici furori” di tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento (vedi l’impresa di D’Annunzio a Fiume o a Zara), e la concreta vita quotidiana della gente comune e dei suoi sacrifici per affrontare nuove e destabilizzanti situazioni familiari e domiciliari come profughi o esiliati. (…). Sono, intanto, questi gli anni dell’incontro di Puse, adolescente, con Franco Dalmas, uno studente di Spalato, che diventerà suo sposo e che sarà il padre di Tea e di suo fratello Rafo. Poi, la frequenza dell’università con i lunghi soggiorni a Zagabria, Graz, Vienna, dopo aver superato una temibile malattia, per quei tempi, il tifo. E, quindi, le prime lettere (…): gli avvenimenti storici in tempi così travagliati soprattutto per quei territori tra regni diversi che se li contendevano per giungere ben presto ai prodromi del secondo terribile conflitto mondiale. Emblematiche sono le prime due lettere che Puse scrive alla mamma da Vienna, dove sta imparando il tedesco. È ormai fidanzata con Franco Dalmas, l’italiano, che però vive già a Roma per avervi trovato lavoro. È il momento della propaganda nazista e Vienna è in festa per Hitler, che viene da tutti inneggiato come “liberatore”. Piangono e si uccidono, invece, i poveri ebrei oppure cercano riparo in Ungheria. Già i divieti nei loro riguardi s’infittiscono di ora in ora. Puse è disorientata e attende notizie dalla mamma che, attraverso i giornali, è più informata di lei che pure è testimone oculare di quanto avviene per le strade di Vienna. Evidentemente la propaganda nazista è già dominante e i giornali faticano a giungere per una informazione più corretta e obiettiva. Ritengo davvero preziose queste prime due lettere perché ci danno notevoli spunti di riflessione sulle grandi, inevitabili contraddizioni che regolano i destini degli uomini, come appunto sosteneva Simone Weil: i tedeschi gioiscono e gli ebrei piangono riguardo agli stessi eventi. O, anche, l’informazione dei giornali diventa più importante della testimonianza diretta di chi vive in prima persona gli accadimenti che fanno la storia, che non viene mai scritta nella sua verità oggettiva. (…). Ma sono giorni cupi di guerra e di paura. (…). tempi di guerra, di fame, di autorizzazioni per ogni piccola cosa, che non era più un privilegio ma necessità di sopravvivenza. E sempre più le vicende personali s’intersecano con quelle civili e sociali, di popoli, che si esaltano o si spaventano o non capiscono, e di capi che comandano a loro piacimento, ignorando diritti, calpestando terre, violando ogni forma dell’umano nell’uomo. Conosciamo le nefandezze di quell’immane sciagura che fu la seconda guerra mondiale. Dolori, deportazioni, violenze, torture e sofferenze non furono risparmiate neppure alle popolazioni slave, attraversate più di altri popoli da tensioni, odi feroci e terribili espropri ed esecuzioni. Nel “Diario” di Vinka e nelle lettere di Puse, leggiamo le vicende drammatiche della seconda guerra mondiale, l’Asse Roma-Berlino, le leggi razziali e le loro terrificanti conseguenze. La lotta partigiana. Spalato bombardata. L’armistizio e le dimissioni di Mussolini, la fine della guerra. (…). Nel frattempo, la vita continua con nuovi posti di responsabilità e nuovi problemi nella vita quotidiana… (…). E Vinka chiude il suo “Diario” il 7 febbraio del 1945 (quando Puse è costretta a lasciare la sua casa, la sua terra, tutti i suoi averi, per veleggiare con due bambini e tanta disperazione verso Bari, dove prenderà dimora). Lo riprenderà improvvisamente e brevemente otto anni dopo per la morte dell’amatissimo Franco e per annotare la disperazione di Puse, sola con due bambini e... in terra straniera. Estranea alle sue radici, ai suoi affetti, a sé stessa. Il “Diario” si chiude con una poesia di Franco, scritta a sua moglie circa due anni prima di lasciare per sempre i suoi cari, già da tempo malato e consapevole della fine ormai prossima. E con un’ultima lettera di consolazione e d’amore di Vinka a Puse, il 2 aprile 1953. Ma la storia di Puse continua per molti anni ancora. La gòmena d’amore si è pian piano intrecciata ad altre due donne, Tea e Manuela, che non hanno mai smesso di tenere in vita il ricordo luminoso di Vinka Šperac Bulić e di sua figlia Elena, per tutti Puse. (…). È stata Manuela che, una mattina di marzo del 1991, ha scoperto il volo di sua nonna verso il cielo, nonostante fosse ancora “seduta in cucina davanti ad una tazzina di caffè, tra le dita una sigaretta mai accesa...”. Di qui anche il suo sommesso, nostalgico, sussurrato canto...>

Il mio primo incontro con la Fine.

Le medicine, la solitudine.

Una vita in salita, ladra di sorrisi.

La canzone di Natale, il pianoforte.

Il tè alla menta, le sigarette.

Il nostro ultimo capodanno insieme, solo tu ed io.

Il profumo di lavanda.

Le carte, i cruciverba, il corso d’inglese a 45 giri.

I libri gialli e i film western.

L’italiano a modo tuo.

Il tuo grande, sfortunato amore.

Gli occhiali rosa, e la tinta peldicarota al battesimo di mio fratello.

Il mare, i cani.

Il pesce rosso nella vasca da bagno perché stesse più largo.

Tu seduta sul wc a sferruzzare, che ridi mentre sguazzo nella vasca col pesce, vestita di sana pianta.

 

Diciassette anni dopo, è solo ieri.

Non ti ho mai sognata, o almeno mai come avrei voluto.

Ti ritrovo nel volto di mia madre, e in un rito tutto mio.

Quando ogni anno torno dall’altra parte del mare, e davanti agli occhi, all’alba, eccoti.

                             Con immenso amore,

                                               Manuela             

<Dalle pagine del “Diario” traspaiono tutte le problematiche di un secolo difficile, che nel tempo si connoterà sempre più come secolo complesso, controverso, rivoluzionario per la rivendicazione, via via, di tutti i diritti di chi fino a qualche decennio fa non aveva avuto mai voce (donne, bambini, anziani, operai, portatori di handicap...); secolo, dilaniato da due feroci guerre e magicamente risorto per ritrovarsi ben presto in ben altra barbarie e con lo spauracchio di una terza guerra mondiale, che si affaccia continuamente all’orizzonte della storia di oggi. Ma il “Diario” si ferma a metà secolo, al periodo della fine del conflitto e ai primi anni della ricostruzione. (…). Ma le parole di Vinka rimarranno indelebili a narrarci non solo di lei, ma anche della sua gente che sempre ha lottato per la propria terra, e ha molto sofferto, lacerata da contrastanti interessi politici, economici e sociali. Gente che, in quegli stessi anni, ha perduto casa e identità, ma ha saputo e voluto risorgere, come sempre avviene all’uomo che, come araba fenice, riesce e riuscirà a rinascere sulle proprie ceneri, fino a quando “il sole splenderà sulle sciagure umane”>. (a.d.l.)

 La “Storia di Puse”, raccontata da sua madre Vinka Šperac Bulić, si snoda all’interno di una famiglia borghese della Mitteleuropa nel periodo compreso tra il 1919 e il 1953. Vinka proviene da una famiglia di noti intellettuali della città di Solin. È un’autodidatta di cultura enciclopedica, giornalista e femminista ante litteram, collaboratrice del sacerdote archeologo don Frane Bulić (zio di suo marito) scopritore delle rovine romane della città di Solin[1] e curatore del Museo Archeologico di Spalato. Suo marito è Mate Bulić, “Bano” di Spalato, una sorta di governatore amministrativo della provincia, totalmente assorbito dal suo lavoro e raramente citato nel diario. Vinka ha partorito due figli nel 1907 e 1908, a 23 e 24 anni e… quando resta incinta di Puse, che nasce nel 1919, è stupita ed incredula che “una vigna secca”, come lei stessa si definisce, all’età di 35 anni possa essere portatrice di vita e capace ancora di generare una creatura. Stupore, incredulità e… consapevolezza di essere madre in età adulta sono all’origine di questo diario, ma anche l’amore per un pezzo di sé, che si distacca, vivrà e crescerà autonomamente nel tempo. E, ancora, il bisogno di scoprire e raccontare, con tipica curiosità da intellettuale, un rapporto madre-figlia che lei stessa all’inizio non conosce, non sa come evolverà e che le si presenta come un affascinante viaggio nel mistero dei sentimenti umani. Puse viene battezzata Jelka (Elena), ma per tutti sarà sempre e soltanto Puse, un nomignolo che le viene dato, appena nata dalla mamma. La “Storia di Puse” si incrocia anche con la tremenda storia dei popoli d’Europa in quegli anni: alla sua nascita, nel 1919, Zara è nel territorio del regno di Jugoslavia ma nel 1921, secondo gli accordi internazionali di Rapallo che ratificano il trattato di pace di Versailles del 1920, la città viene assegnata all’Italia e lei è già profuga con la sua famiglia, a due anni, verso Spalato, in territorio croato. Poi… i giorni della fanciullezza, dell’adolescenza, dei primi amori … Poi… l’avvento del nazismo vissuto in prima persona, da studentessa, a Vienna… Poi… la seconda guerra mondiale, i bombardamenti, la fame, gli stenti… Poi e comunque… essere giovani e voler vivere malgrado tutto, in quei tempi di morte… Poi… ancora profuga a Bari… Poi…

In questo diario spicca, tra l’altro, l’incredibile forza d’animo di due donne, madre e figlia, Vinka e Puse: nessuna delle due vorrà raccontare all’altra i propri momenti di vita vissuti nell’angoscia, nella disperazione e nel dolore. Nessuna delle due vorrà raccontare all’altra … fino al momento delle verità… Finché sarà possibile, Puse non dirà a sua madre degli anni dolorosi trascorsi in Italia, dal 1945 al 1953, della malattia di suo marito, delle difficoltà economiche patite da una famiglia che affrontava il difficile momento del dopoguerra. Finché sarà possibile, Vinka non racconterà a sua figlia, se non superficialmente e per cronaca, l’insopportabile violenza morale patita da una persona come lei, di cuore e cultura, privata della propria casa, dei propri oggetti, dei libri e costretta alla coabitazione con sconosciuti, a seguito dell’avvento del regime comunista in Jugoslavia.

Nel non scritto di questo diario, infine, spicca anche la forza, l’amore e la determinazione di altre due donne, madre e figlia, Tea e Manuela. Tea ha fortemente voluto che il manoscritto, affidatole dalla nonna, diventasse un libro per la sua famiglia e, per tradurlo in italiano, ha studiato per anni il croato che conosceva solo come lingua parlata. Manuela ha curato l’editing, corretto le bozze, lavorato al pc, in un viaggio a ritroso nel tempo, alla scoperta della sua “none Puse”. Nico Mori

Grazie, miei carissimi Tea, Nico, Manuela! Tutto il resto è storia anche dei nostri giorni. Le sofferenze umane sono ancora oggi inenarrabili in tutto il mondo, dove guerre conosciute o ignorate fanno strage di uomini, animali, natura, bellezza, arte, civiltà. E i potenti, tronfi e appagati del proprio potere, continuano imperterriti, con tracotanza, indifferenza, insolenza, a ignorare, a invadere, calpestare i diritti di libertà di interi popoli e di ciascuna Persona. A distruggere, insensatamente, l’umanità e il nostro insanguinato Pianeta!

C’è ancora tempo per la Speranza? Io non mi arrendo. Credo ancora nella capacità dell’essere umano di sentire profondamente in sé il desiderio del Bene. Se abitiamo ancora questa nostra Terra dopo millenni di lotte e di massacri, vuol dire che ogni volta l’uomo sa risorgere dalle sue ceneri perché riscopre in sé i valori kantiani, se non divini, incisi nel profondo della propria anima: Il cielo stellato su di me, la legge morale dentro di me. E per oggi è tutto, cioè una frazione infinitesimale del tutto. Ma forse può bastare per non dimenticare. Angela