domenica 28 luglio 2019

28 luglio 2019: e riprendo a scrivere...


Come una ladra, quindici giorni fa, sono scappata in vacanza verso il Salento che, come ogni anno, da tempo immemorabile mi aspettava. Non vedevo l’ora di “staccare la spina” per riprendermi i miei residui spazi di libertà condizionata, a contatto con il sole, il vento, il mare di una terra magica e incantata. E, per questa fuga, ho dimenticato persino di salutare i miei lettori, che mi seguono sul blog.
Contrita e penitente, ma non ancora di ritorno nella mia casa (sono ora a Roma), chiedo scusa a tutti e riprendo a scrivere nella speranza che sia rimasto ancora qualcuno che abbia voglia di leggermi…
Da dove cominciare?
Dal mare che amo e che ho dovuto abbandonare in tutta fretta per improvviso e persistente malessere di Zaghiro, il gatto/figlio di mia figlia Daniela?
Dalla luna vermiglia a specchiarsi tra onde imperlate di coralli rossofuoco per un languido approdo a cancellare infinite orme di bimbi stanchi di gioco sulla sabbia che attendeva la sera per riposare?
Dalla nostra fuga, dopo alcuni giorni di tensione e timore e dolore per le notizie/nuvole nere che ci arrivavano da lontano, per accorciare distanze e ritrovare il nostro amato micio?
Dal micio che, nonostante le cure amorose dello zio e la presenza dispettosa dei tre cuginetti/mici nella loro casa, è caduto in depressione per l’assenza della sua mamma umana, venuta in vacanza con noi, e con cui è un tutt’uno?
Dalla gioia festosa di due bimbe a cui Ombretta, l’altra mia figliola vacanziera, ha donato materassino e ciambella di un rosa tenero come le loro albe, perché era impossibile portarli con noi, in una macchina carica oltre ogni umana comprensione?
Dal viaggio lungo e faticoso che, dal Salento a Roma, ci ha portato per mezza Italia con appena spiragli di luce a permetterci di osservare il cielo dipinto con incredibili colori da un Pittore talentuoso e invisibile che ha fatto dell’Arte la sua ragione di Vita?
Dall’incontro di Daniela e Ombretta con Zaghi e il suo riprendersi improvviso e la sua voglia di tornare a casa per avere le coccole della sua mamma ritrovata?
Penso che potrei raccontarvi tutto nei prossimi giorni, capitolo per capitolo, perché ognuno dei temi che mi tornano alla mente potrebbe essere motivo di ascolto e riflessione, come se stessimo ancora in riva al mare con le fiaccole accese a raccontarci storie ritrovate, un po’ vere, un po’ inventate, ma tutte cariche di buoni sentimenti... 
E ci sembrerà di tornare alle nostre sere adolescenti, quando, al sonnolento sciabordio delle stanche onde alla battigia, c'incontravamo per raccontare di noi in cerca di mille sogni sotto le stelle…
A domani. Per chi ha voglia di leggere. Di ascoltare...

martedì 9 luglio 2019

Torino, 9 luglio 2016: Amica carissima,... ti sono grato... di Giorgio Bàrberi Squarotti

Avverto fortissimo il desiderio di ricordare oggi, ancora una volta e spero non sia l’ultima, il mio tenerissimo amico Giorgio Bàrberi Squarotti, pubblicando una lettera (di soli tre anni fa), che ritengo preziosa per me e la nostra meravigliosa amicizia, ma anche per un altro amico del cuore, Nicola Pice, e naturalmente per la SECOP, nostra coraggiosa e sempre più importante Casa editrice. E, senza alcuna profanazione tanto è bella da meritare di essere condivisa, eccola nella sua interezza:
“Amica carissima,
ho attraversato qualche settimana faticosa per piccoli miei fastidiosi malanni che hanno comportato visite e controlli che si sono conclusi piacevolmente. Qui fa molto caldo e l’afa pesa: si può fare ben poco. Ho dovuto smettere di scrivere.
La tua lettera è un dolcissimo conforto e un prezioso premio per quello che ancora riesco a fare, parlando e colloquiando con coloro con cui vengo in contatto.
Io sono molto curioso delle forme mutevolmente infinite della vita, che amo con tutti gli affanni, tutti i dolori, gli orrori, le gioie, le grazie nella luce della speranza, la virtù teologale a cui sono appassionatamente legato.
Per questo continuo a scrivere un poco per me, per il piacere e l’ammirazione della Parola, e con gli altri che mi tengono compagnia come la luce e il verde delle stagioni migliori. E tra tutti scelgo te, che sai portarmi le parole del cuore scritte con il cuore.
Ti sono grato dell’invio della grandiosa e ricchissima antologia poetica (universale e rigorosamente storica), che ha organizzato e documentato il professore Nicola Pice. È un’impresa valorosissima. Oltre alle ottime e persuasive scelte il pregio dell’originalità assoluta è costituito dalle interpretazioni critiche sempre profonde, nuove, geniali.
Dopo il 25 sarò nel mio paese delle Langhe, Monforte d’Alba. Sono molto stanco, e ho bisogno di quiete e di contemplazione per reggere all’età e soprattutto ai problemi famigliari.
 A presto. Con i più affettuosi saluti. Giorgio”.
Mi piace commentarla, questa lettera, perché Giorgio Bàrberi Squarotti, è qui non solo il critico letterario che tutti ben conosciamo, ma il poeta delle “forme mutevolmente infinite della vita”, e di queste perdutamente innamorato con le gioie e i dolori che ogni umana esistenza comporta, perché filtrate dalla “luce della speranza, la virtù teologale a cui sono appassionatamente legato”.
Ed è soprattutto l’amico che si confessa con grande semplicità e franchezza, affrontando argomenti difficili da affidare ad una semplice amica: la salute, gli affanni, i problemi famigliari, la stanchezza, l’ansia di sentirsi pienamente appagato nel suo paese, inerpicato nel cuore delle sue amate e sempre contemplate e cantate Langhe.
Stupendo l’avverbio che definisce la sua vitalità ancora ricca di fremiti ed esplosioni d’incanti: “appassionatamente”. E stupende sono le affermazioni: “per il piacere e l’ammirazione della Parola”… “come la luce e il verde delle stagioni migliori”. Sintonia perfetta: anche lui, come me, ha sempre scelto la bellezza e la pienezza delle parole dettate dal cuore. Ma se non ricordo male anche Dante aveva fatto nella sua poetica del dolce stil novo la stessa scelta (vedi Purgatorio XXIV canto: I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando).
Mi sembra di essere immeritatamente (io davvero formichina!) in ottima compagnia, tenendomi alla larga dai vari sperimentalismi che hanno mortificato la Parola, svuotandola di significato per privilegiare il significante, spesso senza senso. Senza nulla togliere al fascino del nonsense di tanta poesia e tanta prosa inglese (vedi le opere di Lewis Carroll), e non solo.
Nasce, a mio parere, da quella sua curiosità appassionata della vita la totale adesione, con parole di esaltata ammirazione, all’Antologia poetica sulle finestre, curata da Nicola Pice.
Giorgio Bàrberi Squarotti, infatti, dopo aver parlato della sua ammirazione per la Parola, dettata dal cuore, e della sua instancabile curiosità, che lo porta a contemplare ancora la vita nelle sue innumerevoli forme, esordisce con “Ti sono grato”.
Quale espressione più bella e sentita? Diventa conforto e consolazione tra tanta indifferenza e supponenza. Mi è capitato che mi sia mancata una parola di riconoscenza, un semplice “grazie”, dai tanti autori alle prime armi (e non solo), a cui ho offerto col cuore le mie parole per i loro libri da pubblicare, mentre registro la dolcissima gratitudine di un amico, uomo e scrittore e poeta di luminosa GRANDEZZA per lunghissima esperienza letteraria e profondissima cultura e umanità. Ma, come si sa, l'umiltà è direttamente proporzionale alla grandezza delle persone. E si potrebbero fare tanti esempi.
Naturalmente, la gratitudine va estesa alla “grandiosa e ricchissima antologia poetica (universale e rigorosamente storica) che ha organizzato e commentato il professore Nicola Pice”. Senza la validità critico-letteraria “originale e assolutamente geniale” della sua opera non ci sarebbe stata neppure la preziosa e lunga annotazione alla mia lettera.
Chi ha avuto la fortuna di ricevere un commento critico da parte di Bàrberi Squarotti, o di intrattenere con lui un lungo carteggio, sa che aveva la squisita gentilezza di rispondere a tutti, entro tempi brevi, e la generosità di incoraggiare ciascuno con poche, sapide, attente frasi, scritte con la sua grafia minuscola, al limite della leggibilità. Sempre rispettoso del lavoro altrui.
In questa lettera, invece, si notano il suo entusiasmo e la sua ammirazione. Merito della lunga e meticolosa ricerca operata da Nicola Pice e della sua capacità critica “originale e geniale”, che indubbiamente gli deriva anche dai suoi studi classici, in cui si è sempre immerso con passione e devoto impegno.
 Ora, mio carissimo Nicola, dopo aver riportato con gioia quanto scritto tre anni fa dal grande critico, mi coglie una certa amarezza nel constatare che lo splendido input di Giorgio Bàrberi Squarotti a far conoscere a vasto raggio la tua bellissima Antologia si è perso nel silenzio di tre anni sicuramente ricchi per te, e per tutti noi, di altri impegni culturali anche molto gratificanti, senza più dare seguito alla viva luce di quel suo FARO acceso sulle tantissime poesie da te scelte con tanta cura. Vorrei farti una proposta, che spero anche l’editore colga al volo: perché non riprendiamo tra le mani quel tuo gioiello per riproporlo ancora all’attenzione di quanti non l’hanno letto perché magari non ne conoscono neppure l’esistenza?
I buoni libri non hanno scadenze. Non sono mai datati. Non passano, dopo soli tre mesi, lo spazio di una stagione appena, nel dimenticatoio come oggi avviene, purtroppo. Complici forse anche i distributori, che hanno fatto propria la teoria commerciale dell’“usa e getta”, a cui ormai devono sottostare tutti i prodotti immessi sul mercato dei consumi.
Un buon libro non si deteriora come il cibo. Anzi può diventare cibo per l’anima da assaporare nell’immediato e da riassaporare meglio a distanza di tempo. Non passa di moda come un paio di stivali, ma sa percorrere strade anche sterrate perché inconsuete e imprevedibili per tutti gli orizzonti che possono disvelare.
Un buon libro è per sempre, come un diamante. Mettiamolo in vetrina. Può darsi che chi lo guarda si possa innamorare. E scoprire che è bello leggere e condividere quelle meravigliose emozioni che solo i poeti sanno scoprire e “sentire” guardando dallo spazio, anche angusto, della propria finestra di casa…
A riprova di quanto detto ecco una poesia di Giorgio Bàrberi Squarotti, diversa da quella antologizzata da Nicola ma fortemente legata alla curiosità del poeta e alla possibilità di scoprire un intero universo, da percorrere con gli occhi, per penetrare nel mistero immenso e multiforme della vita.
Una strabiliante molteplicità di finestre e di sguardi.
Il poeta dalla sua finestra guarda, attraverso un’altra finestra, una giovane vedova all’interno della sua casa. Ne osserva l’abbigliamento, i tratti del volto, le movenze, le azioni; ne studia desideri e stati d’animo. Poi, insieme osservano dalle loro finestre, senza che gli sguardi di entrambi s’incrocino, il mondo che è fuori in tutta la sua luminosità ed estensione. Un mondo esterno che si anima, si dinamizza, pur conservando una sua staticità contemplativa. E, poi, ancora i gesti della vedova, registrati dal poeta, che ritorna a guardare nell’interno di quel salotto chiaro, deserto e accogliente della sua casa. In attesa.
E un intero racconto sulla giovane vedova, di cui scopriamo tutto, si dipana attraverso quegli sguardi indagatori. La vita stessa si fa lungo racconto della vita. Bastano due finestre dirimpettaie. Tanta visionarietà. Tanta fantasia.
Giorgio Bàrberi Squarotti, imprendibile poeta di mille innumerevoli mutevolissime realtà, che si sfrangiano con i tanti enjambement tra sogno e verità, più attesi che vissuti.
LA VEDOVA
La vedova molto giovane ancora
ha, leggero, un amplissimo cappello
nero e un nastro che scende fino al dorso,
leggiadramente mossi dalla brezza
che dal balcone entra nella stanza
luminosa, ove sono agili sedie
di vimini, un divano bianco, basso,
uno specchio argentato che cancella
con il suasivo inganno il lutto e l’ombra
della memoria, e la fa sorridente,
nuda com’è, dorata, nell’attesa
di un amore futuro. Lentamente
minuziosa, riordina le ciocche
brune, chiari rifà i grandi occhi che hanno
(forse) pianto, ravviva le gote
troppo pallide, segna di carminio
le labbra tese, per il gioco minimo
della mattina solitaria, liscia
le cosce e i fianchi e anche il ciuffo sottile.
Alza il capo alla fine, con stupore.
Vede, oltre, affaccendati giardinieri
che potano ligustri e rose e meli,
una bambina passa, che sospinge
un cerchio rosso, c’è un canale e specchia
l’annuncio del passaggio di una barca
decorata di fiori e frutti opimi,
ancora più lontano due pavoni
sono immobili in un prato, sul margine
estremo della luce verde c’è
(o s’intravede) già molto ingiallita
di licheni una lapide, aguzzando
per oziosa abitudine ricerca
la data e il nome, miope com’è
non vede che confusi segni, e infine
solleva un po’ il cappello sulle chiome
che si sono confuse, se le aggiusta
leziosa, assorbe il vento nuovo, aspetta.
“Ti sono grata”, Giorgio, mio carissimo e rimpianto amico.

sabato 6 luglio 2019

5-6 luglio 2019: una meravigliosa sorpresa...


Ieri, di primo pomeriggio, mi è giunto il messaggio di Carlo Brancale, un giovane amico, coetaneo dei miei figli, che alcuni giorni fa ha acquistato il secondo volume del mio chilometrico romanzo Le piogge e i ciliegi (SECOP edizioni, maggio 2019). La sorpresa è stata grande e, superfluo dirlo, graditissima. Riporto qui il messaggio per commentarlo insieme:
Ciao, Lina. Sto leggendo il tuo libro (il secondo volume) e anche se sono al secondo capitolo sento già l'esigenza di scriverti, perché mi trovo di fronte ad un'opera assolutamente inedita e che mi sta catturando pagina dopo pagina. Il tuo stile é davvero unico e i cambi di registro, racconto, poesia, folklore dialettale, citazioni, riflessioni, consigli, non fanno altro che incuriosire il lettore che avidamente, pennellata dopo pennellata, si ritrova a scoprire, ad emozionarsi con qualche lacrimuccia e improvvisamente a sorridere per l'improvviso umorismo che interviene sempre al momento giusto e come mano provvidenziale, porta via la lacrimuccia di emozione appena provata. Anche se la mia generazione é quella dei tuoi figli, le tue parole, i tuoi versi, mi trasportano in un modo ovattato e quasi fantastico, che ora concretamente non ricordo affatto, ora si affaccia alla mia memoria sotto forma di flebili ricordi che probabilmente il tuo testo ricompone, ravviva e riordina. Grazie ancora Lina. Ti scrivo qui in privato, ma puoi "utilizzare" queste mie affettuose ed emozionate righe, come meglio ritieni. Un abbraccio. Carlo
Emozionata anch’io gli ho risposto:
Angela De Leo Ricevuto qualche ora fa. Sono rimasta davvero sorpresa e, naturalmente, gratificata. Grazie, Carlo carissimo. Mi hai reso felice. Spero che il libro ti tenga, per un po' di tempo (è decisamente voluminoso!), compagnia e che ti possa emozionare sempre di più. Ti abbraccio.
Angela De Leo E c'è una postilla bellissima che non riesco a postare. Quella che parla del mondo che ha ancora bisogno di meravigliarsi. Mi piacerebbe condividerla per l'intensità del suo significato, ma come fare? Carlo, puoi venirmi in aiuto?
Carlo Brancale Sì sì... faccio io Lina
Carlo Brancale Il mondo ha bisogno ancora di te, ha bisogno attraverso le tue parole di riscoprire la "meraviglia" e la capacità di meravigliarsi! Il tuo libro é un invito a rallentare, ad amare le piccole grandi cose che donano la vera felicità!
Queste le parole intercorse tra me e Carlo su Face book. In privato, però, abbiamo aggiunto:
Carlo:Ti ringrazio, soprattutto per considerarmi ancora giovane 
Angela: Lo sei!!! Altrimenti io sarei pronta per i crisantemi
Carlo: Lunga vita a Lina… Il mondo ha bisogno ecc…
Perché ho riportato il nostro dialogo?
Perché mi piace puntualizzare con Carlo e con gli eventuali altri miei lettori alcune mie considerazioni personali. Punti di vista? Anche:
La vita media dell’uomo oggi si è notevolmente allungata e, se un secolo fa era di quaranta/cinquant’anni, attualmente si ha una prospettiva di vita di circa centoventi anni (vedi le aspettative berlusconiane!) e i centenari sono sempre più numerosi. Anche per gli enormi progressi della medicina e della chirurgia, nonostante il regresso della alimentazione con cibi sempre più inquinati e sofisticati! La giovinezza, pertanto, si è notevolmente allungata rispetto alla mia di tanti anni fa. Oggi un cinquantenne, giù o su di lì, pensa, si comporta e vive come un ventenne, giù o su di lì, della mia generazione. Mio figlio Giuliano, coetaneo di Carlo, è un vero Peter Pan. Coriandolo pazzo di un eterno carnevale. Pub, discoteche, incontri, concerti, spacconate con gli amici in radio e dal vivo. Gli dà manforte la sua vivace e bella compagna, Viviana o Viv(i), che è di per sé promessa di allegria, di felicità. “Amma pazzià” è il suo motto, tatuato lungo il collo in orizzontale per occupare uno spazio infinito. La loro complicità è contagiosa e divertente. Mi coinvolge e travolge. Mi offre appigli di giovinezza.
Suo padre (parlo di Giuliano), e io con lui, alla sua età aveva/avevamo già i nostri quattro figli, e la maggiore, Raffaella, ne aveva di anni ben ventuno, cioè già con la possibilità di essere a sua volta madre e di renderci nonni. Giuliano nonno? Se mi sta leggendo si starà facendo le più matte risate e sarà alle prese con l’orticaria e con tutti i più plateali e spudorati scongiuri. Salvo, poi, a commuoversi, tenendo tra le braccia il bimbetto di Boris, suo straordinario compagno di cordata a Radio Rock.
Di che parliamo, dunque? Anche quelli che, come Carlo, si sono diligentemente laureati e si vanno sempre più affermando in professioni di prestigio, e si sono eroicamente sposati e hanno avuto figli, hanno fatto delle scelte di vita con tempi inevitabilmente più lunghi dei nostri e oggi sono alle prese con figli piccoli o ancora adolescenti. Un abisso, dunque, ci separa.
Se dovessi poi andare a ritroso nel tempo, vedrei addirittura le trentenni dell’Ottocento, attualmente vere e proprie ragazzine, descritte da poeti e scrittori (vedi Balzac ne La donna di trent’anni), già stanche, deluse ed emaciate per segrete sofferenze d’amore, mentre le coetanee di mia nonna (primo ventennio del Novecento) a trent’anni erano già sfiancate da gravidanze a ripetizione. Quelle di mia madre, invece, erano precocemente invecchiate a quarant’anni. Le quarantenni della mia generazione, poi, hanno vissuto, come me, i quaranta/cinquant’anni nel fulgore della propria maturità senza cedere ai primi capelli bianchi, alle prime rughe, all’abbigliamento da “signora matura”, con un aplomb dignitoso di raggiunta consapevolezza di sé. Gli uomini, infine, sono sempre meno maschilisti e sempre più propensi a cedere le armi del loro comando a donne più sicure di sé e della propria dignità e libertà, anche in virtù dei loro studi e delle professioni che le hanno portate ad immergersi nel lavoro extradomestico e nel sociale. Le mie figlie stanno vivendo lo stesso decennio di temuto passaggio dai primi anta ai secondi con la disinvoltura della prima giovinezza: minigonne e stivaloni anche estivi e un’allegria di serate con gli amici a noi ancora vietate, purtroppo.
Mi si può obiettare che la giovinezza è una condizione mentale e psicologica più che fisica e cronologica. Sono perfettamente d’accordo. La giovinezza è l’età che ci portiamo dentro. Si può essere vecchi anche a vent’anni. Ma quelli che l’avvertono dentro anche a cento anni non possono fare statistica.
Comunque, indubbiamente oggi la tarda giovinezza è un fatto culturale, economico-sociale, oltre che individuale. Sono aumentati i centri benessere e quelli estetici; si sono moltiplicati a dismisura i modelli di vita internazionali e i mezzi di comunicazione e di locomozione che accorciano distanze e offrono informazioni ed esperienze di prima mano per “mantenersi fisicamente “giovani, belli, desiderabili”. E, per fortuna, sempre più spesso, ai nostri giorni, più che alla palestra e all’abbigliamento, sono molti i giovani cinquantenni, colti, aperti a sempre più vaste esperienze professionali e di soggiorno in Paesi stranieri, che mirano ad irrobustire anche la mente e, in alcuni casi, persino lo spirito. C’è un dinamismo notevole nei repentini cambiamenti sociali che modifica anche i comportamenti. E non solo dei giovani e degli adulti.
Non ci sono più, per esempio, i vecchi di un tempo. I più longevi vengono chiamati anziani e conservano ancora spirito combattivo e voglia di rendersi utili alla famiglia e alla società, ma anche una vitalità straordinaria di interessi: usano con disinvoltura computer, cellulari e tablet.  Vanno su Facebook, Twitter, Instagram, chattano su Messanger e Whatsapp; giocano a burraco, vanno a teatro, si esibiscono in televisione; fanno lunghi viaggi organizzati; indossano gli stessi jeans di nipoti e pronipoti.
Purtroppo, però, nessuno racconta più fiabe. Si è persa la gioia del racconto e dell’ascolto. La fiaba ha in sé la magia del prodigio e della meraviglia. Nessuno si meraviglia più di niente e di nessuno. Ecco, la meraviglia!
Carlo ne ha parlato come un sogno lontano con uno struggente desiderio di recuperarla. Oh se continuassimo a guardare il mondo con occhi nuovi ogni giorno. Non avremmo più paesaggi di grigio cemento, nei nostri occhi grigi di disincanto, ma panorami sempre nuovi e diversi di cieli azzurri, di mari cristallini, di erbe e di piante di meravigliosi colori e profumi. E sentiremmo il canto delle stelle, il racconto delle nuvole, l’arpeggio delle onde. E ci stupiremmo di tanta armonia e splendore.
Lo stupore è candore e innocenza, ma è anche l’incanto di un tempo lungo da dedicare alle piccole cose di sempre, vedendole lievitare e diventare immensamente importanti. Un filo d’erba illuminato da iridescenze diverse.
Ed ecco venirci incontro la creatività a braccetto con le solidali compagne, l’immaginazione e la fantasia: hanno la sensibilità tutta femminile di ridisegnare il mondo ogni giorno per sentirsi “rinascere infinite volte” (Fromm), sotto cieli preziosi per trine sfilacciate di nuvole e di stelle sempre nuove da afferrare a piene mani per conservarle. quotidianamente nel nostro cuore bambino. E la stessa quotidianità ci sembrerà la fiaba più bella da vivere. E la vita, il mistero più affascinante da esplorare ancora e ancora… 
La giovinezza una esplosione inattesa dell'esaltazione del cuore...
Grazie, Carlo, per aver dato la stura a tutto questo!


martedì 2 luglio 2019

2 luglio 2019: Raffaella conta cinquantuno estati (o cinquantuno primavere?)

Oggi è il compleanno di Raffaella, l’unica figlia con cui condivido la quotidianità della nostra casa, del giardino, del verde degli alberi, della luminosità del nostro cielo, quando il cielo è terso come una cartolina. Ma è difficile condividere con lei problemi e dispiaceri. Sa tenerseli dentro per non darmi pensieri e ansie. Ha per me protezione di madre. E io per lei ho segreti di figlia che mai direbbe alla propria madre, perché non capirebbe, si allarmerebbe, si dispererebbe per la propria impotenza a risolvere situazioni che più non le appartengono, data l’età, il mondo capovolto, una cultura che crea distanze abissali tra il passato e il presente. Tra me e mia figlia i ruoli sono stati vissuti nella più impensabile anomalia, fuori dall’ordinario, a cui siamo per atavica convinzione e tradizione abituati.
Da sempre io sono figlia di mia figlia. Lei madre di sua madre.
E, come ogni madre, desidera un amore esclusivo da parte di sua figlia. E come ogni figlia desidera un amore esclusivo da parte di sua madre.
È questo il suo tormento palese, il mio tormento celato. E anche qui i ruoli si ribaltano. Lei, che non mi confida mai le sue pene, reclama a viva voce un “amore che faccia la differenza”. Io, che le dico tutto dei miei affanni e delle mie paure e delusioni, taccio sull’amore che le porto perché “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Ma oggi non posso fare a meno di dirglielo, dopo le parole accorate, sia pure velate di tenera ironia, che mi ha rivolto, coordinando, nel “magico cortile” della mia casa antica, la bellissima serata di presentazione del mio romanzo (seconda parte), di cui hanno parlato magnificamente due meravigliosi amici e relatori: Valentino Losito e Mario Sicolo. Ebbene, ancora una volta la sua invocazione d’amore.
E io finalmente le rispondo:
“Bambina mia, l’amore provato e vissuto e donato è sempre un amore imperfetto, mancante della certezza della sua pienezza e intensità, perché recepito in maniera soggettiva, che fa i conti con l’attesa e le attese, con il proprio metro di misurazione e valutativo, e con il senso di inappagamento che ogni amore lascia in chi lo riceve perché è incerta la quantità d’amore in possesso di chi lo dona.
L’unico amore certo è quello che si possiede, dunque?
Ma poi, si possiede davvero l’amore?
Ma allora come mai più lo lasciamo andare più diventa radicato nel cuore? E più lo tratteniamo e più ci sfugge, a volte soffocato proprio dalla stretta che non lascia liberta di essere e di agire?
Perché più viene dichiarato e più viene diluito il suo significato più profondo? Eppure, se non lo diciamo, rimane impredicato, nascosto, non recepito, non ascoltato, non compreso nella sua reale esistenza. Esiste solo per chi lo prova ma non esiste per chi non ascolta le parole che lo rendono visibile, anche se mai certo.
Come ogni cosa che non ha un corpo, non occupa uno spazio, non ha una o più dimensioni visibili, anche l’amore non può essere toccato con mano, pesato, quantificato, percepito nella sua essenza, nelle sue qualità.
Possiede qualità l’amore? È frazionabile in bellezza, costanza, vicinanza, accudimento passione, tenerezza, forza, fiducia, protezione, esuberanza, allegria, complicità, molteplicità, singolarità, unicità?
Ed è riconducibile davvero alla sola parola AMORE?
Siamo tutti concordi nel definirlo come tale per poterlo vivere senza essere tratti in inganno da ogni pensiero soggettivo, dagli innumerevoli condizionamenti endogeni ed esogeni, che inevitabilmente lo snaturano, lo sviliscono, lo esaltano, lo mascherano, lo esibiscono, lo urlano o lo soffocano nelle spire della paura e nel bosco di ogni fuga e di ogni perdita dell’unico sentiero per fare ritorno al punto di partenza: l’improvviso batticuore nel conoscersi e riconoscersi tra migliaia di simili con l’infinito negli occhi e tra le mani?
E che dire del personale punto di vista: per me, per te, per lui, per lei…?
Quanto complesso e complicato l’amore. C’è persino che nega la sua esistenza. Oppure gli fa uno sberleffo di scettico sarcasmo.
Alla luce di tutte queste considerazioni, diventa davvero impossibile conoscere l’AMORE.
E, se ci pensiamo un po’ di più, una tristezza senza fine ci assale… e un senso sconfinato di solitudine ci pervade. SIAMO SOLI. Nell’IMMENSITA’ dell’UNIVERSO che ci spaura.
Sentiamo che abbiamo bisogno d’ AMORE. Di amare ed essere amati. E sentiamo che solo l’AMORE ci rende felici. Ci rigenera. Ci dona nuova nascita e nuova vita.
Dunque, questo sentimento esiste? Ed è vivificatore?
Sì. esiste. ll batticuore è là. Esplode quando meno te lo aspetti. Sia che si tratti del primo palpito di un semino sotto il cuore di una donna chiamata ad essere mamma. Sia che si tratti del primo attimo di vita tra le braccia di un uomo che s’innamora della sua paternità. Sia che avvenga tra due esseri umani l’esplosione del Big Beng che è tumulto incoercibile del cuore in andata e ritorno… e in espansione…
 E ci accorgiamo che l’AMORE è semplice come l’aria che respiriamo. È.
Che duri un attimo o una vita non importa.
Rimane un punto vivo, incancellabile, nell’eternità.
Per questo oggi voglio dedicarti questi versi che ho scritto per te questa notte per dirti finalmente quello che vuoi sapere. Sì, esiste oggi il mio intimo, silenzioso sorriso, che tanto ti preme cogliere sulle mie labbra, per sapermi finalmente felice.

Ti regalo oggi il mio sorriso
luce di colorata felicità
da sempre attesa negli occhi
a farsi specchio della tua ansia
perché in gioia si tramutasse
il riflesso di mille e mille stelle,
per me raccolte su terrapieni
Inventati, nel vuoto della mia sera
per accenderla di risate.
Clamore assordante fu
il battito del tuo cuore
vicino al mio in un palpitare
di giorni di stanca malinconia.
Ma complici io e mia madre
di un segreto dolcissimo
sotto un cielo che sapeva
di noi
riprendemmo a ridere,
dimentiche del tempo
e le stagioni del silenzio.
Rinacque l'incanto
delle tue parole ali di allodole
a ricamare i miei mattini
che ombre attraversarono
tra nuvole scure di pensieri
distanti e prigionieri.
Sogni mai afferrati
dalle tue mani
protese a farmene dono.
E oggi, vedi, solo per te sorrido
a rendere visibile l’Amore
che ti devo.
Con il sole che bacia i tetti
della tua mai spenta speranza
a sapere della mia gioia
di vivere.
(Nel giardino arso di sole papaveri
di fragili corolle ridono
a restituirci rinnovate intese d'allegria)

Per te, Raffaella, e le tue cinquantuno estati...

lunedì 1 luglio 2019

1 luglio: tre presentazioni de "Le piogge e i ciliegi", II volume.


Incastonati nelle vicende dei singoli fatti, trasportati dalla rete delle relazioni e delle esperienze, i grandi temi del confronto con la cultura contemporanea arricchiscono il racconto, non solo come digressione esplicativa del modo di pensare della poetessa, ma come lascito prezioso nella ricerca di un orientamento di vita: l’amore, il dolore, la delusione, la libertà, il silenzio, il tempo, lo stupore, la scuola, la società, la realtà…
La cronaca familiare è spinta fino alla esaltazione dei minimi particolari, il cui scopo è fare luce nel labirinto delle relazioni, combattere l’usura del tempo e inglobare la banalità del quotidiano.
Anche in questa parte seconda del volume Le piogge e i ciliegi campeggia soprattutto la personalità del Nonno Domenico, un uomo di straordinaria bontà - una delle rarissime persone a cui poter attribuire, come confessa sommessamente l’Autrice del libro, quel difficile sostantivo “bontà” senza riserve e condizioni -. Un uomo pieno di vita, ricco di esperienze e di grande amore per il prossimo, una “compassione” che non faceva pesare, ma che racchiudeva nella leggerezza dello stile di vita e del tatto.
In ogni ripresa della scrittura di singole circostanze o di eventi dello spirito si avverte quel continuo, tenerissimo riferirsi di Angela al Tu del nonno. Una figura quasi “sacerdotale”, come l’Autrice lo descrive nella prima parte del volume: “Quando sono in crisi e mi sembra che il mondo intero mi frani addosso, ecco le tue mani salvifiche ad afferrarmi sempre, protettive, per portarmi su da un precipizio. Lungo una scala pericolante, sopra un’onda minacciosa del mare in tempesta”.
È propria della poesia la capacità magica di affidare la memoria del passato come patrimonio, meglio come realtà fondante dei valori e della vita. “… ma ciò che resta, ce lo affidano i poeti”.
È il verso conclusivo di una stupenda poesia del grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin[1], intitolata “Andenken”, in italiano “Rimembranza”: “Was bleibet aber, stiften die Dichter“, che io traduco così: “Ma ciò che resta, è un patrimonio che ci affidano i poeti”, non quindi soltanto un “dono” che essi ci fanno, da godere in qualche maniera, come suggeriscono le traduzioni italiane, ma qualcosa da investire, da mettere a frutto, qualcosa  di “fondante” (stiften) l’umano, da non perdere in questo grande circo della storia. La poesia come “lascito”, come “dono” potrebbe avere una connotazione passiva, mentre il fondare è dinamico e comporta uno sviluppo ed un susseguirsi di azioni e di comportamenti ideali ed emozionali. È più che un dono, quello che ci fanno i poeti:  ogni vero poeta è “mediatore e veggente, più che testimone”, avverte in sé non solo il “depositum fidei”, il deposito di ciò in cui crede,  ma anche il “depositum humanum” da trasmettere e mediare.
“Ciò che si è ereditato dai padri bisogna riguadagnarlo con le proprie forze per possederlo davvero”,  una riflessione dal Faust di Goethe che Benedetto Croce[2] mette in evidenza. Il bene affidatoci ha valore, se chi lo riceve lo usa veramente. È una affermazione diretta a Faust che mette in discussione il valore della religione, della scienza e della cultura.
Qual è lo strumento di cui Angela De Leo si serve per affidare questo deposito?
Naturalmente la metamorfosi poetica di una realtà in luminescenza. Tutto si trasforma in poesia nel suo avvicinamento emozionale alle cose: “… scopro sempre e ancora tanta fiaba” - come nel quadretto che segue: “Ed erano serate che si addormentavano sui nostri passi tra il buio della strada e le stelle alte nel cielo. La stella più luminosa era la mamma: bella, elegante, profumata. Io ero fiera di uscire con lei, orgogliosa che fosse lei, la più bella di tutte, mia madre...”
Di quadretti del genere potrei citare a centinaia, ognuno racchiuso in una sua specifica intuizione poetica. Per esempio questo: “Ma i due anni passarono in fretta. Troppo in fretta.
D’inverno, con te, la nonna e Lizia.
Gelso e rose e ancora parole di ascolto.
D’estate, con il resto della famiglia. Mare e sabbia e una corona di monti a cullare quel mare”.
Come si può notare, i brani di poesia non hanno carattere estetizzante, ma si intrecciano come una melodia che riempie il silenzio. Proprio per questo nasce il bisogno del controcanto. Tutto il racconto è attraversato da voci che vengono da lontano, dal di fuori del suo mondo e che lei capta come messaggio, richiamo o sirena non solo nella molteplicità e varietà degli eserghi, della introduzione ai singoli racconti, ma come segno e risonanza di gratitudine, di gioia, di sentimento della vita compartecipante. Per esempio, nel raccontare la personalità della nonna Angelina, il suo essere nell’ombra, sono riportati quasi come una melodia funebre cantabili alcuni versi di “Nonna” di Julio Cortàzar:
“Dall’altra parte del mare
un giorno moriremo, ma prima viene il canto”.
Così pure, ed è ancora un esempio, la poesia “Chiedo silenzio” di Pablo Neruda è ripresa in controcanto per dare senso al dolore di una amara assenza.
“La ballata della madre”, quasi un madrigale, introduce a questo sommesso e costante contro-cantare, che culmina in un sentimento intenso per la perdita del nonno, controcanto affidato al “Blues in memoria” di W. H. Auden, “La verità, vi prego, sull’amore”:
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto; […]
E mentre la poetessa confessa di non voler più cantare, annota come il canto che lei stessa ha intonato esorcizzi il dolore e la fatica di vivere nell’ingiustizia e si affida al salmo 137 di Davide, alla sua versione drammatica nel Nabucco di Verdi cantando dentro “Va’ pensiero” e alla poesia di Salvatore Quasimodo “Le fronde dei salici”.
È chiarissima qui come altrove la orchestrazione di motivi che toccano l’essenza della persona. Il risultato è un “alzarsi per risorgere/ nell’armonia di un ordine mistero”, come si esprime poeticamente Marie Luise Kaschnitz. Nelle ore buie è bello avere questa consapevolezza, questa fede dei cuori semplici e veggenti: di alzarsi per risorgere.
4. La narrazione, il linguaggio, lo stile
“Si è perso il tempo del racconto. E dell’ascolto.”  
La narrazione si sviluppa lungo i percorsi disegnati dal fluttuare capriccioso dei ricordi d’infanzia. Toni alti si alternano a racconti di cronaca.  È una narrativa tra racconto e romanzo, tra racconto e cronaca familiare e sociale. È vero che i romanzi sono seconde vite degli autori, e tuttavia nel racconto di Angela De Leo è “la prima vita” che viene alla luce. Ciò lo si deve a un narrare che non nasconde la realtà, ma la ri-vela. Il contatto della poetessa con la realtà è diretto, palpabile, catalizzatore di sentimenti, emozioni, modelli di vita e di futuro. Il linguaggio è semplicemente uno strumento di mediazione. Al contrario per Sartre, per esempio, il contatto con la realtà non è mai diretto. Nella sua autobiografia letteraria Le Parole annota: “Per aver scoperto il mondo attraverso il linguaggio, per molto tempo scambiai il linguaggio per il mondo. Esistere era possedere una denominazione depositata, da qualche parte, sopra le infinite tavole del Verbo”
In questa Storia di un uomo straordinario il linguaggio non è idealizzato o stilizzato, né tantomeno divinizzato come in Sartre. Ecco perché la poetessa privilegia il metodo della narrazione in senso rigorosamente diacronico, badando a curare la semplicità e la chiarezza nell’esposizione. Talora segue il linguaggio corrente, spesso ricalca le giravolte dialettali con un periodare apparentemente casuale e trasandato, “impastando una frase all’altra” come pezzi di plastilina. Questo “parlato” del linguaggio fa sì che la narrazione si sviluppi vivace e icastica. Per esempio come quando riflette sulla personalità di Nonno Domenico:
“Sì, ma eri solo tu a capirmi
profondamente,
come nessuno mai,
e ad addolcirmi il cuore”.
Nella composizione di bozzetti di vita quotidiana, sa descrivere in brevi tratti il suo incontro con la gente:
“La mia gente,
in buona parte,
senza una luce nello sguardo
a illuminarsi di cielo”[3]
Poesia disseminata a ogni passo del racconto e dei “resoconti”. È un dialogo con un TU, al quale si alternano e con il quale si intrecciano moltissime voci e svariati Tu e Voi.
Talora il linguaggio si fa uno strumento pesante, di cui la scrittrice si lamenta amaramente, come quando nota che la sua scrittura ha perso freschezza e fantasia, si accartoccia su sé stessa, incastonando nelle parole non il detto di un oracolo, ma un che di retrogusto amaro che non sa più vincere. È la realtà che si annuncia dolorosamente e di cui la scrittrice porta il peso. Una realtà che Angela De Leo non abbellisce.
A questo punto prendo molto sul serio la massima di Marco Terenzio Varrone (116 a. C. - 27 a. C.), letterato, grammatico, militare e agronomo romano:
“Ci sono interpreti, che versano tanta acqua nel vino da rendere tutto di sapore insipido e scialbo”. E mi fermo qui invitando il lettore a leggere con cura i testi originali…”

(Chiedo scusa all’amico Vito Di Chio, ma soprattutto al Relatore, Saggista e Critico letterario, se ho dovuto eliminare le preziose note a piè di pagina, e assemblare un po’ il tutto per non prendere molto spazio e per facilitare la lettura ai cari lettori. Ma chi volesse approfondire tali riflessioni come meritano potrà tra non molto leggere e approfondire il saggio critico del prof. Vito Di Chio sulla mia intera opera in via di pubblicazione).