Incastonati nelle vicende dei singoli fatti, trasportati
dalla rete delle relazioni e delle esperienze, i grandi temi del confronto con
la cultura contemporanea arricchiscono il racconto, non solo come digressione
esplicativa del modo di pensare della poetessa, ma come lascito prezioso nella
ricerca di un orientamento di vita: l’amore, il dolore, la delusione,
la libertà, il silenzio, il tempo, lo stupore, la scuola, la società, la
realtà…
La cronaca familiare è spinta fino alla esaltazione dei
minimi particolari, il cui scopo è fare luce nel labirinto delle relazioni,
combattere l’usura del tempo e inglobare la banalità del quotidiano.
Anche in questa parte seconda del volume Le piogge e
i ciliegi campeggia soprattutto la personalità del Nonno Domenico, un uomo
di straordinaria bontà - una delle rarissime persone a cui poter attribuire,
come confessa sommessamente l’Autrice del libro, quel difficile sostantivo
“bontà” senza riserve e condizioni -. Un uomo pieno di vita, ricco di
esperienze e di grande amore per il prossimo, una “compassione” che non faceva
pesare, ma che racchiudeva nella leggerezza dello stile di vita e del tatto.
In ogni ripresa della scrittura di singole circostanze o di
eventi dello spirito si avverte quel continuo, tenerissimo riferirsi di Angela
al Tu del nonno. Una figura quasi “sacerdotale”, come l’Autrice lo descrive
nella prima parte del volume: “Quando sono in crisi e mi sembra che il
mondo intero mi frani addosso, ecco le tue mani salvifiche ad
afferrarmi sempre, protettive, per portarmi su da un precipizio. Lungo una
scala pericolante, sopra un’onda minacciosa del mare in tempesta”.
È propria della poesia la capacità magica di affidare la
memoria del passato come patrimonio, meglio come realtà fondante
dei valori e della vita. “… ma ciò che resta, ce lo affidano i poeti”.
È il verso conclusivo di una stupenda poesia del grande
poeta tedesco Friedrich Hölderlin[1], intitolata “Andenken”, in italiano “Rimembranza”: “Was
bleibet aber, stiften die Dichter“, che io traduco così: “Ma ciò che
resta, è un patrimonio che ci affidano i poeti”, non quindi soltanto un “dono”
che essi ci fanno, da godere in qualche maniera, come suggeriscono le
traduzioni italiane, ma qualcosa da investire, da mettere a frutto,
qualcosa di “fondante” (stiften) l’umano, da non perdere in
questo grande circo della storia. La poesia come “lascito”, come “dono”
potrebbe avere una connotazione passiva, mentre il fondare è dinamico e
comporta uno sviluppo ed un susseguirsi di azioni e di comportamenti ideali ed
emozionali. È più che un dono, quello che ci fanno i poeti: ogni
vero poeta è “mediatore e veggente, più che testimone”, avverte in sé non solo
il “depositum fidei”, il deposito di ciò in cui crede, ma anche il
“depositum humanum” da trasmettere e mediare.
“Ciò che si è ereditato dai padri bisogna riguadagnarlo con
le proprie forze per possederlo davvero”, una riflessione dal Faust
di Goethe che Benedetto Croce[2] mette in evidenza. Il bene
affidatoci ha valore, se chi lo riceve lo usa veramente. È una affermazione
diretta a Faust che mette in discussione il valore della religione, della
scienza e della cultura.
Qual è lo strumento di cui Angela De Leo si serve per
affidare questo deposito?
Naturalmente la metamorfosi poetica di una realtà in
luminescenza. Tutto si trasforma in poesia nel suo avvicinamento emozionale
alle cose: “… scopro sempre e ancora tanta fiaba” - come nel
quadretto che segue: “Ed erano serate che si addormentavano sui nostri
passi tra il buio della strada e le stelle alte nel cielo. La stella più
luminosa era la mamma: bella, elegante, profumata. Io ero fiera di uscire con
lei, orgogliosa che fosse lei, la più bella di tutte, mia madre...”
Di quadretti del genere potrei citare a centinaia, ognuno
racchiuso in una sua specifica intuizione poetica. Per esempio questo: “Ma
i due anni passarono in fretta. Troppo in fretta.
D’inverno, con te, la nonna e Lizia.
Gelso e rose e ancora parole di ascolto.
D’estate, con il resto della famiglia. Mare e sabbia e una
corona di monti a cullare quel mare”.
Come si può notare, i brani di poesia non hanno carattere
estetizzante, ma si intrecciano come una melodia che riempie il silenzio.
Proprio per questo nasce il bisogno del controcanto. Tutto il
racconto è attraversato da voci che vengono da lontano, dal di fuori del suo
mondo e che lei capta come messaggio, richiamo o sirena non solo nella
molteplicità e varietà degli eserghi, della introduzione ai singoli racconti,
ma come segno e risonanza di gratitudine, di gioia, di sentimento della vita
compartecipante. Per esempio, nel raccontare la personalità della nonna
Angelina, il suo essere nell’ombra, sono riportati quasi come una melodia
funebre cantabili alcuni versi di “Nonna” di Julio Cortàzar:
“Dall’altra parte del mare
un giorno moriremo, ma prima viene il canto”.
Così pure, ed è ancora un esempio, la poesia “Chiedo
silenzio” di Pablo Neruda è ripresa in controcanto per dare senso al dolore di
una amara assenza.
“La ballata della madre”, quasi un madrigale, introduce a
questo sommesso e costante contro-cantare, che culmina in un sentimento intenso
per la perdita del nonno, controcanto affidato al “Blues in memoria” di W. H.
Auden, “La verità, vi prego, sull’amore”:
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio
canto; […]
E mentre la poetessa confessa di non voler più cantare, annota
come il canto che lei stessa ha intonato esorcizzi il dolore e la fatica di
vivere nell’ingiustizia e si affida al salmo 137 di Davide, alla sua versione
drammatica nel Nabucco di Verdi cantando dentro “Va’ pensiero” e alla poesia di
Salvatore Quasimodo “Le fronde dei salici”.
È chiarissima qui come altrove la orchestrazione di motivi
che toccano l’essenza della persona. Il risultato è un “alzarsi per risorgere/
nell’armonia di un ordine mistero”, come si esprime poeticamente Marie Luise
Kaschnitz. Nelle ore buie è bello avere questa consapevolezza, questa fede dei
cuori semplici e veggenti: di alzarsi per risorgere.
4. La narrazione, il linguaggio, lo stile
“Si è perso il tempo del racconto. E
dell’ascolto.”
La narrazione si sviluppa lungo i percorsi disegnati dal
fluttuare capriccioso dei ricordi d’infanzia. Toni alti si alternano a racconti
di cronaca. È una narrativa tra racconto e romanzo, tra racconto e
cronaca familiare e sociale. È vero che i romanzi sono seconde vite degli
autori, e tuttavia nel racconto di Angela De Leo è “la prima vita” che viene
alla luce. Ciò lo si deve a un narrare che non nasconde la realtà, ma la
ri-vela. Il contatto della poetessa con la realtà è diretto, palpabile,
catalizzatore di sentimenti, emozioni, modelli di vita e di futuro. Il
linguaggio è semplicemente uno strumento di mediazione. Al contrario per
Sartre, per esempio, il contatto con la realtà non è mai diretto. Nella sua
autobiografia letteraria Le Parole annota: “Per aver scoperto
il mondo attraverso il linguaggio, per molto tempo scambiai il linguaggio per
il mondo. Esistere era possedere una denominazione depositata, da qualche
parte, sopra le infinite tavole del Verbo”
In questa Storia di un uomo straordinario il
linguaggio non è idealizzato o stilizzato, né tantomeno divinizzato come
in Sartre. Ecco perché la poetessa privilegia il metodo della narrazione in
senso rigorosamente diacronico, badando a curare la semplicità e la chiarezza
nell’esposizione. Talora segue il linguaggio corrente, spesso ricalca le
giravolte dialettali con un periodare apparentemente casuale e trasandato,
“impastando una frase all’altra” come pezzi di plastilina. Questo “parlato” del
linguaggio fa sì che la narrazione si sviluppi vivace e icastica. Per esempio
come quando riflette sulla personalità di Nonno Domenico:
“Sì, ma eri solo tu a capirmi
profondamente,
come nessuno mai,
e ad addolcirmi il cuore”.
Nella composizione di bozzetti di vita quotidiana, sa
descrivere in brevi tratti il suo incontro con la gente:
“La mia gente,
in buona parte,
senza una luce nello sguardo
Poesia disseminata a ogni passo del racconto e dei
“resoconti”. È un dialogo con un TU, al quale si alternano e con il quale si
intrecciano moltissime voci e svariati Tu e Voi.
Talora il linguaggio si fa uno strumento pesante, di cui la
scrittrice si lamenta amaramente, come quando nota che la sua scrittura ha
perso freschezza e fantasia, si accartoccia su sé stessa, incastonando nelle
parole non il detto di un oracolo, ma un che di retrogusto amaro che non sa più
vincere. È la realtà che si annuncia dolorosamente e di cui la scrittrice porta
il peso. Una realtà che Angela De Leo non abbellisce.
A questo punto prendo molto sul serio la massima di Marco
Terenzio Varrone (116 a. C. - 27 a. C.), letterato, grammatico, militare e
agronomo romano:
“Ci sono interpreti, che versano tanta acqua nel vino da
rendere tutto di sapore insipido e scialbo”. E mi fermo qui invitando
il lettore a leggere con cura i testi originali…”
(Chiedo scusa all’amico Vito Di Chio, ma soprattutto al
Relatore, Saggista e Critico letterario, se ho dovuto eliminare le preziose
note a piè di pagina, e assemblare un po’ il tutto per non prendere molto
spazio e per facilitare la lettura ai cari lettori. Ma chi volesse approfondire
tali riflessioni come meritano potrà tra non molto leggere e approfondire il
saggio critico del prof. Vito Di Chio sulla mia intera opera in via di
pubblicazione).
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