lunedì 1 luglio 2019

1 luglio: tre presentazioni de "Le piogge e i ciliegi", II volume.


Incastonati nelle vicende dei singoli fatti, trasportati dalla rete delle relazioni e delle esperienze, i grandi temi del confronto con la cultura contemporanea arricchiscono il racconto, non solo come digressione esplicativa del modo di pensare della poetessa, ma come lascito prezioso nella ricerca di un orientamento di vita: l’amore, il dolore, la delusione, la libertà, il silenzio, il tempo, lo stupore, la scuola, la società, la realtà…
La cronaca familiare è spinta fino alla esaltazione dei minimi particolari, il cui scopo è fare luce nel labirinto delle relazioni, combattere l’usura del tempo e inglobare la banalità del quotidiano.
Anche in questa parte seconda del volume Le piogge e i ciliegi campeggia soprattutto la personalità del Nonno Domenico, un uomo di straordinaria bontà - una delle rarissime persone a cui poter attribuire, come confessa sommessamente l’Autrice del libro, quel difficile sostantivo “bontà” senza riserve e condizioni -. Un uomo pieno di vita, ricco di esperienze e di grande amore per il prossimo, una “compassione” che non faceva pesare, ma che racchiudeva nella leggerezza dello stile di vita e del tatto.
In ogni ripresa della scrittura di singole circostanze o di eventi dello spirito si avverte quel continuo, tenerissimo riferirsi di Angela al Tu del nonno. Una figura quasi “sacerdotale”, come l’Autrice lo descrive nella prima parte del volume: “Quando sono in crisi e mi sembra che il mondo intero mi frani addosso, ecco le tue mani salvifiche ad afferrarmi sempre, protettive, per portarmi su da un precipizio. Lungo una scala pericolante, sopra un’onda minacciosa del mare in tempesta”.
È propria della poesia la capacità magica di affidare la memoria del passato come patrimonio, meglio come realtà fondante dei valori e della vita. “… ma ciò che resta, ce lo affidano i poeti”.
È il verso conclusivo di una stupenda poesia del grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin[1], intitolata “Andenken”, in italiano “Rimembranza”: “Was bleibet aber, stiften die Dichter“, che io traduco così: “Ma ciò che resta, è un patrimonio che ci affidano i poeti”, non quindi soltanto un “dono” che essi ci fanno, da godere in qualche maniera, come suggeriscono le traduzioni italiane, ma qualcosa da investire, da mettere a frutto, qualcosa  di “fondante” (stiften) l’umano, da non perdere in questo grande circo della storia. La poesia come “lascito”, come “dono” potrebbe avere una connotazione passiva, mentre il fondare è dinamico e comporta uno sviluppo ed un susseguirsi di azioni e di comportamenti ideali ed emozionali. È più che un dono, quello che ci fanno i poeti:  ogni vero poeta è “mediatore e veggente, più che testimone”, avverte in sé non solo il “depositum fidei”, il deposito di ciò in cui crede,  ma anche il “depositum humanum” da trasmettere e mediare.
“Ciò che si è ereditato dai padri bisogna riguadagnarlo con le proprie forze per possederlo davvero”,  una riflessione dal Faust di Goethe che Benedetto Croce[2] mette in evidenza. Il bene affidatoci ha valore, se chi lo riceve lo usa veramente. È una affermazione diretta a Faust che mette in discussione il valore della religione, della scienza e della cultura.
Qual è lo strumento di cui Angela De Leo si serve per affidare questo deposito?
Naturalmente la metamorfosi poetica di una realtà in luminescenza. Tutto si trasforma in poesia nel suo avvicinamento emozionale alle cose: “… scopro sempre e ancora tanta fiaba” - come nel quadretto che segue: “Ed erano serate che si addormentavano sui nostri passi tra il buio della strada e le stelle alte nel cielo. La stella più luminosa era la mamma: bella, elegante, profumata. Io ero fiera di uscire con lei, orgogliosa che fosse lei, la più bella di tutte, mia madre...”
Di quadretti del genere potrei citare a centinaia, ognuno racchiuso in una sua specifica intuizione poetica. Per esempio questo: “Ma i due anni passarono in fretta. Troppo in fretta.
D’inverno, con te, la nonna e Lizia.
Gelso e rose e ancora parole di ascolto.
D’estate, con il resto della famiglia. Mare e sabbia e una corona di monti a cullare quel mare”.
Come si può notare, i brani di poesia non hanno carattere estetizzante, ma si intrecciano come una melodia che riempie il silenzio. Proprio per questo nasce il bisogno del controcanto. Tutto il racconto è attraversato da voci che vengono da lontano, dal di fuori del suo mondo e che lei capta come messaggio, richiamo o sirena non solo nella molteplicità e varietà degli eserghi, della introduzione ai singoli racconti, ma come segno e risonanza di gratitudine, di gioia, di sentimento della vita compartecipante. Per esempio, nel raccontare la personalità della nonna Angelina, il suo essere nell’ombra, sono riportati quasi come una melodia funebre cantabili alcuni versi di “Nonna” di Julio Cortàzar:
“Dall’altra parte del mare
un giorno moriremo, ma prima viene il canto”.
Così pure, ed è ancora un esempio, la poesia “Chiedo silenzio” di Pablo Neruda è ripresa in controcanto per dare senso al dolore di una amara assenza.
“La ballata della madre”, quasi un madrigale, introduce a questo sommesso e costante contro-cantare, che culmina in un sentimento intenso per la perdita del nonno, controcanto affidato al “Blues in memoria” di W. H. Auden, “La verità, vi prego, sull’amore”:
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto; […]
E mentre la poetessa confessa di non voler più cantare, annota come il canto che lei stessa ha intonato esorcizzi il dolore e la fatica di vivere nell’ingiustizia e si affida al salmo 137 di Davide, alla sua versione drammatica nel Nabucco di Verdi cantando dentro “Va’ pensiero” e alla poesia di Salvatore Quasimodo “Le fronde dei salici”.
È chiarissima qui come altrove la orchestrazione di motivi che toccano l’essenza della persona. Il risultato è un “alzarsi per risorgere/ nell’armonia di un ordine mistero”, come si esprime poeticamente Marie Luise Kaschnitz. Nelle ore buie è bello avere questa consapevolezza, questa fede dei cuori semplici e veggenti: di alzarsi per risorgere.
4. La narrazione, il linguaggio, lo stile
“Si è perso il tempo del racconto. E dell’ascolto.”  
La narrazione si sviluppa lungo i percorsi disegnati dal fluttuare capriccioso dei ricordi d’infanzia. Toni alti si alternano a racconti di cronaca.  È una narrativa tra racconto e romanzo, tra racconto e cronaca familiare e sociale. È vero che i romanzi sono seconde vite degli autori, e tuttavia nel racconto di Angela De Leo è “la prima vita” che viene alla luce. Ciò lo si deve a un narrare che non nasconde la realtà, ma la ri-vela. Il contatto della poetessa con la realtà è diretto, palpabile, catalizzatore di sentimenti, emozioni, modelli di vita e di futuro. Il linguaggio è semplicemente uno strumento di mediazione. Al contrario per Sartre, per esempio, il contatto con la realtà non è mai diretto. Nella sua autobiografia letteraria Le Parole annota: “Per aver scoperto il mondo attraverso il linguaggio, per molto tempo scambiai il linguaggio per il mondo. Esistere era possedere una denominazione depositata, da qualche parte, sopra le infinite tavole del Verbo”
In questa Storia di un uomo straordinario il linguaggio non è idealizzato o stilizzato, né tantomeno divinizzato come in Sartre. Ecco perché la poetessa privilegia il metodo della narrazione in senso rigorosamente diacronico, badando a curare la semplicità e la chiarezza nell’esposizione. Talora segue il linguaggio corrente, spesso ricalca le giravolte dialettali con un periodare apparentemente casuale e trasandato, “impastando una frase all’altra” come pezzi di plastilina. Questo “parlato” del linguaggio fa sì che la narrazione si sviluppi vivace e icastica. Per esempio come quando riflette sulla personalità di Nonno Domenico:
“Sì, ma eri solo tu a capirmi
profondamente,
come nessuno mai,
e ad addolcirmi il cuore”.
Nella composizione di bozzetti di vita quotidiana, sa descrivere in brevi tratti il suo incontro con la gente:
“La mia gente,
in buona parte,
senza una luce nello sguardo
a illuminarsi di cielo”[3]
Poesia disseminata a ogni passo del racconto e dei “resoconti”. È un dialogo con un TU, al quale si alternano e con il quale si intrecciano moltissime voci e svariati Tu e Voi.
Talora il linguaggio si fa uno strumento pesante, di cui la scrittrice si lamenta amaramente, come quando nota che la sua scrittura ha perso freschezza e fantasia, si accartoccia su sé stessa, incastonando nelle parole non il detto di un oracolo, ma un che di retrogusto amaro che non sa più vincere. È la realtà che si annuncia dolorosamente e di cui la scrittrice porta il peso. Una realtà che Angela De Leo non abbellisce.
A questo punto prendo molto sul serio la massima di Marco Terenzio Varrone (116 a. C. - 27 a. C.), letterato, grammatico, militare e agronomo romano:
“Ci sono interpreti, che versano tanta acqua nel vino da rendere tutto di sapore insipido e scialbo”. E mi fermo qui invitando il lettore a leggere con cura i testi originali…”

(Chiedo scusa all’amico Vito Di Chio, ma soprattutto al Relatore, Saggista e Critico letterario, se ho dovuto eliminare le preziose note a piè di pagina, e assemblare un po’ il tutto per non prendere molto spazio e per facilitare la lettura ai cari lettori. Ma chi volesse approfondire tali riflessioni come meritano potrà tra non molto leggere e approfondire il saggio critico del prof. Vito Di Chio sulla mia intera opera in via di pubblicazione).


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