venerdì 30 marzo 2018

Venerdì di dolore

Venerdì santo: la Vergine addolorata piange il figlio torturato e selvaggiamente ucciso. Uno strazio che di anno in anno si rinnova nella Commemorazione di quelle tristi ore sul Gogota. Quanti Golgota ancora oggi lacerano corpi di figli e cuori di madri? E un pensiero si ferma inorridito su tutta la violenza di cui la mente umana è capace per seminare distruzione e morte in quest’“atomo opaco del male”. Stretta al cuore e urgenza di chiedere perdono a tutti i figli, con pena di madre a comprendere tutte le madri, in una sorta di doppia catena di umana pietà a consolarci dei mali del mondo…

                          Al figlio

Luce che d’improvviso si accese
e di attesa e timore colmò ogni fibra
del mio corpo ogni anelito dell’anima
mio primo giorno di rose e di spine.
Germogliasti in me fuoco che incendia
e riscalda e uccide e salva
e innalza lingue vibranti al cielo
che ci volle in due (noi due)
tra miliardi di uomini e di storie diverse
da vivere e sempre nuove
nello stupore della creazione
nella paura del male che riceverai
     (ignorati braccia e cuore)
T’inebrierai del canto dell’allodola
e a capo chino subirai vinto e deluso
il disincanto
Ti sazierai dell’ovvio e del banale
di giorni uguali e prigionieri
di un passato che non può morire
e avrai domani in agguato che non sai
senza più il filo d’aquilone che ti legai
al dito e agli occhi grandi di sole
Tra azzurri da forare e abissi da paventare
la solitudine che ogni madre regala al figlio
e vorrebbe per lui ponti d’oro
e un richiamo d’amore senza fine
Perdonami figlio per il danno e la resa
ad una terra che sentirai nemica
per un ascolto non avvenuto un incontro
mancato una imprevista ferita
d’armi da fuoco o di parole coltelli
da chi ti giurò d’esserti fratello
e sorridimi per l’avventura che ti dono
senza altre uguali di meraviglie e di sogni
di passioni e di poesia
E saremo in due sempre contro i mali
degli uomini tra cui precipitasti
in una crocifissione senza fine
perché ti volli a mio danno
                   a mio principio di vita
Gomitolo di tenerezza sempre nuova
e di dolore antico come il pianto
che di madre in figlio si dipana
in un dischiudersi d’ali a portarti lontano…
(a salvarti dal mondo a salvarmi dallo schianto)                            

martedì 27 marzo 2018

Canto antico di rinnovata Speranza


Con la settimana santa il ricordo va alle atmosfere pasquali di tanto tempo fa. E allora ecco un altro stralcio del mio libro Le piogge e i ciliegi.

Ma era la Pasqua vissuta nella nostra casa che ricordo con grande nostalgia. E ancora prima della Pasqua la Settimana Santa.
Ho ricordi vividissimi della Settimana Santa e dei suoi riti perché ero già più grandicella e perché rendono presente ai miei giorni la fede certa, tua e della nonna. La vostra fede di straordinaria umanità. Fede generosa e pura.
Ricordo dolcissimo che si ripropone in un dialogo mai interrotto tra me e te sul nostro paese, le case, le cose, il colore, il profumo, il sogno, le credenze, che caratterizzavano la nostra terra di quegli anni: quasi un canto antico, recupero di parole, di modi di dire, di voci mai spente.
La voce della nonna che ci esortava ad andare in chiesa per la messa delle sette per il primo venerdì del mese, con indulgenze plenarie comprese.
Dobbiamo andare alla messa delle sette che è la prima messa il primo pensiero deve essere rivolto a gesù cristo…”
“Ma è mai possibile che pure quando è festa a scuola ci devi costringere ad alzarci presto?”
Ecco è sempre che lei deve parlare altrimenti non è contenta ho detto alle sette e alle sette dobbiamo essere in chiesa per guadagnarci il paradiso”….
Poi si doveva andare in chiesa per la via crucis, per i “sepolcri” e per tutti gli altri riti della santa Pasqua, attesa non soltanto per sfoggiare l'abito nuovo inno alla primavera
(trionfo di gonna a campana di panno-lenci azzurro come la lacca del cielo d’aprile e di gonna plissettata di un verde prato da far impallidire le siepi del nostro giardino e camicette bianche come leggere nuvole di orli ricamati),
ma anche per rivivere quel mistero di morte e di resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del cuore, come esigenza di rinnovato perdono. Per i veri cristiani la Pasqua era davvero una rinascita d’amore. Un atto di umiltà nella certezza del perdono.
Squarcio di festosa serenità era la Domenica delle Palme con gli ulivi benedetti e il bacio affettuoso di autentica rappacificazione.
Tu portavi in chiesa, sempre alla messa delle sette, un gran fascio di rami d'ulivo per farli benedire e per poi distribuirli a parenti, amici, conoscenti, vicinato
(la pace sia con voi… e con il tuo spirito!, ad ogni scambio di bacio con rametto di ulivo benedetto…).
Nell'aria c'era il profumo di peschi, mandorli e ciliegi in fiore in netto contrasto con l'intenso odore d'incenso che respiravo nelle chiese: fuori, esplosione di sole e di vita a mettermi una pazza allegria nelle vene; in chiesa, la penombra silenziosa e incombente di un Dio punitore che piegava in ginocchio i miei pensieri di libertà.
E fiati di donne e uomini che il digiuno rendeva pesanti.
Per quel perdono barattavo la mia libertà con una settimana santa densa di genuflessioni e giaculatorie e rosari.
Ma era sempre nonna Angelina a sollecitare i miei pentimenti.
La settimana santa era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva, quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino, suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una chiesa gremita e penitente
(adoramus te christe et benedicimus tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…)
mi ero riconciliata anche col latino lingua di dio…
Tu e la nonna seguivate con profondo trasporto tutte quelle riflessioni e preghiere, che si dilatavano tra le navate in una sorta di cantilena ipnotizzante. Alla fine anche i fedeli più fedeli erano stremati tanto che alle Litaniae Sanctorum la folla, dopo un po’, cominciava a rispondere non più “ora pro nobis”, ma “nobìs” e, infine, “bìs”, pur non avendo alcuna intenzione di bissare…
(kyrie eleison… kyrie eleison… christe eleison… audinos… exaudinos… sancta maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix… ora pro nobis… sancta virgo virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs… sancte paule… nobìs… … sancte andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte vincenti… bìs… …)
Io mi annoiavo. Mi chiedevo che efficacia potessero avere quelle preghiere smozzicate di cui nessuno capiva un’acca. Vagavo con i pensieri, andavo lontano, fantasticavo, mi consolavo. Qualche volta mi distraevo sui volti dei vicini di banco. Cercavo d’indovinarne pensieri e colpe per capire il motivo di tanta sfibrante espiazione.
Durante la mattina del giovedì santo, poi, le strade del paese erano percorse dalla processione del “Misteri” con tutte le statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù durante la via crucis. L’accompagnava la banda con nenie funebri dolcissime, che creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la passione di Cristo si compisse. Il rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al crepuscolo dello stesso giorno ed era un rito che mi piaceva molto: si andava in giro per le strade in un percorso che comprendeva almeno sette chiese da visitare in misteriosa e mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era il sepolcro con vasi colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di germe di grano, illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato, le cui fiammelle rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi d’ombre guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’. Il tempo di guardarmi intorno intimidita e incuriosita. (…)  
Dal venerdì, invece, si entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola che coprivano tutte le nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti gli specchi (in cui di sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna Angelina, derivatale da secoli di medioevo) nelle nostre case.
La mia vanità subiva un feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio maggiore era non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio. (…)
Ma mi consolavano di tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della mattina e quella del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo silenzio delle campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a intervalli da “rə tərròzzuə
(quei particolari arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare nell’aria con il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico suono cupo e greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili)
fino allo scampanio a distesa della mezzanotte del sabato santo.
Le due processioni erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede.
L’Addolorata era bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e intriso di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo scultore, ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo ringraziava per tanta bellezza con le parole:
“‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?
(“in Cielo mi hai vista ché in terra mi hai scolpita?”).
Eri stato proprio tu a raccontarmi questa delicata leggenda la prima volta, lasciandomi incredula e incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno la bellezza di quel volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La Desolata”.
Mi piace anche rivivere con te il racconto tenerissimo, che non conoscevo e che non so se faccia parte della tradizione popolare o della tua fertile fantasia: sta di fatto che  raccontavi come, nella tristissima notte “du Scəvədìa Sandə”, il peregrinare della Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del figlio, avesse momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in quanto, uscendo dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il corpo di un giovane: quello di Giuda, il traditore di suo figlio, e con delicatezza gli si avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano...
Quale perdono più grande, dunque: quello di un Dio immenso, che lascia crocifiggere suo figlio, fattosi uomo per redimere l’umanità, o quello di una madre del tutto “umana”, trafitta da tutto il dolore del mondo, che pure bacia con gesto delicato la mano di colui che proprio con un bacio aveva tradito Suo Figlio?
Lei, minuscola donna come tante, con un cuore immenso più dell’immenso Suo Dio...
(eri bella come rooosa…). (…)
 A mezzanotte, infine, c’era la processione “du Venerdìa Sàndə chə la nàchə d’òrə də Crìstə mùrtə
(“del Venerdì Santo con culla dorata di Gesù morto”),
“də l’Addóloràtə” (“della Vergine in pianto”) nella vana ricerca del figlio,
e “du Légnə Sàndə” (“del Legno Santo”), tutto luci e fiori.
La piazza alberata, antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era illuminata solo dai falò nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal pomeriggio portavano da casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a quella triste rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con camicia, guanti bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza perché le tre statue non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel quadrilatero. Dopo ogni simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava musiche dolcissime e tristissime come lo Stabat Mater, canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del nostro Tommaso Traetta, e altre sinfonie. (…)
                       Lacrime commozione preghiere incanto tradizione    
                                             Poi la festosa Pasqua
Le campane a gloria della mezzanotte e le mille chiese del nostro paese a salutare “la Rəsòscətə”, (la Resurrezione di Cristo), e la nostra gioia per l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini. Noi c'inginocchiavamo per ringraziarLo. La nonna batteva i pugni sul tavolo per scacciare il diavolo e fare entrare Cristo risorto. E ci baciavamo tutti in segno di rinnovato amore. Con tenera riconoscenza. A pranzo, tu benedicevi l'abbondante tavolata e “u bənədìttə” (il benedetto) col ramo d'ulivo e l'acqua santa, che prendevamo dalla pila della chiesa e portavamo a casa in una bottiglietta
(e mai il timore di un'infezione a sfiorarci e mai una malattia a colpirci per la nostra incoscienza, ben sapendo di tutte le mani, più sporche che pulite, a calarsi quotidianamente in quella pila per il segno della croce in ingresso e in uscita dalla chiesa!).
Il benedetto era (e forse è) la specialità del pranzo pasquale nel nostro paese: uova sode tagliate a metà, arance con la buccia tagliate a fette (piccoli soli ad illuminare il giorno del perdono), ricotta dura e salata, salumi vari. E il ragù e l'agnello e la frutta secca e quella di stagione, e i dolci di Pasqua e il rosolio. E la lettera sotto il piatto come a Natale e tanta tanta ingenuità tra le mani negli sguardi nel cuore. Ci sentivamo davvero più buoni. Riconciliati con il mondo intero e con la vita
(e… buona pasqua a pasqualino/ buona pasqua a nicolino/ buona pasqua anche a torino/ ah sì bè/ buona pasqua pure a te!/… vedi poi che in fondo in fondo/ fa la pace tutto il mondo/ fa i capricci/ fa i pasticci/ ma alla fine devi dir…
ah sì bè/ buona pasqua pure a me!
Carosone dalla radio cantava anche per noi…)
Il giorno dopo era ancora un giorno di festa, condito di verde spensieratezza. Si andava in campagna per vivere “u pascəcónə” (la Pasquetta) con parenti e amici e lunghe tavolate con altri cibi tradizionali, l’immancabile “vərdéttə
(non credo sia traducibile in italiano, ma era una sorta di pastina in ragù d’agnello allungato in brodo con dentro carne sfilacciata e uova rapprese e piselli…)
e altro buon vino e chiacchiere e risate.
Tu raccontavi...

domenica 25 marzo 2018

L’insopprimibile urgenza di Poesia


E dopo Cris Chiapperini, l’Amico senza aggettivi perché li contiene tutti, ecco un altro Poeta senza uguali:

GIORGIO BARBERI SQUAROTTI, grande critico letterario piemontese, autore di Letterature e Antologie della Lingua Italiana tra le più quotate e studiate nei Licei e nelle Università. Saggista rivoluzionario e coraggioso, è anche straordinario poeta. Compianto e rimpianto Maestro, a cui generazioni di docenti e studenti devono molto, e soprattutto mio meraviglioso Amico. Vivo nel cuore.

Mnemòsine

Les neiges d’antan? No, quella viva, ardente
nel tuo fulgore che la primavera
scopre, e quest’anno non ha ancora visto
nube né stormi ostili; e nuda ti offri
alla parola che è (sappiamo) uguale,
a quel punto, alla vita, perché i nomi
si sciolgono col giungere del primo
favonio, e tu rimani sulla pagina,
appena un poco sorridendo apri
sul volto la cortina dei capelli,
sollevando le tue mammelle, giri
lentamente il tuo fianco, poi inizi
a narrare la notte nel bosco…,
o la lotta nell’alba col demonio
che ti aveva donato anelli e pomi
d’oro: - Dammi una ciotola di latte,
disse con voce allegra, e segna tutto
sul conto della segretaria, quella
che, se non sbaglio, ha il nome di Mnemòsine.
Avellino, 27 aprile 2011
Nel tuo sogno vero
                  (per Giorgio Bàrberi Squarotti)
Non è concesso ai lunghi calendari
la pausa breve del fulmine che cancella il cielo,
della lama improvvisa e annunciata
a portare la triste novella
che lacera di sgomento la perdita e il silenzio.
Non è concesso l’attimo di sospensione
che indugia sulle voci del passato
e rifiuta il brulicare della vita
che occuperà di segni ogni domani.
Alita dolore, dolore soltanto.
E i tuoi libri, le tue lettere, i tuoi incanti?
Li hai lasciati in eredità alle amate strade
delle tue langhe solitarie in bicchieri
di barbera a celebrarne il canto?
O a chi le percorrerà ignaro e senza storia?
Li hai portati con te dove è più chiaro
il senso il tempo la memoria?
Anche davanti all’Eterno hai minimizzato
il tuo lento incedere di pianto?
O solo a Lui, così grande nella tua anima
da non volerne pronunciare il nome,
hai affidato ogni (in)certezza ogni rimpianto?
Ricuciti ora col filo smeraldino
della tua mai spenta Speranza
sono ricami di stelle
nel buio di giorni senza sogni.
I Grandi come te irradiano Luce
e rimangono eterni nel cuore
della mai perduta Parola.
Sono richiami arditi a continuare
nella culla del verso che mai muore
e che nel sogno vero ad ogni alba
rinasce… e si fa Poesia.
                           
Mariella Bettarini, splendida amica mia di anni e di penna. Fiorentina. Raffinata e sensibilissima poetessa, che ha improntato di sé almeno cinquant’anni della nostra storia poetico-letteraria fino ai nostri giorni. Scrittrice, saggista, traduttrice. Per anni, con Gabriella Maleti, ha diretto (e instancabilmente continua a dirigere) la Casa Editrice Gazebo e la rivista culturale <L’area di Broca>.
*
disperante (sperata)
                                 sperando
(disperata) m’assediano
camini di legno
                                          giobbole
e la sembianza della solitudine
salita in fumo
ritrarsi
(auto-ritrarsi)
                     autoritratto
o auctoritas
la scrittura
scrivente dell’amore
                                    la
scrittura
scrivente del suo sé
(da Vegetali figure, 1983)

Scrivente del suo sé
                    (a Mariella Bettarini)
Avremo mai il tempo
che ci è mancato
e che abbiamo strappato dalla carne
in notti insonni di solitudini
a sfamare quei balestrucci
che ci pigolano dentro
ed hanno ruggito di leone
e graffio di pantera?
Avremo una lettera da cercare,
una sillaba che rimane impigliata
imbrigliata tra i capelli e sotto le unghie,
e districarla col pettine a mille denti
per farne parola di ostia e di grano,
di chicchi d’uva e di mosto e miele?
Di piuma in volo
da afferrare con le mani e riporla
sotto i cuscini dell’infanzia,
col fiocchetto rosa e il blu dell’errore
che si fa cielo e mare e orizzonte?
(uccello del paradiso che dentro fremita
in cerca degli invisibili fili di spine e di seta
che di luce e di ombra lievitarono
dalla intricata matassa che nessuno
seppe dipanare per scrivere: io sono)

Gabriella Maleti, fotografa, poetessa, scrittrice, che ha lasciato una immensa eredità d’affetti e un vuoto di parole che nessuna scrittura può colmare. Io, Gabriella e Mariella avevamo la stessa età, geografie e storie diverse, stili e contenuti più o meno diversi, ma quanto uguale il nostro amore per la vita, la bellezza, l’Arte della parola, spesso intrisa di silenzio.

Niente è più vago e
più certo di una qualsiasi
forma incerta di suono che
- simile al giorno come è differente ogni giorno -
rompe differita il silenzio
così da fermarsi sul proprio suono
e diventare silenzio.

Allo stesso modo
ogni silenzio è interrotto dalla parola
per ridiventare
silenzio.
(parola e silenzio, Gazebo, Firenze 2004)

Silenzio che assorda
                          (per te, Gabriella)
il giorno che sfila l’ultima nuvola al cielo
per farne un colibrì di colori
sul campo di un foglio fiorito
di quasi primavera
a te negata.
Senza rumore una neve tardiva
copre un silenzio di giardini
dove la coperta perduta negli anni
aveva antichi ricami di brina
che domani si scioglierà di sole
- sogni di nonna Speranza dimenticati -
Senza rumore fu il tuo andare via
da me ignorato
e non ci furono parole di consolazione
solo un canto di strano addio
su parole vere e mai più ascoltate
in quella tua Firenze che mi accolse
con le campane di Santa Croce
sui miei tetti di capinera a racchiudere
il suono lento delle voci da scrivere
(prima che ci vinca della parola il silenzio)
E sopraffatta dall’emozione, almeno per questa notte, mi fermo qui…

venerdì 23 marzo 2018

UN GIORNO LUNGO DI POESIA


L’INSOPPRIMIBILE URGENZA DI POESIA
Appendice al 21 marzo: primo giorno di primavera, ma anche Giornata Mondiale della Poesia. Mi piace ancora parlare di Poesia con un omaggio ad alcuni amici poeti, a partire da Chi è vissuto di Poesia con Poesia:
                                        
CRIS CHIAPPERINI

È morta la notte
con la voglia di giglio azzurro
Uno stilo di ghiaccio bruno
s’è rotto in cinque punte.
È morta sulle tre del mattino
e non suona ancora una campana

Si sono sfatte le ore son colate dalla torre
Ogni gallo di latta sull’asta s’è arrugginito
Un groviglio di fili s’è impastato
e non gira ancora un solo vento
Due polle d’olio liscio
gli occhi affatturati

Insonne pazzo
malato di poesia
- la tua libertà furibonda
com’è relativa -
non resisti a una notte di assenze
se non trema almeno un frullo d’ali

Aiuto perDio
Aiuto
che muoio d’asfissia

                                           Cris/O

In risposta a Cris, Maestro di Vita e di Poesia:

La parola perduta

Tra carte
che mi chiamano con insistenza
m’attardo
a rincorrere il tempo
per inanellare parole e farle ridere
A gettarmele alle spalle in fretta
mi affanno
In fretta in fretta
avanti un’altra e un’altra ancora
-         Ho paura che il tempo si fermi
che non mi lasci tempo -
Ancora ancora ancora…
Binari lungo campi di ginestre
e mandorli fioriti a fendere giorni
di carta e inchiostro e meraviglia
fino all’orizzonte che si sfinisce
agli occhi bambini spalancati
di prodigi
Come su rotaie corse di treni
E tu guardi dal finestrino l’ansia
di un addio
-         Tempo scaduto tempo d’andare
ma ci sono ancora parole da dire
           parole da ascoltare riannodare
           Parole da ricordare per ricordare
           per farsi ricordare forse - si spera
           si ha l’ardire e un cauto invito
           da riporre nel cestino delle attese -
Avevo in mente un verso ed è volato via
Forse la fine o l’inizio di un romanzo
Era con le ali la parola perduta
-         Tra le mani mille altre parole non mie -
Non l’ho afferrata la mia
Col rimorso di non averla ascoltata raccolta
coccolata (dono prezioso più di mille denari)
e come cosa inutile
                 l’ho lasciata andare
Come quel treno a vapore
che solo una volta passò una volta sola

(e del sogno sciupato mi lasciò il sapore…)

mercoledì 21 marzo 2018

21 marzo: sorriso di primavera



Anna Paola, la mia bella ed esuberante nipotina, festeggia con gli amici le sue diciannove primavere. Mi emozionano le loro voci d’allegria che volano fino alla mia mansarda, mescolandosi alla malinconia della pioggia che questa notte mi sta rubando le stelle. Non mi sembra giusto per il 21 marzo che già è pronto a fiorire. I ragazzi hanno portato nella nostra casa la primavera, mentre fuori lacrima un inverno che non vuol andar via. E, come sempre, quando avverto commozione nell’aria, scrivo. Per Anna Paola, per i suoi amici, per la giovinezza che esplode di gemme appena schiuse. Per la primavera che mi batte nel cuore…

Per Anna Paola,
(fiorita al mio cuore con la primavera)

Un nuovo refolo di vento dispettoso
si aggira tra i rami ingemmati del giardino,
e una pioggia sottile mormora una cantilena
che da bambina cantavo di buona lena.
M’invento così una primavera ragazzina
che vibra tra nuvole di bianchi ciliegi,
e gioca con i peschi rosa delle tue gote
al primo canto del giorno e della vita.
Mia gioia infinita, insegnami a contare
tutto quello che conta per vincere e osare.
Ti attese una nonna sognatrice che scrisse
d’amore e di follie sui muri e sulle foglie
e meraviglie e incanti ti predisse,
ma non seppe mai di numeri oltre il dieci
e per i tuoi diciannove anni come fare?
Mi mancano nove dita per contare…
Mi prendi in giro e opponi la scienza esatta
alle mie parole che scrivo da sempre
e per sempre con aria distratta.
Ti ridono gli occhi, quando le leggi,
e ti sorride il cuore, ma non me lo dici.
E ridiamo insieme dell’audacia delle rose
nel fiero verde di ranuncoli e tulipani
e di narcisi superbi e timide margherite
che pastellano di mille colori prati e cose.
Tutto ride d’incanto in una capriola
di giorni rovesciati perché in un intreccio
di petali stillanti tu cresca di splendore
e io dolcemente ridiventi bambina
a riscoprire nella tua gioia nuove aurore.
Il nostro andare in due “pelle e cuore”
è un canto di velieri a sfidare il mare…
In abbracci notturni inseguiamo sogni
e una tenera complicità di buio lunare
ci sorprende sotto il lucernario sul cuscino.
Poi per intrappolare le stelle silenziose,
e accendere di luce i tuoi pigri mattini  
m’invento ogni notte un magico retino
per le assonnate albe come gatti nei cestini…

(e la pioggia ora ha profumo di gelsomini)

                                (per le tue 19 primavere da nonna Lina)

sabato 17 marzo 2018

Quando a marzo il vento


Anche la poesia va vissuta e cambia pelle e cuore a seconda degli anni e delle stagioni. E nel tempo rende universale ogni palpito condiviso perché in essa ognuno può scoprirsi e ritrovarsi... Poesia, compiutezza di sé nella disarmonia/armonia del proprio cuore più profondo, e bellezza che si sprigiona da un’emozione e si fa canto d’infinito… incontro di anime. Buona emozione!

Giorni di pioggia nella mia casa
a cui mi arrendo fragile e insicura
perché il tempo non abbia di me ragione
e m’inchiodi alla sedia degli affanni.
Troppo lungo questo greve inverno
che ha messo radici nella carne
e geme e piange e urla la sua sorte
e non vuol morire con un ricordo di neve.
Ma d’improvviso il glicine è fiorito
e la rosa pure e la margherita da sfogliare,
il narciso, i tulipani, i nontiscordardimé.
Colorano di festoso arcobaleno
il grigio senza sorriso delle nuvole.
Il sole è uno squarcio dorato nell’azzurro
un cielo nuovo, un rinnovato incanto
di tersi mattini promette.
Sul terrazzo ancora spoglio esco
e offro il volto offeso dagli anni
alle carezze del vento innamorato…
(già è respiro di giovinezza dentro).


Una rosa nel vento

Turbine di vento nel giardino.
Una rosa rossa sfoglia il suo profumo.
Mi piovono tra mani deserte petali
di porpora e velluto e un sogno
a riportarmi primavera tra i pensieri
solo fino a ieri incatenati a cupi
giorni d’inverno vissuti dietro i vetri.
E nelle stanze vuote di sorriso.
Rosa sfilacciata prima di scoprire
l’incanto d’essere viva e bella.
Resta il sogno che non muore
tra velluto di tenero splendore
che custodisco tra dita innamorate.


… al vento dei ricordi

Bimba del mio tempo breve
ridammi
il tuo filo d'aquiloni al vento
dove legare risposte mai ricevute
ai perché del mare e del firmamento
e un ditale d’argento e d’oro fino
per ogni ago che mi ferì nell’andare.
Cantami una ninnananna
stammi vicino.
Il vento dei ricordi che mi culla
fa’ che mi salvi dal tempo e dal dolore
che serena mi faccia addormentare
tra stanche foglie
del mio quieto giardino
dove è più facile riprendere a sognare
Raccontami
della fiaba che non muore
dei verdi passi perduti nel cammino
della sera che di lucciole esplode
nel mio cuore di papaveri e gelsomini.

(di stelle s'illuminava il tuo prato cuscino)