L’intuizione, comunque, è quasi
sempre o sempre il punto di partenza, a cui seguono (per quasi tutti) lunghe ore
o intere giornate di intenso labor limae
(Ars poetica, Orazio) per rivedere,
riorganizzare, dare forma e completamento a quel “lampo intuitivo originario”,
senza il quale probabilmente non ci sarebbe stato un prodotto nato da un
processo creativo, sia esso opera d’arte o meno.
L’immaginazione creativa, allora,
“agisce soprattutto sul piano mentale dell’inconscio (…) Sembra un discorso
piuttosto vago e misterioso…” (Sinnot). E, in effetti, lo è, anche se è
piuttosto raro rispetto alla elaborazione delle idee che avviene a livello
conscio, magari partendo da un improvviso suggerimento inconscio.
Quest’ultimo, allo stato puro, è il
“contrassegno del genio”.
In tutti gli altri casi,
l’immaginazione creativa nella sua forma più semplice è caratteristica
squisitamente umana. Anzi, è indispensabile persino alla ragione in quanto
quasi tutti i processi mentali si poggiano, oltre che sui fatti o fenomeni, su
deduzioni concrete, su supposizioni che sono “costrutti dell’immaginazione”.
Non a caso, il processo immaginativo nacque quando qualcuno afferrò per la
prima volta il concetto del “se” (il dubbio che si trasforma in ipotesi di una
alternativa). Ci si addentra così nel campo speculativo che molti scienziati
non esitano oggi a definire quasi metafisico in contrapposizione ai numerosi
colleghi che negano tale possibilità. Sta di fatto che oggi è scientificamente
dimostrato che la mente umana non risiede nel cervello né è un suo prodotto, ma
vive di vita propria. Che sia una prova inconfutabile che essa continui a
vivere dopo la morte sotto forma di energia, come in molti ormai credono? Di certo
è che, se ci fermassimo alla pura biologia, non riusciremmo a spiegarci né il
processo logico delle idee né tantomeno quello creativo. La creatività,
pertanto, la possiamo scoprire dappertutto e in ogni cosa: in ogni mutamento
naturale (animali, piante, fenomeni atmosferici e morfologici…), in ogni cambiamento
voluto dall’uomo. E ogni cosa che cambia, pur apparendo uguale a migliaia di
altre cose che sono cambiate, è in realtà diversa come se vivessimo tutti in
un’unica organizzazione che ci fa appartenere al Tutto, pur conservando una
nostra individualità e fisionomia. È questo il prodigio della creatività che
genera bellezza e armonia. Una sorta di completezza e di pacificazione. Non
così accade per il conformismo, che viene dettato dalle regole che creano
angusti e ovattati limiti, a cui ci arrendiamo quasi senza accorgercene. Ecco
perché il conformismo è frutto del timore del nuovo e del diverso, del vuoto
che ci destabilizza creando dubbi e incertezze, bisogno di stabilità. Di qui la
nostra “fuga dalla libertà” (Erich Fromm), il nostro rifugiarci dentro gli
argini sicuri del Potere, affidandoci a chi pensa e decide per tutti, per non
sentire il peso delle scelte che comportano la nostra responsabilità sulle
eventuali conseguenze negative. Il conformismo non prevede scelte responsabili.
Oriana Fallaci, riferendosi a coloro che eseguivano ciecamente gli ordini, li
definiva: “gregge di lana”. Diverso è “l’adattamento reattivo”, di cui parla
Jean Piaget, per ritrovare l’equilibrio perduto in un ambiente del tutto nuovo
oppure ostile. Esso fa parte della nostra crescita e maturazione, che prevedono
periodici squilibri che dobbiamo superare con i processi di “assimilazione” e
di “accomodamento” per raggiungere un nuovo equilibrio, dovuto ad un nuovo
“adattamento”. L’adattamento reattivo
presuppone, comunque, già un minimo di processo creativo.
La creatività, infatti, non ama il
“deja vu” o i modelli. Sollecita a “non copiare mai”, ad innovare, a
trasformare, a ricreare il già dato, il già espresso, quanto già costruito e
definito. La creatività è infinita e va oltre i limiti posti della natura, da
ciò che è. Perché è il “non è” che può “diventare” ed andare oltre. È l’oltre e
l’altrove. Per questo sfiora il divino. Ed è bello pensarlo. Non ricordo chi
abbia detto: “nasciamo dèi, i limiti ci rendono uomini”. Ma è bello pensarlo.
La creatività rompe questi limiti e “ci fa rinascere infinite volte” (come ci
dirà Erich Fromm). Perché ogni volta all’azione corrisponde una reazione, alla
stasi della mente subentra l’“illuminazione” di una idea, una intuizione
folgorante, imprevista e imprevedibile.
Che ci rigenera e ci ridà vigore ed energia. Purché sia umile, appassionata,
onesta. Ossia, purché venga scelta e messa in pratica se risponde ai principi
di bello, buono, utile. Vera. Autentica necessità o urgenza dell’anima. Produzione
creativa che viene donata agli altri con grazia, gentilezza, amore, sapendo che
può educare all’armonia, alla comprensione, alla serenità. Ma qui si parla di
una produzione creativa che deve essere messa a disposizione degli altri,
rispondendo ad un principio teleologico e mai utilitaristico. Per questo la
creatività va vissuta non solo come personale espressione, ma soprattutto “verso,
per, con gli altri”. Solo così non si è mai soli. L’albatro di baudelairiana
memoria ci parla appunto della solitudine delle persone geniali. Più vicino a
noi, il romanzo di Paolo Giordano La solitudine
dei numeri primi. La genialità è anche dannazione e perdizione.
Per Erich Fromm la creatività è la
capacità di “vedere” e di “rispondere”. Ma “vedere” qui significa non solo
prendere visione di una cosa e averne coscienza, ma significa “penetrare” nel
significato e nel senso di quella cosa e “vederla” oltre, in una miriade di
sensi e di significati altri. Guardarla come se fosse la prima volta. Con
stupore. Di qui l’importanza di “essere perplessi” perché niente deve apparire
ai nostri occhi vecchio, scontato, immutabile. Uno spirito acuto dei nostri
giorni ha affermato che “il genio di Einstein consisteva parzialmente nella
incapacità di comprendere le cose ovvie”. Non a caso, a scuola e persino
all’università fu ripetutamente bocciato. “Vedere” significa comprendere la
realtà completa di una cosa, di una persona, di una situazione. E ciò
paradossalmente significa andare ben oltre quello che si vede con gli occhi.
Significa “sentire”, “percepire”, “intuire”. Di qui “il sentimento della
scrittura”, che esclude ogni narcisistica produzione della parola scritta, ogni
velleitaria vetrina per diventare qualcuno. Qui si “è”, non si “diventa”. “vedere”,
allora, significa “capire” talmente profondamente da penetrare nell’inconscio
per riportare il significato nascosto della realtà alla coscienza ed esprimere
quest’ultima o comunicarla “ri-creata”. È la stessa realtà, ma è anche un’altra
e un’altra ancora. “Vedere”, dunque, significa guardare con gli occhi, pensare
con la testa, cioè “prestare attenzione”, sentire con il cuore ossia
“concentrarsi” (entrare nel centro delle cose con sé stesso, insieme con gli
altri, insieme con il tutto. E ciò viene definito da alcuni studiosi della
creatività: “l’affettività del divino” (la vicinanza amorosa al sacro e, per
alcuni, a Dio), capire con l’anima che, essendo universale, ci mette in grado
di espanderci all’infinito nell’infinito. E smettiamo di essere spettatori e
giudici per essere soltanto “essenza vibrante nell’armonia dell’universo” (così
avverto e definisco io l’ineffabile sensazione che la creatività offre alla nostra
sensibilità).
Cara Angela ti lascio delle righe ritrovate...quanta sintonia
RispondiEliminaPoesia è respiro ma anche entrare nel proprio io particolare ed accorgersi che siamo universo e infinito. Voci di cuori e passaggio di doni.