giovedì 29 febbraio 2024

Giovedì 29 febbraio 2024: Ma siamo sicuri che le SINTONIE siano più efficaci delle DISTONIE? (continua)...

<Si era a fine febbraio e mamma ti scrisse una lettera, dicendoti che le sarebbe piaciuto rimandarmi a casa da voi perché non le ero granché di aiuto. Non fece cenno all’accaduto, ma scrisse che non voleva neppure aspettare la fine dell’anno scolastico per farmi completare la seconda elementare. Avrei frequentato quegli ultimi mesi nel nostro paese, con l’aiuto di Lizia perché studiavo poco e male e nessuno poteva seguirmi. Non so se fu davvero per caso o fosti tu a mandarlo (sicuramente fu opera tua!), ma ai primi di marzo si materializzò in caserma il buon compare Luigi, il mio eroe venuto a salvarmi. “Passavo da queste parti e mi è venuta voglia di salutarvi”, disse col suo fare burbero e commosso, adeguandosi a parlare in italiano, essendo in caserma e in terra straniera, “come state? tutti bene? e Angelina come va a scuola?”. “Non la chiamiamo più Angelina, ma Lina. Per una bambina è più breve, più leggero” (l’unica leggerezza che mi era stata concessa da mio padre!). Ma io ero già stretta a lui e lo supplicavo con quel solo abbraccio. “Portami con te. Portami da papà. Non voglio stare più qui”. “Perché non vuoi stare più qui? Stai tutta intera. Vedo che non ti manca nessun pezzo. Sei cresciuta. Forse un po’ sciupata perché sei diventata così alta. E che? Vuoi diventare quanto l’Obelisco che abbiamo al nostro paese? Poi se diventi troppo alta non ti vuole più nessuno”, rideva per nascondere la commozione. E mi prendeva in giro per stemperare un po’ l’atmosfera tesa e come in sospensione. “Babbo è sempre nervoso e mamma ha sempre mal di testa. Anna Maria mi ha combinato un bel guaio al braccio. Vedi questa ferita così grossa e rossa? Me l’ha fatta lei con una gruccia e quando viene il dottore a medicarmela io piango sempre. E pure Pino piange sempre. E mamma piange sempre. E io ho pure il naso rotto. Ti sembra bello stare qui?”. “Beh, allora me la porto davvero la bambina, se qui non serve”, concluse sbrigativo. Mamma sospirò con le lacrime che allagavano silenziose e torrenziali i suoi occhi di tristezza: “Io non vorrei. Mi piacerebbe tenerla con me. Ma starei più tranquilla se tornasse giù da mamma e papà”. “E per la scuola?”. “Potrebbe andare dalla mamma di Nina, la moglie di mio cugino Peppino. La signora Carmela è così brava, garbata e so che quest’anno ha proprio la seconda elementare. Se lei vuole, può accettarla nella sua classe, e poi dall’anno prossimo Lina potrà continuare con lei fino in quinta. Potrà essere aiutata da Lizia. Noi facciamo fare subito il nulla osta e lo mandiamo per posta con urgenza”. “Va bene, va bene. Ho capito tutto”, la interruppe compare Luigi. “Prepara la roba. La bambina viene con me”.

                                         E fu così che tornai da te

Avevo salutato mamma, babbo, Anna Maria e Pino senza una lacrima. Mamma, invece, singhiozzava. Babbo sembrava confuso, incerto. I piccoli, indifferenti. Non si erano resi conto che stavo andando via. In macchina sentii lo strappo. Il cuore registrò la ferita. Mamma di nuovo era un punto luminoso lontano. Ero a metà strada tra te e lei. E mi sentii disperatamente sola. Come se quel viaggio lo stessi facendo a piedi con granelli di me che rotolavano in un deserto senza fine, fino a precipitare in un burrone che non vedevo ma c’era. E non ero più Lina Angelina Angela. Ero una pietruzza di raggrumato/frantumato dolore che precipitava giù giù giù sempre più giù. Solo allora scoppiai a piangere per la totale devastazione della mia anima. Piansi a lungo come non mi era mai capitato prima, neppure quando ti avevo lasciato. Allora avevo mamma e babbo e Lizia e Anna Maria e Pino con me. E un treno lungo lungo a farmi sognare meravigliose avventure tra alberi in fuga e lembi di mare e orizzonti lontani. Ora mi sentivo sola e abbandonata in quella macchina in bilico sulle curve e strette strade senza riparo di montagna e l’ansia di precipitare nel vuoto ad ogni tornante. Mi sentivo sola, nonostante la presenza protettiva e affettuosa di compare Luigi, che ad ogni mio singhiozzo mi stringeva più forte a sé e mi parlava parlava parlava come canto triste di infiniti violini…

(suona solo per me/ oh violino tzigano/ … se un segreto dolor/ fa tremar la tua mano…)

A tratti ritornavo alla realtà, lungo percorsi sospesi tra terra e cielo che non conoscevo. In quella macchina che mi sembrava più veloce del treno e della corriera e che mi metteva paura ad ogni curva a gomito che disvelava ancora burroni e campi di grano che una leggera nebbiolina e le mie lacrime rendevano di un verde cupo e lontanissimo sul fondo. Non ascoltavo. Non sentivo. Ero assordata da quella canzone di pianto e disperazione che mi urlava dentro, dal battito del cuore, dal rumore della macchina, dal rumore delle incomprensibili parole che mi giungevano ora all’orecchio come mormorio di foglie o scorrere di ruscello onde di mare vento di montagna tra gli alberi... Poi… gli ulivi. Le strade conosciute. Il cuore placato. Le parole rassicuranti e chiare di chi mi cullava dolcemente. Il mare. I campi. Le vie con le prime case. La nostra casa. Le tue braccia ad avvolgere anche il cuore. Gli occhi di lacrime della nonna. L’abbraccio di Lizia. Il miagolio del gatto. Ero salva>. (dal vol. II di Le piogge e i ciliegi 2017)

E fu proprio la signora Carmela a salvarmi, facendomi scoprire la bellezza delle parole e della scuola in cui capivo e venivo capita e incoraggiata. Di ritorno dai monti della Daunia, infatti, ripresi ad andare a scuola per mettere a fuoco la realtà, che mi sfuggiva, e imparare a leggerla meglio con i segni dell’alfabeto, come tu mi avevi insegnato con il tuo esempio, e come la mia maestra dei monti non aveva saputo fare con le parole.

<Mi mandaste, dunque, dalla signora Carmela, nostra parente, come aveva suggerito mamma a compare Luigi. La signora Carmela, come ben sai, era la suocera di Peppino, ormai diventato un giudice affermato. Era bravissima e forse un po’ severa, ma ci guardava anche con molta tenerezza e comprensione. Era alta e magra. Aveva i capelli grigi sul volto affilato e un’aria signorile che si riverberava nelle vesti e nei modi. Sua figlia, tua nipote acquisita, era docente di lettere nel nostro glorioso liceo. Ed era altrettanto brava. Ma io rimasi affascinata da sua madre, la signora Carmela. Mi piacevano molto le sue mani: lunghe sottili pallide. Erano, per me, ali in volo. Avendo un’ulcera allo stomaco, come seppi poi, era costretta a mangiare poco e spesso e portava a scuola, in un tegamino a chiusura ermetica, delle pappe morbide, in cui intingeva minuscoli tocchetti di pane che spezzettava lentamente con le dita e che masticava ancor più lentamente durante tutto l’intervallo. Io m’incantavo a guardare il movimento di quelle ali delicate come se ad ogni boccone spezzassero l’ostia consacrata per portarla in volo verso il cielo, che neppure si scorgeva attraverso l’angusta finestra dell’aula, ma che sicuramente doveva esserci da qualche parte molto più in alto, dove anch’io spesso volavo... Mi piaceva davvero tanto la signora Carmela, anche come spiegava, e l’amavo perché finalmente capivo e mi capiva, spingendomi con dolce fermezza ad apprendere. Ed io finalmente scoprivo che era bello imparare. E l’amai ancora di più quando, incontrando per caso mamma che era venuta da noi per pochi giorni, le disse che ero una bambina molto brava e molto intelligente, che imparava subito e scriveva dei compitini molto ricchi di fantasia e scritti molto bene. Tutti quei “molto” messi in fila uno dietro l’altro come un “treno lungo lungo” mi esaltarono.

                                      Ero brava. Ero finalmente considerata.

Le mie parole avevano finalmente un significato. E non solo per me. E vidi mamma tutta felice dopo quell’incontro. E mi sentii felice anche per lei. Frequentavo con la signora Carmela ormai la terza classe, si era alla fine dell’anno scolastico e già scrivevo compitini organici e ricchi di fantasia, ma in quarta, con suo grande dispiacere ed anche il mio, dovetti cambiare scuola perché quella dove lei insegnava, nel cuore del paese antico, era molto lontana dalla nostra casa, mentre a poche centinaia di metri c’era la scuola che aveva frequentato Lizia fino alla licenza elementare. Anche perché la sua maestra, che aveva per lei una vera adorazione, dovendo insegnare in una quarta (non amava farlo nel primo ciclo, che allora comprendeva le prime tre classi, perché “c’era troppo da sgobbare per scolarizzare i bambini”), pretese da mamma che mi mandaste da lei. Mi considerava già sua alunna. E fu così che mi iscriveste alla nuova scuola e cambiai maestra.

                                        Altro distacco. Altro dolore.

Perdevo occhi teneri e attenti. Parole vibranti e appassionate. Guida sicura per la mia crescita. Intanto, a ottobre, dell’anno precedente, il 1950, che era stato proclamato da Papa Pio XII “Anno Santo”, era nato l’altro fratellino. Bellissimo. Lo avevano chiamato come te.  Stesso rito per la sua nascita e per la venuta di babbo a conoscere il nuovo nato. Ma lo avevamo visto, fin dal suo arrivo, più disteso e appagato. Poi, erano andati tutti via e io e Lizia rimanemmo di nuovo con te e con la nonna. Lizia ora frequentava la prima media e attraversava da un capo all’altro tutto il paese. Io, invece, solo un pezzo di via della Repubblica. Prendevamo strade opposte come prima, ma ora avevamo un maggiore equilibrio nelle distanze da percorrere, commisurate ai nostri anni. La nuova maestra era l’ossimoro della signora Carmela. Più giovane. Zitella. Più bassa e tarchiata senza essere grassa. Abbigliamento informale. Modi spicci e poco ortodossi. Una femminista ante litteram. Fumava le Marlboro e parlava come un uomo. Spiegava in maniera sbrigativa e ignorava le alunne provenienti dai ceti diseredati, le più lente e con difficoltà di apprendimento. A me, nonostante fossi molto alta per i miei anni, fece occupare il primo banco della fila centrale, proprio davanti alla cattedra, e mi diede per compagna un’altra bambina molto ordinata e diligente, che ben presto si sarebbe rivelata la più brava della classe. E fui anche nominata capoclasse. Avevo, con questo, pure l’incarico di correggere i compiti e di controllare i quaderni delle mie compagne in difficoltà. In pratica, se da un lato mi sentivo gratificata per il mio nuovo ruolo, dall’altra persi nuovamente interesse per lo studio. Venivo mandata spesso di qua e di là nelle altre classi a portare bigliettini e caramelle alle altre insegnanti e non riuscivo a stare attenta alle lezioni. Unica esperienza positiva fu, in quinta elementare, una rappresentazione teatrale della fiaba di Cappuccetto Rosso, per concludere l’anno scolastico prima degli esami di ammissione alla scuola media (allora non c’era ancora la scuola media unica, che prese il via in Italia solo nel 1962-‘63. Dopo i primi cinque anni di scolarizzazione gratuita e obbligatoria, bisognava sostenere il selettivo esame di ammissione per poter proseguire gli studi oltre la licenza media. I bocciati venivano preparati al lavoro attraverso il triennio della Scuola di Avviamento Professionale. Una chiara discriminazione sociale oltre che culturale. Venivano bocciati sempre gli alunni delle famiglie più povere. Fino a che don Lorenzo Milani, il “prete scomodo”, come i giornalisti lo avevano definito per le sue polemiche contro una chiesa conservatrice e autoritaria e una scuola discriminante e verbalistica, con la sua Lettera ad una professoressa, pubblicata poco prima della sua morte, nel 1967, in collaborazione con i suoi alunni di Barbiana, non evidenziò tutte le carenze di una istituzione che “curava i sani e lasciava morire i malati”).

In quel saggio di fine anno, di cui si occupava una brava insegnante amica della mia, mi fu assegnata, per via dell’altezza, la parte della mamma di Cappuccetto Rosso che fu impersonata, invece, da una vezzosa bimba di prima elementare. Fu un successo. Le repliche si protrassero per oltre un mese, con un pubblico sempre nuovo e numeroso. Tu e la nonna venivate quasi tutte le sere. Vi posizionavate ai primi posti per vedere e ascoltare meglio. La nonna mi permise persino di mettere degli orecchini pendenti di oro antico con perline e rose di Francia, preziosi e bellissimi. Anche mamma venne da lontano con gli altri miei fratellini ad applaudirmi. (…).

                Furono, quelli, anche i primi anni anche delle prime graduali letture non scolastiche

Dapprima io e Lizia compravamo i fumetti (Il Corriere dei Piccoli, Topolino, Intrepido, il Monello); poi, fu la volta dei romanzi di avventura di Salgàri e Jack London, di Verne e Stevenson; e ci appassionammo ai romanzi rosa di Luciana Peverelli, Liala, Brunella Gasperini, Delly (dalla dubbia identità), Pearl S. Buck; infine, imparammo a saccheggiare anche la fornita biblioteca di babbo che amava gli autori francesi, russi, americani. E cominciò amore infinito per i classici italiani e stranieri

La nostra formazione letteraria e culturale fu, all’inizio, frutto del lungo ascolto delle tue storie che ci spinse ad amare la lettura nella curiosità/speranza/certezza che molte di quelle tue parole le avremmo ritrovate nei libri. E per alcune fu ricerca vana, essendo molte fiabe parto esclusivo della tua fantasia o di quella più colta di un tuo amico italiano, incontrato in America, che aveva studiato tanto e ti raccontava ciò che aveva letto nei libri; per altre, invece, fu scoperta di racconti che l’oralità popolare aveva portato fino a noi e a Italo Calvino, che li aveva raggruppati e rielaborati nelle sue Fiabe italianeSta di fatto che fosti tu, con i tuoi castelli in aria e senza saperlo, a inculcarci la passione per la lettura. Poi, furono Teresa e babbo. Io e Lizia amavamo, dunque, leggere ma, mentre Lizia riusciva a conciliare l’amore per la lettura con lo studio scolastico perché amava imparare e amava la scuola ed era sistematica e diligente, senza mai affidare nulla al caso, io finii con l’ignorare i libri di scuola per dedicarmi esclusivamente a romanzi e poesie, alla musica e alle canzoni e ai miti radiofonici di quegli anni. Detestavo la scuola, come ben sai, e studiare per la scuola. La mia formazione prese subito altre vie più atipiche, divertenti, scanzonate. Leggevo leggevo molto per conto mio e a modo mio. Dapprima non m’importava conoscere gli autori, mi piacevano le storie quasi fossero il naturale prolungamento delle tue, o di quelle di Teresa; poi imparai ad apprezzare lo stile e a scoprire quello personale dei vari scrittori, romanzieri e poeti. Anche per la musica e le canzoni la maturazione delle scelte avvenne nello stesso modo graduale: passai da un ascolto acritico e superficiale delle canzoni italiane al desiderio di sapere chi suonasse o chi le cantasse. Quali fossero gli autori. Italiani e, via via, anche stranieri. Con qualche anno in più, cominciai a notare la diversità dei contenuti e degli stili nelle varie opere letterarie: la Provvidenza del Manzoni aveva un respiro più ampio di quella di Giovanni Verga; la prosa di Moravia era completamente diversa da quella di Bacchelli; le poesie di Ungaretti si differenziavano notevolmente da quelle di Montale, pur appartenendo entrambi i poeti alla stessa corrente letteraria… La diversità delle correnti letterarie, mai studiate a scuola, perché ero sempre distratta da qualcos’altro, le andavo scoprendo per conto mio, man mano che m’interessavo a qualche autore, di cui mi piaceva conoscere la vita e la formazione letteraria, culturale e umana. Mi piaceva scoprire quando come e perché avessero imparato a scrivere così, oltre al naturale talento che ciascuno possedeva. M’incuriosivano gli aneddoti e le notizie più che le nozioni. E, se queste ultime non m’interessavano perché erano appannaggio della scuola, i primi erano frutto delle mie letture e ricerche. Quando capitava. Come capitava>. (dal Vol. II di Le piogge e i ciliegi, 2017).

Da pessima alunna e studentessa cominciavo a ritagliarmi una connotazione a me più confacente: quella di scrittrice e poetessa, che avrei conservato per tutta la vita.                                  

Ma, tornando un po' indietro nel tempo, devo ricordare che, dopo il mio ingresso nella scuola media, ricominciarono i miei conflitti con la scuola, anche per via della miopia, che mi ostinavo a non correggere con gli occhiali, collezionando numerose gaffe con le frasi alla lavagna, essendo io stata confinata all’ultimo banco di una lunga fila per via dell’altezza. Il dramma scattava soprattutto quando dovevamo leggere e correggere dal banco, in forma individuale e collettiva, le frasi in francese con tutti gli accenti acuti e gravi che io non vedevo affatto. Uno dei motivi per cui dovetti poi fare i conti con quello sciagurato esame di licenza alla fine del triennio con matematica francese e disegno da riparare a settembre. Con un meritatissimo 4 in matematica e lo sberleffo di due 5 che non conobbero la generosità di un 6 almeno in disegno).

<In terza media, infatti, come ben ricordi, rischiai addirittura di non essere ammessa neppure agli esami per via dell’ultimo compito di italiano, che mi vide completamente refrattaria a riempire il foglio di protocollo, che pure avevo portato diligentemente da casa, per via di una mia vivace quanto incosciente protesta, non valutando affatto le possibili conseguenze, al giudizio sistematico della mia professoressa di lettere: “limare, limare, limare!”. Alla fine delle tre ore, misi un solo punto nel centro del foglio con dietro, al posto del voto e del giudizio dell’insegnante, un Nota Bene: “Ho tanto limato che non mi è rimasto più niente da dire!!!”. Successe il finimondo. Dopo qualche giorno, la professoressa entrò in classe paonazza, urlando sulla mia faccia indisponente e fintamente incredula: “De Leeeeooooo! Coooome hai osatooooo! Tu rischi di non essere ammessa agli esaaamiiii. Lo vuoi capire o no? E col professore di matematica ti rifiuti di fare i compiti e di rispondere alle interrogazioni. Neppure ti degni di alzarti e di avvicinarti alla cattedra, almeno per dimostrare un minimo di buona volontà. E il professore, pur volendo, non può neppure aiutarti. E in francese sei un disastro. Persino in disegno e in educazione fisica vai male. Solo in italiano ti salvavi e ora mi fai questa provocazione. Si può sapere cosa ti frulla per la testa? Ora, vai in fondo all’ultimo banco e scrivi il tema e dimmi pure grazie perché non ti mando dalla Preside. Feci il tema. Questa volta chilometrico, per non smentirmi! Sia la professoressa che la Preside erano due “toste”, ed io mi salvai dal totale sfacelo solo perché scrissi un commovente tema sulla perdita di un fratellino (mai avvenuta in verità), in un diluvio di parole (che neppure oggi riesco ad arginare), tristissime e appassionate. La professoressa, con le lacrime agli occhi, ignorò la lunghezza, non mi esortò a limare, anzi mi chiese alcuni particolari di quella tragica perdita. Ed io fui ben lieta di inventare lì per lì altri dettagli da strappare il cuore. Il tema venne letto in classe e poi fu portato dalla Preside perché lo leggesse. Attimi di gloria. E di battimani a me stessa per la mia sfrenata fantasia. E, così, entrambe chiusero tutti e due gli occhi per ammettermi agli esami, convincendo anche il paterno professore di matematica e scalfendo l’aristocratico aplomb del professore di francese. Ma, come dirò, la loro benevolenza non servì molto all’esito conclusivo di quel famigerato esame: tre materie a settembre! E la disperazione della nonna! Il tuo silenzioso dispiacere. Io, comunque, mi assolvevo sempre, anche se sapevo di essere davvero un’alunna difficile. Ma, tutto sommato, imprevedibile. E quell’“imprevedibile” era per me una “medaglia al valore”: non ero omologata alla classe e questo era sinonimo di libertà e di coraggio, di diversità. Nel senso di divergente, cioè creativa. E tutto questo mi riempiva di orgoglio. Volevo essere così. Perché così ero nata. Così ero me stessa. (Poi, negli anni, la severa professoressa di lettere fu anche insegnante di Raffaella e scoprì anche in lei le stesse caratteristiche di sua madre in quanto a prontezza di spirito, creatività e fantasia, e dovette farsene una ragione. In seguito divenne una mia assidua lettrice! Ma non seppe mai del mio tema tutto inventato. Non ebbi mai il coraggio di rivelarle che quella sua autentica commozione era stata frutto delle mie autentiche bugie).

 E domani riprendo a raccontare. Angela 

 

 

mercoledì 28 febbraio 2024

Mercoledì 28 febbraio 2024: Ma siamo sicuri che le SINTONIE siano più efficaci delle DISTONIE?...

Qualche puntata fa ho parlato della necessità di avere delle affinità e di vibrare in sintonia per potersi incontrare sullo stesso orizzonte e saperlo apprezzare allo stesso modo e goderne insieme. Ricordate Carducci e il povero “asin bigio” di infelice memoria? Ebbene, oggi vi voglio sorprendere con una domanda che scompaginerà qualche nostra certezza per gettarci in salutari dubbi. Già, perché le certezze sono i sonniferi della mente e del cuore, non ci fanno progredire, non ci spingono a cercare qualcosa di diverso, di migliore o peggiore non ha importanza, l’importante è cercare qualcosa di nuovo e di diverso che ci spinga a nuove riflessioni a nuove indagini e scoperte. I dubbi possiedono la magia di sorprenderci per non accontentarci mai di quanto scoperto e per provare a guardare dietro l’angolo. E dietro l’angolo potremmo scoprire qualcosa in grado ancora di stupirci e di farci porre ulteriori domande, così all’infinito. L’infinito nelle nostre tasche, dunque? Macché! Continueremo a rivoltare le nostre tasche per trovare sempre il calzino sparigliato che senza farci troppo caso abbiamo conservato nel luogo più a portata di mano.

E oggi voglio provare con voi a cercare i calzini sparigliati nelle mie tasche per andare in un altrove, più in là, dove ancora c’è qualcosa da scoprire. Per sorprenderci insieme. Ma siamo proprio sicuri che affinità e sintonie siano più importanti delle distonie? Se rispondessimo che sarebbe possibile non rischieremmo di entrare in contraddizione con quanto affermato prima? Ma non abbiamo parlato che la contraddizione è aspetto fondamentale nella nostra vita e che supera persino il “principio di non contraddizione” di aristotelica memoria? Simone Weil afferma appunto che “ogni realtà o verità include una contraddizione” ed è quest’ultima che ci permette di conoscere. Ricordate? Non possiamo distinguere il giorno se non entriamo nella notte, e così via.

E allora cerchiamo di raccapezzarci, capovolgendo il nostro punto di vista e riproponendo all’incontrario quanto affermato qualche puntata fa. Questa volta parliamo della bontà della “distonia” che ci permetterebbe di avvalerci di una iniziale sconfitta per risalire la china. La distonia iniziale con le persone (in famiglia, nella scuola, nella comunità in cui si nasce o si vive, in un primo incontro con qualcuno che ci entra nel cuore o con gli altri), potrebbe stimolare una salutare rivalsa per una eventuale trasformazione, un cambiamento, un andare oltre. Il condizionale è d’obbligo quando si esprimono convincimenti personali. Gli esempi potrebbero essere tanti, legati anche a grandi autori della Letteratura italiana e mondiale, oppure alle nostre quotidiane esperienze.

Esperienze della realtà, filtrate, comunque, attraverso la personale sensibilità creativa, colma di tutti i sensi e di tutti i significati possibili. “Asymptoton” - per i greci - era “il punto che non coincide”, la distonia, appunto, vissuta come divergenza, diversità, universo fantastico in cui la mente umana si perde con le sue approssimazioni infinite, con le sue interpretazioni insicure, incerte, ambigue, con i suoi chiaroscuri sfumati e nebbiosi. L’ispirazione, allora, si fa luce e coscienza del mondo, filtro con il quale l’anima colora il suo sguardo sull’universo. Si parte da una visione particolare che procura emozione, fa vibrare corpo e anima come “le corde di un’arpa” (don Giuseppe Colombero). È il caleidoscopio della nostra fantasia che si mette in movimento. Bastano pochi elementi reali, filtrati dalla emotività fantasiosa e immaginativa di chi li guarda perché si trasformino in magia in quanto attraversati da una luce nuova, enigmatica, inconscia, misteriosa. Altre infinite realtà si propongono nella loro “imprendibilità” e “intoccabilità”, attraverso luoghi sconosciuti, chiari solo a chi ha un’indole artistica. Non a caso, la persona creativa scopre sempre “il volto doppio delle cose” (Giuseppe Lasala) o “il sublime possibile” (Leopardi), la meravigliosa/dolorosa contraddizione della vita, perché una cosa è quella cosa, ma può essere un’altra e un’altra ancora… Purché ci sia l’illuminazione. E LUCE fu! (Si pensi ai poeti e ai pittori della luce, senza dimenticare architetti, scultori, registi…).

La luce come esplosione di stelle. La luce come colore, calore, amore, vita. Di qui la necessità di praticare la “disgiunzione come salvezza della nostra vocazione perché diventa l’unica “congiunzione” possibile con il mondo indefinito e mai allineato con la realtà di tutti i giorni. Di qui “l’intelligenza infinita e insicura del mondo”, con l’unica certezza possibile del non “adempimento” (ancora Giuseppe Lasala).

Circa trent’anni fa Diego Dalla Palma, stilista e scrittore di fama internazionale, mi parlò dell’importanza della iniziale distonia per scoprire, nel tempo, la “luccicanza” che spinge “ogni vero Artista a prenderne coscienza e a realizzarla incamminandosi dal buio alla luce, dalla invisibilità degli oggetti alla loro visibilità molteplice e rinnovabile, dalla indecidibilità alla decidibilità delle situazioni e atmosfere, dall’inaspettato all’attesa dell’‘accadimento’, dalla impalpabilità alla palpabilità dei sentimenti. Epopea di epiche speranze di terre e di universi perché contiene in sé tutti gli elementi vitali e propulsivi dell’umana esperienza. Di volti di uomini GRANDI incisi nella Storia. Fulgidi esempi di rinascita continua nella riproposizione di nuovi domani”.

Vi riporto quanto Diego Dalla Palma mi scrisse allora su una mia agendina che conservo gelosamente perché mi dette la spinta a prendere consapevolezza sempre più della mia “ri-nascita” come scrittrice e poetessa dopo una iniziale “dolorosa sconfitta” in prima elementare per la “distonia” totale con mio padre e con la maestra. Storia che ora vado a raccontarvi:

<Babbo non poteva più tollerare che io non andassi a scuola a oltre sei anni. Questa decisione vi sorprese e vi addolorò, ne sono certa, profondamente. Ma babbo aveva già fatto l'iscrizione per me in prima elementare e per Lizia in terza perché anticipataria.

                Ti lasciai. Col pianto in gola. Ci separarono. Ci separammo.

E andai via con mamma e babbo e Lizia e i due piccolini: Anna Maria e Pino.

‘Lasciai la vostra tristezza e il vostro pianto soffocato, cancellato soltanto dalla gioia di viaggiare in un treno lungo lungo che mi avrebbe fatto guardare il mare, percorrere la pianura con alberi d'autunno, scoprire le montagne   

(passa il treno lungo lungo/ per le vie della città,/ lo vedete, lo sentite,/ avanti, signori, per Roma si va.../ ciuciùuuuu...)

Non eravamo diretti a Roma, ma in un paesino di montagna nel cuore del Gargano, dove a ottobre faceva già freddo. Dove soffiava sempre un brutto vento di tramontana e dove le maestre ci suggerivano di mettere le pietre in tasca per diventare più pesanti e di afferrarci alle funi che c'erano lungo i bordi delle strade perpendicolari come burroni, per evitare che il vento ci afferrasse e ci portasse via nei suoi vortici pericolosi.

Io avevo paura dei mille lupi che in quel vento ululavano soprattutto di notte, ma desideravo che almeno una volta mi rapissero per farmi volare, un po' come facevi tu quando ci sollevavi fino al soffitto per le capriole.

(Conflitti insanabili di opposti desideri e pensieri, sempre presenti in me e probabilmente presenti in tutti gli esseri umani. Perché io dovrei essere diversa, sia pure nella mia scontata unicità?).

Il paesino s’inerpicava lungo il fianco della montagna fino alla cima, tanto che persino la corriera che vi arrivava e ripartiva due volte al giorno da Foggia e per Foggia (alle 9 del mattino e alle 4 del pomeriggio in arrivo e a mezzogiorno e alle 9 di sera di ritorno) ansimava come una vecchia signora alle prese con mille acciacchi mentre arrancava su quelle strade simili a baionette puntate contro il cielo.

La scuola, molto grande e circondata da alberi e siepi, era a pochi passi dalla piazza della caserma, dove noi abitavamo in un “alloggio” che aveva ampie stanze e lunghi corridoi e ballatoi luminosi, con finestre e balconi   sulla strada principale che portava al corso giù in paese… (…).

Io, in verità, avevo finito la prima elementare e non avevo imparato niente.

Mi sembrava di non capire nulla. A stento, verso la fine dell’anno, avevo imparato a leggere e scrivere e a contare fino a cento.

La signora De Benedictis era stata in precedenza la maestra di Lizia. E non ricordo assolutamente come mai fosse diventata poi anche la mia maestra.

Risalendo al suo cognome, m’ero fatta l’idea che fosse straniera oppure vecchissima tanto da avere un cognome latino, lingua di Dio, come mi aveva detto più volte don Mincucciouno, e degli antichi romani, come un giorno mi aveva mostrato Lizia sul suo libro di storia. Su quel cognome e sul suo aspetto fisico ricamai una serie di storie, dalle più divertenti alle più cupe, che non mi permisero mai di valutarla come insegnante.

Era alta, magra, rossa di capelli (con una pettinatura alta che mi ricordava davvero le matrone romane e ancora di più mi faceva sospettare che fosse millenaria); spigolosa di viso e con un lungo naso rosso fuoco.

Era di volta in volta pomodoro, fragola, quattro ciliegie (raggruppate in un unico gambo), un peperone o un pomo (come quello della tua fiaba Del Pomo e della Scorza). E anche su quel particolare, per niente irrilevante, inventavo storie incredibili e inverosimili. Che mi distoglievano dall’ascoltarla. In realtà, era paziente, distratta, ripetitiva. Io le ero anche affezionata ma non troppo

(a di amo a a a… bi di bue bi bi bi… ci di ciliegia ci ci ci ma anche ca di cane…).

Con la bacchetta indicava sulle immagini del vecchio alfabetiere, che aveva conosciuto generazioni di scolari, l’amo, il bue, la ciliegia, il cane.

E… “bambini ripetete con me”.

Io non ripetevo. Pensavo che erano più divertenti le cose, gli indovinelli, che avevo imparato all’asilo con suor Agnese e suor Crocifissa

(trenta giorni ha novembre/ con april giugno e settembre/ di ventotto ce n’è uno/ tutti gli altri ne han trentuno… lunedì vien pianino/ martedì gli fa l’occhiolino/ viene in fretta il mercoledì/ e si mangia il giovedì/ venerdì piange di tristezza/ e sabato gli fa una carezza/ poi ecco la domenica che a casa resta:/ tutti a tavola a fargli una grande festa… son piccino cornuto e bruno/ me ne sto tra l’erbe e i fior… sto sempre saldo e ritto/ su una gamba sola,/ proteggo zitto zitto/ il nido che consola/ il mio silenzio pio./ D’inverno spoglio sono/ eppure a tutti dono/ il caldo focherello./ Chi sa l’indovinello?)

Sapevo subito rispondere: il mese! la settimana! il grillo! l’albero!

Ora, invece, quella cantilena di “a bi ci” mi annoiava e tutte quelle parole dell’alfabeto le tenevo per me. Lei mi guardava. Io restavo muta.

Mi costringeva a scrivere con la destra, ma a me risultava più facile usare la sinistra. E sempre in silenzio, con enorme difficoltà e fatica, che le mie compagne di classe non provavano, mi esercitavo a scrivere le aste, le letterine dell’alfabeto e le prime sillabe che poi dovevo unire in paroline, col trattino tra una sillaba e l’altra, per poterle leggere nel loro intero. Ma non le leggevo. Mi sentivo diversa dagli altri bambini e mi vergognavo. Il pennino non obbediva al debole comando della mano. Il polso s’irrigidiva, cercava di convincermi:

“passa la penna all’altra mano, là sta mio fratello che è più forte e ti può aiutare. Ascoltami, non dar retta a quella che non capisce niente. L’altra mano sa già scrivere. Perché si ostinano a farti scrivere con la mano sbagliata?”.

Spesso mi scontravo con asticciola pennino e calamaio, col quaderno con copertina nera e pagine bianche orlate di rosso e righe grandi e spazi piccoli che non sapevo riempire: senza sapere né come né perché, l’inchiostro dispettoso s’intestardiva a finire su quei fogli prima delle aste e delle vocali o consonanti e dei trattini e subito si allargava in macchie che diventavano buchi lacerati dal mio dito insalivato a cancellarle e giù lacrime e disperazione che in quei buchi penetravano e tentavano maldestramente di nascondersi… Se avessi potuto, avrei rinunciato volentieri a scrivere e a leggere. Ma la maestra mi fissava mi fissava mi fissava…

                       Mi rimproverava mi rimproverava mi rimproverava…

‘Tutta colpa della mia mano sinistra?’. Non mi sapevo rispondere.

Anche a casa ero costretta da mamma e babbo ad usare la destra, soprattutto a tavola, quando vedevo i loro occhi severi seguire i miei movimenti impacciati nell’usare le posate, il bicchiere e persino il pane da portare alla bocca. Li guardavo in silenzio e sempre in silenzio sentivo il solito polso che mi faceva lo stesso discorso, invogliandomi ad usare le posate con la mano giusta anche se per gli altri era quella sbagliata. Io mi attardavo ad ascoltare quella vocina e, con le labbra semiaperte e gli occhi persi nei pensieri e aria niente affatto intelligente (come oggi ricostruisco nella mente), perdevo tempo e voglia di mangiare. E leggevo (oh, come mi riusciva facile leggere!) negli occhi grandi e severi di babbo il pensiero ricorrente ‘ho una figlia che non è tanto normale’. E non aveva tutti i torti. E io sentivo la mia testa imbrogliata di nuvole mosche letterine cicale buchi. Sì, la sentivo. Quando vivevo con te, era la nonna a rimproverarmi perché non dovevo usare la “mano del demonio” ma quella di Gesù, ed io mi chiedevo come mai la mano destra apparteneva a Gesù mentre quella sinistra al diavolo, visto che era stato Dio a crearci dalla testa ai piedi. E anche con voi perdevo tempo a pensare e non riuscivo a farmene una ragione. Come non mi facevo una ragione che fosse capitato proprio a me di usare meglio la mano del diavolo. ‘Perché?’, mi chiedevo. Ma non c’era verso che imparassi a fare le cose con la mano giusta. Facevo tutto con maggiore rapidità ed efficienza con quella sbagliata.

‘Sono io tutta sbagliata?’, mi tormentavo ad ogni rimprovero.

Sta di fatto che quel dubbio non mi aiutò molto, soprattutto a scuola. Imparare a scrivere, e imparare in genere, per me divenne un incubo.

(Oggi scrivo e mangio con la destra, ma lascio il monopolio alla sinistra per tutto il resto. Sono in pratica una mancina contrastata, come era normale ai tempi della mia infanzia. Oggi per fortuna le cose sono cambiate!). 

A scuola, perciò, non mi sentivo a mio agio. Mi astenevo dal fare domande alla maestra per evitare che concentrasse la sua attenzione su di me e anche perché temevo che non volesse o non sapesse rispondermi. Quando mi azzardavo a chiederle di ripetere perché non tutto mi era chiaro, lei mi guardava inebetita, quasi parlassi un’altra lingua, quasi le chiedessi qualcosa che non stava né in cielo né in terra e io mi vergognavo per non essere riuscita a spiegarmi bene, a farmi capire. Eppure, dentro di me, ero certa di avere parole bellissime e luminose. Collane di parole colorate e leggere che mi sembravano di cristallo, d’argento e di oro; azzurre come l’acquamarina degli orecchini e dell’anello di mamma, dono di nozze della sua nonna. Le mie parole erano per me verdi smeraldi e rossi rubini, tutte le pietre preziose che avevo visto brillare sui gioielli antichi di nonna Angelina, che li conservava in un enorme fazzoletto color ocra, chiuso nel comò (non esistevano allora le casseforti nelle banche) e che tirava fuori per matrimoni e feste importanti e sistematicamente perdeva. Anche mamma perdeva spesso bracciali e collane di oro. E anch’io ho ereditato questa antica iattura. Non ricordo più quanti monili di nonna, di mamma e miei io abbia perduto nel tempo. Quanti passi a gambero lungo le strade percorse in precedenza per un improbabile recupero, reso impossibile dallo scoramento dovuto ai risultati sempre negativi. Dapprima mi disperavo, poi imparai a trattenere le lacrime e a evitare recriminazioni e rimpianti

(pərdémə rə crəstiànə…) (perdiamo le persone)

la tua giusta filosofia nel dare importanza a ciò che realmente era importante.

E, come i gioielli da adulta, così da bambina perdevo tutte le mie preziose e luminose parole! Pomodororossofuoco non le capiva. Ed io, in quel primo anno di scuola, avevo avuto sempre paura di pronunciarle con lei e con gli altri. Le avevo chiare nella mente ma le perdevo prima che si facessero parola, suono, voce. Anche le compagne di classe parlavano una lingua a me sconosciuta, il loro dialetto, e spesso le sentivo ridere per frasi un tantino maliziose che riguardavano il sesso, i baci e gli abbracci fra innamorati, le parti più nascoste del loro corpo… (…).

Non ero riuscita ad entrare nelle loro confidenze. Mi sembravano sconcezze che mi lasciavano dubbi e curiosità e che mi portavo dentro come un fardello pesante, di cui non ero riuscita a liberarmi e di cui non riuscivo a parlare con nessuno. Neppure con mamma.

A fine anno, in prima elementare, proiettarono nell’androne della scuola il film “Il mago di Oz” ed io non ci capii assolutamente niente e ciò mi prostrò molto. Quella sera, chiusa in un silenzio di buia tristezza, mi feci mille domande, come mai mi era capitato prima:

‘Perché non capisco e non so farmi capire? Perché non imparo? Perché la scuola non mi piace? Perché perdo le parole? Dove vanno a finire le parole? Chi le raccoglie o dove si nascondono quelle che perdo io? Perché non so più capire neppure le fiabe che con papà capivo? Perché non me le racconta più nessuno? (…).

Questi i miei pensieri di tristezza, dopo quel primo anno di incomprensioni, frustrazioni, delusioni. E nessuno a sentirli i miei pensieri. Nessuno ad ascoltarli. Nessuno a farmi compagnia. (…).

Quella notte, stretta nel buio che mi avvolgeva e mi soffocava, sentii tra le mani il caldo umido della pioggia torrenziale delle mie lacrime.

         O memoria, la terra è il tuo ritorno

         negli occhi, le magnolie

         in un torno di gridi dai cortili

         traboccano, sui lividi ginocchi

         spunta l’età più grande come un’alba

             (Piero Bigongiari, “Vetrata”,

                  da Autoritratto poetico)>

(da Le piogge e i ciliegi, vol.II, op. cit)

 

E domani continuo perché desidero parlarvi di come io sia giunta dalle avvilenti “distonie” alle più confortanti “sintonie”. Per dare man forte al mio discorso tutto “a rovescio” (ma non troppo) di oggi! Angela

  

domenica 25 febbraio 2024

Domenica 25 febbraio 2024: Riscopriamo le PAROLE per scoprire SINTONIE, SIMPATIE, ANTIPATIE, EMPATIE IN VERSI

Per dirci PAROLE. Quali? Provo a fare un primo elenco:

Voci. A volte le voci sono più importanti delle parole. A volte le parole si dimenticano per tanti motivi. Le voci no. Rimangono impresse nella nostra anima: voci morbide acute profonde bianche. Anche le parole possono essere bianche e profondamente morbide, ma bisogna conoscerne il senso e il significato. Le parole possono ingannare. Le voci no. Le parole possono essere incolori o policrome. Spetta a noi scoprirle: una, tante, tantissime. Fiumi di parole. Gocce. Valanghe. Più nulla. Silenzio. Parole: gioco di parole (invenzioni). Parole: pesanti, lievi, trasparenti, opache, spente. Parole: ambigue (bugie come verità e verità che sembrano bugie).  Parole-pietra. Parole tristi, allegre, solitarie. Un coro di parole in sintonia, distoniche. Parole tra la folla. E parole che fanno follie. Parole soffocate. Accese. Vive. Parole tenere e parole dure. Parole come abbracci e parole come addii. Sussurrate. Trattenute. Urlate. Archiviate. Parole come maschere, parole vere. Perdute per banale errore oppure volontariamente abbandonate. Perché superflue, inutili, abusate. Un esempio? Resilienza. Termine più che mai abusato in ogni settore del nostro vivere quotidiano. L’abuso ne diluisce la forza e l’intensità. Occorre tingere di verde le parole per farle rifiorire. Parole da cercare, dunque, da trovare, da riprendere, da reinventare. Non più parole come offesa, ma parole come dono. Parole come progetto-idea. Da condividere. Per non essere mai soli. Perché oltre il vuoto di ogni silenzio finisce il cielo.

Non a caso, Le parole in fondo al mare di Primo Leone: due. Inverno/ per rifugiarmi/ in fondo al cuore. Sette. Il grano,/ una spiga/ e il suo desiderio/ di sole. Quattordici. In fondo al cielo./ Un gabbiano ferito. Sedici. Una conchiglia di luce/ per l’onda che ritorna. Ventuno. Un diavoletto anima.ramo d’illusione. Trentatré. Quattro gocce di pioggia/ due vetri/ una finestra.

“Primavera” di Vito de Leo: Prima/ della verità/ tutto è sogno./ Poi l’inizio,/ solletico di vento./ Passi leggeri, leggeri,/ sottile aria./ Colore nuovo,/ interpretazione,/ una forma/ si compie./ Azzardo di vita,/ passeggiata nel cuore.; “Il molteplice” di Vito de Leo: Si aprono scenari/ L’evanescente/ Può diventare memoria./ Tutto si può incendiare/ E la rosa diventare/ Una sospensione/ Sul palmo della mano,/ Il deserto una via./ Nessuna immagine/ prescinde dal resto/ delle cose/ Il tutto/ È molteplice,/ visione/ e realtà.

Angela Aniello: Ancora quando la vita ti sorprende/ Slaccia i sandali e va’/ E se anche a cuor leggero/ narrerai delle tue partenze/ Zampetterai più/ Armata di materia di luce.; Angela Aniello: Scivolerà il buio/ lo aspirerò d’un fiato/ e sarà specchio il cuore/ e stringerò il punto luce/ onnipotente/ per fissare la volontà/ di abitarmi felice.

“SONO” di Maria Concetta Giorgi: Io sono la pioggia,/ sono lo spicchio di luna/ sono il ragno che tesse la tela/ la rugiada che bagna il mattino./ Sono il muschio del nord,/ la punta di una matita rossa/ sono/ quello che dovrebbe essere/ e non è./ Sono la domanda e/ la risposta./ Ti cerco/ ti trovo/ ti rubo,/ sono il soffio/ sono quell’arco,/ quella freccia./ Sono l’acqua/ che mette in musica/ la mia e la tua/ anima. 

“VOLEVO DIRTI” di Rita Bonetti: Volevo dirti,/ non andartene/ senza di te/ non ci sarà più la bella estate/ e non imparerò l’assenza/ nella stagione che cambia segno/ ho giorni scontrosi/ senza di te che li guardi/ la mia solitudine/ è l’anima di niente/ un garbino leggero/ dentro l’orizzonte

(da un Azzurro spietato di imminente pubblicazione)

Ghiannis Ritsos: Non avevo da aggiungere/ altro verso,/ altra parola./ Nel tuo corpo vivevo/ tutta la poesia.// Mio blu - dicevi -/ mio blu./ Lo sono./ E anche più del cielo./ Ovunque tu sia/ io ti circondo.

“Tutti i sogni ancora in piedi” di Anna Mininno: Avvolgo e riavvolgo il nastro/ con maestria/ e chiedo alla notte di cogliere il testimone.; Anna Mininno: Non mi fermo a guardare chi passa/ Mi concentro su chi è passato/ Su chi ha lasciato impronte/ Su chi è semplicemente andato/ Su chi ha compreso e su chi non ha saputo farlo/ Non mi fermo a guardare chi passa/ fuori dalla mia porta/ Non più/ Da vecchi si diventa egoisti, forse sì o forse no/ E non mi fermo a guardare se sei tu/ che passi e non entri nella mia porta

Maria Pia Latorre: Sui miei palmi/ la tua carezza che esule/ cade fuori dal nostro/ abbraccio/ custodirò in silenzio/ e lì nei palmi/ cresceranno roseti// Cammineremo sull’inferno/ senza esitare/ sposteremo il fiato del divino/ per ammansire la rabbia// Nemmeno un grano di polvere/ sui nostri sandali/ quando andremo a cercare ciò che qui non è

Gianni Antonio Palumbo: Percepisco il richiamo del mare./ Come un’anfora/ che ambisca a custodire il mio delirio./ Come una madre antica/ che pianga il nido vuoto./ Accogliere il soffio della sua voce./ Con l’indolenza lieve/ d’un angelo/ per ignavia sbalzato via dal cielo./ Io/ che degli angeli/ non veglio la luce.

Roberta Lipparini: Sono di quelle che hanno scelto di restare./ Di essere tana, nido, casa per i ritorni./ Il letto fatto. Il pane.// Sono di quelle che hanno scelto di aspettare./ Il fuoco acceso. Il libro tra le mani./ Il cuore affacciato alla finestra

“L’aria intorno alle altalene” di Marco Brogi: La vita è un incidente./ Può farti molto male/ o quasi niente./ Scrivere è una richiesta/ di risarcimento danni,/ un tentativo che pulsa/ nel ventre delle parole.

(poesia proposta da Angela Aniello)

“LA GELATURA DEI MANDORLI” di Luigi Lafranceschina: Una iattura la siccita e la grandine/ Per il lavoro del contadino/ E quando il sole di febbraio/ Si stringe nello scialle/ E si copre la faccia/ Annacquata e abbottata/ Arriva la carogna della gelatura/ E un languore si intrude/ Tra i rami della pergola/ Incinti dei piccoli germogli/ E dei grappoli che stanno dentro./ Capatosta il mandorlo/ Che mette a repentaglio/ La prima fioritura/ Per fare bella figura/ Tra i fratelli ancora abbottonati./ E quando la farinella/ Imbianca i tetti e l’anima/ Al sole gli viene il crepacuore/ E il gelo ammazza foglie e gemme/ Ghiaccia le vene della zucchina/ E al tempo della mia infanzia/ Mio padre taciturno e incazzato/ Non aveva occhi per piangere./ Solo l’ulivo scorza dura/ Regge al cielo di febbraio/ Ma brutta fine i fiori dei mandorli/ E le mandorle che stanno dentro./ E quest’anno chiaconi senza mandorla/ E Natale senza mandorlato e mostaccioli!

“Sabato” di Apulo Scriba (alias Mario Sicolo): Screpola la sera/ un muro di silenzio// E la pioggia cade/ come un destino/ accende luci lontane/ come stelle solitarie.// È/ il cuore d’inverno/ un talismano perduto/ nella conta dei giorni

Vincenzo Mastropirro: Passerà l’epoca degli orchi/ e ci ritroveremo di nuovo nudi/ ad ammirare il paradiso/ che si è nascosto dietro l’angolo/ ed io, ogn-e tande squelquàisce/ spio, per vedere che succede.// Passerà, sono sicuro che passerà/ l’età dell’invidia e dell’odio/ e ci ritroveremo abbracciati/ sotto gli alberi di pioppo/ che si allungano sempre più/ verso il cielo di Monet.// Passerà quel lasso di tempo sporco/ dove gli uomini non sanno/ nan sapene cambò, non sanno vivere e/ passeranno le genti che sanno si polvere/ nascosti negli anfratti di terre lontane/ e passerà, deve passare/ ova passò cure timbe/ fermo come il chiodo nel palmo di Cristo.

(da Operette da sottoscala /Emersioni ed. 2020)

 

Carlos Ruiz Zafon: L’invidia è la religione dei mediocri. Li consola, risponde alle inquietudini che li divorano e, in ultima istanza, imputridisce le loro anime e consente di giustificare la loro grettezza e la loro avidità fino a credere che siano virtù e che le porte del cielo si spalancheranno solo per gli infelici come loro, che attraversano la vita senza lasciare altra traccia se non i loro sleali tentativi di sminuire gli altri e di escludere, e se possibile distruggere, chi, per il semplice fatto di esistere e di essere ciò che è, mette in risalto la loro povertà di spirito, di mente e di fegato.

(da Il gioco dell’angelo, Mondadori, Milano 2008).

Angela De Leo: Nel giardino addormentato/ di mandorlo tre rami/ s’ingemmano di sole/ ai cancelli dell’alba./ Salutano l’allodola/ che canta l’antica canzone/ fiorita d’infanzia/ petali rosa di strana primavera./ E la gazza s’inazzurra di cielo/ ladra di perle di gelo./ I mici, gli scriccioli infreddoliti/ un lontano latrare di cani/ la gatta col ventre gonfio/ dimentica dell’ultimo nato/ cappottino bianco come di neve/ occhi di verde smeraldo/ rapinato alle foglie bambine/ e zampine nere/ rubate al buio della notte/ a un passo dalle stelle./ Di rosso l’aurora accenderanno/ con i loro fanali appesi ai rami i sogni./ Nuvolette rosa già ricamano/ di pioggia il cielo di panna/ e zucchero filato/ che lacrima cristalli/ imbrigliati tra rami spogli/ al chiarore soffuso/ di luna piena./ Al mandorlo strappano gemme appena dischiuse/ (l’argento del sogno/ non ancora fiorito/ già lacerato…)

“Hai mai provato a guardare il cielo?” di Arnoldo Foà(attore, regista teatrale, doppiatore, cantante, scrittore, poeta – 24 gennaio 1916 Ferrara – 11 gennaio 2014 Roma): Hai mai provato/ a guardare il cielo/ a stenderti su un prato/ accarezzare un fiore/ a seguire con lo sguardo/ cime, foglie, aurore/ che spuntano di nuovo tra l’azzurro e il sole.// Hai mai provato/ a guardare il mare/ come tu fossi un pescatore/ silenzioso sulla riva,/ a seguire con lo sguardo/ una scia che traccia rosso l’orizzonte/ scoprire che unisce l’oriente e l’occidente.// Hai mai provato/ a scegliere una via/ come tu fossi un viaggiatore,/ lasciarti trasportare dall’istinto/ andare in giro per il mondo/ tra mari, monti, pianure, deserti/ imbrigliato muto o guidare un sentimento.// Hai mai provato/ a costruire un sogno/ come tu fossi un costruttore,/ soltanto con l’aiuto del tuo cuore./ Senza avere per le mani una città/ un progetto, un permesso, una licenza,/ grattacieli e grandi spazi di speranza.// Hai mai provato/ a guardare il cielo,/ a lasciarti guidare da una stella/ a far della tua vita un sogno/ lasciare ogni cosa che si avveri/ come nella favola più bella.

E per oggi mi sembra giusto concludere qui. Ma c’è qualcosa che è altrettanto giusto ripetere per non dimenticare: abbiamo assaporato insieme tante PAROLE poetiche, tanti VERSI diversi eppure tutti catturanti, svettanti, rigeneranti. Di ciascuna possiamo cercare, come già detto:

- La “derivazione” e giungere alla radice, o a più radici che si sono sovrapposte e stratificate nel tempo, o continuamente modificate (l’Italia terra di perenne conquista), senza perdere, a mio parere, l’humus, che ne conserva la validità etimologica e semantica.

- La “significazione” che, come sappiamo, è molto di più del significato: è azione che penetra a fondo nella parola per scoprire altri significati nascosti, e il senso più misterioso e notturno del “linguaggio poetico”.

E, del resto, sappiamo che la parola, nel suo significato certo e chiaro, si forma nell’emisfero sinistro del nostro cervello, che presiede alla “razionalità”. È la “parola del giorno”, essenzialmente maschile.

La parola nel suo “senso smarginato e misterioso” si forma nell’emisfero destro, che presiede al lato sinistro. È portatrice di emozioni (sentimenti, fantasia, immaginazione, creatività, visionarietà). È la parola notturna, appunto, che riguarda essenzialmente l’universo femminile.

Oggi i due registri poetici tendono sempre più a contaminarsi. Ed è un superamento positivo di stereotipi che hanno creato molte perplessità ed equivoci fino al recente passato.

- “L’intonazione” che ci permette di scoprire il “canto interno che dà il ritmo alle parole fino a definire “lo stile” di chi parla e di chi scrive.

Ma l’intonazione ci fa ritornare alle diverse “VOCI”.

Giovanni Pascoli è stato il “cantore” in assoluto della suggestione, positiva e negativa, delle VOCI: della natura (con tutti i suoi suoni onomatopeici, definiti in maniera ossessivamente precisa); della vita quotidiana della gente del paese o dei campi, in una solitudine mai stemperata del tutto, durante l’arco della sua vita; le voci della morte, che attanagliavano le sue ossessioni notturne. Un esempio per tutti è la voce della sua mamma (“Zvanì”), ma anche quella del suo compagno di convitto che morì giovanissimo mentre giocavano tra loro con gli aquiloni. Ed ecco le voci che puntualmente ricorda con straziante memoria: Sono le voci della camerata/ mia: le conosco tutte all’improvviso,/ una dolce, una acuta, una velata (…).

Altrettanto straziante, ma più pacata, più matura e forse rassegnata, data la distanza di tempo, la conclusione: … Ti pettinò co’ bei capelli a onda// tua madre… adagio, per non farti male…

Parleremo ancora dell’importanza suggestiva delle voci che ci portiamo nel “forziere” dell’anima.

Alla prossima. Angela

giovedì 22 febbraio 2024

Giovedì 22 febbraio 2024: TEA DALMAS HA RAGGIUNTO NICO MORI TRA LE STELLE...

Ieri pomeriggio mi è giunto questo messaggio di Manuela, amatissima figlia di Nico Mori e Tea Dalmas: Mamma Tea non c’è più. Le ho scritto che il cuore è sempre più “straziato” ad ogni nuova perdita e che solo pochi giorni prima avevo avuto un incubo in cui mi sembrava di assistere da lontano a qualcosa di spiacevole che li riguardasse. Svegliandomi di soprassalto avevo “sentito” un pianto che mi aveva messo tristezza e ansia per tutto il giorno. E avevo concluso: Ora so perché.

E da ieri mi tornano alla mente i tanti episodi “del cuore” che hanno costellato la nostra vita in oltre quarant’anni di grandissima sincera affettuosa amicizia. Il primo incontro avvenne negli anni Ottanta del secolo scorso in una saletta in cui si presentava il primo libro di Nico Mori Non chiamarmi superficiale: un elenco di donne amate, da amare, da scoprire, raccontato con sottile ironia e autoironia a rendere frizzante e coinvolgente la serata. La cosa che più mi sorprese fu la risata di Tea, sua moglie. Tra i due si leggeva una incredibile complicità, dovuta al forte amore che li legava. Nico e Tea conquistarono letteralmente me e Primo. Mio marito, del resto, si ritrovò in perfetta sintonia con la scanzonata autoironia di Nico. Stringemmo subito un sodalizio durato fino alla morte. Alcuni giorni dopo, infatti, Nico era nella Sala degli Specchi del Palazzo di Città di Bitonto a presentare una delle mie prime pubblicazioni, non ricordo più quale, ma sicuramente una delle mie prime sillogi di poesie. Tea era tra il pubblico ad applaudire. E non ci siamo più persi di vista. Ormai le nostre pubblicazioni avevano le nostre prefazioni o presentazioni. E le nostre famiglie con i figli piccolini avevano le nostre case come luoghi di frequentazione in cui si parlava di poesia: sogni, progetti, incanti. E fiorivano anche i nostri libri da pubblicare, da presentare. Anna Maria, mia sorella, con la sua formidabile voce, ci accompagnava in ogni manifestazione culturale e letteraria, mostrando la sua grinta e la sua determinazione a rinascere dopo aver perduto il suo giovanissimo e innamoratissimo Nicola, che aveva solo trentatré anni quando, per un assurdo incidente d’auto, la lasciò con due bambine piccolissime, frutto del loro immenso amore. Poi, dopo oltre dieci anni di vedovanza, Anna Maria incontrò Gianni, amante della scrittura pure lui, che si rivelò ben presto ottimo marito e premuroso padre per le due bimbe i lei e i suoi tre figli, nati da un precedente matrimonio. Purtroppo Anna Maria dopo un po’ di anni dovette abbandonare la sua chitarra per alcune allergie che le procuravano preoccupanti crisi d’asma. Ma si era sempre insieme. Si stava bene insieme. Il primo a lasciarci per sempre, nel 2008 fu Primo e aveva soltanto sessantasette anni, ma negli ultimi anni aveva trascurato molto la sua salute, nonostante i nostri continui solleciti a prendersene cura. Saremmo dovuti andare ad una visita di controllo solo un paio di giorni dopo…

E, intanto, il 2015 con grande gioia pubblicammo un libro di Tea molto importante per la sua famiglia e sicuramente di grande valenza storica per la nostra Casa editrice: Puse. Chi è Puse! Mi sembra importante conoscerla attraverso le stesse parole di Tea che vibrano in una sua lettera che precede tutto il libro:

Miei cari, Ho custodito gelosamente questo diario scritto per mia madre e affidatomi dalla nonna Vinka, con l’intento, un giorno, di tradurlo in italiano, perché ne restasse memoria nella nostra famiglia. Ora il proposito è diventato realtà, grazie anche al grande aiuto di Nico e Manuela: Nico ha saputo trasformare la mia traduzione “letterale” in un testo più “letterario”, vivo, conservando ed esaltando l’ironia e la curiosità intellettuale che animavano lo scritto e le parole della nonna e tracciando utili riferimenti storici. Manuela è stata impagabile per il lavoro al pc, la correzione delle bozze e l’impaginazione.

Man mano che traducevo, mi tornavano alla mente i tanti pomeriggi d’estate a Spalato, a casa della nonna Vinka, dove trascorrevamo le vacanze estive. Seduta sulla sua poltrona a dondolo, sul balcone, all’ombra dei rami di un grande fico mi raccontava della nostra famiglia, degli zii Ivo e Braco e dei nostri antenati.

In questo diario sono citate delle persone che ho conosciuto da piccola, per cui tutto quanto scritto dalla nonna mi è ancor più familiare. Aver tradotto questo diario è stato per me un atto d’amore verso la nonna, i miei genitori, mio fratello, i nostri figli. Per questo vorrei che i ragazzi avessero questo ricordo della “none Puse” e del meraviglioso nonno Franco, che non hanno conosciuto, il mio amato “papacci”, come lo chiamavo da piccola.

Traducendo e rileggendo questa storia, più di una volta i miei occhi si sono inondati di lacrime… ma non di dolore, piuttosto di tenerezza e nostalgia. Spero che questo scritto abbia anche per voi un grande valore sentimentale, come lo ha per me. Vi voglio bene. Tea

La prefazione al libro è mia. E mi piace riportarne qualche stralcio, per chiarire meglio chi è Puse e perché è così importante nella vita di Tea e di tutta la sua famiglia:

Puse è innanzitutto un atto d’amore di Tea Dalmas nei riguardi di sua madre Jelka, chiamata Puse, e di sua nonna Vinka Sperac Bulic (e chiedo scusa per gli accenti giusti che non so mettere), giornalista e femminista ante litteram nei primi anni del Novecento in quella terra mittleuropea tra Italia, Croazia e Dalmazia, che ha, nella storia di questa famiglia, come fulcro Spalato. (…). Si tratta, infatti, della pubblicazione del diario, che sua nonna aveva scritto dalla nascita della terzogenita, avvenuta nel febbraio del 2019, dopo parecchi anni da quella dei primi due figli, al 1953, anno in cui con una lettera accorata Vika, dopo circa dieci anni di silenzio per aver chiuso il diario con le nozze della sua amatissima Puse, lo riprende per cercare col suo amore e la sua tenerezza materna di consolarla per la morte prematura dell’adorato Franco, stroncato da una grave malattia cardiaca.

(…).

Ma Puse è anche la straordinaria testimonianza di uno spaccato di vita che coinvolge sì due donne, madre e figlia, quindi due generazioni a confronto, ma anche un intero popolo, anzi più popoli con la loro tormentata storia che riguarda ideali di libertà e soprattutto di rivendicazione di appartenenza ad un ceppo storico-culturale piuttosto che ad un altro; ideali e rivendicazioni, che fecero di quegli anni e di quei territori veri e propri campi di battaglie, acerbe e devastanti, a volte anche cruente o di forte tensione propagandistica e sociale, senza ottenere reali soluzioni di giustizia e di equilibrio tra le sacrosante aspirazioni indipendentistiche, talvolta anche romantiche, dettate, anche in quelle terre, dagli “eroici furori” di tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento (vedi l’impresa di D’Annunzio a Fiume e a Zara), e la concreta vita quotidiana della gente comune e dei suoi sacrifici per affrontare nuove e destabilizzanti situazioni famigliari e domiciliari come profughi o esiliati.  

Esperienza che toccò anche a Puse e ai suoi figli Tea e Rafo, che trovarono rifugio e ospitalità in terra di Bari.

<La “Storia di Puse” si conclude improvvisamente in una fredda mattina di marzo del 1991, seduta in cucina davanti a una tazzina di caffè, tra le dita una sigaretta mai accesa…>

Diciassette anni dopo Manuela Mori scrive di lei:

Mia nonna veniva dall’altra parte del mare, suonava il pianoforte ed era una regina, sola e straniera. Scappata dalla guerra, venuta nel profondo Sud del 1945. Fumava e portava i pantaloni, ed era uno scandalo. Vedova a trent’anni e con due figli da crescere, straniera, diversa. Capita da pochi, amata da pochissimi. A me è toccato trovarla, una mattina di marzo. La sera prima le avevo promesso che ci saremmo viste per stare un po’ insieme. Promessa non mantenuta. Per anni ho sognato film dell’orrore, silenzi, distanze. Mai un sogno felice, mai un abbraccio onirico, mai pace. L’ho amata tanto quanto mi manca. D’estate, quando torno dall’altra parte del mare, il primo bagno in mare è per lei. È, lei.

Il mio primo incontro con la Fine.

Le medicine, la solitudine.

Una vita in salita, ladra di sorrisi.

La canzone di Natale, il pianoforte.

Il tè alla menta, le sigarette.

Il nostro ultimo capodanno insieme, solo ti e io.

               Il profumo di lavanda.

Le carte, i cruciverba, il corso d’inglese a 45 giri.

               I libri gialli e i film western.

                    L’italiano a modo tuo.

           Il tuo grande, sfortunato amore.

Gli occhiali rosa e la tinta peldicarota al battesimo di mio fratello.

                                Il mare, i cani.

      Il pesce rosso nella vasca da bagno perché stesse più largo.

Tu seduta sul wc a sferruzzare, che ridi mentre sguazzo nella vasca col pesce, vestita di sana pianta.

Diciassette anni dopo, è solo ieri.

Non ti ho mai sognata, o almeno mai come avrei voluto.

Ti ritrovo nel volto di mia madre, e in un rito tutto mio.

Quando ogni anno torno dall’altra parte del mare, e davanti agli occhi, all’alba, eccoti.

                                                                     Con immenso amore,

                                                                                     Manuela

 

La Posfazione è di Nico. Bella. Sincera fino in fondo. Esplicativa dei tanti momenti bui vissuti in silenzio dalle due donne, madre e figlia, pur di non turbare il già scarso equilibrio socio-economico- familiare che entrambe stanno vivendo; ed esplicativa del travagliato momento storico che stanno vivendo l’una lontana dall’altra:

La “Storia di Puse” si incrocia anche con la tremenda storia dei popoli d’Europa in quegli anni: alla sua nascita, nel 1919, Zara è nel territorio del regno di Jugoslavia ma nel 1921, secondi gli accordi internazionali di Rapallo che ratificano il trattato di pace si Versailles del 1920, la città viene assegnata all’Italia e lei è già profuga con la sua famiglia, a due anni, verso Spalato, in territorio croato.

Poi… poi… poi… tutti gli avvenimenti si snodano fino all’adolescenza, la giovinezza, l’età matura di Puse. La sua venuta con i figli a Bari.

Il resto è storia che i nipoti conoscono benissimo e che Manuela ha sintetizzato con splendide parole e una tenerissima poesia.

Valeva la pena di raccontarvi una storia con tanto amore e tanto dolore, vissuta da Tea, Manuela e gli altri di casa fino a ieri. Solo fino a ieri.  Perché il pianto di Manuela, che ha tenuto tutta la notte tra le sue le mani di sua madre, perdendosi nei suoi occhi offuscati, diventi oggi la nostra preghiera, che raggiungerà, ne sono certa, Tea e Nico che si stanno abbracciando tra le stelle…

A presto. Angela