sabato 25 novembre 2023

Sabato 25 novembre 2023: Giornata Internazionale per l'eliminazione della violenza contro le DONNE...

Fu tutto in un istante

il dirsi arrivederci ed era addio

in quel presentimento

che mai ci abbandona

E fissa momenti

in cui tutto accade ed è eternità.

(a.d.l., “in un solo istante”)

La nostra umanità alla deriva. Ed ecco alcuni esempi che fanno male. 1° agosto 2020:

Ho dovuto attraversare il silenzio prima di ritrovare il senso delle parole e dare voce ad uno sgomento senza fine: il primo agosto di tre anni fa una donna a Crema aveva deciso di protestare contro un mondo che molto probabilmente non riusciva più ad accettare, dandosi fuoco in un parco appena fuori città. Circa venti passanti si fermarono per assistere alla sua disperata protesta senza muovere un dito, anzi filmando col telefonino la “scena” quasi fosse un film e non una tragica realtà. Solo un signore scese dalla sua macchina per prestarle soccorso, aiutato da un paio di ragazzi che accorsero con un estintore. Invano. Non ci fu modo di salvarla. Vano anche l’intervento del 118 che, chiamato d’urgenza dal pietoso soccorritore, non ritenne opportuno neppure portarla in ospedale, avendone constatata la morte. Ma la stessa sindaca di Crema rimase sconcertata e fortemente provata dalla terribile vicenda, non solo per l’indifferenza dei suoi concittadini, quanto e soprattutto per la loro assoluta mancanza di umanità.

Uno su venti l’assurda statistica che la mente registra, dopo giorni di muto rifiuto di pensare, per una sopravvivenza istintiva, alla penetrazione profonda e dolorosa di questa sconcertante realtà dei nostri giorni. E ne avverte la fiamma ustionante nelle viscere e si ribella. È una realtà talmente inaccettabile da urlare ora al cielo lo sdegno e la paura: sdegno per la nostra società alla deriva, dominata ormai da un linguaggio che non appartiene più agli uomini e neppure alle belve che riteniamo feroci (pur sapendo che agiscono per istinto o per fame e per dare da mangiare ai propri cuccioli), ma alla tecnologia digitale che ci ha resi sempre più schiavi della comunicazione virtuale a discapito di quella reale; paura perché, attraverso la dipendenza patologica da smartphone e tablet con l’iperconnessione continua, sempre più si sta producendo tra i piccoli, gli adolescenti, ma anche tra adulti e anziani, un progressivo “isolamento sociale” e “distacco dalla realtà”.  Con conseguenze davvero pericolose per la nostra stessa salute fisica e mentale.

Macchine tra le macchine, dunque. E l’acutezza della mente non disgiunta dalla sensibilità del cuore? Appiattite se non del tutto azzerate, come tanti comportamenti di teppistelli di scuola primaria ormai evidenziano e dimostrano. E non sembra più il caso di liquidare il fenomeno con qualche vignetta o battuta per evitare di sottolinearne gli aspetti negativi tout-court, per via dei suoi innegabili aspetti positivi, di cui bisogna tener necessariamente conto ai nostri giorni: siamo reperibili in tempi supersonici; possiamo mandare un messaggio facendo solo un clic; ritroviamo in men che non si dica amici perduti nel tempo; possiamo essere informati di tutto a tempo di record…

Diventa, comunque, sempre più urgente qualche amara o drammatica riflessione: come salvarci dallo scempio della nostra anima cristallizzata in una sorta di glaciazione dell’anelito spirituale nella totale desertificazione del cuore?

L’episodio terribile di Crema non è isolato né riguarda una sola città. Basta osservare la realtà che ci circonda o leggere, guardare, ascoltare gli avvenimenti della cronaca quotidiana per inorridire di fronte ai tanti casi di bullismo e cyber-bullismo, che i piccoli e gli adolescenti praticano con violenza inaudita, utilizzando anche dei video di scene raccapriccianti che vengono fatte circolare poi sulle chat e sui social network, in un crescendo di delirio di onnipotenza e di presunta immortalità, nonché di manipolazione delle coscienze delle vittime fino a indurle, come a volte è accaduto, persino al suicidio.

Cosa scatta nella mente di questi ragazzi? Cosa è venuto a mancare nelle prime fasi della loro vita? Indubbiamente l’amore e la cura dei genitori, mentre si è aggiunto l’esempio di una società distratta, indifferente, egocentrica. Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, ha scritto spesso di “società liquida” e senza più “puntelli” valoriali perché rivolta esclusivamente ai consumi e all’aspetto materialistico della vita. Purtroppo anche lui ci ha lasciati da poco orfani della sua mente protesa a cambiare in meglio il mondo. Con l’unica risorsa possibile: l’AMORE.

Un bambino atteso, amato e allevato con cura non potrà mai diventare un ragazzo violento o un uomo senza scrupoli. Certo, non dobbiamo sottovalutare le influenze ambientali e sociali e il cattivo esempio che ne deriva. Ma niente, a mio parere, è più forte dell’AMORE, quello autentico che non lascia spazio alla mistificazione e, nelle personalità più fragili, alla penetrazione di comportamenti alienanti e fuorvianti.

La donna di Crema fu identificata. Per la polizia, che sta facendo indagini sulla sua dolorosa vicenda, ha un nome e un’età. Ma per tutti noi è rimasta senza volto e senza storia. Molto giovane, anche se non più giovanissima, ha reso visibili, col suo gesto disperato, sicuramente un dolore nascosto, ma forse anche una mancanza, un’assenza, una delusione, un tradimento, una difficoltà economica divorante, una solitudine subìta e non accettata, di cui non sapremo mai.

La sua coscienza obnubilata da un peso troppo grande sul cuore per impedire persino alla sua anima di volare oltre ogni miseria umana? Non lo sapremo mai.

Ma è la nostra coscienza che dovrebbe risvegliarsi, e ribellarsi fortemente alla narcosi   della realtà virtuale e farsi lucida e attenta custode della nostra realtà “reale” e della nostra umanità. Quella autentica, vera, legata ai valori di sempre, per rinascere infinite volte e magari permettere nuovi tenerissimi voli alle anime deboli o spezzate e distrutte. Abbiamo tutti bisogno di tenerezza, che lo si voglia ammettere o meno. “Nessuno si salva da solo” (M. Mazzantini). Frase riproposta da Papa Francesco nelle sue straordinarie omelie in Santa Marta.

 Se uno su venti sente ancora il senso della sacralità della vita, c’è ancora speranza che il rigagnolo si faccia fiume, mare, oceano. Non può essere troppo tardi.

Sono le gocce, una ad una, a formare le distese delle azzurre acque e a sollecitare il nostro stupore, che ci permette di ritrovare il miracolo del sentiero fiorito della nostra spiritualità tra il bianco spumeggiare improvviso delle onde e farsi nuova sorgente di Innocenza e di Vita. Forse, Preghiera. Dovremmo, però, vincere le innumerevoli CONTRADDIZIONI che stanno alla base della nostra stessa esistenza. Estremi che ci affascinano e ci spaventano persino nella stessa natura.

Mi riferisco ai tanti femminicidi che accadono di continuo, a volte sotto i nostri occhi, il più delle volte ne abbiamo contezza attraverso i telegiornali. E qui scatta la “notizia”: tutti ne parlano, tutti hanno una loro opinione e si allarga a dismisura il “siparietto” di chi narcisisticamente ama la vetrina con foto della vittima di turno, persino canzoni orribili e terribilmente oscene, a mio parere, tik tok vaneggianti. Sarebbe meglio il silenzio per lasciare che le vittime “riposino in pace”. Occorre, magari, spezzare una lancia per chi ha scritto una poesia, fatto un disegno, proposto una prosa sofferta, con assoluto candore e sincera commozione, postandola su FB, nuova Agorà di ogni sentimento e risentimento, che sfiora, anche via web, la sacralità della gioia e del dolore.

Ma parlavo prima di contraddizioni. Riguardano noi umani spesso “disumani” e il nostro blaterare su tutto. Il più delle volte senza cognizione di causa. E ci sfuggono realtà come quelle denunciate dall’autrice Robin Norwood nel suo libro ormai datato Donne che amano troppo (Feltrinelli, Milano 1985), con prefazione di Dacia Maraini, che non si risparmia mai su questo versante. Realtà come la “Sindrome di Stoccolma”, per cui la vittima s’innamora del proprio carnefice e non riesce a lasciarlo, sperando in un suo ravvedimento. Realtà come quella vissuta da tanti uomini che hanno avuto mogli terribili (peggio della Santippe di socratica memoria), che li hanno alienati e distrutti psicologicamente portandoli ad atti di violenza sconsiderata o a totale chiusura in un mondo di gelo e di indifferenza a tutto, persino alla vita (senza con questo giustificare qualsiasi atto di violenza. Forse di sana ribellione sì).  Realtà come incompatibilità culturali, caratteriali, sociali, familiari, che logorano rapporti di lunga durata, di forzata convivenza entro quattro mura, troppo strette per lasciare un respiro di libertà. Realtà come matrimoni paravento, come un tempo accadeva, tra uomini omosessuali o bisex, con inevitabili conseguenze sulla coppia, eventuali figli, la stessa famiglia. Realtà come atavici pregiudizi duri a morire in certi ambienti e strati sociali, pregiudizi che inquinano rapporti di coppia, delle famiglie, dell’intera comunità.

E i bambini? A quali conseguenze vanno incontro? Quali colpe hanno? Ne parliamo abbastanza? Li ascoltiamo davvero? Quanto importante il parlarsi. L’ascoltarsi. Per capirsi. Per aiutarsi. E invece…

E i social oggi non sono estranei a molte di queste realtà vissute con false identità e nick-name fasulli, che sembrano dare diritto a doppia personalità, a forzature di ogni genere, a un linguaggio banale oppure volgare, scurrile, aggressivo. E i più giovani si sentono autorizzati, senza ancora aver maturato senso critico e convinto discernimento tra bene e male, a seguirne gli esempi.

Sono realtà così composite e complesse, a sempre più a vasto raggio, che non vanno ignorate o criticate, ma lette, studiate, accolte o rigettate senza clamori, proclami, fanfare e suoni di tamburi. Con oculatezza, serenità di giudizio, umana pietà, ma anche umana giustizia. Tanta umiltà.

L’arroganza dei nostri giorni è un’altra realtà dei nostri giorni. Ritengo che in passato fosse meno praticata. Ma potrei sbagliarmi. Occorre confidare nel cambiamento. Ogni trasformazione è inevitabile e necessaria. Sperando sempre di ritrovare la via giusta del CUORE.

Mi piacerebbe sentire il parere di chi legge queste mie riflessioni come sempre chilometriche. Grazieeeee. Angela     

 

venerdì 24 novembre 2023

Venerdì 24 novembre 2023: MATTEO GELARDI e i suoi spettacolari spettacoli al PETRUZZELLI di Bari...

ricamo di esili steli, luminosi ed eterei, a rendere foglia di Cielo ogni nuova alba. Da vivere come fosse l’ultima o la prima, in attesa della dorata malinconia del tramonto, curvo verso le prime ombre della sera, che l’eterna Creazione degli Universi vince, e in cui si fa Anima ogni nostro Respiro… per farci “rinascere infinite volte” (a.d. l.)                                                                                                

E oggi voglio portarvi tutti con me al Petruzzelli di Bari per condividere con voi, miei carissimi lettori, emozioni, stupori, meraviglie. E comincio dal 2017, data da cui tutto ebbe per me inizio.

Teatro Petruzzelli - Bari: “Art & Science 2017”

Lunedì 27 novembre alle ore 20 si riapre il sipario del meraviglioso Petruzzelli di Bari

(prestigioso Teatro rinato a nuova vita dopo l’incendio che lo distrusse il 27 ottobre del 1991), che si stupirà, ancora una volta, della felice mescolanza di Arte e Scienza intessuta dalla fervida mente creativa del medico/scienziato Matteo Gelardi, noto ormai in tutto il mondo per le sue ricerche e teorie sulla Citologia Nasale.

Mi piace riportare qui, a pochi giorni dallo spettacolo, dedicato quest’anno alle “quattro stagioni” (primavera, estate, autunno, inverno), e che mi vede coinvolta, ancora una volta, nella sezione della Poesia, le emozioni della prima volta al Petruzzelli, ospite da allora, ogni anno, del mio generoso e straordinario amico Matteo:

<Ho ancora negli occhi miliardi di stelle e galassie a rovesciarsi su di noi dal palco e dalla meravigliosa cupola del Petruzzelli, brulicante di antichi splendori. E nel cuore mi palpita una emozione senza fine per gli innumerevoli fiori di luce di cielo e di sole, esplosi dal genio artistico di un otorinolaringoiatra, Matteo Gilardi, che, osservando al microscopio semplici cellule nasali, affette da varie patologie, ha scoperto forme e colori da immortalare in quadri che hanno la magia delle tele di Pollok o di Kandinsky. Poi, ecco che  prodigiosamente, con la bacchetta magica della stilista Giovanna Gelardi, gli stessi colori siderali si trasferiscono su fluttuanti abiti di tessuto leggero ed evanescente, e danzano su esili steli di donne-fiore, impalpabili farfalle con ali trasparenti e lievi che cedono passi di tenerezza e di passione a ballerini che hanno corpi fragili e forti e intrecci di onde e sogni di stelle e pensieri di luna a indicare il viaggio e la meta, che Pina Bausch inaugurò nella sua Berlino degli anni Settanta.

È il viaggio “dentro e fuori di noi” ad affascinarci e ad affascinare il numerosissimo pubblico accorso da ogni dove. Il Teatro è gremito, assiepato persino in Galleria.

E noi, nel palco 25, quasi a toccare con mano tanta meraviglia, ci esaltiamo alla visione dei palpiti ciliari che pulsano sull'ampio schermo, seguendo la guida coinvolgente dello stesso Fondatore della Accademia Nazionale della Citologia nasale e coraggioso Ideatore di questa commistione scientifico-artistica, culturale e letteraria senza precedenti, passando dalle fosse nasali agli spazi sconfinati dell'Universo con una lievità e profondità di linguaggio che potrebbe catturare anche gli occhi grandi di un bambino. Stupore!

Ma meraviglia delle meraviglie è l'immensità dei miliardi di miliardi di stelle che friccicano a inimmaginabili distanze di anni luce, ridotte però ai pochi passi, quasi una passeggiata divertita e divertente del vulcanico Astrofisico Fabio Peri che, da impareggiabile affabulatore, ci permette di quantificarle, queste enormi distanze, con un divertissement quasi fosse gioco di ragazzini in un campo di calcio a rincorrere il pallone.

Dietro le quinte un pullulare di artisti in attesa di venire alla ribalta con la musica, i canti, le danze, gli assoli prodigiosi, i commenti poetici, la gloria dei violini e dei piatti di una batteria avvolgente e inimitabile, che hanno colmato i nostri cuori di immagini di cielo con A. Parson, di luna con i Pink Floyd, di viaggio e di conquista con gli Europe e Evangelis...

Lacrime di commozione per “Guardastelle” di Tony Bungaro, nostro amico di vecchia data, nella stupenda e insolita interpretazione del violoncellista Nicola Fiorino e della cantante lirica Claudia Cusumano. Con stelle a migliaia nei nostri occhi incantati.

La serata si conclude con un middley di canzoni di Frank Sinatra per le sonorità vocali di Cosimo Mitrani. 

Sono ancora incredula, stupita, estasiata e... insolitamente  mi mancano le parole per dirlo>.

Ma poi vorrei continuare per definire meglio la figura, l’arte, la scienza di Matteo Gelardi:

<Dalla magica intuizione dello scienziato-artista Matteo Gelardi, nata dall’osservazione di alcune patologie nasali, ecco illuminarsi su tela materica le proiezioni di queste cellule osservate al microscopio che d’improvviso palpitano come cuori pulsanti o sbocciano come fiori in un prato o brulicano di luce stellare nell’infinito universo. Alla razionalità dell’osservazione e sperimentazione scientifica si affianca, nella mente dell’otorinolaringoiatra, colorata di indaco e violetto, i colori della poesia, della creatività e della spiritualità, il desiderio di trasformarli in Arte. Tra l’umano e il divino. Tra la terra e il cielo. Tra il corpo umano e i corpi planetari e interplanetari a darci la dimensione del piccolissimo e invisibile agglomerato di cellule che si invera nell’immensità di miliardi e miliardi di stelle, lontane da noi miliardi di anni luce e che pure a noi ritornano per emozionarci nelle lunghe notti del buio del cuore. E tutto si fa Bellezza, Suono, Movimento, Palpito, Armonia. Dentro e fuori di noi. E tra tanto incanto, Giovanna (Genny) Gelardi ha scoperto che le forme e i colori, immortalati da suo padre in quadri che hanno la magia delle tele di Pollok o di Kandinsky, prodigiosamente, con la sua bacchetta magica di giovane e originale stilista, si trasferiscono su fluttuanti abiti di tessuto leggero ed evanescente, e danzano su esili steli di donne-fiore, donne-farfalle, impalpabili, con ali trasparenti e lievi, che incedono con passi di tenerezza e di passione, ora spavaldi e fieri, ora danzanti di allegria tra intrecci di onde e sogni di stelle e pensieri di luna, e ricami di cielo. Un caleidoscopio vivacissimo di colori, tratti sempre dalle fosse nasali di alcuni pazienti e analizzati al microscopio e riprodotti in fotografie artistiche su tele materiche molto particolari, inconsuete e incredibilmente ‘speciali’, opera della fervida fantasia e della eccezionale creatività dello scienziato, in primis, Matteo Gelardi>.

E vorrei spendere qualche parola per ARTE& SCIENCE& POESIA e MUSICA.

<E sarà il volo più alto possibile perché la musica, a mio parere, è il filo diretto con la divinità, la sacralità del Creato, l’immensità di Dio. La Sua Perfezione.

E, intanto, vorrei puntualizzare.

Non ho una mente scientifica, pure la scienza mi affascina per le scoperte e le invenzioni che realizza, in grado di offrire maggiore “ben-essere” all’umanità, quando non è causa anche di distruzione e di morte. E ritengo, comunque, che alla base della scienza ci sia un pensiero creativo: prima viene l’intuizione e poi la sperimentazione che si basa su processi razionali.

Non ho una mente tecnologica, pure mi piego all’utilizzo di certi suoi prodotti e strumenti perché mi accorgo della loro utilità, quando non ne facciamo i nostri padroni.

Ho una mente poetica, che mi fa guardare ancora oggi, nonostante i miei tanti anni di vita, il mondo con occhi incantati e visionari e tutto viene vissuto da me con lo stupore di “Alice”, sempre immersa nel suo “Paese delle Meraviglie”, mentre “attraversa lo specchio” della realtà confortata dalla immaginazione e dalla fantasia, che sono di per sé “creazione” e “ri-creazione” in un fantastico gioco senza fine...>.

In realtà sono tanti gli abbinamenti che Matteo Gelardi ha creato con le diverse Arti, ma io mi fermo qui perché mi ci vorrebbe un trattato per riportarli e commentarli tutti, riporto invece una mia poesia, intitolata “Di mai spenta poesia”, che penso sia sintesi di quanto detto fin qui:

Ha occhi d’incanto questa luna di madreperla

che sfiora con dita d’argento

l’universo di stupore

colmo di parole e sorrisi e incontri

tra miliardi di stelle e di pianeti

a raccontarci il mistero della vita

su una Terra che vibra di bellezza

e sorride d’azzurro e di splendore.

Qui volano sogni come aquiloni.

Qui passi si fanno racconti di uomini

e radici. Qui gli ulivi cantano

l’antica nostalgia di barche e marinai.

Qui ogni ricordo si veste di speranza.

Attraversa paesi in festa un’allegria di piazze

formicolanti di gente di fede e miscredente.

Qui ogni ansia si acquieta tra le pagine di un libro

e si riprende a sognare sotto la bianca Artemide

che d’innocente candore veste i boschi

ma arde di desiderio e brucia d’incendi i pianeti

per sciogliere al giorno un cantico antico

e sempre nuovo tra geometrie di costellazioni

e dadi per imbrogliare la sorte prima dell’alba

       perché germogli di mai spenta Poesia.

E giacché siamo in un tardo autunno, che sta cedendo le sue foglie ancora intrise di sole all’inverno già in attesa di legittimare la sua coltre di neve, ecco il mio commento alla stagione autunnale, una delle quattro in cui Matteo Gelardi ha diviso lo spettacolo che vivremo insieme lunedì 27 novembre 2023. Fra due giorni appena.

<Autunno: si parte dall’autunno con una splendida fotografia di “rinite catarrale”. Non mi sembra vero! È un tripudio di petali o foglie o cuori in dissolvenza tra il rosso e il giallo, spolverati da una cipria di quel rosa antico che le dame dell’Ottocento con un piumino di seta passavano, con colpetti circolari, sui loro visi di porcellana e che ora il vento autunnale sparge un po’ dappertutto, trascinando e confondendo nel suo delicato vortice colori forme dimensioni. E sembra un palpito, un volo, una sinfonia d’autunno, mentre l’occhio giallo del sole pare farsi spazio tra quei petali palpitanti per guardare con curiosità la strana metamorfosi dal microcosmo di due fosse nasali al macrocosmo di un cielo fiorito di incanti…>

E vi lascio in questo incanto. A prestissimo. Angela

 

                                                                                          Angela De Leo

 

 

 

 

 

martedì 21 novembre 2023

Martedì 21 novembre 2023: pensando alla Giornata Mondiale dei Diritti dei Bambini...

Lì scorgerai i sogni che scivolarono via

e tinsero d’aquiloni il tempo costruito

per andare contro vento,

i palloncini colorati che mi facevano bambina,

Le nuvole e le fanfare, il gioco delle sagome

ballerine e cigni e volti innamorati sui profili

di luna e fiabe che mi raccontai

 

Ieri è stata la Giornata Mondiale dei Diritti dei Bambini. In un primo tempo si trattò di una Dichiarazione redatta da Eglanty Jebb che, con la sorella Dorothy, nel 1919 aveva fondato “Save the Children. Poi, con l’istituzione dell’ONU, il 20 novembre del 1959, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una nuova Dichiarazione con dieci diritti fondamentali: Diritto di giocare. Diritto al cibo. Diritto ad avere una casa. Diritto alla salute. Diritto all’educazione. Diritto alla vita e ad avere una famiglia. Diritto di avere una nazionalità. Diritto all’uguaglianza.

Ma già nel 1900   Ellen Key, una scrittrice e pedagogista svedese, pubblicò Il secolo del bambino, che apparve in Italia nel 1906, oggi ripubblicato dalle Edizioni Junior, Bergamo 2020. Si gridò al miracolo. Finalmente, dopo l’Emilio di Rousseau, qualcuno si prendeva cura del bambino fino al Settecento del tutto ignorato dagli adulti come Persona avente dei diritti. Persino il padre aveva potere di vita e di morte su di lui.

In realtà, a distanza di oltre 100 anni, quasi tutti i diritti dei piccoli vengono ancora oggi disattesi in quasi tutti i Paesi del mondo. E abbiamo vari esempi anche qui in Italia. Ne voglio ricordare qualcuno di solo qualche anno fa. Mi trovavo a Roma e guardavo il cielo, che ci offre pur sempre uno squarcio d’azzurro anche quando nuvole, pesanti come macigni, s’addensano sul nostro capo. Ed è già un respiro di speranza. Ma, improvvisamente, quelle nuvole diventarono scure come nella “Tempesta” del Giorgione, quando, guardando la televisione, il cielo mi piovve addosso, franando con le lacrime dei rifugiati del Centro di Accoglienza “Cara” (sempre stato tranquillo senza aver dato mai problemi di alcun genere), che veniva fatto sgomberare dalla Polizia di Stato. E la memoria subito mi riportò ad altri periodi bui della nostra Storia. Noi, esseri umani alla deriva. Si ha un bel dire: non è la stessa cosa. I tempi cambiano e non si può tornare indietro. Vico ci ha insegnato un’altra teoria. Quella dei “corsi e ricorsi storici”, in cui non sono i casi storici a ripetersi, ma l’uomo che è, purtroppo, sempre uguale a sé stesso. “Sei quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo” (Quasimodo).

Dove, in questo caso, il cielo?

Ancora luci ed ombre nel cielo, certo, proprio come quella mattina. E ancora sagome scure di nubi ad attraversarlo. E, ad un tratto, mi sono accorta che era un cielo solo intuito perché era, ancora una volta, coperto e lontano. Troppo lontano per poterlo afferrare ed offrire agli occhi grandi e innocenti di un bambino.

Ogni bambino ha diritto al suo cielo azzurro con voli d’aquiloni ad assecondarne la necessità di spazi e di giochi. Anche i ragazzi hanno diritto ai loro spazi di libertà. E ancor più i giovani perché hanno più sogni da inseguire, più progetti da realizzare.

Già un Campo di Accoglienza ha dei recinti che ostacolano la libertà, impediscono ai sogni di percorrere un cammino possibile perché possano realizzarsi. E i bambini, i ragazzi e i giovani, di cui era fatta quella comunità di profughi, provenienti dalle parti più diseredate del mondo, sognavano soprattutto quella libertà lì negata, che pure appartiene di diritto a ciascun essere umano. Domani saranno uomini che spezzeranno catene perché un uomo non può essere profugo a vita. Dovrà pur integrarsi e riconoscersi nella sua dignità di uomo libero, che appartiene ad una comunità e ad una terra, in cui sentirsi a casa. La casa: nostro bisogno primario e nostro rifugio per la protezione che ci offre, la libertà che ci concede. Ma, quando persino questa comunità viene smembrata e dispersa in nome di una legge, scritta dagli uomini che non conoscono le leggi del cuore, ma solo quelle dell’utile personale, contrabbandandolo per bene collettivo, e fingono di adottare gli stessi provvedimenti per CasaPound, rigurgito di  nuovi fascistelli senza memoria storica e senza un minimo di consapevolezza del passato, ma silenziosamente evitano drastiche chiusure delle loro case/strutture nazi-fasciste sempre più dilaganti, allora anche quel minimo di libertà viene calpestata e i profughi tornano ad essere senza volto, senza nome, senza identità.

Si distruggono sogni e illusioni. Si frantuma il cielo.

Quanto dolore per quel cielo in frantumi che non è più il mio cielo. 

Due giorni fa, pensavo anche ai fondali marini, dove si inabissa quotidianamente il cielo, sconfitto ormai dai bambini che giacciono in fondo al mare, come la nostra vergogna di uomini che fingono di non vedere, di non sapere, di non essere colpevoli mai, perché i colpevoli sono sempre gli altri. I nemici sono sempre gli altri.

Ci sono mille modi per assolversi, ma l’umanità è solo una ed è legata al nostro comune destino di esseri mortali, che hanno bisogno esclusivamente di solidarietà e d’amore per attraversare il mare/male della vita, e andare avanti, facendosi coraggio vicendevolmente e dandosi la mano per non cadere. Un po’ come la poesia di Gianni Rodari insegna: “se tutti i bambini si dessero la mano farebbero un girotondo intorno al mondo”. Rodari, un poeta straordinario da me conosciuto e subito amato per la sua geniale tenerezza regalata ai bambini di tutte le età. E, invece, come possiamo notare dai terribili fatti che stiamo registrando in questi giorni, a quanti bambini oggi è dato di stringersi la mano per fare un girotondo intorno al mondo? Persino la voce di un poeta/educatore è stata oscurata. E non esiste più neppure il cielo per i tanti bambini incolpevoli dei misfatti degli adulti. Non sempre un bambino è “il luogo della speranza”. Sempre più spesso è stato nei millenni della nostra storia, fino ai nostri giorni, un “non luogo”: un luogo senza.

Sempre più spesso circolano sui social fotografie della disperazione, vestita con la carne di un bambino; della tristezza, con il volto triste di un bambino; dell’impotenza, con le braccia impotenti di un bimbo che non può più giocare. Alcuni bambini vengono fotografati contro un muro o su un gommone che fa acqua, dietro un recinto di ferro quasi fossero animaletti o, peggio, belve feroci. Per creare una maggiore distanza tra un bambino e un suo coetaneo.

Oppure tra le braccia di sua madre che non sa più dove andare e a quale santo o diavolo votarsi per sfamare il suo bambino.

Come si può voltare le spalle ad un bambino e dire “non m’interessa”, “non è colpa mia”, “non ci posso fare niente”, ed esibire leggi e decreti “salva poltrone e prebende” dietro falsi proclami di onestà e di scelte coraggiose in favore “del popolo e della gente bisognosa” e mandare allo sbaraglio centinaia di poveri cristi, che finiranno davvero per delinquere pur di trovare di che sfamarsi e sfamare i loro bambini?

Io trovo ingiusto tutto questo e nessuno può convincermi del contrario. Neppure chi mi parla di lotta agli scafisti, che vanno condannati e assicurati alla giustizia. E, se davvero si volesse, oggi i mezzi ci sarebbero. E non devo essere io, profondamente ignorante in materia, ad indicarli. C’è chi potrebbe farlo e non lo fa.

E nessuno mi venga più a dire, con uno slogan, diventato anche di moda alcuni anni fa: “nessuno tocchi Caino”. Perché, allora, io urlo: “sì, è vero, nessuno tocchi Caino fino a quando nessuno più osi toccare Abele. Quanti Caini e quanti Abeli ci sono in questo nostro mondo desertificato di buoni sentimenti? Quanti sotto lo stesso cielo che ci vede nascere e morire? E perché Caino deve essere difeso con la sua mano armata e assassina, mentre nessuno difende Abele, inerme e fragile e indifeso?

Un bimbo è un bimbo e non un agnello sacrificale. Un bimbo è un progetto di vita e non un rimorso. Un bambino è attesa e non memoria.

Un bambino chiede solo amore. Come dimenticarlo? E allora urlo con tutto l’amore che mi appartiene: “Restituite ogni bambino all’amore che gli spetta, ed io restituisco ogni Caino alla pietà. E facciamo in modo che nessun bambino si trasformi in Caino solo perché è stato privato dell’amore necessario, e ha conosciuto fuga, pericolo, solitudine, abbandono, povertà, soprusi, paura, dolore, lacrime, malattia, morte. Abele, in questa atroce disumanità, può trasformarsi in Caino. E, in questo caso, io non mi sento più innocente perché non so davvero chi vada salvato per primo”.

Sì, questo ho scritto, quando imperversava la follia di chi avrebbe dovuto salvaguardare dei profughi che finalmente, in qualche modo, si sentivano a casa e che finalmente avevano anche trovato accoglienza e lavoro nel territorio. E io continuo a urlare perché occorre prevenire. Non in termini voluti da Caino, che non conosce più misericordia, ma in quelli attesi da Abele, che è ancora inerme e innocente.

“Pamoja Tunaweza!!!” (“Insieme possiamo!!!”) era scritto in un campo profughi a Nairobi in Kenia, alcuni anni fa. E, in tanta tristezza e solitudine, anche di bambini, era pur sempre e ancora “un respiro di speranza”. Quello a cui aneliamo in questi nostri giorni di umanità dimenticata per riscoprire il cielo, con i suoi squarci d’azzurro.     

Quanto amore ci attendiamo e quanto disamore registriamo quotidianamente. Ieri come oggi, come sempre. Questo è quanto purtroppo vado registrando quotidianamente.                              

 

domenica 19 novembre 2023

Domenica 19 novembre: 100 anni dalla nascita di Don Milani (19 novembre 1923-2023)

Parlare di don Lorenzo Milani è sempre una gioia immensa perché, in qualità di preparatrice di tanti allievi, per oltre trent’anni, fino al 2001, per i Concorsi di immissione in ruolo nelle Scuole di ogni ordine e grado e persino per i Dirigenti scolastici, ho sempre scelto di parlare del “prete scomodo” e della sua scuola di Barbiana, dove era stato confinato per punizione e dove svolse la sua opera pedagogica e didattica nei riguardi dei ragazzi provenienti dai ceti più umili, che venivano ignorati o ripetutamente bocciati nella scuola pubblica. Quest’ultima, nel 1962, aveva unificato i due rami scolastici: la Scuola Media, a cui si accedeva attraverso gli esami di ammissione, e l’Avviamento Professionale, a cui si accedeva direttamente dopo la quinta elementare. Nella scuola media unificata venne decretata la “mortalità scolastica”. Don Milani accolse i ragazzi “rifiutati” dalla scuola statale lavorando con loro ventiquattro ore su ventiquattro e tutti i giorni compresa la domenica. Era una scuola poverissima con un solo libro di testo e tanti giornali, che i ragazzi a turno leggevano per cercare le parole che non conoscevano e che imparavano a conoscere nel loro significato grazie alle discussioni tra loro, al confronto continuo di idee e di intuizioni, alle spiegazioni del loro maestro. Don Lorenzo dava estrema importanza alle parole, mezzo di emancipazione da ogni schiavitù mentale, sociale, morale. Era questo il suo metodo pedagogico-didattico: guidare i ragazzi poveri di ogni età a scoprire il senso, il significato, il valore di ogni parola per diventare cittadini liberi, consapevoli e sicuri di sé, solidali con gli altri. Nella sua scuola, inoltre, gli allievi non solo imparavano ad esprimersi correttamente in italiano, ma imparavano più lingue per potersi recare all’estero con l’intento di fare nuove esperienze lavorative, seguite sempre da lontano dal loro Priore, e per acquisire maggiore capacità critica. Diventavano così consapevoli dei propri talenti, ma anche della carenza di conoscenze a più vasto raggio. Scoprivano, inoltre, le personali inclinazioni da seguire per realizzarsi al meglio di sé, senza inutili e dannose perdite di tempo.
La scuola di Barbiana, del resto, non aveva cattedra né banchi, ma venne costruita tutta dai ragazzi a seconda delle loro capacità, abilità, predisposizioni. Tagliarono alberi, lavorarono il legno, costruirono un lungo tavolo con delle sedie. Intorno al tavolo ci si sedeva per leggere i giornali, commentarli, discuterne, confrontarsi, parlarne in maniera critico-costruttiva.
Don Milani, era stato mandato a Barbiana per punizione dai suoi superiori, ma non si scoraggiò mai, mai si dette per vinto. Anzi! E qui riprendo quanto da me già scritto su di lui e la sua scuola:
<Fece scrivere su un cartello all’ingresso della scuola il motto “I CARE”, ripreso poi come mantra da molte organizzazioni politiche e religiose, fino a uno degli ultimi Presidenti degli USA: Obama.
“Tutto mi sta a cuore”, una frase che riassumeva bene le finalità di cura educativa di una scuola orientata a promuovere una forma di sollecitudine per le persone, la natura, le cose.
Il prendersi “cura”, infatti, è la forma più alta dell’amore da donare agli altri, sia che si tratti dei nostri cari, sia che si tratti dei ragazzi che ci vengono affidati per un intero corso di studi: dalla Scuola dell’Infanzia alle Scuole superiori.
Il “prendersi cura” sottintende una sorta di necessaria continuità tra la famiglia, primaria fonte di educazione, e la scuola, tra un grado e l’altro della istituzione scolastica. Tra un ciclo e l’altro. Tra un anno e l’altro.
Non basta alla scuola dei nostri giorni “accogliere”, occorre prolungarne l’azione perché l’educatore abbia tempi e modi per avviare un processo di conoscenza dei suoi allievi; conoscenza, che li porterà ad acquisire quel senso di fiducia e di autostima che li accompagnerà per tutta la vita, sempre grati a quel “maestro” che si era rivelato tre volte tale (magis-ter) con loro, nell’arco di tempo dell’insegnamento-apprendimento svolto insieme.
La didattica, arte/scienza dell’“insegnare” non deve essere mai disgiunta dalla “matetica”, arte/scienza dell’apprendere.
“I care” trasporta come messaggio la disponibilità a non essere centrati su sé stessi e riconcentra l’attenzione e l’interesse al mondo degli altri, sollecitando un comportamento di rispetto della dignità della persona. Di ciascuna persona. Di ciascun alunno, con i suoi “punti di forza” da valorizzare e le sue “fragilità” da superare.
“Tutto mi sta a cuore” era, comunque, una frase in netta contrapposizione al “Me ne frego”, di pretta marca fascista.
Don Lorenzo aveva, nonostante le sue radici alto-borghesi, colte e laiche (nipote del grande Comparetti, filologo, grecista e latinista, che gli inculcò l’amore per la PAROLA), era soprattutto un uomo di sinistra>.
Con grande disappunto dei genitori agnostici e anticlericali, non prese mai la laurea e, dopo un periodo di sincera conversione, volle farsi sacerdote per essere in contatto con la Parola di Cristo e del Vangelo, per seguirne le orme, mettendosi sempre dalla parte degli ultimi, ma ribellandosi alla stessa chiesa, da lui ritenuta tradizionalista e classista, come riteneva tradizionalista e classista la stessa scuola pubblica. Le due Istituzioni erano restie al cambiamento, come lo era la società del tempo, ancorata al passato senza la luce della inevitabile, necessaria trasformazione anche culturale che l’avrebbe traghettata verso il presente e il futuro delle nuove generazioni.
Ma l’analfabetismo era dominante, di qui anche le prevenzioni e i pregiudizi.
Don Lorenzo, invece, respirava aria di ribellione da tutte le “catene” negative del passato. Voleva soprattutto una chiesa e una scuola per la gente umile e diseredata, in quanto il buon Dio non faceva distinzioni tra i ricchi e i poveri, avendo dotato tutti della stessa intelligenza e capacità d’imparare.
<Era per i poveri, i derelitti, per tutti coloro che non avevano mai avuto “voce”, sia nella loro storia personale che in quella più ampia della Storia dell’umanità>.
Soprattutto era per la costruzione di un pensiero libero di tutti i suoi ragazzi, nessuno escluso, perché ciascuno si potesse confrontare con tutti i possibili interlocutori. Anche coltivando uno spirito acuto all’insegna dell’ironia e dell’autoironia, armi vincenti nel misurare sé stessi e i propri sogni e progetti per trasformare il mondo.
Infatti, <a Barbiana, oltre al motto “I care”, i ragazzi costruirono un mosaico, che appesero alle pareti, con raffigurato un ragazzo con l’aureola, intento a leggere un libro. Si trattava di un messaggio simpaticamente autoironico, riguardante il “santo scolaro”.
La prova della loro bravura nell’usare appropriatamente la parola scritta fu, però, Lettera ad una professoressa (pubblicata da LEF una piccola casa editrice fiorentina), frutto interamente del loro impegno nel denunciare tutte le pecche della scuola pubblica di quegli anni, una scuola che “curava i sani ignorando i malati” e che era solita “fare giustizia fra disuguali”, non tenendo conto delle diverse condizioni sociali, culturali familiari e umane di ogni allievo. La gente di quel tempo, però, non era preparata al cambiamento nella scuola come nella vita e per questo la Lettera, che aveva avuto varie fasi di stesura per renderne agevole la comprensione dei contenuti a tutti, persino agli analfabeti (quasi tutti a quell’epoca) venne in un primo momento accolta freddamente dall’opinione pubblica.
Solo dopo la morte di Don Lorenzo ha avuto la risonanza pedagogica e sociale che meritava. (Ma non sempre e non ancora).
E qui mi sembra doveroso riportare almeno una pagina della Lettera per comprendere l’importanza pedagogica fondamentale di un “maestro” tre volte tale per la cura che ebbe con tutti i “Gianni” che la scuola pubblica di quegli anni (e non solo) confinava all’ultimo banco in attesa di sbarazzarsene quanto prima.
"Io vi pagherei a cottimo..."
… Se ognuno di voi (insegnanti) sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l'ingegno per farli funzionare.
Io vi pagherei a cottimo.
Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una.
Allora l'occhio vi correrebbe sempre su Gianni (l'allievo più svantaggiato).
Cerchereste nel suo sguardo distratto l'intelligenza che Dio ci ha messa certo uguale agli altri.
Lottereste per il bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie.
Vi svegliereste la notte con il pensiero fisso su lui a cercar un modo nuovo di fare scuola, tagliato su misura sua.
Andreste a cercarlo a casa sua se non torna.
Non vi dareste pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna d'essere chiamata scuola…

Don Lorenzo Milani (da Lettera ad una professoressa, pag. 82)
A soli 44 anni don Milani, affetto da una grave malattia, si spense (26 giugno 1967), lasciando una eredità spirituale, oltre che pedagogica, di valore inestimabile.
Le sue ultime parole scritte furono rivolte ai suoi ragazzi:

Ho voluto più bene a voi che a Dio,
ma ho la speranza che Lui non stia attento
a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al Suo conto.

Eccezionale testimonianza educativa, umana, religiosa, spirituale che rimarrà sempre nel nostro cuore, nella nostra mente, nelle nostre parole>.

A distanza di cento anni la straordinaria attualità della sua scuola è evidente.

Oggi si parla, infatti, di scuola “inclusiva” che utilizza la didattica laboratoriale per andare incontro a ciascun alunno con un lavoro di gruppo in cui ciascuno dà il suo apporto in base ai mezzi culturali che possiede. Ottima anche la soluzione del “peer learning”, della didattica ambientale dentro e fuori la scuola, dei gemellaggi, delle visite scolastiche guidate, dell’apprendimento dei linguaggi multimediali fino a quello dell’intelligenza artificiale.
Ma, a ben guardare, non è stata questa la lezione di Don Lorenzo Milani nell’insegnare più lingue, nel mandare all’estero i suoi allievi a lavorare o a studiare, a seconda delle personali inclinazioni, nell’utilizzare quanto potesse tornare utile alla realizzazione dei progetti di vita di tutti e di ciascuno? Nel guidarli con fermezza paterna e tenerezza materna a rivendicare i propri diritti nella consapevolezza dei propri doveri per realizzarsi come cittadini del mondo, inseguendo il sogno di “farsi uomini liberi”?
Non a caso, molti di loro sono diventati sindacalisti, in quanto la sua idea di una scuola democratica era anche politica. Significativo è stato, a tale riguardo, anche il rapporto di Don Milani con Mario Lodi nei primi anni Sessanta perché la scuola “cambiasse il mondo” e fosse “di tutti e di ciascuno”.

Una scuola, dunque, della valorizzazione, non della selezione; del “mutuo insegnamento-apprendimento” perché nessun allievo potesse rimanere indietro, ma a tutti fossero date le stesse possibilità di crescita e di maturazione sociale e personale.

Ma ancora più significativo è stato l’incrociarsi di due vite abbastanza simili per credo pedagogico ed esperienza scolastica. Parlo di Don Lorenzo e di Gianni Rodari, quasi coetanei come età, entrambi ribelli alle regole sociali di quegli anni della loro formazione e di tutta la loro breve esperienza esistenziale. 1923-1967 la data di nascita e di morte del Priore di Barbiana, 1920-1980 la data di nascita e di morte di Gianni Rodari. Entrambi uomini di sinistra, anche se con origini sociali molto diverse: Don Lorenzo proveniente dall’alta borghesia ricca e colta, Gianni figlio di un fornaio morto prematuramente di broncopolmonite. Don Lorenzo fece studi classici senza laurearsi mai per via della sua vocazione sacerdotale, Gianni conseguì il Diploma Magistrale che gli consentì di fare il maestro per alcuni anni, poi divenne giornalista molto apprezzato e seguito di tante testate di sinistra, da <L’Unità> a <Paese Sera>. Entrambi puniti per le loro idee di sinistra. Gianni Rodari addirittura scomunicato perché comunista. Entrambi educatori e maestri rivoluzionari. Dai loro allievi molto amati, ma da alcuni intellettuali, docenti, presidi, giornalisti, contestati e denigrati come fautori di una scuola improvvisata, priva di programmi e di regole da una parte, fondata sulla fantasia più che sulla concretezza della realtà, dall’altra. Così Cesare Segre, filologo, semiologo, critico letterario e docente universitario. Così più tardi lo scrittore Sebastiano Vassalli e molti altri fino ai nostri giorni. Questi “intellettuali” accusarono e accusano Don Milani e Gianni Rodari di essere responsabili di una “didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare” e altri “capi d’accusa” così risibili da non essere neppure degni di essere evidenziati. Mi sembra opportuno, invece, ricordare che proprio Rodari recensì la Lettera ad una professoressa con le seguenti parole dolci-amare: un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da questo libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici (cfr: FLC CGIL SCUOLA UNIVERSITARIA E AFAM RICERCA, “Ma davvero è tutta colpa di Rodari e Don Milani?”.
A questo punto, non mi resta che riportare qui la famosissima poesia di Gianni Rodari “Una scuola grande come il mondo”: C’è una scuola grande come il mondo./ Ci insegnano maestri e professori,/avvocati, muratori,/ televisori, giornali,/ cartelli stradali,/ il sole, i temporali, le stelle./ Ci sono lezioni facili/ e lezioni difficili,/ brutte, belle e così così…/ S’impara a parlare, a giocare,/ a dormire, a svegliarsi,/ a volersi bene e perfino ad arrabbiarsi./ Ci sono esami tutti i momenti,/ ma non ci sono ripetenti:/ nessuno può fermarsi a dieci anni,/ a quindici, a venti,/ e riposare un pochino./ Di imparare non si finisce mai,/ e quel che non si sa/ è sempre più importante/ di quel che si sa già./ Questa scuola è il mondo intero quanto è grosso:/ apri gli occhi e anche tu sarai promosso!

Sono quasi certa che Don Lorenzo apprezzerebbe molto… 

martedì 14 novembre 2023

Martedì 14 novembre 2023: Ancora un ricordo di Dylan, il mio cane nuvola bianca...

Ieri abbiamo parlato di cani e del loro amore assoluto e oblativo per noi esseri umani che abbiamo la fortuna di trascorrere insieme un tratto della nostra vita. Gli animali domestici ci insegnano tante virtù che difficilmente possediamo. E oggi sento il bisogno di parlare ancora di Dylan, l’ultimo cane vissuto nel nostro giardino che ora pullula di tanti altri animali domestici e non: gatti, gatti innamorati che si baciano sempre vicini vicini e si scambiano il cibo; gatte sempre incinte e gattoni in cerca di avventure; gattini di tutti i colori, forme e dimensioni; tortorelle, gazze, scriccioli, pettirossi… che mi riportano al passato, quando ero definita in casa “la mamma degli animali”.

Ecco la sua storia, in parte anticipata ieri nella mia poesia a lui dedicata “ E la notte si fa silezio”:

Il 4 aprile del 1994 Dylan, un incrocio tra volpino e pastore maremmano, il nostro cane nuvola bianca, irruppe nella nostra casa e nacque a noi. Aveva ancora gli occhietti semichiusi e si reggeva maldestramente sulle zampine, tremava e aveva paura di tutto e di tutti. Decidemmo di chiamarlo Dylan. Da Dylan Dog, personaggio forte e coraggioso; l’intelligentissimo investigatore di casi truci, tra il noir e l’horror, tratti dell’omonimo fumetto creato da Tiziano Sclavi e disegnato da Claudio Villa. Pubblicato in Italia dalla Sergio Benelli Editore dal 1986, fu il mensile più letto negli anni Novanta. E non mancava mai nella nostra casa.

Ebbene, il nostro Dylan, a dispetto del suo nome, che gli avevamo dato proprio per sollecitarlo a rendersi emulo dell’eroe del fumetto, fu a lungo un cucciolo tremebondo. Persino il guinzaglio per portarlo fuori veniva da lui guardato con sospetto a tal punto che andava a rifugiarsi tutto tremante sotto il letto o dietro al divano per la paura che glielo infilassimo. E ci volle del bello e del buono per convincerlo che il guinzaglio serviva solo per portarlo fuori e riportarlo a casa incolume. Aveva imparato il suono della parola guinzaglio e, appena la sentiva pronunciare, correva a nascondersi. Tenerezza infinita!

Dylan era tutto bianco con le orecchie (due conchiglie trasparenti e leggere) di una rosa-sabbia delicatissimo ed era tutto sbilenco: aveva un orecchio teso e l’altro sempre piegato, due occhioni languidi e un po’ strabici, le zampine sottili e divaricanti. E non ebbe quasi mai vita facile, pur essendo amato con alterne vicende da tutti noi. Io ero la sua mamma. E, sempre con alterne vicende, mi presi cura di lui, come potevo, fino alla fine.

Fu anche un cane, suo malgrado, viaggiatore. Per un po’ di anni stette nella nostra casa, ma era destinato a rimanere per ore chiuso nella camera di Giuliano, mio figlio, per molteplici ragioni che non è facile spiegare in poche righe. Poi, proprio Giuliano lo portò con sé a Roma, sperando di fargli fare vita migliore. Invano. Ancora una volta la sua vita si svolse in una sorta di clausura nelle diverse case abitate dal suo padrone, che riusciva a portarlo fuori solo di notte, quando tornava a casa.

Alla fine, sia il cane che il padrone rischiarono la depressione perché in perenne attesa, il primo, in perenne ansia di evitargli quella solitudine così triste, il secondo.

Decidemmo di farlo tornare a casa da noi in Puglia. E qui ricominciò la sua prigionia da appartamento. Nessuno che potesse portarlo fuori e potesse prendersi cura di lui. Fu così che lo portai in una pensione per cani. Era un luogo ameno con gestione affidabile. Io andavo a trovarlo più o meno ogni quindici giorni, sottoponendomi allo strazio di sentirlo abbaiare di felicità ogni volta che mi veniva incontro per il nostro affettuosissimo abbraccio, ma guaire disperatamente ad ogni mio allontanarmi tra lacrime irrefrenabili per il dolore che gli procuravo. Così per due anni. Poi, si profilò l’ipotesi di vendere la nostra casa per una villa dove anche Dylan potesse vivere in libertà. E riuscimmo nel nostro intento. Ci spostammo di un po’ di chilometri dal nostro paese per una casa con ampio giardino, dove Dylan trovò la sua cuccia il 6 dicembre del 2001, giorno dell’onomastico di Nicola, mio adorato nipotino, a cui fu portato in dono. Giorni di felicità per tutti. Dylan era una nuvola saltellante e gioiosa tra tanto verde di alberi e di siepi allora spoglie, che sarebbero fiorite di rose a primavera. Ma anche qui non ebbe vita facile. Ben presto fu azzannato dagli altri cani della zona. Armatisi contro l’intruso per difendere il loro territorio e le loro femmine. Fu salvato a stento da un bravo veterinario che ricucì il suo ventre lacerato. Io ero in vacanza e al mio ritorno lo vidi ancora sofferente, con un enorme collare che gli impediva di leccarsi le ferite.

Si alzò a stento per venirmi incontro e lo vidi piangere. Sì, io vidi piangere per la prima volta in vita mia un cane, il mio cane, il mio amatissimo Dylan.

E quel suo addome lacerato divenne una profonda ferita nel mio cuore.

Dylan sopravvisse e per altri cinque anni è stato libero nel nostro giardino, con quotidiani scambi di sguardi d’amore tra me e lui. Le mie ansie quando correva oltre il cancello, il suo rassicurante ritorno, docile alle mie carezze.

Poi… non voglio ricordare. Il ricordo della sua morte è ancora una ferita aperta… il rifiuto di un altro Dylan nel giardino perché sarebbe un altro Dylan. Non il mio coraggioso l’eroe a donarmi una lacrima di solitudine infinita e d’infinito amore…

A presto tra noi per altre storie da raccontare e su cui riflettere. Del resto Alessandro Baricco ha scritto: “Una storia è un campo di energia prodotto nell’animo di uno di noi dall’improvvisa vibrazione di una tessera di mondo. la sua genesi può durare un attimo o incubare per anni. il suo tempo di germinazione è misterioso (da A. Baricco, La via della narrazione, Feltrinelli, Milano 2022, p. 3). E io amo le storie e amo narrarle.

lunedì 13 novembre 2023

Lunedì 13 novembre 2023: Il racconto di una "canara" che mi sta molto a cuore: SELVAGGIA C SERINI...

E comincia una nuova settimana in questo tempo che vola veloce e mi lascia senza respiro, ma leggo un racconto di Selvaggia C Serini, preziosissima traduttrice dall’inglese durante la giornata romana dedicata al suggestivo rito del Premio Gjenima da parte del grande poeta, scrittore e saggista Gjeke Marinaj, e mia tenerissima e coraggiosissima amica, la mia “Gazza” del cuore. Questo il suo breve ma intenso racconto:

<Sì, possiamo dire che sono una canara. Quando ho deciso di prendere un cane mio, ho letto libri, studiato alimentazione, poi portato il cane a educare. 

Il risultato, con Fry, è altalenante. Ha molto carattere e non si stanca se vuole qualcosa.

L'unica cosa però di cui mi pento davvero è stata di averlo "lasciato piangere" come tutti gli esperti mi avevano consigliato, la prima notte. Avrebbe dovuto addormentarsi in un'oretta, ha tirato fino alle 6, e io con lui, dall'altro lato della porta.

Alle 6 ha smesso di piangere. Ho aperto la porta. Mi si è messo in braccio come un cucciolo d'uomo. Non è un cane che si adatta alla solitudine. Ama tutti.

Quando ho scelto Pixie, aveva dei grandi occhi neri da bambina impaurita.

Non era proprio socializzata come dicevano, non voleva nemmeno camminare, poi eravamo in quarantena e non si poteva avvicinare altra gente coi cani. Lei si è innamorata di mio marito Francesco, la cosa è stata quasi immediatamente reciproca, e via così. 

Pixie è paurosa. Deve cercarti lei. Decidere se essere toccata.

All'inizio, dormiva nel kennel.

Una notte, una tempesta tremenda. Per la prima volta si lagna e non ulula.

Quando inizia ad ansimare come se avesse un attacco d'ansia o un infarto, prego Franci di liberarla.

È stata la prima volta che ha dormito con noi, sgomitando Fry e prendendosi tutto lo spazio in verticale tra me e Franci, e guadagnandosi così la definizione di Cagna Lungagna.

È strano, amare un cane.

Perché non c'è ambivalenza, quella che invece c'è sempre nei rapporti con gli altri esseri umani.

Non portiamo rancore ai cani come loro dimenticano all'istante che gli hai pestato la coda, mentre tu sei lì a scusarti.

È strano essere amati da un cane.

Non credo che lo meritiamo, tutto quell'amore. Chissà loro come lo chiamano. Chissà cosa gli passa per la testa, o nella coda, quando ci amano.

Stamattina, dormivo dopo il quarto ricovero in pronto soccorso in un mese.

Dopo un'estate di bellezza, pago un autunno di dolore.

Sono stata via due notti.

Stamattina, mentre dormivo, mio marito ha notato che la mia Cagna Lungagna, quella paurosa, quella diffidente, mi ha abbracciata come una madre.

Si è avvicinata, e mi ha stretta con la zampa. Io ho dormito bene e senza dolore per la prima volta in tre giorni.

Chissà che cosa le è passato per la coda>.

Breve, tenero, ironico, poetico, coraggioso questo racconto di Selvaggia. In poche righe ha avuto l’abilità, per me sconcertante, di parlare delle caratteristiche comportamentali di due cani, del suo coraggio nell’affrontare i ripetuti ricoveri in strutture sanitarie diverse, oncologiche, di Francesco, suo attentissimo e innamoratissimo marito.

-          Bio-Bibliografia: Selvaggia C Serini

Selvaggia C Serini, che ha la peculiarità di non rendere noto o mettere un punto al proprio secondo nome, è sempre stata un'amante della vita.

Nata appena fuori Roma, al fresco dei Castelli, è venuta alla luce con due mesi di anticipo, tanto era impaziente di vedere cosa ci fosse fuori!

Dalle primisssime poesie, scritte da bambina, ai racconti e ricordi familiari trascritti che preferisce tenere in una piccola cerchia di amici, non ha mai smesso di giocare con le parole.

È un'insegnante, ora in pensione per motivi di salute, che comunque non le impediscono di osservare il mondo e catturarne tutta la bellezza, con piccoli aforismi, poesie o fotografie.

Ha vinto diversi premi da adolescente, premi scolastici per brevi racconti e poesie, e allo stesso tempo recitava nella compagnia teatrale dell'istituto.

È traduttrice freelance da quando ha scoperto che sì, era un vero lavoro (ancora più parole!), e riesce a bilanciare questa sua passione con lavori più “seri”.

Ama ogni forma di arte, e ogni forma di bellezza. -

Diventa inevitabile, per me, parlare di Dylan, il mio ultimo cane, tanto amato ancora oggi che da tanto ha attraversato il ponte-arcobaleno dove i nostri amici animali continuano ad amarci di perenne gratuito oblativo amore.

<… Questa nuova casa mi ha permesso di riprendermi il mio cane-nuvolabianca che ero stata costretta a mettere in una pensione perché nella casa dei lunghi balconi e lunghi corridoi non c’era spazio per lui. Salti di libertà prima, ma subito dopo assalto di cani alla sua docile appartenenza al giardino di erbe e di fiori e vette d’alberi e ombrelli d’ombra. Si salvò solo per poco dalla furia dei suoi simili in branco a difendere un territorio già occupato.

Eppure questa casa di smeraldo e un respiro di pini e di rose aveva posto fine allo strazio del mio pianto e dei suoi guaiti ad ogni incontro (reso possibile dalla generosità e dall’amore per gli animali della giovane compagna di scuola di Ombretta e figlia della nostra carissima amica Dina, che spesso studiava con Lizia nella nostra antica casa del gelso e delle rose) e ad ogni nostro arrivederci. Per oltre due anni.

Il branco aveva lasciato traccia di sangue e di dolore e una lacrima a scivolargli al nostro nuovo ritrovarci dopo un mese di solitudine perché ero stata lontana. In vacanza in Salento. Come ogni estate. Nell’imperdibile mare di puro cristallo che lo Ionio mi regala. Lui, affidato alle cure d’altre mani.

Un cane che lacrima? Sì, raccolsi io quella lacrima di commosso benvenuto alla sua mamma-padrona. Dopo la ripresa, ha scodinzolato libero nel nostro giardino per altri cinque anni. In perenne attesa delle mie rare carezze e dei miei quotidiani occhi di tenerezza dal terrazzo a farlo sentire comunque amato. Poi anche Dylan mi ha lasciato con uno sguardo lungo di straziato fedele incondizionato amore mentre lo portavano, malato e stanco, a morire. Altro triste addio. Altro rimpianto. E nell’anima i tanti animali amati e perduti. Piccina, Lola, Ciccio, Fiorello, Nerina…  Neve, Luna e… 

Quella sera del suo perdersi per sempre alla mia carezza eravamo andati tutti noi al matrimonio di Raffaella, la figlia dei miei cognati Tonio e Maria Nilde, con Saverio, il suo ragazzo con qualche anno in più e tanto amore.

La mia carissima Maria Nilde, persa nelle brume incerte dell’Altrove che spero moltiplicato di stelle e di luce. Un matrimonio fiabesco tra onde di mare e un cielo d’alberi di foglie commozione sorrisi. C’eravamo tutti, tranne la madre che pure c’era tra quelle onde, quelle foglie, quei sorrisi.

Io e i miei figli stemmo tutta la sera e parte della notte in attesa di ricevere notizie di nuvolabianca dal veterinario che se lo era portato con sé nel tentativo estremo di salvarlo. Fu una notte lunga di festa sognante, ma altrettanto lunga di attesa e di pianto soffocato e da tutti ignorato. La mattina fu triste notizia della sua fuga solitaria tra le solitarie stelle, che si accendono anche del loro incolmato amore>.

E la notte si fa silenzio

              (per Dylan)

Mai più mi accadrà

di sentire il tuo respiro

in attesa del mio ritorno

dietro il cancello di casa.

Tua libertà senza confini

il cancello che si apriva

al tuo correre leggero

lungo la tortuosa strada

che a me ti riportava.

E temevo ansia di pericoli

per te che ignaro ignoravi

 ogni mio richiamo.

E le tue residue energie

misuravo da quel correre

festoso e impertinente

incurante degli anni

e di improvvisi agguati.

Alla tua gioia di vivere

mi allunavo ogni volta

in un’allegria di capriole

a dirmi il tuo stare bene

e il tuo volermi bene.

Nuvola bianca occhi teneri

morbido Dylan Dylan

sbilenco e bizzarro

tutto sbagliato tutto

come dovevi essere.

Affamato d’amore

eri tu a darmi amore

Eri tutte le bestiole

da me amate e perdute

e piante e mai più ritrovate

Eri la mia infanzia tenera

il mio cortile di rose

e Lola e Nerina e Fiorello

e Piccina e gatto Ciccio

         Neve  Luna

Il mio mondo la mia nostalgia

il mio candore di canti e lacrime

per ogni disperso richiamo.

Eri il cucciolo appena nato

occhi chiusi cuore tremante

alla vista d’un guinzaglio.

Zampine storte sguardo strabico

mi fecero di te innamorare

e giurare tenerezza e dolce cura

quasi fossi il bimbo ultimo nato

            al mio amore.

Delicato faccino bianco

pennellato di sabbia sulla

rosa conchiglia delle orecchie

attenta l’una ripiegata l’altra.

Eri cartolina illustrata e fumetto

Eri il tuo corrermi incontro

con salti di gioia per saluto.

Eri la tua tristezza

per una solitudine da giardino

che non avrei voluto regalarti

e ti accompagnò fino alla fine.

Ti giunga ora la carezza

che allora non ti ho dato

mentre ti portavano via.

Mi guardasti con pena d’addio

Forse sapesti del mio pianto

e di un dolore tuo quanto il mio…

 

Sei passato così come il tempo

l’infanzia la nostalgia il dolore

la giovinezza il sogno la speranza.

Senza accorgertene spero

attento a non ferirmi con le tue ferite.

 

(resta una voglia di pianto

 e un altro vuoto

da non potersi più colmare

perché il giorno muore

           e la notte si fa silenzio)

da A. De Leo, L’ora dell’ombra e della riva,)

E per oggi è tutto. Desidero, però, riportare qui la poesia del carissimo amico Luigi Lafranceschina dedicata al suo cane KLIMT il 27 ottobre, “Giorno dei Morti degli animali domestici che, secondo la tradizione, tornano dall’Oltre per visitare i loro proprietari e i luoghi in cui hanno vissuto…” (Luigi Lafranceschina):

KLIMT

Era un meticcio Klimt

Senza pedigree

Nato dietro la ferrovia

 Scovato da mio figlio sotto i resti

Di un divano abbandonato

E fu nostro con qualche protesta

Un netto aut aut

E un chiaro compromesso.

Mantello color latte

Di razza maremmana

Mi fu amico confidente

 E compagno di scarpinate

Antiglicemiche antistress

Quattro volte al giorno

Per più di tredici anni

Piovesse o nevicasse il cielo

Avvampasse o ghiacciasse l’aria!

Ma un giorno di marzo

Ruppe l’intesa a tradimento

Sciolse la bella compagnia

Infilò il ponte dell’Arcobaleno

Alle soglie del Paradiso

Dove mi aspetta ancora

Tra l’erba fresca e profumata.

Ma ogni tanto la sua anima

E solo quando ne ha voglia

Torna a farmi compagnia

E come sempre e come al solito

Mi annusa e mi lecca le mani!>

E ora chiudo davvero. Io prolissa come sempre non do tregua a voi che pazientemente mi leggete. Alla prossima…

sabato 11 novembre 2023

Sabato 11 novembre 2023: San Martino e il misterioso tepore della sua consueta breve estate, una volta ancora...

La nebbia agl’irti colli

piovigginando sale,

e sotto il maestrale

urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo

dal ribollir de’ tini

va l’aspro odor de i vini

l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi

Lo spiedo scoppiettando:

sta il cacciator fischiando

su l’uscio a rimirar

 tra le rossastre nubi

stormi d’uccelli neri,

com’esuli pensieri,

nel vespero migrar.

(Giosuè Carducci)

La poesia di Giosuè Carducci ci viene immediatamente alla mente, di anno in anno, l’11 novembre. Inevitabilmente. Perché inevitabilmente e magicamente l’11 novembre il sole squarcia le nuvole e ci regala il suo sorriso.

Ma per me l’estate di San Martino si colora di altri sensi e significati, legati ad un mio quasi-saggio, La coccinella dalle sette punte, che tra non molto sarà pubblicato e di cui riporto qui uno stralcio.

<Ricordo che circa un anno fa, il giorno di San Martino, 11 novembre, scrissi proprio qualcosa al riguardo e, per alcune riflessioni, ripresi tra le mani Alla ricerca della felicità di Simone Cristicchi e partii dalle sue due prime parole, su cui soffermarci per scoprire e focalizzare il bandolo della ingarbugliata matassa della nostra vita: “attenzione” e “lentezza”. Due parole che vado ripetendo continuamente tanto le ritengo importanti.

E, quel giorno, mi sembrò proprio il caso di ricordarle in quanto si festeggiava appunto San Martino, il santo del mantello diviso per donarlo a chi ne era sprovvisto.

La leggenda narra che un giorno d’autunno - molto probabilmente l’11 novembre - mentre usciva a cavallo da una delle porte della città di Amiens, in Francia, Martino s’imbatté in un uomo molto povero, nudo e infreddolito. In quel giorno, in cui era proprio il maltempo a farla da padrone, San Martino s’impietosì e decise di aiutare il povero. Senza pensarci due volte tagliò il suo mantello di lana per donargliene metà. Di fronte a quel nobile gesto, la pioggia dopo pochi istanti smise di cadere, il cielo si aprì e spuntò il sole, facendo diventare la temperatura subito più mite. Martino quella notte sognò Gesù che gli rivelò di essere lui il mendicante al quale aveva donato il mantello. Quindi leggenda vuole che, ogni anno, ci sia un’interruzione della morsa del freddo per commemorare quanto aveva fatto quell’11 novembre.  (cfr. il Quotidiano <IL GIORNO> 13 novembre 2021).

Sta di fatto che Martino da Tours, di nobile famiglia, nato nel IV secolo dopo Cristo, da militare divenne vescovo di Tours e poi santo. Ma non è solo una storia/leggenda cristiana; essa appartiene a tutte le religioni che festeggiano i santi. C’è anche una spiegazione scientifica, che sarebbe troppo lungo qui approfondire.

A noi basta fare riferimento all’“attenzione” che sicuramente il santo ebbe nei riguardi del mendicante, e alla “lentezza” con cui andava a cavallo, altrimenti neppure si sarebbe accorto della presenza dell’uomo, “nudo e infreddolito”.

Sono tutte queste le “ben più ampie prospettive” che si dischiudono ad ogni scoperta di nuovi orizzonti e nuovi mondi?

Ritengo proprio di sì, ma usando sapienza e umiltà, senza mai l’arroganza di essere detentori di assolute verità.

Sì, sono queste che fanno della “scoperta” il volano di ogni “cambiamento”. Scoperta e cambiamento e soprattutto umiltà sono altre parole meravigliose che il nostro cantautore-attore-poeta “rapina” a Pier Paolo Pasolini e al suo film-documentario “Comizi d’amore” del 1963.

Alla parola umiltà Cristicchi premette, tra l’altro, come esergo, una riflessione del geniale scienziato Albert Einstein:

Chiunque faccia scienza si convince che le leggi della natura manifestano l’esistenza di uno spirito immensamente superiore a quello dell’uomo, davanti a cui noi, con la nostra umana debolezza, non possiamo che essere umili. (cfr. frase di A. Einstein, https://le-citazioni.it) 

L’umiltà è, dunque, una dote necessaria all’uomo di fronte al mistero del Creato. Non se ne può fare a meno. Solo la nostra arroganza ci fa dimenticare questa necessità.

Vorrei sottolineare, a questo punto, l’importanza dell’umiltà dell’ascolto.

Ascoltare significa fare spazio all’altro. “Chi impara ad ascoltare si apre al tu e al noi,” superando il proprio egocentrismo, solipsismo e narcisismo. Impara a conoscere sé stesso, conoscendo e riconoscendo l’altro. Con umiltà e discernimento.

L’aprirsi all’ascolto, dunque, equivale ad ammettere la propria finitezza, presuppone un sapere di non sapere, un essere coscienti della perfettibilità delle proprie conoscenze, è mettersi comunque in discussione, un riconoscere nell’altro una persona che è portatrice di ragioni che non devono essere sottovalutate, ma appunto valutate (…) offrirsi al dialogo e all’ascolto comporta la decisione di correre dei rischi, comporta la messa in discussione delle proprie tesi e l’eventuale loro revisione o il totale abbandono” (cfr. R. Arnheim, Il potere del centro, Abscondita, Milano 2016).

E umiltà, amore e ascolto scopro nei seguenti brani in prosa e poesia. Il primo è opera del già citato Mario Sicolo, poeta, scrittore, giornalista e direttore di un Quotidiano on line, molto seguito nel mio paese di origine, il daBitonto.

Il brano riguarda il ricordo del suo amatissimo padre: … è un papà. Ed è subito una tempesta di ricordi che vibra nel cuore. La voce soave che contava favole sul ciglio del letto e ti insegnava a sognare. Lo sguardo verdazzurro che illuminava il sentiero dei giorni e tu non avevi più paura di nulla. Il sorriso lieve che splendeva d’aurora, vincendo tutte le tenebre del mondo. L’amorevole cura nel sollevare silenziosamente un lembo del lenzuolo per ripararti la spalla dal freddo della vita. Le strambe crosticine che nascevano sulla pelle senza un perché, come cicatrici di antichi dolori. E poi ti chiedono: perché leggi? Per rannicchiarmi dentro la pelle dell’anima, quando si fa sera, e perdermi dentro un labirinto di parole senza più sperare di ritrovarmi…

Quanta umiltà nei gesti quotidiani di amore e di tenerezza di un papà che non si risparmiava mai, nell’arco dell’intero giorno, dall’alba alla notte, nel dialogo sempre acceso con i suoi figli. Un dialogo spentosi troppo presto per non lasciare dolore e rimpianto. Di qui il rannicchiarsi di Mario “dentro la pelle dell’anima”, gesto tenerissimo di umiltà e di insostituibile amore, senza il quale persino nell’abito consueto alla lettura, per rifugiarsi nelle parole, Mario non riesce più “a ritrovarsi”.

E di Mario scopro solo alcuni giorni fa su FB la seguente poesia, postata dalla generosità di Mariateresa Bari, dal titolo “A chi non c’è più”:

So che ti manca/ quel libro che parlava di dolore/ la mano che sapeva le rughe del cuore/ la spalla da coprire con amore// Ma so pure che ci sei/ nella voce roca del vento/ nel tremito lontano delle stelle/ nel ramo che piange la foglia// Nella culla dei ricordi/ dorme/ l’ultimo battito/ che non si è perduto

Il destinatario è sé stesso, quasi avesse timore Mario di dissacrare per un attimo la immensa figura di umile amore quotidiano di suo padre, ma “chi non c’è più” è proprio l’amatissimo papà di cui vengono rievocati i gesti di grande tenerezza e “l’ultimo battito/ che non si è perduto”.

E che dire dell’umiltà di Roberta Lipparini, che è cara al cuore di tutti noi per l’assoluta sincerità dei suoi meravigliosi versi? Qui si tratta di incommensurabile amore materno nei riguardi della giovanissima figlia per risarcirla di tutto il dolore vissuto negli anni insieme:

Ha vent’anni ed io, di nascosto, le preparo il calendario dell’avvento. 24 sacchettini marroni, quelli del pane, attaccati al muro del corridoio con il nastro di carta. Sul sacchetto un numero, disegnato grande con il pennarello. Dentro il sacchetto un piccolo pensiero. A vent’anni, sì     Perché un gesto di madre in 24 risvegli io lo pagherei oro     Perché chi ha avuto dalla vita tanti doni di dolore, merita minuscole ricompense, tutte quelle che io posso offrire     Perché chi al mattino deve cercare dentro di sé la forza di alzarsi, un dono bambino è una piccola spinta che fa leva sul cuore     Perché io invecchio e non sarò sempre al suo fianco, ma nei gesti d’amore compiuti non svanirò mai     Perché in questa casa fatiscente che avrebbe bisogno di una mano di vernice, un corridoio pieno di sacchetti di pane è un paesaggio dell’anima     Perché so che a volte l’amore degli altri non lo sentiamo se non abbiamo un velo di malinconia dentro e i piccoli gesti ce lo fanno più facilmente scorgere     Perché la bellezza del dare mi ripaga di ciò che non ho ricevuto

Quanti gesti di umiltà, dettati dall’amore, si intrecciano in queste tre pagine: una di un padre, docente, uomo che fa i conti con il tempo che gli rimane per donarsi agli altri; una di un figlio alla ricerca delle parole per ritrovare quelle del padre perduto alla fisicità ma immensamente vivo nel cuore; una di una madre che si dona con tanti piccoli grandi doni alla sua figliola, a cui offre oblativamente l’amore mai ricevuto.

Ed ecco una poesia “umile” rapinata alla Pagina FB di un grande poeta, attore e traduttore, Rino Bizzarro, mio caro amico di penna di antichissima data:

… Fra un sopruso e un inganno/ non sono più tanto bianche le mani…/ … e mi ostinavo a volerle pulite/ tanto tempo fa,/ quando eravamo giovani,/ quando eravamo poeti…/ “Un orco camminava per le strade/ portando sulle spalle due bisacce;/ rubava bimbi belli e bimbi brutti/ e poi se li mangiava tutti tutti…”/ era la ninna nanna di mia madre:/ Tu eri tanto bella/perché così apparivi agli occhi miei;/ io ero intelligente, il più sensibile,/ il migliore, soltanto perché tu/ mi volesti così nel grande abbaglio./ … Forse non eri tu poi tanto bella;/ forse che non ero che uno sciocco, io…/ “Dormi rino dormi; deh non guardar la mamma;/ chiudi gli occhietti belli; fai la ninna nanna…”

La ninna nanna antica, la voce della mamma che ritorna e ritorna a regalare a Rino frammenti di ricordi e di emozioni, le paure e le illusioni di un tempo, “quando si era giovani e poeti”, e tutto ci sembrava bello e eterno. Poi, con gli anni abbiamo dovuto ridimensionare tutto: valori, etica, scelte, l’amore nelle vesti della fanciulla bella come il sole e nella personale convinzione/illusione di essere stato scelto da lei perché il migliore…

E, invece, di un amico di nuovissima data, Luca Crastolla, ecco brevi ma essenziali versi. Minimalisti ma non troppo. Profondissimi:

i carillon della melanconia/ le giostrine della nostalgia/ il canto del cigno senza armistizio/ li muove quel che fu e che avvenne.// Di più di quel che qualcosa/ o qualcuno intravide o promise

I ricordi legati alle meraviglie dell’infanzia hanno spesso, da adulti, un malinconico, nostalgico, inevitabile ridimensionamento. Un “canto del cigno senza armistizio”. Un qualcosa di atteso e di non accaduto. E non si sa mai chi o che cosa ne impedì l’accadimento. Pure, a ben guardare, tra le righe c’è in ognuna anche l’idea del cambiamento, di una trasformazione. In ciascuna è evidente il passaggio dal “prima” al “dopo” con una risposta alla scoperta del mondo che è innanzitutto scoperta di sé, del proprio mondo interiore e poi di quello esteriore, che può dilatarsi all’infinito. Come infinita potrebbe essere la “conoscenza” che ne deriva>.

E anche per oggi basta così. Ma desidero ringraziarvi tutti dal profondo del cuore, con "attenzione" e "lentezza", per i bellissimi commenti che dedicate alle mie lunghissime elucubrazioni. Mi piacerebbe davvero aprire un dialogo-confronto con ciascuno di voi, e siete davvero tanti (e ciò mi conforta molto e mi spinge a continuare), ma fino a gennaio sono molto impegnata per i lavori che la nostra Casa editrice ha programmato: da pubblicare entro Natale. E io sono coinvolta (travolta?) come “correttrice di bozze”, che spesso è chiamata a scrivere prefazioni o postfazioni, sinossi, frasi per il retro-copertina ecc. Naturalmente, ci sono anche alcuni miei libri da pubblicare ancora, a cui spesso non riesco a dare neppure la necessaria revisione, per cui non è escluso che vengano pubblicati, perlopiù i soli, con qualche refuso. Ma spero ardentemente, da gennaio in poi, se il buon Dio mi darà vita, di “prendermi cura” di ciascuno/a di voi, lettore/lettrice del blog, perché, singolarmente, meritate la mia attenzione, il mio rispetto, la mia gratitudine. Senza di voi il blog non avrebbe più la giusta LINFA VITALE per continuare ad esistere. GRAZIE!!! Angela-Angelina-Lina