martedì 31 gennaio 2023

Martedì 31 gennaio 2023: MARIELLA BETTARINI!

Oggi è il compleanno di MARIELLA BETTARINI. Siamo coetanee. Lei mi precede di mezz’anno, ma entrambe non avvertiamo l’ingiuria dell’età nel nostro impegno letterario e socio-culturale. Il corpo può anche tradirci. La mente forse, a volte. Ma il cuore no. Conserva tutte le emozioni di quando eravamo ragazzine. Noi due ci siamo conosciute negli anni Ottanta del secolo scorso nei numerosi Convegni di “Donne e poesia”, promossi e realizzati, con cadenza annuale, a Bari, da Anna Santoliquido, altra mia grande amica e grande scrittrice e poetessa. Con Mariella Bettarini e con Gabriella Maleti fu amore a prima vista. Abbiamo sodalizzato subito con sincera empatia e consonanza di intenti. Con Mariella, dopo la morte di Gabriella, nostra coetanea, abbiamo intensificato i nostri rapporti letterari, culturali, amicali, nel rimpianto mai spento delle sue fotografie meravigliose e della sua profondissima scrittura in prosa e in versi.

Devo, però, alla straordinaria generosità di Mariella se abbiamo potuto coltivare insieme e così a lungo la nostra amicizia. Lei, famosa e apprezzata saggista e poetessa già dagli anni Sessanta, mi ha fatto dono del suo cuore e della sua attenzione (io allora ancora sconosciuta ai più); dei suoi libri di poesie e dei suoi saggi di critica letteraria; della sua splendida Antologia A parole - in immagini (antologia poetica 1963-2007), Gazebo Libri, Firenze 2008; della sua Rivista <L’area di Broca>, in cui ha dato spazio, negli anni, anche ad alcuni miei interventi tematici.

Le sue opere sono state recensite da Mario Luzi, Dario Bellezza, Giuliano Manacorda, Roberto Roversi, Sergio Pautasso e tanti altri scrittori, critici e studiosi. Giuliano Manacorda ha scritto di lei già nel 1977 in <Rapporti> (n.12-13, marzo-giugno 1977): Mariella Bettarini nel raccogliere le sue poesie del periodo 1972-’74 si conferma come una delle voci più coraggiose e più originali nel campo delle iniziative culturali e della produzione poetica dell’ultimo decennio. (…) La Bettarini adotta un suo verso lungo che può facilmente anche sconfinare nella prosa dichiarata e che le serve per una poesia franta nelle movenze interiori ma infine distesa in una sorta di brani di racconto in cui c’è dentro tutto il dramma del vivere quotidiano.

La sua attività poetico-culturale ed etico-sociale non si è interrotta mai. E in questa necessità di scrittura abbiamo trovato spesso le nostre consonanze interiori. Una delle più forti nostre ragioni di vita. 

Nel 2006, di sé stessa, e del suo amore per la parola ha scritto, per esempio, delle annotazioni in cui mi ritrovo perfettamente. Avrei voluto averle scritte io tanto mi si attagliano: Oggi (inizi del 2006) continuo a lavorare molto, ad amare la parola: scritta, letta, orale, creativa, saggistica, epistolare. La parola/segno. La parola/bi-sogno. La parola/intenzione di dialogo, affinità, amore. Così come amo da sempre l’archeologia, l’arte, la botanica, l’astronomia, la fotografia, il cinema e la matrice poliedrica di tutto questo: la misteriosa/“naturale” natura: dall’infinitamente grande e lontano, interstellare, invisibile, all’infinitamente piccolo e prossimo (anch’esso talora invisibile). Parola che si fa carne. Carne (minerale, vegetale, animale) che si fa parola. Misteriosamente. A specchio.

Nel marzo 2019 ha pubblicato con la SECOP edizioni un poemetto intitolato POESIE PER MAMMA ELDA, un canto dolente e intenso per la sua mamma, dopo aver cercato di decantare invano il dolore per la sua perdita. In quinta pagina troviamo una specie di Preludio: A MO’ DI (MINIMA) INTRODUZIONE Queste poche, scarne, spero non indegne poesie (poesie? Piuttosto lacerti di esistenza, di memoria, di doloroso amore, di indicibilità, quasi) per tentare di colmare - con la parola - un vuoto, il vuoto che la morte di mia madre Elda ha lasciato in me. Da quel ormai lontano novembre 2003 scrivo poco, pochi versi (voglio dire) anche se l’iniziale, coartante (persino violento nella sua forza) progetto/bisogno prevedeva, avrebbe previsto, prevedrebbe tanta scrittura, moltissimi versi per lei - e non solo versi, forse. Ma forse proprio per l’intensità di tutto questo, per il dolore (e tuttavia la paziente inevitabilità) dello strappo; proprio per tanta vita trascorsa insieme, per tanto vuoto e silenzio sopraggiunti, il quasi-silenzio dei versi è, almeno per ora, mi pare, inevitabile. Bastino, intanto, queste poche pagine, a testimonianza del mio amore filiale, del suo amore materno: anzi del suo Amore senza altri aggettivi. A testimonianza (così povera, imperfetta) della sua serena, umile, dolorosa Persona. Tanto più grande quanto meno appariscente. Presenza senza alcun vanto di sé. Sempre di sé generosa. Doti, doni oggi, ora, tanto più rari. Viva, dunque, mamma Elda e la sua tenerezza. (5 aprile 2010, lunedì dell’Angelo)

Lo stile è decisamente bettariniano, nonostante il dolore irrisolto, il lungo silenzio, la ridda delle parole che sale dal cuore da dedicare a lei, la sua adorata mamma. Infatti, nella mia postfazione, io parto proprio da Queste poche, scarne, spero non indegne poesie (poesie? Piuttosto lacerti di esistenza, di memoria, di doloroso amore, di indicibilità, quasi) per tentare di colmare - con la parola - un vuoto, il vuoto che la morte di mia madre Elda ha lasciato in me per scrivere: Credo sia opportuno partire da questa difficoltà iniziale di Mariella Bettarini di parlare a sua madre dopo il “vuoto” che lei, con la sua morte, sia pure attesa con rassegnata abnegazione e vigile tenerezza, le ha lasciato. Un vuoto che, a stento ora, tenta di colmare con alcune dolenti, sussurrate, frantumate, ma profondamente belle poesie. Talmente belle da commuovermi e da lasciarmi senza respiro. Riportandomi alla stessa esperienza da me vissuta (nel 2001) con altrettanto dolore, come sempre accade quando la Perdita della nostra madre diventa la nostra Perdita. E non sappiamo più chi siamo, avvertendo per la prima volta la condizione di “orfana”, la cui radice deriva dal latino “orbus”, ossia “privo”, ed io completerei: “privo di sé”. E chi è privo di sé dimentica il proprio nome, l’identità, il tempo e il luogo in cui si trova. Dolorosa sensazione quanto la Perdita stessa della persona a noi più cara, perché è la parte essenziale di noi. Sentiamo ancora il suo sangue scorrere nelle nostre arterie e vene, il suo cibo amoroso che ancora ci alimenta, la sua stessa vita che ci attraversa.

Nella silloge, dunque, incontriamo le poesie più tenere e dolci e disperate che ogni figlio/a vorrebbe sussurrare/urlare alla propria madre, magari per rinascere insieme (come Luigi Santucci immagina, con fascinosa dose di visionarietà, nel suo Romanzo Orfeo in paradiso del 1967, con cui l’autore vinse il Premio Campiello, e da me più volte letto prefigurandomi con angoscia e dolore indicibile la perdita di mia madre, allora ancora giovane, bella, sempre sorridente e innamorata della vita!).

Anche le voci maschili, dunque, danno vita a ricordi straziati e strazianti della perdita della propria madre. Ed ecco una voce maschile che mi sta a cuore, quella di Alberto Bevilacqua, il grande scrittore e poeta che noi tutti conosciamo, nei brevissimi versi dedicati alla sua amatissima madre (TU CHE MI ASCOLTI - Poesie alla madre), che ha avuto un po’ il destino della madre di Mariella Bettarini: Ci siamo sbagliati a disperare di noi,/ siamo perfetti/ nel duetto per voce sola,/ mia itaca di tutte le vite/ deviate dall’equivoco.

Alberto Bevilacqua, conosciuto in crociera tanti anni fa e diventati amici per oltre un decennio, in cui mi ha sempre affascinato con i suoi racconti un po’ folli, che rievocavano gli “strioni”, tipici personaggi assurdi dell’area parmense, raccontati con la sua tipica “arlìa” (l’inventarsi la vita e il suo gioco tra ironia e mistero). Intenso, immenso, doloroso e complice il rapporto con sua madre, sua “itaca di tutte le vite”. Ma poi, ecco un’altra voce maschile importante, quella di Rainer Maria Rilke in “Le mani della Madre”: Tu non sei più vicina a Dio/ di noi; siamo lontani tutti: ma tu hai stupende/ benedette le mani./ Nascono chiare in te dal manto,/ luminoso contorno:/ io sono rugiada, il giorno,/ ma tu, tu sei la pianta

E qui i versi sono realistici e fortemente poetici, nella visione della presenza della madre non vissuta come una santa, ma cantata per le sue “mani benedette”, un particolare molto significativo del suo corpo quasi divinizzato (“Nascono chiare in te dal manto”) nella visione della protezione, stabile radice della sua instabile mutevolezza (“io sono la rugiada” che si scioglie sul far dell’alba fino a comprendere l’intero giorno che è, comunque,  transeunte rispetto alla pianta, alle sue radici, alle sue foglie che parlano di nuovi domani.

E Mariella è sempre pronta a cogliere nuovi domani con i suoi versi, la sua prosa, il suo pensiero, la sua parola, che colgo e raccolgo ancora dalla sua Antologia per farvene dono. E comincio con due acrostici, tra i tanti, dedicati da Mariella ai suoi alunni di tanti anni fa: ROBERTO e FRANCESCA. Roberto sbarazzino che non puoi mai sbarazzarti di te/ Ottimisticamente ragazzo un po’ bambino/ Benignamente soddisfatto di sé/ Esiti solo se è chiuso il cammino/ Ridi per tutto il resto e/ Triturando libertarie parole/ Ottieni tutto il meglio dal mondo (e poi da te)Forse fine - forte Francesca/ Reggerai bene all’urto della vita e della sorte/ Alla fatica - al fumo - al duro seme/ Nato nel grembo dell’umana coorte/ Coi tuoi colori belli - i tuoi splendori/ E le ilari spalancate tue porte/ Sul Paradiso azzurro dell’infanzia/ Che vince e vince/ Alfine dura morte

Le sue poesie: VI mia casa /lo sapevi?) – casa/ la parola/     mia unica/ ragione - mia casa/ viva e sola/         magione - nido - ostello/ ricovero - ristoro/ riparo - covo - ombrello/ consolazione - polo; VII come sono le case? come/ le palpebre per l’occhio/     il mallo/ per la noce/     per il sangue le vene/     Cenerentola/ in cocchio/     come per verdi foglie/ gli alberi/     per tutti i pesci/ il mare/     per le spade i loro guaini/ pei pescator pescare

E in prosa “Un silenzio tra sguardo e voce”: Se non si riesce a tacere, tanto vale parlare. Se non si riesce a non farlo, tanto vale scrivere. Ma tacere, parlare, scrivere non sono azioni, atti neutri. Mai. E dunque tutti e tre tremendamente pesano e dolgono(gaudiosi) proprio nella e per la loro valenza immensa, per il loro valore di tormenti intollerabili: nella consapevolezza (spesso atroce) del loro   essere contrario ognuno a se stesso, e ognuno d’essi all’altro. (Tacere non è parlare eppure anche il silenzio parla. Scrivere non è parlare. Eppure la scrittura è tessuta di parole, è un silenzio tra sguardo e voce. E parlare non è tacere né scrivere, anche se è loro affine, loro parente). Talora, però, non si può parlare (eppure non si può non farlo). È forse proprio allora che nasce (zampillo incoercibile) la scrittura: quella del male e del bene, quella più vera/nera, quella abbagliante/ quella del profondo-profondo. La scrittura del profondo amore. Del profondo dolore. Questo mi dicevo (e mi dico) sapendo insieme silenzio e scrittura, cultura e natura, istinto e ragione, silente pulsione di dialogo muto. Omaggio ad un’altra scrittura. E viva metamorfosi di silenzio in parola. Di parola in silenzio. Di parola in parola, quando - sciolto, svolto il coraggio delle passioni -  solo il coraggio delle parole resta (delle parole in atto: anche la parola è atto), io passiva/paziente in un comune/non comune Comandamento  

C’è solo da condividere ogni parola, profondamente significativa, altamente poetica. Inno al silenzio e alla parola: orale, scritta, letta. Pensata, taciuta, detta, urlata, sussurrata, silenziata. Perciò anche Inno al dolore da cui si origina la Parola. E più volte Mariella Bettarini ha confessato che si diventa poeti perché da qualche parte, nel tempo, abbiamo ricevuto una “ferita”, irrimarginabile. Quest’ultima si placa e si addolcisce solo con la carezza della scrittura poetica che la leviga, la protegge, la cicatrizza. Guai se non fosse così. Sanguinerebbe fino a procurarci la morte, mentre la poesia è colore, è calore, è Vita. Si protende sempre ad abbracciare il sogno di un nuovo domani.  

E nuovi domani io ti auguro, mia carissima Mariella con un mio breve canto a te dedicato con tanto tanto cuore: Non ci appartenne mai il lungo silenzio/ che ci fissa oggi tra secchi rami/ innevati dei nostri tanti anni a negarci il sorriso/ che sempre accordò le nostre anime/ felici d’incontrarsi tra mai perduta Poesia./ Di qualche mese la danza della tua alba/ anticipa la mia e di Gabriella/ che a maggio con me sorrise alla vita/ e ora tra le stelle/ della sera attende il ritorno:/ la carezza lieve delle tue dita/ la tenerezza antica di antichi nidi/ dei balestrucci nei vasi invasi/ di cinguettii al calore della gioia/ che di stupore pervase il cuore./ Io da lontananze solo geografiche/ il nascere attesi delle loro ali/ mentre la neve scioglieva/ il nostro canto ad una voce./   Calliope    incanta ancora i nostri giorni della festa/ senza più candeline solo il soffio/ di un sogno a registrare il nostro sorriso/   (come sempre, come allora,/     come ora…).

Auguri infiniti da me e da tutti noi alla grandissima, meravigliosa Mariella!

domenica 29 gennaio 2023

Domenica 29 gennaio 2023: GJEKE MARINAJ e GERMAN ROJAS: due grandi poeti-eroi e una storia in comune...

E oggi vi voglio raccontare una bellissima e vivificante/edificante storia, che vede protagonisti due miei preziosissimi amici, lontani dalla mia terra ma sempre presenti nel mio cuore: Gjeke Marinaj di cui ho già tanto parlato qualche mese fa e Germàn Rojas, che insieme al nostro comune amico del cuore Nico Mori, ha avuto spazio nel nostro blog ma non quanto merita.

Oggi provvedo a ristabilire gli equilibri. Entrambi, Gjeke e Germàn sono poeti, scrittori, saggisti, giornalisti. Figure molto importanti nel loro Paese d’origine: Albania per Gieke Marinaj, Cile per Germàn Rojas.  Entrambi sono oggi conosciuti e apprezzati in tutto il mondo per i loro meriti poetici, socio-politico-culturali, per i loro interventi umanitari in favore della giustizia, dell’uguaglianza, della solidarietà tra gli uomini di tutte le nazioni e di tutti i credi, della Pace. Ma le loro storie personali sono molto più complesse e degne di essere raccontate nel loro intreccio a distanza.

Sintetizzo la storia dell’uno e dell’altro per una comprensione più ampia dei nostri due “EROI”.

Gjeke Marinaj, albanese di nascita (26 maggio 1965), giovanissimo dovette abbandonare la sua patria perché il 19 agosto di più di trent’anni fa aveva avuto il coraggio e l’ardire di pubblicare su un giornale locale una poesia “CAVALLI”, che immediatamente rimbalzò, con una eco senza fine, su <Drita>, il Quotidiano albanese di cronaca a carattere nazionale.

A una prima lettura, ai più sembrò una semplice poesia in difesa degli animali e, in particolare, degli stupendi cavalli dallo sguardo fiero e dalla cavalcata elegante e maestosa, purtroppo in cattività. In realtà, si trattò di una feroce satira politico-socio-culturale da parte di quel ragazzo ribelle in difesa del suo popolo. Fu, dunque, un coraggioso atto di audace (e forse un tantino incosciente) ribellione contro il regime comunista da parte di un venticinquenne poeta e giornalista non ancora famoso. Gli Albanesi, infatti, allora rimasero increduli, ma in poche ore comprarono tutte le copie del giornale. Molti si affrettarono a scrivere quei versi su pezzettini di carta per diffonderli dappertutto, fino a farne un inno di protesta durante le numerose manifestazioni antigovernative, che di lì a poco si accesero come fuoco controvento per incendiare cuori e volontà. In breve Gjeke Marinaj divenne l’eroe dell’Autonomia e della Libertà Albanese. Ma, fu costretto (e personalmente determinato) a fuggire di notte per evitare il rischio tangibile di essere impiccato come altri poeti dissenzienti prima di lui. Non più l’eroe di una fiaba a lieto fine, ma l’esule di una storia vera in un nuovo percorso difficile e tortuoso quanto solitario e disperato, tra genti straniere. Nella ex Jugoslavia prima e negli USA più tardi, non appena si presentò l’occasione di mettere una notevole distanza tra il suo vecchio mondo e il nuovo. Qualche volta, però, anche la storia offre ai suoi ardimentosi protagonisti un lieto fine. Gjeke incontrò Dusita, una bellissima fanciulla, e con problemi di espatrio più o meno identici ai suoi. Ben presto, innamoratissimi l’uno dell’altra, si sposarono e andarono insieme lontano, dove vissero notevoli difficoltà di adattamento, di apprendimento della nuova lingua, l’inglese, di comportamenti legati ad una diversa cultura. Ma l’amore compie miracoli.

E Gjeke Marinaj è oggi docente di Inglese e Comunicazioni all’Università di Dallas nel Texas, poeta raffinato e conosciuto in tutto il mondo, Ideatore e Fondatore della Teoria filosofica e filantropica del Protonismo in Letteratura e non solo, divenendo meritatamente l’Ambasciatore di Pace tra tutti i Popoli del nostro Pianeta.

Ed ecco la poesia “CAVALLI”, che ci permette di comprendere appieno il messaggio di Gjeke e il suo ardimento.

Per tutta la nostra vita siamo in viaggio,/ Guardando sempre avanti,/ Quel che c’è dietro di noi Abbiamo paura di saperlo./ Tutti noi non abbiamo che un nome,/ Cavalli, ecco come ci/ Chiamano./ Senza piangere,/ Senza ridere,/ In silenzio,/ Ascoltiamo,/ Mangiamo quel che ci danno,/ Andiamo dove ci dicono,/ E nessuno di noi è una gran testa./ Chi era il cavallo di un re/ Aveva il grado più alto;/ Chi era il cavallo di una principessa/ era sellato d’oro;/ Chi era il cavallo di un  contadino/ Era sellato di paglia;/ Chi gli disubbidiva/ Dormiva sempre all’addiaccio:/ Ma con gli umani, sempre/cavalli restiamo!

Stupendo inizio con un “Per” che indica già di per sé un avvio in movimento, riguardante il “viaggio” di tutta “la nostra vita” con la determinazione a raggiungere la propria meta. Ognuno dovrebbe   prefiggersi uno scopo, una missione che dia senso a tutto il viaggio. Ma la realtà è diversa. È possibile stabilire la meta se non si ha paura del passato, che è un possibile futuro capovolto: è dalla esperienza vissuta da noi e dai nostri antenati che occorre ripartire per continuare sul loro esempio oppure ribellarsi alla tradizione e al silenzio e rinascere e realizzare un futuro migliore. Il timore di ricordare un passato difficile diventa ostacolo alla costruzione di un futuro diverso. Ed ecco il disvelamento: i protagonisti di questi versi, che urlano al cielo una storia amara di soprusi, non hanno un nome: sono semplicemente cavalli. Animali eleganti, nobili e fieri nel loro andare, ma non in questo caso. I due anaforici quanto suggestivi versi che seguono, brevi come uno sperdimento, definiscono un vuoto, una deprivazione: “Senza”. Senza piangere/ Senza ridere. A questi cavalli non è concesso avere lacrime o risate. Ossimoro meraviglioso ad indicare la gioia e il dolore: i punti estremi di ogni sentimento, in cui si snoda la vita della mente e del cuore di ciascun essere umano. Al nulla che il “Senza” definisce segue l’inevitabile silenzio dell’asservimento. Piegata/piagata è la volontà di reagire. Il silenzio, in questo caso, non prelude al rumore del mondo o alla parola di ribellione o al canto della sfida e della vittoria. E neppure alla preghiera di gratitudine e di ringraziamento. Qui anche il silenzio è assenza di qualcosa di vitale che indica movimento e pensiero, libertà di essere e di andare lontano per perseguire la meta e realizzarsi. Qui c’è solo un chinare la testa al volere altrui, del più forte, di chi esercita il Potere con coercizione e violenza. E impedisce di pensare. È concesso solo di eseguire compiti con mezzi e ruoli diversi, ma estraniandosi da sé per assecondare il potente di turno, fosse un re o una principessa. Ed ecco che improvvisamente i versi scoprono i verbi all’imperfetto. Il presente cede l’azione a un passato senza tempo, al “c’era” delle fiabe, che a volte sanno essere crudeli e non assicurano il lieto fine, se non dopo la fuga e l’allontanamento del protagonista con relativa sfida e combattimento contro l’antagonista, fino alla sua morte. Il primo (il re) consentiva al cavallo di avere un “grado più alto” nella sua schiavitù, e la seconda (la principessa) di mostrare “una sella d’oro” e fingere una ricchezza mai posseduta. Ma c’era anche il cavallo del contadino che era “sellato di paglia” e, se disubbidiva, veniva mandato fuori a morire al freddo e al gelo. E qui d’improvviso il tempo del verbo cambia nuovamente: il “c’era” diventa presente e attualizza la condizione di schiavitù dei cavalli. Questa poesia, dunque, non è una fiaba e non può avere un lieto fine se l’ultimo verso si copre di amara verità, di spietata rassegnazione: “ma con gli umani sempre cavalli restiamo!”. E il punto esclamativo sancisce il “grido di dolore” del poeta di fronte ad una realtà che urla la disumana condizione di “asservimento dei “cavalli”, suoi compatrioti, al potere del Regime comunista nella sua amatissima patria, l’Albania.  

A lui va ancora oggi il mio grazie per il suo esempio di coraggio, determinazione, amore: Inno anche alla bellezza e alla efficacia della Parola.    

Germàn Rojas è nato in Cile nel 1950. Ha un po’ di anni in più di Gjeke, ma una storia identica di sopraffazioni e ribellioni alla Dittatura dopo la caduta di Salvador Allende. L’11 settembre del 1973 (Germàn, dunque, aveva 23 anni) le forze armate cilene fecero un colpo di Stato contro Allende, che morì suicida per non arrendersi ad Augusto Pinochet che prese il Potere.

Germàn fu, come oppositore alla dittatura di Pinochet, rinchiuso nel carcere cileno di Antofagasta il 13 gennaio del 1974; poi, espulso dal Cile, fu esule in molte nazioni, tra cui la Norvegia, dove fece l’operaio, la Francia e, infine, approdò in Italia, a Roma in qualità di Funzionario della FAO. Venne, in quello stesso anno per alcuni mesi a Bari, dove l’ho conosciuto in seguito al Concorso di Poesia “Vittorio Bodini” (1987), nella cui giuria ero presente anch’io. La sua silloge di poesie Maria - Maria meritò il Primo Premio, perché incantò tutti i giurati per la musicalità della parola e per il contenuto d’amore (profondamente fluviale come in Neruda) per la sua donna, sintesi di tante donne e di una sola, che incarnava anche la terra lontana, ricordata con nostalgia, canto e rimpianto.  

Ecco della silloge alcuni versi: … Non è né dio greco né asteroide magico,/ è semplicemente un nome di donna,/              Maria,/ nome di donna due volte,/            Maria-Maria./ Chi è la mia due volte Maria?/ Credo che non sia importante saperlo/ perché nemmeno io lo so con certezza./ Maria-Maria è una,/        è varie,/       è tutte,/ tutte, quelle che lasciarono la loro impronta nella mia anima,/ varie, quelle che ho conosciuto qui e là/ in lunatici incontri della mia vita di luna,/ una, quella che mi ha accompagnato sempre,/   quella che mi sfugge tra le dita,/   quella che mai ho posseduto,/   e quella che cerco disperatamente e mi si nega./ Maria-Maria è lei…

Questa poesia, una emozione. Maria-Maria, due volte Maria, come si usa in Cile per indicare un amore a doppia mandata. La persona più cara. La più importante. Quella annidata nel cuore. La donna-presente-passato-futuro, madre-figlia-amante-tutto. Esplosione d’amore e fede certa in lei.  La donna di sempre e di mai. Di tutte le attese e di tutti i dolori. Volo di lacrime e tenerezza. Donna due volte. Una-tante-tutte. Compagna della vita, nella vita, per la vita. Donna stellare. Di terra. Di mare. Guscio immenso a contenere la forza fragile di un uomo, il suo coraggio di poeta che canta il nero del carcere e dell’esilio e il verde della giada profonda e chiara degli occhi di Maria. La vera. La sola. Orizzonte di terra promessa. Sogno dimenticato e ritrovato. Realtà attesa. Maria, fonte e riva di poesie. Canto. Volo di quel gabbiano che Rojas si porta nel cuore. E altro, altro ancora… Emozione. Naturalmente ho sintetizzato non solo questi pochi versi ma tutto il poema in cui Germàn unisce il suo canto al canto del suo popolo, la sua donna alla sua terra, la libertà del suo amore alla libertà agognata della sua patria in catene. Splendido canto dell’anima.

Ma alle mie parole desidero aggiungere quelle di Nico Mori, nostro indimenticato amico, nella carezza della sua sensibilità altissima di uomo, poeta, scrittore: C’è una musica nei versi di Germàn intensa e incalzante, tumultuosa e languida, che ha sapore di sangue e profumo di fiori e trascina, indietro e avanti nel tempo, per labirinti di antichi misteri e insolute magie. C’è un suono nero di campane che piangono solitudine e ingiustizia ma lanciano fin sulla luna voli di variopinte farfalle. E l’ombra aspra di radici strappate direttamente alla carne che segnano solchi di planetarie ferite. E il canto puro e allegro di bambino che innalza alle stelle azzurri castelli di sassi. E Maria-Maria che, con occhi di mare e capelli di fiume, traccia nell’anima iridati sentieri.

C’è, come è facile notare, una possibile giustapposizione tra Maria-Maria di Germàn e Dusita di Gjeke. Entrambe sono il cuore del canto dei due poeti, l’intreccio nostalgico alla propria terra d’origine.

Ma oggi, mentre Gjeke Marinaj vive, con la sua donna nel Texas e fa rari ritorni in Albania per riabbracciare la sua vecchia madre e tutti i suoi cari, Germàn Rojas, è tornato in Cile, dove vive circondato dall’affetto, l’ammirazione, l’amore dei suoi cari e dei tanti amici e gente comune che vive nel ricordo dei bui giorni lontani in cui Germàn fu fiaccola di salvezza. Oggi ricopre nella sua Patria un ruolo di primo piano che lo porta a viaggiare molto in tutto il mondo e soprattutto nel Nord-Europa per incarichi di grande prestigio all’insegna della solidarietà e della Pace per l’umanità intera. Ha vinto numerosi e prestigiosi premi come poeta e come artista. È rimasto fraterno amico di Nico Mori, e della sua famiglia, Tea, Manuela, Alberto, ora che Nico non c’è più fisicamente tra noi. Con lui ha condiviso una fede politica ormai in disuso, ma tenuta viva nel proprio cuore per sentire ancora il palpito di un credo. L’amico giusto, con cui parlare di sogni e di illusioni, di ideali di libertà e clamorose sconfitte del pensiero libero in un mondo di “pensiero unico”. L’amico, segnato come lui nel corpo e nell’anima, sia pure per motivi e tempi diversi. L’amico più volte perduto e ritrovato sotto altri cieli, altre identità, e un solo progetto identitario per entrambi, nonostante gli anni e le distanze geografiche: diventare “pescatori di meraviglie”.

Nell’ultima opera in prosa I PESCATORI DI MERAVIGLIE di Nico, pubblicata con la SECOP nel 2019, alcuni anni dopo il libro Al confine di me, che Peppino Piacente, mio genero e editore della Secop, volle pubblicare per sollecitare Nico alla scrittura dopo oltre un decennio di silenzio, Germàn scrive: Caro Nico (…) Non lasciarci senza la tua parola, senza i tuoi sogni, senza la tua folle geografia italica, senza il tuo mare, senza la tua tenerezza. Vai oltre i “confini di te”, con tutta la forza che hai, non fermarti, non spegnerti. (…) Tu in quanto navigatore esperto (proprio come io sono un marinaio di terra), sai molto bene che i nostri confini sono come l’orizzonte, che, non importa quanto e come possiamo provarci, non riusciremo mai a raggiungere. I nostri confini sono come l’utopia alla quale non rinunceremo mai. Perché tu ed io siamo l’orizzonte e, insieme, noi siamo l’utopia. Pescatori di meraviglie, ricordi? A costo di annegare nei mari della luna. Ti abbraccio con l’immenso affetto di un fratello. Germàn  

E non ci sono più parole. Germàn Rojas è tornato in Italia, con una nuova compagna, prima di Natale per un avvenimento lieto riguardante una sua figliola che vive e lavora a Roma, e ha voluto incontrare a Bari tutti noi, gli amici più cari lasciati in Italia, in primis Manuela Mori, l’amatissima figlia di Nico, me, mia sorella Anna Maria, indimenticata e graffiante voce con “chitarra incorporata” del gruppo di poeti di allora, Gianni, suo attuale marito e bravo scrittore anche lui, mia figlia Raffaella con Peppino… Ci ha lasciato con una promessa: che tornerà in Europa e in Italia  più o meno in primavera. E io nutro il sogno che ci si incontri ancora tutti quanti. Abbiamo ancora tante “meraviglie” da condividere per poter continuare a sognare e a progettare insieme. Nico con noi sempre.

Ma il sogno ancora più grande è sperare che anche Gjeke Marinaj, torni in Europa per andare a riabbracciare i suoi cari in Albania e faccia una deviazione in Italia giusto in tempo per abbracciare Germàn Rojas, perché due “EROI” si riconoscono nello sguardo a specchio della loro anima e sono tali per sempre anche per tutti noi. Angela

 

 

 

venerdì 27 gennaio 2023

Venerdì 27 gennaio 2023: per NON DIMENTICARE...

E passiamo da giornate, in cui ci siamo incontrati, sperando di dare un senso alla nostra vita attraverso la “ricerca della felicità” a una giornata, che mette tristezza solo a nominarla: “Giornata della memoria”. E oggi piove. Come nei giorni scorsi. E fa freddo. Tutto congiura contro la nostra serenità. Sembra che il cielo ci sommerga di lacrime e che il freddo penetri nelle nostre ossa per spingerci a ricordare. E, del resto, come è possibile non ricordare? Ne fanno fede i tanti scritti, le tante poesie, frasi, immagini postate sui vari social perché la MEMORIA individuale e collettiva si faccia testimonianza della ferocia umana nella sua disumanità.

Anch’io ho riproposto una poesia, scritta quando ero ancora chiusa in una stanza d’ospedale, mentre con lo sguardo dietro i vetri percorrevo la via crucis del dolore lungo un cielo trafitto da rami spogli e cupi che lacrimavano come oggi. Oggi un pettirosso infreddolito si è poggiato sui rami stillanti del tiglio del mio giardino; ha cercato di bere quelle lacrime ghiacciate simili a diamanti; è rabbrividito (di orrore? Di umana pieta? Di paura?), si è scosso ed è volato via, con la sua rossa ferita sul petto. Quel petto ferito mi ha riportato alla mente i miei versi dimenticati. Sono andata a cercarli su “note” del mio cellulare, che conserva memoria dei miei appunti scritti nelle interminabili notti d’insonnia, al buio, per non svegliare le varie mie compagne che, di volta in volta, mi hanno fatto compagnia. La poesia era lì, sembrava aspettarmi. “IL ritorno della memoria infranta”. Eccola: Gli abeti alla collina/ forano il cielo che in silenzioso/ segreto lacrima/ d'inascoltate preghiere/ Mi attraversa la spenta memoria/ il tempo che ci vide colpevoli/ senza l'innocenza degli orrori/ commessi da altri non da noi/ Colpevoli noi di non vedere/ non sapere non chiedere/ non credere/ E "la banalità del male" ci scoprì/ docili agnelli alla pastura/ nei campi dei morti viventi/ dove il filo d'erba nato sulle ossa/ comuni ci sembrò campo/ di grano per il pane quotidiano/ alla mensa dei giusti/ E con il fuoco barattammo/ il fumo dei camini/ a riscaldare la nostra coscienza/ infreddolita da eterno inverno/ (attendiamo ancora primavera/nell'insperato germoglio su rami/ secchi per troppa arsura/ e ci sgomenta la sete d'odio/ che ancora ci divora/    Saremo mai innocenti?)

E me lo chiedo ancora, confrontandomi con il dolore del mondo di ieri come di oggi. L’uomo non ha imparato ancora, anzi! (Sei quello della fionda e della pietra/uomo del mio tempo...).Usa armi sempre più sofisticate e costose per calpestare i suoi simili e distruggere il nostro Pianeta, definito dagli astronauti “azzurro” o "blu", come appare dallo spazio o dalla luna, ma sempre più lordato di sangue innocente e macchiato di eterna colpa, non di vergogna. 

Ed ecco il messaggio rivolto ai potenti della terra da Papa Francesco. È un grido sdegnato: è “una vergogna” e “una pazzia” pensare di aumentare la spesa per le armi, anziché adoperarsi per orientare verso la pacifica convivenza il sistema delle relazioni internazionali.

Ma pare che le varie televisioni abbiano vietato di diffondere il grido dei Pontefice perché ritenuto dai più “scomodo”. Solo Rai 3 gli ha dedicato ampio spazio e qualche altra televisione meno nota. Anche le testate dei vari Quotidiani hanno usato un metro valutativo diverso, rispecchiando idee e orientamenti socio-politico-culturali propri. La voce inascoltata del Papa, in verità, ci sconforta ulteriormente, mentre il presidente dell’Ucraina Zelen’sky sarà ospite a Sanremo. Niente contro il presidente ucraino e la sua terra martoriata, ma mi sembra questa presenza a un festival fuori luogo, fuori contesto. In questo caso, una presenza da “autogoal”. Ma è solo una mia opinione.

Papa Francesco un gigante di coraggio e di umana pietà. Gli altri? Piccoli uomini che cercano di farsi largo tra la folla “dei dispersi”.  

E per oggi basta così, ma mi auguro che il buonsenso innanzitutto e soprattutto l’amore prevalgano su ogni altra considerazione, di parte o meno, per salvare il nostro Pianeta e questa umanità alla deriva… Angela

 

 

domenica 22 gennaio 2023

Domenica 22 gennaio 2023: la FELICITA', un percorso di rose e di spine in cui bisogna credere... (fine)

Oggi, contrariamente a quanto detto ieri, devo interrompere per un po’ il flusso della felicità che siamo andati insieme a registrare perché ho bisogno di parlare di gennaio in altri termini. Per me è un mese difficile da ricordare con serenità. Culle e urne a connotarlo. E oggi ho bisogno di fare una pausa per parlare di lei, nonna Angelina, la mia nonna materna di cui porto il nome. Il 22 gennaio di 55 anni fa ci lasciò per andare a raggiungere il nonno e la nidiata dei suoi tanti figli volati tra gli angeli tutti prematuramente. La fede aveva salvato entrambi i miei amatissimi nonni dall’immane dolore. E noi non li abbiamo mai sentiti recriminare. Mai. Per salvaguardare la nostra infanzia e la nostra gioia di vivere. Il nonno era il nostro sole, con la sua fantasia, le fiabe, gli aneddoti divertenti, i racconti di guerra, i ricordi. La nonna era il suo satellite. E una preghiera per tutti, vivi e defunti, le fioriva quotidianamente tra le labbra. In miei due nonni si completavano a vicenda e sui loro volti, nei loro gesti leggevamo tanto amore a tenerli uniti per oltre cinquant’anni. La nonna era più concreta del nonno nella sua semplicità, ma aveva contagiose lunghe risate, e tenere commozioni improvvise. Negli ultimi anni era quasi sempre seduta nella sua poltrona e d’inverno cadeva in una sorta di sopore che ci preoccupava ed era proprio lei a rassicurarci.  Mi piacerebbe parlare di lei a lungo. Ma in un blog non è consentito. Mi sembra giusto, però, dedicarle ancora oggi questi versi che scrissi per lei nel primo volume del mio romanzo Le piogge e i ciliegi, pubblicato, insieme al secondo, alcuni anni fa. Si tratta di una trilogia. L’ultimo volume è ancora in cantiere. Sono, comunque, versi che ripropongono ancora oggi tutto l’amore che ho nutrito e nutro per lei: Luna di pane tra nuvole lago/ s’affaccia bianca dal balcone di nebbia/ del passato/ Stupore…/ Tra candidi lembi di lino/ le mani di mia nonna ad afferrare/ con dita silenziose la morbida luna/ quasi ostia consacrata/ nella notte lievitata di resurrezione/ a deporla/ con cura di madre/ nella conca di farina acqua e sale/ Fatica innocente in gara con le sue/ le mie manine/ che occhi avevano a imitare carezze/ pugni e una croce/ E bolle d’aria volavano al cielo delle travi/ mia prigionia e mia libertà/ A treccia con gesti d’artista lei pettinava/ la massa e ne ricavava pani/ per la tavola nera lunga e stretta/ del garzone di forno e riso di bicicletta/ su labbra d’eterna canzone/ Festoso mezzogiorno di fragrante/ profumo che nella casa fioriva/ il suo ritorno/ Non chiedermi com’era…/ Cento lune e mille morti passarono/ Mille lune e cento pani sulla tavola/ e vino nel bicchiere/ Da tanto ho perso le chiavi della mia stanza/ Era il profumo della mai dimenticanza… (“Pane di luna luna di pane”)

Ma oggi ho preso anche l’impegno di completare il nostro confronto sulla felicità nella misura in cui sappiamo riconoscerla e vivere nelle piccole o grandi esperienze di vita quotidiana. È giusto che io rispetti quanto affermato ieri. Dunque, sappiamo che la felicità esiste. E questo già di per sé mi procura felicità. E sappiamo che è in grado di vincere anche il dolore e questo si evince anche dalla storia dei miei nonni: una storia di immenso amore a vincere immensi dolori.

Vediamo, intanto, qualche altra conferma. Parto da lontano, da “Felicità familiare”, uno scritto del 1859 di Leone Tolstoj: Ho vissuto molto, e ora credo di aver trovato cosa occorra per essere felici: una vita tranquilla, appartata, in campagna. Con la possibilità di essere utile alle persone che si lasciano aiutare, e che non sono abituate a ricevere. E un lavoro che si spera possa essere di una qualche utilità; e poi riposo, natura, libri, musica, amore per il prossimo. Questa è la mia idea di felicità. E poi, al di sopra di tutto, tu per compagna, e dei figli forse. Cosa può desiderare di più il cuore di un uomo?

E sappiamo benissimo che Leone Tolstoj è stato un filantropo, un grande scrittore, un pedagogista, a cui dobbiamo alcune teorie che hanno svecchiato la scuola tradizionale e i modelli educativi e coercitivi di un tempo per una educazione fondata sulla libera espressione del discente. Fu egli stesso educatore e maestro, ma purtroppo nelle sue scuole, moltiplicatesi su tutto il territorio russo sulla falsariga della scuola “Jasnaja Poljana”, da lui fondata per i figli dei contadini delle sue terre, all’insegna della libertà di apprendimento, appunto, ottenne più polemiche e sconfitte che successi. Ma non si scoraggiò mai, forte della fede in un Dio sentito nel profondo cuore dell’uomo e dell’amore unico ed eterno per e della famiglia.

Altro esempio alto di felicità raggiunta occupandosi degli altri è quello di Christian Bobin, scrittore e poeta francese, vincitore di molti importanti premi in Francia, conosciuto e letto per la sua “poetica del silenzio e delle rose”, degli “istanti puri” legati agli incontri con gli altri e all’insegna dell’amore per il mondo che ci circonda. Ecco stralci tratti da un suo scritto: … Un giorno ti sdrai, ti siedi o cammini, e tutto ti viene incontro senza fatica, non c’è più da scegliere, tutto quello che viene porta il segno dell’amore. Forse la solitudine e il silenzio non sono nemmeno indispensabili per degli istanti così puri. L’amore da solo basterebbe…; Noi cerchiamo tutti un’unica cosa in questa vita: essere colmati - ricevere il bacio di una luce sul nostro cuore grigio, conoscere la dolcezza di un amore senza tramonto. Essere vivo è essere visto entrare nella luce di uno sguardo che ama: nessuno sfugge a questa legge, nemmeno Dio. (da L’insperata, Animamundiedizioni)

E di Papa Francesco, una visione un po’ diversa dell’amore, sempre però legata alla felicità che solo il prenderci cura degli altri possiamo raggiungere: l’amore è inquieto. L’amore non /tollera l’indifferenza.// L’amore è compassione.// Compassione significa mettere il cuore/ in gioco; significa/ misericordia./ Giocare il proprio cuore verso/ gli altri: è questo l’amore.// L’amore è mettere il cuore in gioco/ per gli altri.

Mi piace, a questo punto, anche la poesia “ALBA” di Alessandra Corbetta di Como, postata da Vincenzo Mastropirro sulla sua pagina. Vincenzo, fraterno amico, grande flautista e imperdibile musicista, cha musicato anche molti versi di Alda Merini, tanto cara a tutti noi: 

Se ti addormenti sulla mia ombra/ non spegneremo nessuna fiammella,/ i fiammiferi basteranno per un altro inverno/ e queste piaghe che invecchiano le mani/ seguiranno il corso del latte// Urge la pazienza della lievitazione lenta,/ serve sforzarsi per sottrarsi agli abbracci!// Fuori dalla finestra ci aspetta una resurrezione:/ colore di ambra e alba senza fine/ la preghiera che mi sentirai dire/ piegata sulle tue ginocchia.

È, come è facile notare, una splendida testimonianza di un presente, vissuto all’ombra/luce dell’altro/a, con immagini molto tenere e suggestive. È inutile sottolineare la evidente generosità di Vincenzo Mastropirro, a me molto caro anche per le sue dolci/amare poesie in una sempre più frequente commistione tra dialetto e italiano a darci suggestioni molto forti e originali. Vincenzo è non solo   compositore, ma anche docente di musica e magico concertista col suo meraviglioso flauto dolce. Ne parlerò ancora nel nostro blog.

Ed ecco pure una pagina della bravissima Antonella Coletti che tanto ammiro, con una sua poesia dedicata ad un’altra sensibilissima scrittrice-poetessa, che mi porto nel cuore, Rita Vecchi:

Tutto ti appartiene,/ e tu sali e ridiscendi, oh memoria/ d’anni luminosi che fan più pura/ l’essenza dei tuoi pensieri./ E ancora ti desti con il piede attutito/ d’una fiamma che scaldi le tue trecce/ di bimba./ E io penso… che se andassimo insieme/ lungo un solo sentiero,/ verso una sola via di questo mondo/ che ci porti a un solo più compassionevole/ mondo, lasceremmo/ un unico solco,/ Restano pagine ancora “della tua danza/ divina” e del tuo riserbo/ restano palpebre scavate/ sguardi lucidi e schivi su inviolabili/ vette. Restano sussulti di voci/ friabili, accese… su lividi muti

Come non amare questi versi così pieni di memoria e di grande sintonia tra le due poetesse da ipotizzare una sola voce lungo le strade di un mondo “più compassionevole”? più ricco d’amore oltre i “lividi muti”?

Di Maria Pia Latorre questa simpaticissima e molto acuta filastrocca, in rime e assonanze baciate, dedicata ai bambini e agli alberi. Il titolo “Il bambino e l’albero”:

- Da quando sei qui prima di me?/ Mi racconti qualcosa di te?/ - Che bello poterci parlare/ Ma tu mi stai ad ascoltare?/ Le mie braccia sono appoggio/ Mille specie trovano alloggio/ Nel mio tronco la potenza/ Sulla mia chioma a passo di danza/ Dammi tempo qualche mese/ E troverai altre sorprese/ Gemme, fiori, bacche e frutti/ Questi i doni che offro a tutti/ Se poi scavi nel profondo/ Nella terra dove affondo/ Verran fuori meraviglie/ Ben nascoste tra le foglie/ Tane, nidi, formicai/ Che salveranno orsi e ghiacciai/ Già ti chiedi: come mai?/ Sta’ a sentire e capirai/ Non mi voglio dare arie/ Sono storie millenarie:/ Tutto quanto vien da me/ L’aria e tutto quel che c’è.

Sono “storie millennarie”, appunto, di amore, generosità, condivisione, forte unione tra i bambini e il verde degli alberi nel sogno di una eterna primavera.

E lasciamoci con questo sogno tra le dita. Ci farà compagnia nel nostro andare… grazie a tutti. Angela

   

sabato 21 gennaio 2023

Sabato 21 gennaio 2023: la FELICITA’, un percorso di rose e di spine in cui bisogna credere… (continua)

Sì, ho fatto il pieno ed ora lo riverso a piene mani nel nostro blog. È bello provarci ancora, visto che davvero, nonostante tutto, sono in molti a definire “FELICITA’ la gioia provata per i motivi più disparati. Proprio oggi ho appena letto un bellissimo testo di Paola Polo, da me conosciuta in alcune presentazione di libri SECOP e poi seguita, nei limiti di tempo che quotidianamente mi concedo, sulla sua Pagina FB. Ve lo propongo. Riguarda il suo Compleanno, per cui le facciamo coralmente tantissimi Auguri!!!: Nella sabbia calda bagnata dal mare è inciso il mio nome strappato all’inverno. Gennaio mi ha accolta tra le sue braccia ma io da sempre rinnego il suo gelido freddo. E così a cavallo tra capricorno e acquario cerco invano il mio posto nel mondo. Ma un posto non c’è e mai ci sarà per    chi ricerca la felicità… E allora sorrido, mi vesto d’estate e corro scalza sulla sabbia sicura che il freddo non mi colpirà, buon compleanno a me!

E per quel che leggo, e che mi piace moltissimo, ravviso, nel sorriso di Paola e nella corsa sulla sabbia bagnata di inverno e di gelo, con la “certezza che il freddo non la colpirà”, tutta la felicità a cui va sempre incontro ogni volta che la cerca di qua e di là senza un “apparente” approdo, ma continuamente avvertito nel cuore.

Ed ecco uno scritto di Claudia Lerro, bravissima attrice di Teatro e ora anche di Cinema e televisione, nonché animatrice di un laboratorio teatrale molto ben avviato e seguito, proprio a Corato, suo paese d’origine, e mio di adozione. Altro particolare non trascurabile: annovero Claudia, nonostante i lunghi silenzi, tra le mie tantissime care amiche virtuali e reali! Imperdibile il suo testo: Non riesco a dormire. Forse perché ho ancora la gioia del laboratorio teatrale appena finito. Se immagino i circa 150 ragazzi di ogni età che abitano ogni giorno la mia scuola di teatro, mi commuovo. 150 anime in ricerca, in evoluzione. Nel mio paese. Una meraviglia che sembra un miracolo. E io e il teatro a loro servizio. Bea. Lori. Franci. Non riesco a dormire. Di felicità.

E non ci sono commenti alla sua vocazione per la recitazione e alla passione che accompagna ogni autentico talento che, se vissuto in ogni attimo della nostra vita, ci rende appagati, entusiasti, felici.

Oggi, poi, è la Giornata Mondiale degli Abbracci, altro motivo di felicità per chi sa godere di un pensiero, anche se più volte riciclato, da parte di parenti, amici, conoscenti. Prodigiosamente, inoltre, sui vari social sono apparse frasi, foto, immagini, didascalie che fanno bene al cuore perché ci offrono l’idea di una felicità vissuta o ritrovata grazie a questa giornata di abbracci virtuali, reali, corpo a corpo o anche a distanza. Un tripudio tenerissimo di felicità, in cui io, come annunciato ieri, affondo a piene mani. Non è facile che ci capiti. Occorre cogliere il momento giusto. La mia amica Ada De Judicibus direbbe “gli attimi puri”. E, per caso, mi sono imbattuta poco fa in una dolcissima foto di mio figlio Giuliano con la sua bellissima compagna Viviana Maurizi, persi in un abbraccio da brivido emozionale, tanto da fare impallidire le stelle, che stasera non ci sono perché offuscate da nuvole, vento e residui di pioggia. Ebbene, vi invito a cercare la foto su FB. Se possibile. Qui trascrivo la frase che la precede. Non è di mio figlio, ma è uno stralcio della canzone “Midnight Lullaby” del grande Tom Waits. In pratica, in italiano “Ninna nanna di mezzanotte”. Una ninnananna da scaldare il cuore. Giuliano ha scelto uno stralcio che ben si addice a Viviana. Eccolo: Cantare una canzone da sei pence,/ una tasca piena di segale/ Silenzio/ ciao piccola mia,/ non c’è bisogno di piangere/ Ci sono gocce di rugiada/ sul davanzale e caramelle in testa/ Stai scivolando nel mondo dei sogni,/ stai annuendo con la testa/ Quindi sogna

In realtà, la canzone è molto più lunga e con finissima trama psicologica connota meravigliosamente il rapporto d’amore di due innamorati, con tasche vuote e pensieri pieni di sogni. Quanto basta per continuare ad amarsi e a sognare. Non è questo che regala la felicità?

Ed è per questo che ve la voglio proporre per intero, grazie al testo, con diversa traduzione, inviatomi da mio figlio per mandarmi un tenerissimo abbraccio a distanza. Lacrime da confondere con le stelle che non ci sono, ma ci sono sempre e comunque a rendere luminoso il nostro cielo.



Ninna nanna di mezzanotte

 

Cantare una canzone da quattro soldi, con le tasche vuote

Adesso basta, piccola mia, non c’è alcun bisogno di piangere

Puoi fare le ore piccole* con me finché vuoi

Guardare la luna fuori dal davanzale e sognare

 

Cantare una canzone da quattro soldi, con le tasche vuote

Adesso basta, piccola mia, non c’è alcun bisogno di piangere

Ci sono gocce di rugiada sul davanzale, e caramelle gommose nella tua testa

Stai scivolando nel mondo dei sogni, stai annuendo con la testa

Allora sogna

 

Sogna del West Virginia, o delle Isole Britanniche

Perché quando sogni vedi per miglia e miglia

Quando sarai molto più vecchia, ricorda dove ci sedemmo

A mezzanotte sul davanzale, e facemmo quelle piccola chiacchierata

E sognammo

 

Andiamo e sogniamo

Andiamo e sogniamo

E sogniamo

E sogniamo

Andiamo e sogniamo

Approfittiamo anche noi per sognare. Ad occhi chiusi, ma anche ad occhi aperti. Non è mai tempo di smettere di sognare. E, a questo proposito, ritengo che sia bellissima la canzone “Come i treni a vapore” di Ivano Fossati. Con parole che sono di straordinaria poesia. Anche perché il sogno vince anche il dolore. Basta voler sognare, saper sognare per andare lontano e rincorrere anche spazi luminosi di felicità:

Io la sera mi addormento/ E qualche volta sogno/ Perché voglio sognare// E nel sogno stringo i pugni/ Tengo fermo il respiro/ E sto ad ascoltare// Qualche volta sono gli alberi d'Africa a chiamare/ Altre notti sono vele piegate a navigare/ Sono uomini e donne e piroscafi e bandiere/ Viaggiatori viaggianti da salvare// Delle città importanti io mi ricordo Milano/ Livida e sprofondata per sua stessa mano/ E se l'amore che avevo non sa più il mio nome/ E se l'amore che avevo non sa più il mio nome// Come i treni a vapore/ Come i treni a vapore/ Di stazione in stazione/ E di porta in porta/ E di pioggia in pioggia/ E di dolore in dolore/ Il dolore passerà// Io la sera mi addormento/ E qualche volta sogno/ Perché so sognare// E mi sogno i tamburi/ Della banda che passa/ O che dovrà passare// Mi sogno la pioggia fredda e dritta sulle mani/ I ragazzi della scuola che partono già domani/ E mi sogno i sognatori che aspettano la primavera/ O qualche altra primavera da aspettare ancora/ Fra un bicchiere di neve e un caffè come si deve/ Quest'inverno passerà// Se l'amore che avevo non sa più il mio nome/ E se l'amore che avevo non sa più il mio nome// Come i treni a vapore/ Come i treni a vapore/Di stazione in stazione/E di porta in porta/
E di pioggia in pioggia/ E di dolore in dolore/ Il dolore passerà// Come i treni a vapore/ Come i treni a vapore/ Di stazione in stazione/ E di porta in porta/ E di pioggia in pioggia/ E di dolore in dolore/Il dolore passerà…

E anche per oggi mi fermo qui. A domani...

venerdì 20 gennaio 2023

Venerdì 20 gennaio 2023: la FELICITA', un percorso di rose e di spine in cui bisogna credere... (continua)

Riprendo subito con nuovi incontri virtuali ma quanto reali e belli e stimolanti sulla felicità. Proviamo insieme a farne tesoro.

Marco Balzano ha pubblicato, con la Feltrinelli, Cosa c’entra la felicità - una parola quattro storie, in cui descrive in terza persona, in una sorta di introduzione, il suo libro:

Felicità è una parola di cristallo, la più soggettiva del vocabolario. Cambia a seconda dei valori, delle condizioni di salute, delle idee, della fede, dell’età, del rapporto con il tempo e con la morte. Muta svariate volte nel corso della vita, poiché a cambiare siamo prima di tutto noi con il nostro orizzonte di desiderio. Definirla, quindi, non è impresa da poco, ma può rivelarsi un’avventura avvincente. Il suo significato, infatti, apre mille strade e mille orizzonti. Per me è uno stato di estasi, per te un momento di inconsapevolezza. Il luogo dove si trasforma di più è proprio la lingua, con i suoi labirinti etimologici perché le parole contengono immagini originarie, miniere di storie e di misteri, che nei sotterranei della nostra mente agiscono e danno forma ai pensieri e alle emozioni di ogni giorno. Marco Balzano varca la soglia della felicità con le chiavi della lingua, o meglio di quattro. Sono quelle in cui la civiltà occidentale affonda le sue radici: il greco e il latino della tradizione classica, l’ebraico di quella giudaico-cristiana e infine l’inglese, lingua universale del nostro tempo. In ognuno di questi idiomi la parola felicità dischiude immagini e significati molto differenti che illuminano valori etici e morali, questioni politiche, atteggiamenti psicologici e, più genericamente, maniere di guardare alla vita e alla morte, al futuro e alla memoria, agli altri e a noi stessi. L’etimologia restituisce alle parole la loro complessità (…). Capire da dove vengono e come sono arrivate a noi le parole ci mostra quanto influiscano sulla nostra vita e come ci plasmino. Al punto da poterci indicare nuovi modi di essere felici.

Le sue parole meritano un saggio a parte sulla felicità tanto sono ricche di molteplici rimandi, ma non posso fare un saggio nel nostro blog. Ci vorrebbe tempo e spazio che mi mancano e sarebbe un attentato alla pazienza di chi mi segue “con affetto e simpatia”, per cui mi limito a dire banalmente: le parole del bravissimo Balzano si commentano da sole! Ma mi danno l’opportunità di introdurre altri richiami per questo nostro viaggio alla ricerca della possibilità di raggiungere una qualche felicità. Ecco allora una bellissima poesia della mia tenera e cara amica Roberta Lipparini, tratta dal suo libro Io ce l’ho un amore (Zona-Unilibro, 2014):

Sai, la felicità?/ Quella che fa paura/ quella che tanto non dura/ più di un istante/ Quella punita dagli dei invidiosi/ e condannata dai gelosi/ La felicità che è una colpa/ che forse è un peccato/ che ha un prezzo/ sempre/ salato/ Quella che puoi solo sognare/ quella che ti devi meritare/ con un bel po’ di sofferenza/ che poi svanisce/ e devi stare senza/ Quella che forse è contro la morale/ Che se viene ti può far male/ La felicità che non ti devi abituare/ che appena arriva/ subito/ scompare/ Sai? Oggi è arrivata/ e l’ho presa/ e la terrò qua/ perché penso sia giusta/ questa mia felicità 

Ritengo che sia davvero la poesia giusta per comprendere appieno le regole del filosofo tedesco, di cui ho parlato nei giorni precedenti.

Nei versi di Roberta, infatti, c’è tutto ciò che potrebbe creare un ostacolo fisico, psicologico, sociale alla nostra ricerca della felicità e al nostro desiderio di conquistarla con coraggio, perseveranza e quotidiana attenzione e concentrazione,  perché sono puntualizzazioni, a mio parere, alquanto negative: la felicità “che fa paura” perché “non dura”; quella “non voluta dagli dèi” perché rappresenta una sfida alla loro onnipotenza e alla loro sacralità divina e inaccessibile; quella “che è una colpa”, perché ha alla base una situazione peccaminosa; quella che, per averla, “ha un prezzo troppo salato” in termini di dolore in quanto, dopo tante sofferenze e rinunce e attese, va via a tradimento in una frazione di secondo; quella che “bisogna meritarsela”… e… siamo sicuri di esserne degni?  Insomma, tutto quello che potrebbe essere considerato un deterrente e che ci induce alla fuga prima di… cadere in tentazione. E, invece poi, d’improvviso arriva… e, con Roberta, la nostra meravigliosa e incauta poetessa, sentiamo che sarebbe giusto afferrarla e tenerla forte tra le mani e nel cuore senza pensare ad altro… sarebbe giusto così, quale ne fosse il prezzo da pagare e la durata. Bisogna solo esserle grata che sia andata a darle questo palpito, fosse pure un sussurro, uno svolazzo di aquilone che s’inazzurra per trasportarla su sempre più su dove tutto il resto si riduce a ben poca piccola cosa.

Ed ecco un altro volto della conquista della felicità. Ce lo offre, a sua insaputa, la brava psicologa e psicoterapeuta Stefania Deangelis. Trascrivo solo uno stralcio da un suo scritto trovato su FB, riguardante una seduta con una sua paziente e l’amore per il suo lavoro: … Se il tuo pianto non è stato mai consolato, se hai dovuto silenziarlo e tenerti su da sola… Io lo comprendo anche se non trovi ancora le parole giuste per raccontarmelo… In quel nascondiglio ci sono entrata anch’io e per fortuna mi sono trovata e gentilmente accompagnata fuori a vedere il sole e la pioggia della vita.

La vita con la terapia non diventa più bella, diventano più belli i nostri occhi per scoprire piccole e semplici felicità anche nei giorni di dolore.

È un esempio luminoso di come, opportunamente e competentemente aiutati se ne abbiamo bisogno, si possa fare un percorso salvifico per asciugare lacrime e sofferenze mai dimenticate e   per rinascere a nuova vita, scoprendo occhi nuovi per assaporare “le piccole cose” che la felicità ci offre, pur non cancellando il dolore. E sono grata a Stefania Deangelis per avercelo insegnato.

Ma in queste righe aleggia il ricordo di una infanzia difficile che ha teso corde di dolore mai del tutto spezzate. Quanto importante aver vissuto una infanzia serena colorata di amore e di magia! A questo proposito, ecco la testimonianza di una infanzia vissuta con amore e tenerezza, che vince ogni silenzio e rende rassicurante ogni incertezza, morbido ogni dolore.

Tenerissima, infatti, la breve ma incantevole poesia della grande poetessa e mia meravigliosa amica di una vita Ada De Judicibus Lisena intitolata “Baci” che è un canto ai ricordi del passato e al fervore goloso e innocente della giovinezza, vissuta all’ombra di riti quotidiani e dolci sintonie del cuore: 

Mia nonna/ segnava il pane/ con una croce./ Io baciavo la croce odorosa/ e mangiavo il pane caldo/ che sembrava cantare./ Certo/ di tutti i baci che ho dato poi/ nessuno l’ho dato/ con tanto goloso fervore.

E ancora la delicatezza di questi suoi altri brevi e “verdeggianti” versi di luminoso metaforico splendore, misto all’ombra di inevitabile paura che sempre accompagna la speranza: Bambina che scrivesti:/ “Noi siamo un quadrifoglio”/ e colorasti di verde,/ molti anni fa,/ un compito di scuola,/la tua famiglia quadrifoglio,/ eccola è qui,/ coi petali chiusi/ intorno a una speranza-paura. (da A. De Judicibus Lisena, Poesie 1980-1996, Mezzina, Molfetta 1996)

Come non lasciarsi contagiare dal verde intenso della “famiglia quadrifoglio”, che Ada ancora oggi da amatissima nonna, si porta nel cuore come il bene più prezioso di rinnovata dolcissima intima felicità. Tutto questo mi riporta all’incontro con le “persone belle e ricche di luce”, che ci aiutano a sopportare anche il dolore. Mi riporta alla mente uno scritto di Patrizia Sollecito che è, a mio parere, l’esempio vivente di una “bella persona”. Le sue parole cominciano con una citazione: “Le persone Belle non capitano semplicemente, si sono formate”… e lei continua: … al tornio del dolore e delle rinascite; al sapore amaro delle sconfitte e al miele delle albe nascenti; alla lotta quotidiana contro i mulini a vento per non essere gregge. Le riconosci dal pulviscolo luminoso che ti rimane sulla pelle, dopo che ti hanno sfiorato l’anima.

Ed io non ho potuto fare a meno di scriverle il mio grazie dal più profondo del cuore: Mi sono intenerita per le tue meravigliose parole e illuminata per la loro luce che rispecchia la Luce della tua anima. Grazie.

E anche per oggi va bene così. Continuerò per qualche giorno ancora. Possibile che ci sia tanta felicità in giro? Devo necessariamente fare il pieno prima che mi sfugga nuovamente di mano. A domani. Angela 

giovedì 19 gennaio 2023

Giovedì 19 gennaio 2023: la FELICITA', un percorso di rose e di spine in cui bisogna credere... (continua)

Riprendo subito con uno stralcio del meraviglioso racconto “IL VOLO” di Daniela Leone, la mia ultima nata, scritto quando aveva meno di diciotto anni. E ne sono passati quasi trenta senza perdere un solo battito delle sue ali in volo. Delle sue parole che vibrano di arditi sogni e di tenerissima Poesia:

… La fanciulla, non più fanciulla, vedeva crescere sua figlia cominciando ad invecchiare - di una vecchiaia un po’ sbiadita -  mantenendo la fragilità di ragazza e continuando ad inseguire i suoi sogni di bimba, sogni di miele e panna montata, sogni di fragole e mandarini, sogni di…

Intanto la bimba, non più bimba, diventava donna - colori dell’autunno tra i capelli, foglie al vento i suoi pensieri, specchio di luce negli occhi - portando un grande sogno nel cuore:

                                                                VOLARE

La madre-ancora fanciulla avrebbe voluto tenerla sempre con sé, in un abbraccio di un secondo durato tutta una vita; ma sapeva, con la saggezza rassegnata che solo una madre con due cuori può avere, che sarebbe arrivato il giorno in cui sua figlia AVREBBE VOLATO.

Decise allora di abbandonare tutti i suoi sogni di bimba - non più miele né panna montata, niente più fragole e mandarini, niente più… - e dedicarsi al solo inseguimento di quell’UNICO GRANDE SOGNO che le avrebbe TENUTE LEGATE PER SEMPRE…

                    -   CORDONE OMBELICALE DI LINFA VITALE    -

… Aveva tanto tanto amore - amore a piene mani - da regalare…

Trascorsero mille albe e mille tramonti e ancora albe e ancora tramonti tessendo, col velluto della sua pelle bianchissima e fili di riccioli biondo grano, la tela - rosso corallo delle sue labbra - per le ali da donare alla sua piccola bambina.

-          DUE ALI GRANDI A CONTENERE TUTTE LE STELLE    -

                  …

                           …

                … pssssshhh

 

Se alzi gli occhi e guardi in su

   puoi vederla sfrecciare,

        come la scia di una

             stella cadente:

                 libra leggera 

                  vola in picchiata

                        e riprende quota

                              toccando il punto più

                                    alto del

                                                  CIELO…

E l’Amore si espande in maniera esponenziale, quando lo sentiamo vibrare dentro, perché, infatti, diventa Amore per le persone care, per la natura, per la bellezza, per l’Arte, per la Vita. Tutto si fa Amore, rendendoci rispettosi del mondo che ci circonda e di quello che ci vive dentro. Come vado più e più volte ribadendo. E non mi stancherò mai di farlo. Innamorati, gioiosi, appagati di ciò che siamo e abbiamo.

Daniela vola ancora, grata a CHI ci ha fatto DONO del CUORE per darci la possibilità di AMARE.

Ancora una volta propongo testi dei miei figli. Non me ne vogliate. Hanno ricevuto tutti e quattro il dono della creatività e della scrittura. Voi direte “facile eredità”. Beh, vi confesso che è un “vizio di famiglia” a vasto raggio: hanno respirato l’amore per i libri e per la poesia sin dalla nascita, ma la cosa più bella è che ciascuno ha una in quello che scrive una cifra stilistica sua propria, che va al di là dei modelli vissuti in famiglia. Come non esserne fiera? Come non ripensare alle poesie di Primo Leone, scritte nel giorno della nascita di sua figlia Raffaella, la prima dei quattro a procurargli lo stupore immenso della paternità? Ecco il suo primo Inno alla Vita, dedicato a nostra figlia primogenita, Raffaella:

Un canto di luce/ fu l’alba/ della tua tenera vita./ In quegli attimi/ di carne viva/ che vinceva il buio/

Quanto amore e quanta creatività in pochi versi come esplosione di gioia, una esaltazione di pura felicità. E, ancora, il giorno dopo:

Ora sei giorno/ che si rinnova al sole/ con lo splendore/ della gioia più intatta,/ e le tue dolci/ piccole mani/ hanno lo stupore/ dell’infinito./ Non ci sono occhi/ che possano guardare nei tuoi’/ né bocca che possa parlarti,/ senza perdere il cuore. (Bari, luglio 1968)

Dopo il primo sbocciare alla pura gioia, quest’ultima diventa al sole del pieno giorno “una cosa certa”, più intatta”.

Ecco perché Primo, come Mario Sicolo (il nostro Apulo Scriba) scrive nella Prefazione alla silloge I LIMITI DELL’ALBA (SECOP edizioni, 2021 - anche questa postuma), riprende questi magici versi di un padre che si scopre tale(e non è scontato il desiderio di paternità, come è più facile credere):

Il mio cuore/ è un mago che la realtà sfigura/ per amarti/ come t’amo.

Nella Postfazione, invece, Giovanni Romano, attento e sensibilissimo critico letterario, saggista e ironico aforista, conclude:

Ma se c’è una cosa che l’infanzia non conosce è proprio la fine, perché è lei la vera alba.

Un’alba senza limiti, che Primo Leone ha saputo guardare, accompagnare e cantare in versi di tenerezza sconfinata.

E tutto diventa radiosa luce di pura felicità, condivisa dal prefatore e dal postfatore. Miracolo della condivisione di un sentimento d’amore e di gioia così intimo, quasi segreto, eppure empaticamente condiviso… Ma è tempo di evidenziare la bellezza di altre testimonianze di amore inebriante e di luminosi cieli condivisi. Testimonianze raccolte da libri famosi di grandi autori, oppure da quelli altrettanto significativi degli amici, autori della SECOP edizioni, o ancora dalle pagine FB. È il caso di una splendida poesia della grande Maria Luisa Spaziani, che ho conosciuto a Bari e poi ritrovato a Roma ormai tanti anni fa. Si è persa tra le stelle un po’ di anni fa, ma la sua poesia “LE TUE BRACCIA” la riporta più luminosa che mai tra noi: Lo spirito ha bisogno del finito/ per incarnare slanci d’infinito./ Parlo con l’angelo, e le tue braccia d’uomo/ soltanto lo traducono ai miei sensi.// Dove comincia l’ala? Dove nascono/ musiche di tamburi di tempesta?/ Amarti è sprofondare, è una foresta/ sfumante in cieli altissimi.   

E si rimane davvero senza parole di fronte alla forza trascinante di questo amore che “s’incarna in slanci d’infinito” pur avendo bisogno di “finito” per assaporarlo appieno. Le eterne contraddizioni dell’animo umano. Maria Luisa non fa eccezione e dinanzi ai tanti sui ossimori, che dicono e contraddicono, si ha il vero senso della “tempesta” dei suoi “sensi”, sempre in bilico tra realtà e fantasia, verità e finzione. In un anelito purissimo di “cieli altissimi”, dove raggiunge l’agognata felicità.

In Luigi Lafranceschina, intanto, amico e collega di antica data, ritrovato dopo anni di silenzio grazie appunto alla sua pagina FB, la felicità assume altro significato, altra verità. Ignoravo che Luigi scrivesse, oltre ai saggi di Pedagogia, anche sapidissime poesie in dialetto con traduzione in italiano. Ne ho scelto una che ha per titolo “U prìisce”, tradotta in italiano “LA FELICITA’”. Una meraviglia che mi sono affrettata a rapinare per condividerla. Già, perché “u prìisce” è, secondo l’idioletto della mia famiglia di origine, in particolar modo risalente ai nonni, una particolare allegria da condividere con parenti e amici in una serata di euforica baldoria. Nella maniera più sana e semplice possibile. Memore di ciò, a mio parere, possiamo ravvisarla in una gioia zampillante che non si può vivere da soli come accade per la felicità, che è bellissima se condivisa, ma può essere vissuta anche nell’intimità della propria anima. “U prìisce” è di per sé condivisione. Non se ne può fare a meno. È quell’allegria che ci vede brindare con gli altri, fare battute e sfottò irriverenti ma affettuosi; quell’allegrezza che “squarcia la giornata/ come un’anguria”, “accende il sorriso e il buonumore”. E non si può sorridere da soli, occorre farlo in compagnia. La propongo solo in italiano per via della difficoltà a trascriverla in dialetto. Certo, nella lingua materna ha un altro sapore. Per esempio, “buonumore” in dialetto è “uascezze” che sottintende qualcosa di estremamente piacevole, un vero conforto per il corpo e per la mente fino a rimbalzare nel cuore, facendosi grande “esultanza”. Ma anche in italiano “LA FELICITA?” è godibilissima: Appare all’improvviso/ Certe mattine/ Quando meno te l’aspetti/ E squarcia la giornata/ Come un’anguria!/ Un refolo di vento/ Spegne il pianto e i lamenti/ Accende il sorriso e il buonumore/ Il cuore si rallegra/ E le gambe prendono il volo!/ Ma che cosa appare/ Certe mattine all’improvviso/ Non te lo so dire/ So soltanto che è come/ Uno sprazzo di sole/ Che entra in casa/ Dalla finestra socchiusa/ Mi fa sentire felice/ Pensare che sono vivo/ E che potrò vedere ancora/ tutte le meraviglie del mondo/ E lo splendore del tuo viso!

Gli ultimi versi sono da sottolineare tanto sono pregni di vita e di vitalità, dell’espandersi dell’anima del poeta in una esultanza che include il mondo intero, in cui si slarga a perdifiato “lo splendore” del viso della donna amata! E ogni commento non può reggere all’immensità di tanto amore, tanto splendore…

E non finisce qui. Domani altre bellissime testimonianze ci attendono. “Felicemente”. Angela