martedì 31 ottobre 2023

Martedì 31 ottobre 2023: il Tempo, la Memoria, i Ricordi, il Canto e il Disincanto (parte prima)...

In un silenzio di lune

                    su lastricati di luce

      la notte va zigzagando

                (accende persiane chiuse

        l’intimo respiro

                    estraneo al mondo)

 

   Occhio d’acciaio

       imperlato di lacrime

       Quotidiana lucida follia

            ai nostri giorni

            privi di senso

                           (a.d.l.)

Desidero in questi giorni soffermarmi a parlare del tempo, la memoria, i ricordi. Mi sembra opportuno e necessario, anche se lo farò a puntate. Stiamo transitando da ottobre a novembre ancora con tanto sole, almeno qui al Sud, e stiamo transitando da una guerra feroce ad un’altra che ci terrorizza e ci riempie di sgomento e domani la chiesa festeggia tutti i Santi e dopodomani tutti ricordiamo i nostri cari che non ci sono più e ci portiamo nel cuore. Che senso hanno la vita e la morte in tempo di barbarie come questo? Il tempo…

Parte I: Il Tempo

Stiamo vivendo, dunque, un anno estremamente difficile, di cui si conserverà a lungo memoria.

Proprio vero. Non ricordo più chi abbia detto che “la memoria non riguarda solo quello che si vuole ricordare, ma soprattutto ciò che non si può dimenticare”.

E, infatti, difficilmente si potrà dimenticare, nei secoli a venire, questo nostro tempo: tempo di timori, paure, terrori. Tempo di contagi, di morte e dolore. Ma anche tempo di lotta, coraggio, forza, solidarietà, speranza, salvezza. Tempo di vecchi che muoiono e di bambini che nascono, perpetuando il senso dell’inevitabile Oltre e rinnovando il miracolo della Vita.

 Il tempo: una parola senza tempo. E, per questo, difficile da spiegare per comprenderne il mistero. Ci provo a modo mio.           

               Il tempo ci comprende o siamo noi a sentirci compresi nel tempo?

                                 Il tempo passa o siamo noi a passare nel tempo?

                                         Tempo lineare - tempo circolare?

Tempus fugit. Tempo virgiliano tempo oraziano. Il mio il tuo tempo, che dell’eternità ci regala l’attimo, infinito presente in cui siamo ciò che mai siamo stati e mai più saremo.

In ogni attimo l’Io nella sua pienezza di ESSERE in quell’istante.

Pure, il tempo ha passi di viandante a percorrere strade e vie e sentieri tra case addormentate e un risveglio d’alba che sa l’aurora e preannuncia il giorno.

Lascia orme sui percorsi innevati dei monti, e passi incauti tra campi di ulivi alla collina. E tralci di viti ubriachi di sole. E vino nei calici dei giorni della festa e dei sorrisi.

Ha un incedere attento tra l’erba dei prati e lucertole e sassi di ogni possibile inciampo. Ride di buonumore al rosso portafortuna delle coccinelle dai sette punti neri che fanno eleganza e tanta allegria.

S’annida nella casa, tra serti di braccia di chi si ama, e spine dolenti di chi si odia e nasconde coltelli in sotterranei anfratti del cuore. E si sgomenta di tristezza.

Il tempo, accogliente o diffidente, incontra gente amica o sconosciuta, si gira indietro al richiamo nostalgico del pianto dell’amato perduto o del sogno irrealizzato.

Segue un destino di mete e di realtà sognate e spesso vanificate dall’inganno di un miraggio nel deserto dell’anima in disuso e prigioniera di rancori mai spenti, che ravvisano un nemico nello straniero della porta accanto. E lo straniero guarda cupo il traguardo azzerato, la casa abbandonata, la terra, la culla… e il miraggio della “terra promessa”, luogo d’incanto per bellezza forza lavoro e libertà.

Vola il tempo sulla disperazione e il rimpianto, sul pianto che fora l’azzurro per raggiungere il Cielo a ritrovare una voce che non ha più voce…

Vola tra aerei e aquiloni e stelle e pianeti. Gira intorno al sole e s’incanta di luna. Sfiora universi e galassie e dubita di misteri gravitazionali e quantici, che poi accoglie per farsene una ragione.

Precipita in buchi neri dell’umana esistenza: Pandemie e virus mortali. Guerre e distruzioni. Perdite e lutti. Pianti irrefrenabili o silenziosi. Muto vero Dolore e falso dolore urlato, esibito. Solitudini obbligate oppure scelte in libertà. Tempo strangolato.

S’impiglia tra le antenne sui tetti delle case e s’aggrappa alle code degli uccelli in migrazione.

Pigola tra passeri e pulcini e chiude gli occhi al canto del gallo e al terzo tradimento. Svetta sul volo dispiegato di falchi e poiane, e canta tra le ali della paradisea e dell’airone. S’incanta all’assolo dell’usignolo e al garrire in coro delle rondini in festanti voli.

Plana lento sul grido strozzato dei gabbiani, e si tuffa negli oceani da cui ebbero origine i mari.

Naviga tra lo scintillio di acque calme a specchiare zaffiri e smeraldi e diamanti di cielo e s’infuria tra i marosi in tempesta e gli scogli appuntiti di ogni rimpianto. Di ogni vana gelosia all’invidia malcelata per chi arriva prima e alza il trofeo della vittoria al Cielo per ringraziarLo dei doni ricevuti e meritati. Freme di sdegno per chi non si arrende all’evidenza e per la sua arroganza e falsa sapienza. Per la sua follia di essere al di sopra delle parti. Per la sua inevitabile solitudine.

E conosce il segreto delle maree e dei lupi mannari che ululano agli occhi stupiti della signora del firmamento, oscurandone l’incanto.

Ascolta con le barche addormentate la nenia della risacca contro vento.

S’inerpica sui pensieri che dondolano d’altalene tra gli alberi spogli e quelli in fiore. Rischia gli abissi tra fondali insondati di coralli e velieri e tesori nascosti in galeoni affondati, depredati e distrutti dalla mano rapace dell’uomo che non teme coscienza e sapienza dell’eterno andare per scoprire e conoscere.

Prega tra le mani del Cristo degli abissi e s’inabissa tra tormenti e trasalimenti, tra schianti dell’anima alla deriva di ogni perché.

Risorge sulla schiena inarcata dei delfini e medita tra guglie di cattedrali gotiche e s’insuperbisce di castelli federiciani (e non), e archi di trionfo d’antico splendore.

Versa lacrime lungo i muri del pianto e rinasce negli occhi immensi dei bambini alla prima fiaba, al primo gioco con le manine, al primo sguardo della mamma, al primo germoglio in fiore che annuncia il risveglio nel pudore rosato di mandorli e ciliegi, baciati dalla primavera (Neruda). E s’innamora di un canto d’amore. Di una serenata ormai dimenticata e lontana nel tempo che non perdona.

Si colma di sole nei secchielli di sabbia tra mani bambine e sogni di barche addormentate nei porti, che sentono la tristezza della solitudine del faro e lo schianto dei gommoni alla deriva di una estate che ignora storie di fughe e di fame di guerre e di abbandoni sulla pelle abbronzata dei turisti multimiliardari e le loro arroganti imbarcazioni. Segue la meraviglia dei velieri e le regate di vinti e vincitori.

Piange con le piogge di settembre e s’infilza sulle cime acuminate dei cipressi che vegliano urne di morti abbandonate o protette da crisantemi e cespugli di rose.

Sorride alla stella cometa che sfida il gelo e indica agli “uomini di buona volontà” la meta e la divina culla. La Rinascita e la Speranza. La ciclicità della vita e le stagioni. La lunghissima retta di lunghi anni contati in secoli e millenni. La rivincita dell’uomo che si eterna.

Dove c’è un bambino c’è una fogliolina verde che fremita di futuro…

Il futuro, un eterno ritorno! Per ritrovare il senso della nascita e le radici. Il senso della morte e della sacralità di ogni sguardo verticale. Di ogni “muro d’ombra” attraversato.

Passano gli anni e le stagioni. E dei mortali gli amori e le generazioni.

Passano o restano nella memoria del mondo e dell’acqua che la conserva nel suo eterno scorrere e divenire?

Immortale resta il tempo che si eterna nella Volontà di una Energia d’Amore che lega i sottilissimi fili dell’ordito e della trama di ciascuna Creatura in forte attrazione, e connette ogni particella del Creato al suo Creatore. Che sa l’aurora e il tramonto, lo spuntare del filo d’erba e il maturare del frutto, lo scorrere dei fiumi e il disgelo delle nevi. Il tempo giusto di ogni accadimento. La perfezione di ogni creatura nella sua stessa imperfezione e contraddizione. In ogni disgiunzione. Nell’incanto di ogni possibile nuova congiunzione.

E vigila sul buio della notte accendendo sogni come stelle sul misterioso canto della Vita…

E, nel buio di ogni notte, ecco accendersi nella nostra mente la memoria, che fa a gara col tempo e lo vince.  E, questo nostro tempo, è tempo di memoria più che mai.  Ma è tempo di canto, incanto, disincanto. Anche le poesie raccontano il tempo e l’anima.

L’anima ancora stanca

Questo ottobre così difficile

da vivere mi stanca.

Stanca della doppia faccia

della luna.

Stanca della doppia ansa

del fiume.

Stanca di me con l’anima

agli occhi.

A doppia mandata le tante realtà

da dover vivere

senza mai una chiave di verità.

E ottobre sta per consegnarsi

a novembre in un silenzio

d’attesa.

(fuori fragore di gente

 violenta rabbiosa divisa

 che sa fare solo rumore

         senza stancarsi mai…)

nel cielo d’ottobre

è un languido rincorrersi di stelle

questo cielo frantumato di sole

che ha onde sfinite

nel languore di un ottobre

che piange di ruggine foglie gialle

e ali di colombini 

che da solitudini terrestri

cercano un volo breve

tra i rami del giardino.

Sogno un autunno visionario

che mi danzi nell’anima:

la fanciulla dal bianco cappello

ha fiori rossi intrecciati sulla tesa

e lunghi sogni imbrigliati

tra i capelli d’oro e di seta.

Buffo il cagnolino biondo

morbido tra le braccia ansiose

della padroncina nell’azzurrità

che fremita di passate primavere

e sogna quelle che verranno

se le saranno concesse.

E intanto incalza l’autunno

(io smemoro pensieri

 che non vogliono pensare)

I corvi neri di fine ottobre

     Dai corvi neri dei pensieri

mi libero con dita d’acciaio

che scavano versi nel sangue

dei ricordi e li scaraventano via.

Non ti fermare al mio sorriso

arcobaleno che si rifrange

nel mare dei sogni inascoltati

è un vizio che non m’abbandona

da quando bambina

assordavo le stelle con la risata

del mio dolore.

E cantavo oh quanto cantavo

con labbra di papaveri e ciliegi

e zucchero filato per addolcire

il fiele di ogni distacco.

L’assenza.

E spianare la ruga

della malinconia mia identità

mai perduta

neppure ora che è tempo di castagne

rovi e frutti di bosco blu come le more.

Oggi che i vuoti sono squarci

nel lacerato vestito della festa.

(Lasciami il sorriso di un rattoppo

  a fingermi un ricamo d’erba…)

2 novembre

    ... schegge taglienti

di ricordi a ferire il cuore

che più non ha riparo,

stanco di lottare col quotidiano

dolore del mondo alla deriva.

Ma nel giardino sorridono rose

prima che il buio vinca la sera.

E voi mi venite incontro

come allora quando le parole

sostituivano carezze e silenzi

e si facevano richiamo d’amore.

Voci di fiabe, preghiere e lumini accesi

oggi dimenticati…

Voci a ricordarmi parole antiche

e nuove e mai poche mai tante:

Siete con me. In me. Ci siete.

(accorrete come sempre lievi,

con passi e braccia e mani

         a soccorrermi,

di anno in anno più numerosi e vicini.

            Più vicini ai miei anni

prima che mi sorprenda, muta di carezze

e fiaccole accese,

                          la notte

chiusa nel palmo della mano

                             ad un passo dal Cielo)

A domani. E chiedo scusa a chi si è annoiato per i miei svolazzi lirici sul tempo. Forse solo perdita di tempo…

domenica 29 ottobre 2023

29 ottobre 2023: nel buio di questi giorni bui "una strana felicità"...

Ho trascorso una domenica di insolito sole di fine ottobre in casa con mio nipote, Nicola, mio angelo protettore. Gli altri di casa, con parenti e amici al seguito, giovani e meno giovani, ma non anziani, né tantomeno vecchi e disabili come me, sono andati al “Bosco rosso” a raccogliere le castagne. Impresa che in passato condividevo con gioia, pur restando al riparo della roulotte e relativa tenda, essendo il terreno perlopiù scosceso e impraticabile per chi non ha buone gambe. Ho lavorato tanto al computer: scritto, corretto, fatto sinossi, inviato. Il buio è sopraggiunto d’improvviso a causa dell’ora solare che stamattina ha sostituito l’ora legale. E allora ho pensato nel buio di questi giorni bui, con l’ansia che ci strangola e ci annichilisce, di riportare una storia che ci restituisca cinque minuti (il tempo di una rapida lettura) di “strana felicità”.

                                       UNA STRANA FELICITA’

Li ho incontrati un giorno di primavera nel parco del mio paese. Mi colpirono immediatamente per il loro abbigliamento a dir poco molto strano.

Lei indossava una gonna a campana, con grossi cuori rossi disegnati, una camicetta rosso fuoco con maniche a palloncino e fiocchetti colorati, e scarpe particolari, simili a quelle che un tempo noi ragazze definivamo “all’olandesina”, con un briciolo d’ironia nella voce: erano sicuramente confezionate a mano, forse all’uncinetto, e riproducevano, in colori assortiti, rose e margheritine, davvero deliziose a guardarsi, ma improponibili da indossare. Tra i capelli aveva una margheritina gialla, che si manteneva dritta e alta, direi fiera, perché fatta evidentemente dello stesso materiale e confezionata alla stessa maniera delle scarpe.  Completava il tutto un intrepido ombrellino rosso, con cuoricini disseminati qua e là: rideva al sole e tremolava molto voluttuosamente al lieve refolo primaverile in un gioco delizioso, che coinvolgeva anche i lembi della gonna sollevati, maliziosamente, con molta innocenza.

Lui indossava pantaloni bianchi, larghi e piuttosto corti, rispetto alle lunghe gambe, con l’arricciatura in vita, proprio come quelli di Charlot. Sopra ai pantaloni sfolgorava una camicia a quadri bianca e rosa, coperta per buona parte da un gilet pure rosa. Portava lo stesso fiore di lei, infilato nel taschino del gilet, e un fazzoletto rosso legato al collo. In testa un bizzarro cappello a cloche, che lo rendeva ridicolo e interessante (affascinante?), allo stesso tempo. In mano uno zufolo che ogni tanto metteva tra le labbra per trarne suoni tristi e nostalgici o pazzamente allegri, indirizzati a lei, che teneva per mano o raccoglieva tra le braccia, circondandole il vitino di vespa tanto anni ‘50.

Anacronistici e stravaganti, si parlavano fittamente, ridendo e accarezzandosi, non curandosi minimamente del mondo circostante. Sembrava che camminassero su una nuvoletta rosa o, a tratti, su un arcobaleno, tanto colorati erano i loro vestiti, tanti erano i saltelli, le piroette e i voli che facevano tra una risata e l’altra, tra una carezza e il fiume di parole che li attraversava. Fiori cappello e ombrellino oscillavano scintillanti al sole e sognavano con loro.

Incuriosita, mi avvicinai per ascoltare le loro parole, che sicuramente dovevano provenire da qualche galassia sconosciuta. Ed era proprio così.

Lei parlava della inesistente pioggia che le stava facendo un dispetto perché le stava cancellando tutti i cuoricini, che ora, tutti bagnati, si erano messi a piangere e si erano nascosti nelle aiuole.

Lui la stava consolando dicendole: - Ma non vedi, fiorellino mio, che si sono nascosti tra i rami degli alberi? Comunque, non ti preoccupare, adesso mi metto a suonare “il richiamo degli uccelli” e vedrai che subito tanti uccellini, che sono tutti amici miei, voleranno sui rami e ti riporteranno i cuoricini. Così potrai di nuovo cucirli sul tuo ombrellino…

- Ma come faccio se il vento mi ha pure rubato il filo, e l’ago è rimasto nascosto nel pagliaio?

- Non ti addolorare, piccina mia disperata, adesso diciamo ai miei uccellini di andare nel pagliaio a cercarti l’ago. Loro lo troveranno in quattro e quattr’otto…

- Sì, ma il filo, dove lo prendo il filo?

- Piccola tenerezza mia, segui il filo delle nostre parole e, quando ti accorgi che ti avanza, allora lo potrai spezzare e potrai usarlo per cucire gli uccellini sul tuo ombrellino…

- Ma che dici, Zipezap? Sono cuoricini non uccellini. Perché mi dici le bugie?

- Mandorlina mia, non ti dico mai le bugie, perché dovrei dirtele se tu, poi, parli di notte con le stelle e quelle ti dicono sempre la verità? Quante volte non mi hai creduto e le stelle ti hanno detto che avevo detto la verità?

- Sì, ma pure quelle sono bugiarde qualche volta perché vogliono farmi arrabbiare. E non sanno che io non mi arrabbio perché ho te che le spegni quando mi dicono le bugie…

- Hai visto, birichina mia, che troviamo sempre il modo di essere felici noi due perché sappiamo come va il mondo e sappiamo pure farlo girare a rovescio… Non vedi come sono infelici gli altri che vogliono per forza farlo girare in una direzione sola?

-Sì, Zipezap, tu hai ragione, ma io non so degli altri come fanno a vivere senza felicità, so solo che se mi mancano i cuoricini pure io sono infelice. Ed io non so vivere senza felicità. Dai, suona, così vengono i tuoi uccellini e mi portano i miei cuoricini. Non vedi che non piove più e il mio ombrellino sta strappando alla gonna i cuori che gli mancano perché così, dice, non può andare in giro?

- Senti, Mandorlina, non sopporto di vederti così triste. Facciamo una cosa: invece di aspettare gli uccellini e tutto il resto, andiamo noi a cercare questi benedetti cuoricini, che, se fossero stati più attenti a tenersi belli stretti fra loro, non si sarebbero fatti sparpagliare da un venticello qualsiasi. Anzi, sai che ti dico? Approfittiamo proprio di questo ladruncolo, che ti sta facendo dispetti da un bel pezzo, giocando pure con la tua gonna e credendo di farla franca perché pensa che io non me ne accorga dei suoi maldestri e meschini tentativi di sedurti, e voliamo a cercare tra gli alberi, in cielo, se proprio sono andati a nascondersi dietro il sole o tra le nuvole. Dai, dammi la mano. Vedi come è facile volare? E al vento diamo pure una bella lezione. Sai la fatica che deve fare per spingerci così in alto?

Mandorlina sorrise felice al suo Zipezap e gli diede la mano.

Giuro che li ho visti volare.

E anche per oggi chiudo qui, ma rinfranchiamoci a seguire il loro tenerissimo, folle, salvifico volo…

 

 

 

 

mercoledì 25 ottobre 2023

Mercoledì 25 ottobre 2023: un nuovo racconto raccolto in un'alba buia per rischiarare nuove tenebre...

È esile filo d’erba appena nato

La lancetta che segna l’attimo

Dal vecchio al nuovo giorno.

Un oh di meraviglia oltre la falce

Di luna a levante,

sottile come una parentesi

appena aperta

sull’alba che verrà…

Riprendo a scrivere a fatica. La terrificante violenza dell’uomo sull’uomo, sulla natura, su ogni essere vivente mi fa paura, mi annichilisce. La violenza non è stata mai di casa nella mia antica casa. Raramente è esplosa nella mia casa di giovane donna alle prese con un marito geniale e senza regole, quattro figli imbrigliati nel nostro ménage senza capo né coda, e i miei impegni con la scuola come insegnante e come preparatrice, per oltre trent’anni, di Concorsi per il reclutamento dei docenti nelle scuole di ogni ordine e grado e persino per dirigenti scolastici. Un impegno appassionato che, però, non mi ha dato respiro. Mi ha tolto la gioia di occuparmi dei figli, di mia madre, di incontrare i miei fratelli e le mie sorelle; di uscire per una passeggiata a “vedere” la gente e il mondo; di godermi qualche buon film, uno spettacolo televisivo, la musica e le canzoni che, ancora oggi, amo. Ma tutto è ormai da tanto tempo alle spalle. Il tempo ha attraversato il mio corpo, la mia mente. Spesso ha trafitto la mia anima. Ma sono qui a parlarne. Dunque, ci sono ancora. E c’è ancora tanta violenza per le strade insanguinate del nostro Pianeta. Occorre parlarne perché non si può essere indifferenti. Dire “non mi importa”. Ed io lo faccio come sempre attraverso un racconto, datato ma decisamente attuale. Per riflettere insieme. Per dialogare. Per “ESSERCI”.

                                                  L’UOMO CHE SENTI’ L’ALBA

L’uomo sentì l’alba. Sentì che stava per entrare nel buio. Sentì la morte alitargli sul collo: aveva un odore particolare, disgustoso. Provò a chiudere le narici e ad aprire gli occhi, ma vide il tunnel, in fondo all’orizzonte, che era verde e sapeva d’ulivi frastagliati di cielo; il tunnel, che si avvicinava sempre di più e che fra non molto l’avrebbe ingoiato e trasformato in nuvola senza più un solo ricordo, un solo pensiero, un solo progetto. La gola gli si strinse e gli venne da tossire con violenza, come se volesse cacciare l’anima: rannicchiata, testarda, nelle profondità delle viscere per non distaccarsene. L’anima ha bisogno di un corpo per essere nella vita, per sentirsi concretamente in una emozione, in una sensazione, persino in una cattiveria. E la sua anima era ora il suo stomaco dolente, quella morsa che strizzava la gola, quel colpo di tosse, secco, squassante, improvviso.

E improvvisamente sentì voglia di mare.

- Portatemi al mare - disse con un filo di voce, ma nessuno lo sentì.

- Portatemi al mare - urlò.

E venne pronto suo figlio, che aveva sentito oltre la porta non l’urlo spento, ma l’inquietudine di suo padre, il fragore delle onde nei suoi orecchi, l’odore della salsedine nelle sue narici. Conosceva bene suo padre: la ribollente libertà nell’oceano in tempesta della sua anima, prigioniera in un corpo inerte.

- Portatemi al mare - disse in un soffio, guardando suo figlio attraverso quell’unica lacrima che navigava nell’azzurro di quell’unico occhio, che sapeva ancora piangere. L’altro era un deserto senza sete e senza miraggi.

Suo figlio disse: - Aspettiamo la mamma. Sarà qui a momenti. Si sta vestendo - (“Sta indossando il suo vestito quotidiano di amore e di pazienza” pensò).

Da circa vent’anni suo padre era diventato un urlo dall’alba al tramonto. Una carrozzella urlante. E due gambe inerti. E un occhio che si era chiuso al cielo. E tutta la rabbiosa voglia di guardarlo ancora, nell’altro.

Da circa vent’anni sua madre si vestiva con cura per non perdere l’abitudine, dopo avere accudito a quella carne urlante ed inerte, che un tempo era stato un uomo possente e vigoroso; irascibile, certo, ma anche colmo di rari gesti di passione, quasi lava vulcanica ad avvolgerla tutta e a bruciarla. Per questo era rimasta, dopo le infinite volte che aveva deciso di andare via. Per quella lava bruciante che la faceva sentire viva e privilegiata, nonostante tutto.

E lui, il figlio della carne urlante e della torcia ardente, era rimasto perché non sapeva staccarsi dall’uno e dall’altra, essendo figlio unico; perché troppo dipendente dal padre, che lo aveva sempre ritenuto un buono a nulla senza spina dorsale e senza progetti in quella sua zucca vuota; perché troppo legato a sua madre, che lo aveva fatto sentire accolto, amato, con i suoi modi sempre dolci, gentili, premurosi.

Sua padre e sua madre erano due entità distanti anni luce.

E in quella distanza creavano un baratro in cui lui, il figlio buono a nulla, il figlio accolto e nutrito d’amore, sprofondava in una inerzia senza fine.

Ma c’erano anche i giorni in cui quel vuoto si colmava di parole, di gesti affettuosi, di tenerezze, e lui, il figlio dalla zucca vuota, si riempiva di speranza che un giorno o l’altro potesse farsi capire da suo padre. Potessero capirsi. Che un giorno o l’altro potesse liberarsi dal giogo morbido e tenero del rifugio sicuro di sua madre. Anche ora che era adulto, anche ora che l’aveva tradita con un’altra donna: la sua compagna, che non osava portare in casa per non incrinare il perfetto equilibrio di quel triangolo isoscele, in cui lui era sempre il lato più piccolo, il meno visibile.

Suo padre si era fracassato l’osso del collo cadendo per le scale dopo un furibondo alterco con il vicino di casa, che non voleva saperne di portare il suo pastore tedesco in un luogo che non fosse certamente l’appartamento al quarto piano, attiguo al loro: una casa piccola, che si riempiva di guaiti e di veri e propri ululati, quando il padrone non era in casa. L’abbaiare furibondo del cane tracimava il piccolo appartamento e si spandeva in tutto il condominio, disturbando tutti.

Ma il più disturbato era suo padre, invelenito da anni di convivenza con il frastuono assordante di quel cane. Penetrava, quel latrato, con violenza inaudita attraverso i muri nella loro casa e rimbalzava da parete a parete fino a conficcarsi nel cervello dell’uomo, che urlava più del cane e minacciava di far fuori quell’animale immondo, quel bastardo. Un giorno o l’altro. L’animale immondo in questione si chiamava Kira ed era di una bellezza straordinaria con quel suo pelo fulvo sempre lucido e curato. E quell’animale bellissimo, bastardo e immondo, ebbe il sopravvento sull’odio di suo padre che, dopo la caduta, finì su di una sedia a rotelle.

Di Kira non seppero più niente perché, dopo la caduta, lui, suo padre e sua madre preferirono una casa in campagna, ampia e isolata, all’appartamento in città, angusto e in pessima compagnia, per evitare a suo padre altri terribili e temibili, anche per la sua salute, accessi di ira.

Ma suo padre amava il mare.

E così, ora, quasi ottantenne e in fin di vita, chiese di vedere ancora una volta, per l’ultima volta, il mare.

Suo figlio notò che sua madre era pronta. Si era vestita quasi dovesse andare ad una festa d’estate, con angurie e frutti di mare distribuiti sulla spiaggia.

Suo padre era ora un rantolo che gridava la sua sete di mare.

Suo padre, con negli occhi il mare, ignorò la donna e i suoi papaveri rossi sul vestito bianco di lino leggero, che invece era piaciuto al figlio (“come sempre macchie di sangue e di amore sul bianco” pensò “bianco come bandiera di pace, come vela all’orizzonte, come un semplice vestito d’estate che estate ancora non è”).

Il figlio spinse la carrozzella fino alla sua macchina; prese di peso il padre con il suo rantolo, con il suo urlo soffocato, con la sua sete di mare e con tutta l’immensa distesa, racchiusa nell’unico occhio azzurro aperto sull’azzurro, e lo mise sul sedile. Si asciugò gocce di sudore. Fece salire i papaveri rossi su vela bianca sul sedile posteriore e si mise alla guida, dimentico di tutto: della sua compagna lontana e sola, della sua zucca vuota e della sua rassegnazione al “nulla”, che per suo padre era. E che diventava, ora, un “tutto” perché, senza di lui, l’uomo sarebbe morto senza bere il suo mare, senza più contenerlo in quel suo occhio che, per miracolo, si era salvato dalla furia devastante di una nuova collera, alcuni anni prima. Per la rabbia di non potersi più muovere e dimostrare a lui, suo figlio, la potenza nel piegare gli altri e la vita alla sua volontà d’acciaio temperato. La rabbia si era spostata dal suo pugno battuto con violenza sul muro del giardino, presso cui sostava a prendere un po’ di sole, ed era salita lungo il braccio fino all’omero, al collo, al viso per esplodere nell’occhio destro, all’apice di quel pugno,  condensandosi in un grumo di sangue, che aveva tinto di rosso il suo universo, su cui la palpebra era calata, forse per celare agli altri la devastante lava incandescente che era colata lungo la guancia, in quella corsa disperata all’ospedale perché frenassero quella emorragia.

Guidava lui, il figlio, con negli occhi non l’azzurro del mare, ma quel rosso ricordo, che ancora lo tormentava di pietà e di rassegnazione. Di intima ribellione. Di aperta accondiscendenza. Di abissale distanza da lui. Di scoperta dipendenza dalla forza della sua disperazione. Impotente.

E, intanto, oltre la curva d’alberi, il mare.

Anche suo padre aveva scoperto il mare fra tutto quel verde. Si era riversato nel suo occhio assetato di quella distesa, che rappresentava il tormento di spazi e di libertà, la sua stessa potenza distruttiva e lo stesso sfinimento della calma piatta.

Il figlio scorse quel faticoso restringere di palpebre a trattenere il mare appena ritrovato e scorse il tremito delle mani, quasi un ultimo tentativo di afferrarlo per portarlo per sempre con sé.

Ebbe, ancora una volta, pietà di lui e lo condusse sulla spiaggia, nel punto dove avrebbe, forse, potuto con i piedi toccare quell’onda estenuata, che bagnava la riva. Nessuno dei tre aveva parlato, ma tutti e tre sapevano che quello era l’addio del vecchio al mare. Quanto lo aveva amato quell’uomo il mare. Quasi volesse spegnere nella dolcezza di quelle onde il fuoco che gli ardeva dentro e che lo faceva esplodere come un vulcano in eruzione.

Per tutta la vita lui aveva desiderato la tranquillità dell’acqua, quando l’acqua era tranquilla. Ma non c’era mai riuscito.

Per tutta la vita era stato un mare in tempesta. Per tutta la vita aveva inseguito il suo cuore tumultuoso per domarlo. Invano.

Aveva sprecato tutta la vita a urlare e a provare rabbia per le sue urla, per quella esplosione inarginabile di un sé che avrebbe voluto diverso, più tranquillo.  Aveva pagato a carissimo prezzo quel magma sotterraneo e incandescente che gli ribolliva dentro e che veniva fuori di continuo. A caro prezzo.

Suo figlio lo prese di peso, dopo aver armeggiato con la carrozzella sulla sabbia, segnandola con due strisce parallele, neppure tanto profonde, e lo mise a sedere; gli slacciò i lacci delle scarpe e gliele tolse, tolse i calzini e, con le mani a coppa, gli portò il mare a lambire quei piedi illividiti e gonfi.

Suo padre ebbe un moto di stizza più che di apprezzamento.

Urlò che era troppo fredda, ma la voce gli si spense in un colpo di tosse secco e in un rantolo.

Sputò lava, fiele, veleno.

Sputò sangue.

Sua moglie gli prese la testa tra le mani e la spinse in avanti per aiutarlo a vomitare, ma il rantolo divenne un sibilo, poi il volto contratto si fece stanco, pacificato sull’ultimo tremito delle labbra.

E tutto il mare, che si era riversato nell’azzurro dell’iride assetata di mare, si prosciugò, ingoiato da quell’azzurro. Pian piano scivolò in un’unica lacrima lungo la guancia spenta.

E fu silenzio.

Sua moglie gli fece in silenzio una carezza distratta sulla palpebra ancora spalancata perché si chiudesse, come conchiglia sul mistero del mare.

E suo figlio gli rimise calzini e scarpe per riprenderlo in braccio e riportarlo in macchina. In silenzio.

Finalmente il silenzio. 

Sul mare volarono in una danza morbida i rossi papaveri del vestito della donna. Rimase il bianco, che non sarebbe mai diventato nero. Il bianco del silenzio, della tranquillità, della pace. Il bianco della sconfitta, forse. Ma anche della libertà.

Suo figlio la guardò e pensò che le donava il bianco, ma non glielo disse.  Riportò la carrozzella in macchina. Chiuse il cofano e guardò per l’ultima volta quella distesa calma e sonnolenta. Scorse i suoi pensieri a fluttuare tra i rossi papaveri del vestito di sua madre.

S’accorse delle onde che avevano già cancellato le strisce parallele e poco profonde che gli avevano, per un attimo, restituito l’idea della sua vita e di quella di suo padre, come rette parallele con un punto d’incontro solo all’infinito.

Guardò l’orizzonte. Oltre, molto oltre, l’infinito…

Accese il motore e il rombo del motore cancellò il silenzio. Non si udì più neppure la risacca. Fece retromarcia fino al verde folto degli ulivi e sterzò per imboccare la curva. Sentì una fitta al cuore. La testa si riempì di pensieri perché suo padre finalmente era vulcano spento.

Mare calmo dei giorni migliori.

Silenzio assordante tra i suoi pensieri.

E anche oggi mi fermo qui. Per ascoltare nel mio silenzio assordante i vostri pensieri che mi stanno a cuore.

sabato 21 ottobre 2023

Sabato 21 ottobre 2023: 37 anni fa oltre il silenzio, il silenzio si fece ancora silenzio...

                                                                      C’è un tempo per capire,

                                                                      un tempo per scegliere,

                                                                      un altro per decidere.

                                                                      C’è un tempo che abbiamo vissuto,

                                                                      l’altro che abbiamo perso

                                                                      e un tempo che ci attende.

                                                                          (Lucio Anneo Seneca)

 

Anche oggi ho tentennato molto prima di scrivere, ma poi credo che sia necessario mettere a nudo i propri sentimenti, le proprie emozioni, le proprie delusioni se si vuole essere autentici. Nel dolore come nella gioia. Se si vuole essere autenticamente “umani”.

Il 21 ottobre del 1986 fu un anno che riprese a sanguinare con la morte di babbo.

                                                  Babbo

E la sua tristissima fine dopo una settimana di semplici controlli di routine al policlinico, conclusisi con la sua resa incondizionata. Il Moloch di tutti i miei terrori passati ridotto ad un essere inerme coperto di lividi su tutto il corpo e addome gonfio e occhi chiusi. La sacca delle urine quasi vuota. Il liquido rossastro rappreso. La morte ad alitargli sul viso. Stente parole di abissale dolore. Il nostro parlarci senza incontrarci. Altro deluso mormorio. Altro acuto rimpianto. Anche lui andò via lasciando mamma spaurita e spaventata come era accaduto a nonna Angelina dopo l’ultimo saluto di mio nonno. Il protagonista di quasi tutti i miei romanzi. L’eroe senza tempo sempre presente nella mia vita.

Tornava il dolore. Tornavano atmosfere solo apparentemente dimenticate.

(“non piangere mi raccomando non piangere”… qualcuno con dolcezza per telefono: tutta la dolcezza che mio padre non aveva saputo usarmi… “non piango no non piango”…)

                                  … c’è chi aspetta la pioggia

                                               per non piangere da solo…

                                      (Fabrizio De André, “Il bombarolo”)

E vorrei aggiungere anche qui un racconto datato che, però, addolcisce il cuore nel ricordo. Con dedica speciale a mia figlia Ombretta…

                                   STORIA DI UNA FARFALLA

 C’era una volta, in un prato lontano lontano, tanto lontano da non potersi vedere l’inizio né la fine, una farfalla bellissima che si innamorò perdutamente di un calabrone: scuro, taciturno, brontolone.

Mamma e papà portarono la loro figliola in un nuovo prato, tutto verde e pieno di fiori, perché Andel, così si chiamava la farfalla, potesse scegliere un nuovo amore.
Ma invano! Andel aveva occhi e cuore solo per il suo calabrone: lo vedeva luminoso come il sole e canterino come un grillo. Persino il suo continuo brontolio era per lei musica di violino.

Appena tornò nella sua casa, fatta di ali di cristallo e di corolle di margheritine, Andel andò a cercare il suo calabrone e fuggì con lui in una notte priva di stelle. Rise una sola notte e pianse per molti giorni, ma non si scoraggiò. Si accorse di aspettare un figlio e lo amò con tutti i suoi pensieri, con tutti i suoi sogni. Ancora tanti e belli e colorati. Nacque una farfallina un po’ strana, diversa da ogni altra creatura del prato. Per metà aveva ali di farfalla e per metà aveva corpo e testa e occhi di calabrone. Il padre non volle vederla perché non somigliava affatto alla figlia che avrebbe voluto avere. La mamma, invece, le donò il suo cuore e compì il miracolo d’amore che ogni mamma compie quando accarezza e bacia il suo piccolino: ogni carezza diventava un dono per Alial, così aveva chiamato la sua piccola e ignara farfalla. Carezza dopo carezza, bacio dopo bacio, in breve tempo Alial ebbe da sua madre bellezza, intelligenza, bontà. E due meravigliose grandi ali per volare. Ma papà Calabrone, ogni volta che incontrava sua figlia, sentenziava che era brutta, e, senza darle neppure un bacio, la salutava rimproverandola perché era una buona a nulla e una fannullona. Alial, ad ogni rimprovero, vedeva le sue ali sbiadire e cadere in pezzi e, piangendo, ritornava dalla mamma e le chiedeva perché era nata brutta e non sapeva fare niente. Andel provava una fitta al cuore e, con ago di ametista e filo di seta, ricuciva, pezzo per pezzo, quelle sbrindellate ali; poi, con rinnovato amore, baciava la sua piccolina perché scoprisse da sola quante cose belle possedeva. Un giorno la portò vicino ad un lago e, facendola specchiare, le disse: - Vedi come sei bella? Tuo padre avrebbe voluto un calabrone, ecco perché non vede la tua bellezza. C’è un segreto che ti voglio confidare, figlia mia: “ognuno vede ciò che vuol vedere”. Alial vide nel lago una farfalla di straordinaria bellezza e si rincuorò, ma poi fu presa da un dubbio che non confessò neppure a sua madre: “e se il lago fosse stato stregato e le avesse fatto vedere ciò che lei voleva vedere?”. Si rifiutò, allora, di credere di essere veramente bella, ma continuò a volare, sicura almeno del suo cervello. Ma suo padre, un giorno, la incontrò mentre parlava con un fiore e la rimproverò, dicendole che era una creatura molto stupida perché una farfalla non poteva parlare con i fiori. - I fiori parlano una lingua diversa dalla tua, quindi è fatica sprecata tentare di dialogare con loro - disse sprezzante. E aggiunse: - Il fiore non solo non capisce, ma neppure ti sta ad ascoltare tanto è sconclusionato quello che hai appena finito di dire. Alial scappò via col cuore trafitto da mille pugnali e le sue ali caddero di nuovo in frantumi. Si chiese se suo padre fosse veramente suo padre perché lei si aspettava che un papà fosse sempre tenero, affettuoso, amorevole e premuroso con i suoi figlioli. Sua madre la rassicurò: - Tuo padre è veramente tuo padre, ma lui non può capire le farfalle perché ha un cervello di calabrone. Non ha mai voluto parlare con gli estranei. Fa lunghi discorsi solo con quelli come lui e insegna ai loro figli come comportarsi con gli altri. Ha imparato a parlare con me perché si era innamorato e si sforzava di capirmi, ma non ci è mai riuscito. Ricordati, figlia mia: “ognuno sente quello che vuol sentire e capisce ciò che vuol capire”. Alial tornò a parlare con i fiori e si accorse che li capiva e che la capivano. Si rese conto, allora, che era intelligente perché riusciva a comprendere il linguaggio di tutti. Ma un dubbio la tormentava: “e se le parole fossero state magiche e si fossero fatte capire solo da lei perché non si sentisse poi così stupida come diceva suo padre?”.
Mentre pensava con tristezza alla sua condizione di farfalla un po’ illusa, non si accorse che suo padre la stava rimproverando aspramente: - Figlia maleducata, egoista e screanzata, non saluti neppure tuo padre. Ma dove vivi tu? Con chi parli? Chi ti insegna a comportarti così? Non ti curi di niente e di nessuno, neppure di tuo padre, che ti ha dato la vita! Alial protestò rattristata. Non si era accorta di lui, anche se era nei suoi pensieri. Anzi, non si era accorta di lui proprio perché stava pensando a lui, a come non riuscivano a capirsi e ad amarsi. - Papà - supplicò, - papà, perché mi rimproveri così? Scusami, ma non ti ho proprio visto. Non accadrà mai che io non ti saluti deliberatamente. Si accorse, allora, che le sue splendide ali erano sparite del tutto per la vergogna e per la disperazione. Ora sapeva che non avrebbe più potuto volare, neppure con le carezze e i baci della mamma. - Come farò?- chiese a sua madre non appena si sentì al sicuro vicino a lei. - Come mai tu non hai perduto le tue ali dopo tanto pianto e io sì? - Non ti preoccupare, piccolina mia - la rassicurò sua madre, - vedrai che proprio dalle mie lacrime rinascerà il tuo sorriso. E il sorriso sostituirà le tue ali. Avrai una risata lunga ed argentina quanto il mio lungo pianto e ti innamorerai di chi ti farà ridere ridere ridere ...

Le parole di sua madre furono veritiere.

Alial andò dal suo fiore e cominciò a scherzare con lui perché aveva i petali irregolari ed un gambo sottile sottile. Ciclamino rise alle battute di Alial: - Ho il gambo sottile perché volevo raggiungerti mentre volavi ed ho i petali irregolari perché volevo sfogliarli, trasformandoli in tante ali. Vedi, sembrano spiccare il volo e sono tanti per afferrarti meglio... - e, così dicendo, Ciclamino tese le sue corolle rosso fuoco. Anche Alial rise di cuore e si sentì finalmente felice. La sua risata si fece lunga e contagiosa tanto che tutti i fiori del prato risero con lei. Suo padre sentì tutto quel chiasso e si allarmò. Corse a vedere cosa stava succedendo e chi osava disturbare la sua quiete. Quando si accorse che sua figlia rideva insieme con tutti i fiori del prato, ebbe uno scatto d’ira; corse da Andel a gridare che avevano una figlia stupida, ma così stupida da ridere continuamente e da far ridere di lei persino i fiori: esseri terra-terra che non si alzavano neppure di qualche centimetro dall’erba. Andel sorrise mesta: - Non ridono di lei; ridono con lei, è diverso! - precisò. - E ogni risata di Alial è una cascata argentina di perle e pietre preziose, che inonda il prato e rende ricchi e felici tutti gli esseri che l’ascoltano. La nostra figliola è veramente un dono per gli altri. Alfo, il calabrone, brontolò che erano tutte chiacchiere di una farfalla ormai vecchia e fuori di testa. E corse da sua figlia per castigarla. Cercò Alial nel prato, ma non la trovò. Furibondo, si mise a urlare e a setacciare ogni filo d’erba ed ogni fiore, ma Alial sembrava svanita nel nulla... Allora si disperò. La risata di sua figlia era la cosa più bella che avesse mai sentito da quando era nato ed ora, per il suo caratteraccio, l’aveva perduta. Doveva ritrovarla per dare alla sua piccolina finalmente tutto il suo amore, per dirle che aveva sbagliato a volerla a tutti i costi un calabrone e non una farfalla. Ma Alial non poteva sapere che ora anche il cuore di suo padre batteva per lei. Sapeva solo che erano state le lacrime di sua madre a regalarle il sorriso più luminoso del mondo. E un amore.

Era con Ciclamino, confusa tra i suoi petali superbi e infuocati, che sembravano pronti a spiccare il volo. - Peccato che è solo un’illusione - disse - perché Ciclamino non potrà mai volare. 
- Alial, Alial - sentì una vocina che sembrava provenire dall’erba, ma anche dal suo cuore.
- Chi sei? - chiese spaventata ed incuriosita la piccola farfalla. - Alial, Alial, non disperare. Ci sono qua io ad aiutarti. Né tua madre, né tuo padre potranno farlo. Né Ciclamino, il tuo innamorato. Sono Arcobaleno e vivo nella tua anima. Solo io posso aiutarti. - Ma come? Cosa puoi fare per me? Non vedi che ho perso le mie ali e con i petali di Ciclamino non posso volare? - chiese, tra lo stupore e la rassegnazione, Alial. - Tu sei nata per essere farfalla e non sarai mai un calabrone. Nella tua anima ci sono mille ali e mille colori, che hanno bisogno solo di essere liberati per farti scoprire chi sei e come sei, e per farti essere felice. -  Ma io non ce la faccio. Ho bisogno delle carezze e dei baci di mia madre perché solo lei era in grado di ricucirmi le ali ogni volta che mio padre le distruggeva con i suoi rimproveri e il suo disamore - raccontò Alial sfiduciata. - Non c’è più neppure un pezzettino da ricucire ed io non potrò più volare. - Tu non hai più bisogno dei baci di tua madre, né delle sue lacrime. Non devi più temere i rimproveri di tuo padre. Ho sentito il suo cuore che ti cercava … - disse Arcobaleno, un po’ spazientito e un po’ intenerito. - Hai bisogno solo di te stessa. Scegli tra i colori che hai quelli che vuoi e, con la seta dei tuoi lunghi capelli e con l’oro, l’argento e le perle delle tue lunghe risate, tessi da sola ali più grandi, più luminose, più variopinte di quelle di prima e... Vola, Vola, Vola... fino a stupire tutte le creature del mondo … Vedrai come sarà bello il mondo visto attraverso i tuoi colori! Non è difficile essere felici. Basta prendere tra le mani la propria anima e saperla, poi, donare agli altri. Arcobaleno tacque.

Alial si guardò per la prima volta dentro e scoprì i suoi mille colori e, improvvisamente, vide ricrescere, più variopinte che mai, due meravigliose ali, e sorrise. Ora volava e nel volo il mondo diventava blu violetto rosa giallo verde arancione rosso...

Ora volava incontro a sé stessa … incontro alla felicità … incontro al suo amore …

 

  

venerdì 20 ottobre 2023

Venerdì 20 ottobre 2023: Il ritorno del poeta (a NICO MORI, un tenero ricordo)...

                                                                            Silenzio nella casa

                                                                             Fuori uno scrosciare di voci

                                                                             come autunno di foglie

                                                                             Assenza di volti

                                                                             nell'album dei ricordi

                                                                                   - cortocircuito -

                                                                             S'annebbiano parole

                                                                             in uno sciamare di sillabe

                                                                             al vento del passato

                                                                             e il vuoto m'assale più del nulla.

                                                                            Occhi perduti e significati dispersi

                                                                            nel giorno della nostalgia...

(A.    De Leo, “Cortocircuito”, stralcio di poesia inedita)

 

Ogni giorno 20 è un ricordo che fa male perché mi riporta inevitabilmente a Nico Mori, mio amico carissimo per oltre quarant’anni, a sua moglie Tea, alla adorata sua figlia Manuela, e all’amatissimo Alberto, suo figlio complice di fiabe e di scorribande sul mare intensamente attraversato da Nico per tutta la sua vita, in cerca di sognanti meraviglie. A lui (e ai suoi cari) è dedicato il seguente racconto, scritto almeno trent’anni fa e recuperato oggi perché è la sintesi del suo cuore, della sua anima. Ha misteriose alchimie tra il mai e il sempre… la delusione, il dolore, la sfida…

Il racconto si intitola:

                                                    IL RITORNO DEL POETA

L’alba si colmò di stupore nello scoprirsi alba di un giorno speciale, disgelando, col suo chiarore di rosa e di perla, sui muri delle case, parole azzurre sullo sfondo verde di un manifesto che si moltiplicava all’infinito: “Il Poeta è tornato. Terrà un incontro di Poesia questa sera, alle ore senza tempo, sul Monte Alto che sovrasta il mare ad un passo dal cielo. Gli amici sono invitati.”

L’alba si affrettò a penetrare silenziosa in quelle case che popolavano le strade del mondo; s’insinuò furtiva nelle camere da letto; fece riemergere dal buio della notte forme e colori; scacciò via ombre e fantasmi e sogni; s’illuse di far dischiudere gli occhi alla gente. (la gente che avrebbe letto si sarebbe stupita; si sarebbe preparata al grande incontro; avrebbe scoperto la Poesia). Ma era domenica, giorno di riposo, e la gente continuava a dormire nel profondo sopore del proprio tempo libero: libero dal lavoro, dal produrre, dal far soldi, dal contrattare per vendere e per comprare; libero di fare l’amore, dedicarsi al proprio corpo, di gironzolare per la casa, di giocare con i figli o con il cane, di guardare la TV.

 L’alba giocò con le ciglia serrate di sonno di Alice, le baciò le palpebre, la svegliò di colpo e la fece precipitare al balcone perché Alice era innamorata dell’alba e attendeva la domenica, giorno di riposo, per ritrovare l’incanto delle strade deserte, invase lentamente dal chiarore del nuovo giorno bambino. Per riscoprire i colori delle case e delle cose. Per risalire con lo sguardo sui tetti e sui terrazzi fino ad incontrare il cielo; per sentire più acuta la nostalgia del mare; per ricrearlo negli occhi con le sue vele svettanti; per custodirlo nel cuore con tutti i suoi segreti; per sentirlo negli orecchi colmi dei suoi fragori, dei suoi sussurri, delle sue nenie a cullare barche al lucore nebbioso di sonnolente lampare; per avvertire nelle narici il suo profumo; tra le mani rivoli di sgusciante morbidezza (“la morbida acqua scava la dura pietra” come il poeta tedesco aveva scritto).

Alice lesse. Si stupì. Sentì un’emozione violenta tra i battiti accesi del cuore nel tumulto incontrollato della sua anima, negli ingorghi trafficati dei suoi pensieri. E ricordò: il Poeta e il loro incontro al buio in una saletta illuminata di Poesia. Tornò indietro di molte primavere al tepore del suo sguardo teneroironicodolente nei suoi occhi famelici di tenerezza, affiorante appena nella malinconia delle pupille grandi. Ricordò anni di silenziosa intesa, di maliziose battute, di avvolgente sintonia, di gridata sommessa Poesia. E il sorriso e la tristezza e il sogno e l’utopia e il coraggio e la paura e l’incanto e il disincanto. Le parole e il silenzio.

                        Il Silenzio, IL SILENZIO,  I L  S I L E N Z I O.

Su tutte le ragioni del cuore. Eppure non era mai stato amore. Solo empatia. Solo Poesia. E ora eccolo lì. Il Poeta ritornava e tornava con un carico di Poesia. Con la voglia di un nuovo incontro con gli amici. Il cuore di Alice già volava sul Monte Alto. Già assaporava il rosso zuccherino del loro incontro. Gelsi e ciliegie. Angurie. E fragole. Manciate di fragole come esplosione di cuori in caduta libera tra cieli e prati (l’azzurro, il verde) e fragori di mare.

Il mattino tardava a farsi sera. Sembrava impigliato nella pigrizia di quel giorno di riposo. Ma dov’era, dov’era la libertà di sognare? La libertà di Alice era una domenica di Poesia. Una festa di versi e di canzoni. La musica dell’anima in concerto. Era la scalata al Monte Alto per ritrovare il cielo, capovolto nel mare. Era la danza frenetica del suo cuore ballerino. Erano i suoi passi zingari verso il ritorno di colui che un giorno lontano era fuggito dalla violenza del mondo, dalla ipocrisia della poesia-non poesia e dei Supponenti Poeti, dalla loro stupida vanità per rifugiarsi chissà dove e far perdere le tracce di sé, il suo segreto dolore. Il suo dolore.

Alice pensò di colmare le ore che la separavano dalle prime ombre della sera, l’ora senza tempo, rendendo vivo e palpabile quel dolore. Per conoscerlo e capirlo. Per conoscere e capire. Indossò il più bel vestito della festa, intessuto di fiaba e di arcobaleno. Mise sul volto una maschera di luna. Infilò all’anulare un anello di sole e di vento per rischiarare la salita e volare lungo le rocce alte, scoscese. Chiuse nel cuore mille fogli con mille poesie, e… si accinse a scalare la vetta, perché si era accorta di essere giunta alle falde del Monte Alto, mentre il sole era ormai calato all’orizzonte, il vento si era placato in un sussurro, il mare si era fatto ombra, confondendosi col buio della sera. Anche la montagna s’era fatta scura e misteriosa, nascondendo nei suoi fianchi di roccia acuminata i viottoli in salita. E l’anello aveva perso luce ed ali. Alice scoprì improvvisamente che le sarebbe costato fatica e sudore e sangue scalare il monte per raggiungere il Poeta e la sua Poesia. Per incontrarli. Per capirli. Per capire. E… cominciò a salire. Ma aveva piedi nudi (non aveva calzato scarpe per essere più leggera) e cuore gonfio di pianto e di paura. Si chiedeva il perché dell’incontro di sera. Si chiedeva il perché di tanta fatica. Del timore e del coraggio. Della sofferenza e della gioia. Della incredulità e della fede. Dell’amicizia più forte dell’amore. Dell’amore più fragile del cristallo. E del cristallo più terso del cielo. E del cielo più grande del mare. E del mare più profondo del buio. E del buio rischiarato dalla luce. Luci e tenebre come il cuore dell’uomo, misterioso come la sua crudeltà, la sua Poesia. E così, immersa nei suoi pensieri, con piedi feriti e respiro affannoso e lacrime accecanti, raggiunse la vetta ad un passo dal cielo. Erano le ore senza tempo in punto, nel rintocco delle stelle. Sul prato, che ricopriva di foglie bambine lo spiazzo circolare della vetta, c’era solo un pugno di amici. Quelli di sempre. Quelli ad una voce. Quelli che spezzavano ad una sola mensa il pane quotidiano della Poesia. Quel pugno d’amici come pugno nello stomaco di Alice. Delusione. Dolore. Rabbia. Buio. Buio. Buio.

Poi… una fiammella lieve a rischiarare in un angolo del prato il volto scavato, rugoso, deluso, con occhi assenti e labbra di fiele, del Poeta. Quasi non lo riconobbe tanto era invecchiato e diverso dall’amico del passato. Anche lui non la riconobbe sotto la sua maschera di luna e il suo vestito di arcobaleno. Ad un tratto, il Poeta, con gesti lenti, accese una torcia e illuminò in un angolo un paio di enormi scarponi, li indossò a fatica e a fatica (erano troppo larghi per i suoi piedi) si mosse per cercare qualcosa, senza rivolgere neppure una parola di saluto ai vecchi sparuti compagni di un tempo. Prese tra le mani una minuscola armonica a bocca, la portò alle labbra e ne trasse un suono stridente che fece rabbrividire le stelle. Poi, lasciò cadere il piccolo strumento con una smorfia di disprezzo sul volto pallido e si mise a sedere, accendendosi una sigaretta. Si tolse le scarpe e, col mozzicone ancora acceso, si bruciò le dita senza un solo grido. Raccolse la torcia, che nel frattempo si era spenta, e la riaccese dandole una compagna perché ci fosse più luce sul Monte Alto ad un passo dal cielo e a strapiombo sul mare.

Illuminò un altro angolo del prato, dove c’erano delle scarpe chiodate più grandi dei suoi piedi. Le calzò e si mosse per cercare ancora. Prese tra le mani un piccolo zufolo e, senza guardare i suoi vecchi amici, si mise a suonare un lamento che fece rabbrividire le onde del mare. Poi, ancora, lasciò cadere il vecchio strumento con una smorfia di dolore sul volto assente, e si mise a sedere accendendosi un’altra sigaretta. A piedi nudi, l’aspirò con indifferenza e la spense sul palmo della mano. Non un lamento. Alice guardava con occhi smarriti e cuore di pianto lo scempio del poeta al Poeta. Cercava di capire senza capire. Desiderava porre fine a quel tormento, ma non riusciva a muoversi. Era roccia nella roccia. E pianto più del pianto.

Il Poeta accese una terza torcia e illuminò un paio di scarpe tirate a lucido come per andare a una festa; cercò nell’angolo un mandolino e tentò qualche nota stonata, che fece rabbrividire le foglioline del prato. Il viso era una maschera d’indifferenza. Lasciò cadere anche il mandolino e si lasciò cadere per accendere una nuova sigaretta, che spense lentamente sul palmo dell’altra mano, mentre si sfilava le nuove scarpe. Non un grido, non un lamento, non una parola, non uno sguardo agli amici.

Accese la quarta torcia e illuminò scarpe da ginnastica che indossò in fretta e prese un violino tra le dita perché la musica fosse struggente come il suo cuore. Ma venne fuori uno stridio indistinto, che fece rabbrividire le chiome degli alberi in cerchio nel circolare spazio. Il volto fu ombra d’infinita tristezza. Si lasciò cadere col violino e accese la sigaretta che spense sul piede nudo e accese la torcia e prese le scarpe della sua misura, né belle né brutte, né vecchie né nuove. Le calzò afferrando con rabbia una chitarra per cercare un accordo in sol minore. Spezzò una corda che scagliò lontano, lasciandosi cadere lungo il muro.

La quinta fiaccola illuminò un paio di pantofole di casa. Erano più piccole dei suoi piedi di una misura. Le calzò a fatica e con sudore, mentre cercava una fisarmonica per le sue mani. Qualche nota di nostalgia fece rabbrividire i vestiti dei pochi amici attenti e disperati.

La sesta fiaccola gli permise di calzare zoccoli di mare ancora più piccoli di due misure e di suonare il contrabbasso, con poche note per il suo dolore e sigarette accese e spente per farsi male fino alla settima fiaccola.

Alla sua luce, calzò minutissimi sandali francescani con fatica, sudore e lacrime. E d’improvviso illuminò il lucido nero di un pianoforte a coda, superbo, altero, stupendo con la sua tastiera di nero e di bianco vestita, splendida nel contrasto del bene e del male. Splendida la sua luce e splendide le sue ombre. Splendida la sua musica e la sua melodia.

Glissava finalmente il Poeta e le sue mani erano ali di farfalla, voli di condor, zampilli di ruscello. Una dolce melodia colmò il prato, scese fino al mare, raggiunse il cielo, moltiplicò le stelle. Penetrò nel cuore dei pochi convenuti. Trafisse di sublime tenerezza l’anima di Alice.

Solo allora il Poeta, bellissimo in volto e con una risata chiara, rivolse il suo sguardo di trionfo verso gli amici. Fissò i suoi occhi negli occhi della donna. La riconobbe sotto la sua maschera di luna. Suonò per lei la sua più alta Poesia senza parole. Erano Poesia i suoi occhi e le sue mani, le sue labbra e il suo cuore. Poesia i suoi piedi con gli umili calzari e il sangue che sgorgava dalle ferite e che scendeva in fiumi dal Monte Alto fino al mare, tingendolo di rosso e di dolore.

“Sette paia di scarpe ho consumato / di tutto ferro per te ritrovare / sette verghe di ferro ho logorato / per appoggiarmi nel fatale andare” mormorò il Poeta a fior di labbra verso Alice. E i suoi occhi erano umidi di pianto e di esaltata felicità. Gli amici applaudirono col cuore in festa per l’amico ritrovato. Era tornato il Poeta. Era ritornato.

Ad un tratto, egli accese tutte le torce e con le torce accese centinaia di migliaia di bianchi fogli di poesie. Ne fece un falò grande quanto grande il mare, alto quanto alto il Monte Alto e bello quanto il rosso del cielo illuminato a giorno dalla grande fiamma.

Poi… vi si gettò con le sue umili scarpe da fraticello e la più grande Poesia mai scritta, mai letta, mai ascoltata tra le note del suo cuore.

Fu un attimo. La fiamma si fece più alta fino a toccare il cielo, fino a fare impallidire le stelle.

Gli amici urlarono di dolore. Alice chiuse gli occhi per non vedere.

Qualcuno tra le lacrime ha raccontato di aver visto tra le fiamme volare, in alto, un bambino…
Indifferente è trascorsa la domenica della gente indifferente.