venerdì 20 ottobre 2023

Venerdì 20 ottobre 2023: Il ritorno del poeta (a NICO MORI, un tenero ricordo)...

                                                                            Silenzio nella casa

                                                                             Fuori uno scrosciare di voci

                                                                             come autunno di foglie

                                                                             Assenza di volti

                                                                             nell'album dei ricordi

                                                                                   - cortocircuito -

                                                                             S'annebbiano parole

                                                                             in uno sciamare di sillabe

                                                                             al vento del passato

                                                                             e il vuoto m'assale più del nulla.

                                                                            Occhi perduti e significati dispersi

                                                                            nel giorno della nostalgia...

(A.    De Leo, “Cortocircuito”, stralcio di poesia inedita)

 

Ogni giorno 20 è un ricordo che fa male perché mi riporta inevitabilmente a Nico Mori, mio amico carissimo per oltre quarant’anni, a sua moglie Tea, alla adorata sua figlia Manuela, e all’amatissimo Alberto, suo figlio complice di fiabe e di scorribande sul mare intensamente attraversato da Nico per tutta la sua vita, in cerca di sognanti meraviglie. A lui (e ai suoi cari) è dedicato il seguente racconto, scritto almeno trent’anni fa e recuperato oggi perché è la sintesi del suo cuore, della sua anima. Ha misteriose alchimie tra il mai e il sempre… la delusione, il dolore, la sfida…

Il racconto si intitola:

                                                    IL RITORNO DEL POETA

L’alba si colmò di stupore nello scoprirsi alba di un giorno speciale, disgelando, col suo chiarore di rosa e di perla, sui muri delle case, parole azzurre sullo sfondo verde di un manifesto che si moltiplicava all’infinito: “Il Poeta è tornato. Terrà un incontro di Poesia questa sera, alle ore senza tempo, sul Monte Alto che sovrasta il mare ad un passo dal cielo. Gli amici sono invitati.”

L’alba si affrettò a penetrare silenziosa in quelle case che popolavano le strade del mondo; s’insinuò furtiva nelle camere da letto; fece riemergere dal buio della notte forme e colori; scacciò via ombre e fantasmi e sogni; s’illuse di far dischiudere gli occhi alla gente. (la gente che avrebbe letto si sarebbe stupita; si sarebbe preparata al grande incontro; avrebbe scoperto la Poesia). Ma era domenica, giorno di riposo, e la gente continuava a dormire nel profondo sopore del proprio tempo libero: libero dal lavoro, dal produrre, dal far soldi, dal contrattare per vendere e per comprare; libero di fare l’amore, dedicarsi al proprio corpo, di gironzolare per la casa, di giocare con i figli o con il cane, di guardare la TV.

 L’alba giocò con le ciglia serrate di sonno di Alice, le baciò le palpebre, la svegliò di colpo e la fece precipitare al balcone perché Alice era innamorata dell’alba e attendeva la domenica, giorno di riposo, per ritrovare l’incanto delle strade deserte, invase lentamente dal chiarore del nuovo giorno bambino. Per riscoprire i colori delle case e delle cose. Per risalire con lo sguardo sui tetti e sui terrazzi fino ad incontrare il cielo; per sentire più acuta la nostalgia del mare; per ricrearlo negli occhi con le sue vele svettanti; per custodirlo nel cuore con tutti i suoi segreti; per sentirlo negli orecchi colmi dei suoi fragori, dei suoi sussurri, delle sue nenie a cullare barche al lucore nebbioso di sonnolente lampare; per avvertire nelle narici il suo profumo; tra le mani rivoli di sgusciante morbidezza (“la morbida acqua scava la dura pietra” come il poeta tedesco aveva scritto).

Alice lesse. Si stupì. Sentì un’emozione violenta tra i battiti accesi del cuore nel tumulto incontrollato della sua anima, negli ingorghi trafficati dei suoi pensieri. E ricordò: il Poeta e il loro incontro al buio in una saletta illuminata di Poesia. Tornò indietro di molte primavere al tepore del suo sguardo teneroironicodolente nei suoi occhi famelici di tenerezza, affiorante appena nella malinconia delle pupille grandi. Ricordò anni di silenziosa intesa, di maliziose battute, di avvolgente sintonia, di gridata sommessa Poesia. E il sorriso e la tristezza e il sogno e l’utopia e il coraggio e la paura e l’incanto e il disincanto. Le parole e il silenzio.

                        Il Silenzio, IL SILENZIO,  I L  S I L E N Z I O.

Su tutte le ragioni del cuore. Eppure non era mai stato amore. Solo empatia. Solo Poesia. E ora eccolo lì. Il Poeta ritornava e tornava con un carico di Poesia. Con la voglia di un nuovo incontro con gli amici. Il cuore di Alice già volava sul Monte Alto. Già assaporava il rosso zuccherino del loro incontro. Gelsi e ciliegie. Angurie. E fragole. Manciate di fragole come esplosione di cuori in caduta libera tra cieli e prati (l’azzurro, il verde) e fragori di mare.

Il mattino tardava a farsi sera. Sembrava impigliato nella pigrizia di quel giorno di riposo. Ma dov’era, dov’era la libertà di sognare? La libertà di Alice era una domenica di Poesia. Una festa di versi e di canzoni. La musica dell’anima in concerto. Era la scalata al Monte Alto per ritrovare il cielo, capovolto nel mare. Era la danza frenetica del suo cuore ballerino. Erano i suoi passi zingari verso il ritorno di colui che un giorno lontano era fuggito dalla violenza del mondo, dalla ipocrisia della poesia-non poesia e dei Supponenti Poeti, dalla loro stupida vanità per rifugiarsi chissà dove e far perdere le tracce di sé, il suo segreto dolore. Il suo dolore.

Alice pensò di colmare le ore che la separavano dalle prime ombre della sera, l’ora senza tempo, rendendo vivo e palpabile quel dolore. Per conoscerlo e capirlo. Per conoscere e capire. Indossò il più bel vestito della festa, intessuto di fiaba e di arcobaleno. Mise sul volto una maschera di luna. Infilò all’anulare un anello di sole e di vento per rischiarare la salita e volare lungo le rocce alte, scoscese. Chiuse nel cuore mille fogli con mille poesie, e… si accinse a scalare la vetta, perché si era accorta di essere giunta alle falde del Monte Alto, mentre il sole era ormai calato all’orizzonte, il vento si era placato in un sussurro, il mare si era fatto ombra, confondendosi col buio della sera. Anche la montagna s’era fatta scura e misteriosa, nascondendo nei suoi fianchi di roccia acuminata i viottoli in salita. E l’anello aveva perso luce ed ali. Alice scoprì improvvisamente che le sarebbe costato fatica e sudore e sangue scalare il monte per raggiungere il Poeta e la sua Poesia. Per incontrarli. Per capirli. Per capire. E… cominciò a salire. Ma aveva piedi nudi (non aveva calzato scarpe per essere più leggera) e cuore gonfio di pianto e di paura. Si chiedeva il perché dell’incontro di sera. Si chiedeva il perché di tanta fatica. Del timore e del coraggio. Della sofferenza e della gioia. Della incredulità e della fede. Dell’amicizia più forte dell’amore. Dell’amore più fragile del cristallo. E del cristallo più terso del cielo. E del cielo più grande del mare. E del mare più profondo del buio. E del buio rischiarato dalla luce. Luci e tenebre come il cuore dell’uomo, misterioso come la sua crudeltà, la sua Poesia. E così, immersa nei suoi pensieri, con piedi feriti e respiro affannoso e lacrime accecanti, raggiunse la vetta ad un passo dal cielo. Erano le ore senza tempo in punto, nel rintocco delle stelle. Sul prato, che ricopriva di foglie bambine lo spiazzo circolare della vetta, c’era solo un pugno di amici. Quelli di sempre. Quelli ad una voce. Quelli che spezzavano ad una sola mensa il pane quotidiano della Poesia. Quel pugno d’amici come pugno nello stomaco di Alice. Delusione. Dolore. Rabbia. Buio. Buio. Buio.

Poi… una fiammella lieve a rischiarare in un angolo del prato il volto scavato, rugoso, deluso, con occhi assenti e labbra di fiele, del Poeta. Quasi non lo riconobbe tanto era invecchiato e diverso dall’amico del passato. Anche lui non la riconobbe sotto la sua maschera di luna e il suo vestito di arcobaleno. Ad un tratto, il Poeta, con gesti lenti, accese una torcia e illuminò in un angolo un paio di enormi scarponi, li indossò a fatica e a fatica (erano troppo larghi per i suoi piedi) si mosse per cercare qualcosa, senza rivolgere neppure una parola di saluto ai vecchi sparuti compagni di un tempo. Prese tra le mani una minuscola armonica a bocca, la portò alle labbra e ne trasse un suono stridente che fece rabbrividire le stelle. Poi, lasciò cadere il piccolo strumento con una smorfia di disprezzo sul volto pallido e si mise a sedere, accendendosi una sigaretta. Si tolse le scarpe e, col mozzicone ancora acceso, si bruciò le dita senza un solo grido. Raccolse la torcia, che nel frattempo si era spenta, e la riaccese dandole una compagna perché ci fosse più luce sul Monte Alto ad un passo dal cielo e a strapiombo sul mare.

Illuminò un altro angolo del prato, dove c’erano delle scarpe chiodate più grandi dei suoi piedi. Le calzò e si mosse per cercare ancora. Prese tra le mani un piccolo zufolo e, senza guardare i suoi vecchi amici, si mise a suonare un lamento che fece rabbrividire le onde del mare. Poi, ancora, lasciò cadere il vecchio strumento con una smorfia di dolore sul volto assente, e si mise a sedere accendendosi un’altra sigaretta. A piedi nudi, l’aspirò con indifferenza e la spense sul palmo della mano. Non un lamento. Alice guardava con occhi smarriti e cuore di pianto lo scempio del poeta al Poeta. Cercava di capire senza capire. Desiderava porre fine a quel tormento, ma non riusciva a muoversi. Era roccia nella roccia. E pianto più del pianto.

Il Poeta accese una terza torcia e illuminò un paio di scarpe tirate a lucido come per andare a una festa; cercò nell’angolo un mandolino e tentò qualche nota stonata, che fece rabbrividire le foglioline del prato. Il viso era una maschera d’indifferenza. Lasciò cadere anche il mandolino e si lasciò cadere per accendere una nuova sigaretta, che spense lentamente sul palmo dell’altra mano, mentre si sfilava le nuove scarpe. Non un grido, non un lamento, non una parola, non uno sguardo agli amici.

Accese la quarta torcia e illuminò scarpe da ginnastica che indossò in fretta e prese un violino tra le dita perché la musica fosse struggente come il suo cuore. Ma venne fuori uno stridio indistinto, che fece rabbrividire le chiome degli alberi in cerchio nel circolare spazio. Il volto fu ombra d’infinita tristezza. Si lasciò cadere col violino e accese la sigaretta che spense sul piede nudo e accese la torcia e prese le scarpe della sua misura, né belle né brutte, né vecchie né nuove. Le calzò afferrando con rabbia una chitarra per cercare un accordo in sol minore. Spezzò una corda che scagliò lontano, lasciandosi cadere lungo il muro.

La quinta fiaccola illuminò un paio di pantofole di casa. Erano più piccole dei suoi piedi di una misura. Le calzò a fatica e con sudore, mentre cercava una fisarmonica per le sue mani. Qualche nota di nostalgia fece rabbrividire i vestiti dei pochi amici attenti e disperati.

La sesta fiaccola gli permise di calzare zoccoli di mare ancora più piccoli di due misure e di suonare il contrabbasso, con poche note per il suo dolore e sigarette accese e spente per farsi male fino alla settima fiaccola.

Alla sua luce, calzò minutissimi sandali francescani con fatica, sudore e lacrime. E d’improvviso illuminò il lucido nero di un pianoforte a coda, superbo, altero, stupendo con la sua tastiera di nero e di bianco vestita, splendida nel contrasto del bene e del male. Splendida la sua luce e splendide le sue ombre. Splendida la sua musica e la sua melodia.

Glissava finalmente il Poeta e le sue mani erano ali di farfalla, voli di condor, zampilli di ruscello. Una dolce melodia colmò il prato, scese fino al mare, raggiunse il cielo, moltiplicò le stelle. Penetrò nel cuore dei pochi convenuti. Trafisse di sublime tenerezza l’anima di Alice.

Solo allora il Poeta, bellissimo in volto e con una risata chiara, rivolse il suo sguardo di trionfo verso gli amici. Fissò i suoi occhi negli occhi della donna. La riconobbe sotto la sua maschera di luna. Suonò per lei la sua più alta Poesia senza parole. Erano Poesia i suoi occhi e le sue mani, le sue labbra e il suo cuore. Poesia i suoi piedi con gli umili calzari e il sangue che sgorgava dalle ferite e che scendeva in fiumi dal Monte Alto fino al mare, tingendolo di rosso e di dolore.

“Sette paia di scarpe ho consumato / di tutto ferro per te ritrovare / sette verghe di ferro ho logorato / per appoggiarmi nel fatale andare” mormorò il Poeta a fior di labbra verso Alice. E i suoi occhi erano umidi di pianto e di esaltata felicità. Gli amici applaudirono col cuore in festa per l’amico ritrovato. Era tornato il Poeta. Era ritornato.

Ad un tratto, egli accese tutte le torce e con le torce accese centinaia di migliaia di bianchi fogli di poesie. Ne fece un falò grande quanto grande il mare, alto quanto alto il Monte Alto e bello quanto il rosso del cielo illuminato a giorno dalla grande fiamma.

Poi… vi si gettò con le sue umili scarpe da fraticello e la più grande Poesia mai scritta, mai letta, mai ascoltata tra le note del suo cuore.

Fu un attimo. La fiamma si fece più alta fino a toccare il cielo, fino a fare impallidire le stelle.

Gli amici urlarono di dolore. Alice chiuse gli occhi per non vedere.

Qualcuno tra le lacrime ha raccontato di aver visto tra le fiamme volare, in alto, un bambino…
Indifferente è trascorsa la domenica della gente indifferente.

 

 

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