giovedì 29 dicembre 2022

Giovedì 29 dicembre 2022: il DOLORE nei versi di GIOVANNI GASTEL e GJEKE MARINAJ...

Siamo ad un passo dal NUOVO ANNO, che come sempre ci invita a lasciarci alle spalle quanto ci abbia fatto soffrire per i più svariati motivi nell’anno che ci dice addio per aprirci alla Speranza. Ma, in questi due giorni che ci traghettano dal vecchio al nuovo, secondo me occorre ancora attraversarlo il dolore, per poterlo superare o quantomeno tenerlo al guinzaglio, come quel cane che mai ci abbandona ma che rischia di farci cadere rovinosamente se non teniamo la mano ferma a trattenere il suo passo molto più veloce del nostro. Del mio sicuramente. E allora proviamo ad esorcizzarlo insieme questo benedetto dolore che non ci abbandona condividendolo con chi lo ha provato e lo prova sulla sua pelle quanto noi o anche di più.

E ripropongo alcuni versi sul Dolore, sull’Anima e la Speranza di Giovanni Gastel e Gjeke Marinaj, altro grande poeta e carissimo amico.

Gastel e Marinaj hanno connotazioni poetiche molto diverse pur nella loro innegabile bellezza e profondità: Giovanni Gastel non mette mai i titoli alle sue poesie; Gieke Marinaj sempre e a caratteri cubitali; Gastel conclude sempre con il luogo e la data di quando la Musa è andato a visitarlo, Marinaj parla dei luoghi e dei tempi all’interno dei suoi componimenti poetici: luogo e data spesso fanno parte della narrazione. Per Gastel si tratta di un continuum di emozioni che culminano ad un certo punto nella necessità di tradursi in parole; per Marinaj sono momenti della vita che occorre raccontare per condividere con gli altri le gioie e i dolori vissuti. Entrambi amano la narrazione, lo stile discorsivo.

In Giovanni le poesie sono quasi sempre brevi, essenziali, malinconiche, dolenti per la nostalgia della purezza dell’infanzia e per l’assenza fisica di tante persone amate: spesso si passa dal monologo al dialogo, dal dubbio alla riflessione, con versi quasi sempre brevi o brevissimi.

In Gjeke i versi sono perlopiù lunghissimi, a volte amari e cupi, altre volte luminosi e tenerissimi.

In entrambi, il dolore nostalgico per un impossibile ritorno al passato. Metafore ardite in entrambi. Molto più ricorrenti ed effusive in Gjeke.

Entrambi fuori dagli schemi. Insoliti. Ironici e visionari. Entrambi geniali. Giovanni alla ricerca continua di Dio. Gjeke alla ricerca continua dell’umanità nell’uomo. E in queste poesie ogni lettore può trovarne conferma: “Se come neve potesse/ la pace del cuore/ scendere su di noi./ Se il vuoto accogliesse/ il nostro dolore/ le nostre assenze/ e restituisse presenze/ e gioia…”/ Così mi hai detto/

appoggiata alla notte./ E io non ho saputo rispondere/ ma ho pregato lo spirito del dolore/ di alleggerire il nostro cammino:/ Come angeli caduti/ vaghiamo nel mondo/ aspettando il Dio che ritornerà/ a placare questa terribile solitudine/ dell’anima/ Basterà una sua carezza a dare/

senso ad ogni cosa. Giovanni Gastel (Milano 2020)

Bello sarebbe riportare qui il commento che a suo tempo feci sulla Pagina FB di Giovanni, ma tempo e spazio me lo vietano categoricamente. Vedremo più in là di riprendere questo stupendo patrimonio poetico che Gastel ci ha lasciato.

Di Gjeke Marinaj, invece, ecco “SENZATETTO AMERICANO”: Come anima dispersa cammini,/ oltre i vitrei sguardi/ dei manichini ben vestiti/ nelle vetrine dei negozi,/ dietro i vetri con le membra al caldo/ in questa decantata America./ Cammini con le piante vescicose/ lungo le assi marce del mito/ le tue lacrime come schegge in cui inciampi./ La tua sentenza non porta firma,/ ma sento l’eco della tua tristezza/ anche qui, nel vuoto scavato/ del mio cuore pieno di nostalgia.

E, infatti, ecco sempre di Gjeke “A MIA MADRE”, una poesia colma di tanta tanta tenerezza e nostalgia: La nostalgia di te/ Dalla nostalgia di te sono devastato./ Rimpianto vasto come il mare/ Sono gabbiano con le ali spezzate/ Se non odi che tuo figlio è morto/ cercami sulla soglia della prima alba/ Ma se a un flauto io dovessi somigliare/ allora per amor mio, madre - anima mia,/ abbandona meravigliose visioni e lacrime febbrili/ Perché ultimamente sono angosciato anche nei miei sogni/ Alla ricerca di te, perdo la strada in qualche baratro sconosciuto/ Nel mio straziante volo grido il tuo nome/ E l’incubo mi lascia attraversando una finestra rotta.

Poesia intensa, straziante, evocativa, dedicata alla madre lontana, anima stessa del poeta (“anima mia”). Ed è subito “nostalgia di te”, ricordo dolcissimo e dolore acuto, sia pure velato di malinconia: νόστος e άλγος = dolore del viaggio o viaggio del dolore o, meglio, il ritorno del dolore o dolore che ritorna. Il ricordo del passato che non può tornare si fa cocente nostalgia, tristezza, rimpianto. Ma il “rimpianto” è meno crudele e non è neppure un dolore: è dispiacere che perdura nel tempo per quanto non sia stato possibile realizzare in passato. Infatti, per Gjeke la nostalgia è “devastante”, il rimpianto, invece, è “vasto come il mare”, si slarga e si stempera nella vastità del mare, ma non ferisce e non fa sanguinare come la nostalgia. (Almeno secondo me. Mi piacerebbe incontrare il vostro pensiero). Il poeta, pertanto, si paragona al “gabbiano”, uccello di mare per eccellenza che ci affascina col suo volo, ma qui ha “ali spezzate”. Anche per questi dolorosi versi di denuncia e nostalgia c’è un mio più ampio commento, che non posso qui riportare, ma invito tutti gli ipotetici lettori a farlo perché ne vale davvero la pena. Il confronto, del resto, come ben sappiamo, è sempre decisamente arricchente e salutare. Le parole ci dannano e ci salvano soprattutto quando focalizzano il dolore o quando lo decantano per renderlo più leggero, come avviene nel magico libro per ragazzi Un chilo di piume e un chilo di piombo di Donatella Ziliotto (Lapis editore, prima pubblicazione il 1992, riedizione 2016), ambientato durante la seconda guerra mondiale, in cui le bombe sono il piombo che cade dal cielo, mentre le piume sono i pensieri leggeri, sorridenti, fiduciosi di due ragazzine che anche in momenti tragici e dolorosi sanno volare con i loro sogni e le loro fantasie. Anche per Gjeke e per Giovanni, come si può notare, le parole uccidono e salvano.

Giovanni Gastel, a questo proposito, in una poesia carica di dolore recita: Io sono un disperso (…) che (…) affida se stesso/ alle parole che scrive.

Ed è un affidarsi totale, quasi un “naufragare” di leopardiana memoria.

C’è una sorta di eternità delle parole nelle voci che ci appartengono, che riconosciamo e teniamo per noi. Ci sembra quasi di averle dimenticate. Poi, basta un richiamo, una frase, una eco ed ecco ritornare prepotentemente a farci gioire o soffrire e la nostalgia ci prende, come per ogni ritorno (nòstos), che è gioia, ma anche dolore (àlgos).

E, del resto, Giovanni continua: … All’origine tutto era parola.

E qui il richiamo biblico è forte. E il richiamo al Verbo che era presso Dio ed era Dio. Il Verbo ha una parola sola. Una sola Verità. Basta riconoscerla. Ma con presunzione gli uomini la cercano nella scienza, che non possiede verità, ma parziali porzioni di conoscenza, suscettibili di essere confutare e capovolte, nel tempo e nello spazio. La cercano nella propria mente, ma non è la razionalità a dare risposte chiare e definitive. Nel cuore che è un “guazzabuglio” di sentimenti e di risentimenti. Forse solo “oltre il muro d’ombra” sarà possibile sfiorare la verità. Ma forse sarà troppo tardi per credere e per sperare. Per gioirne. La fede, unica ancora di salvezza? Forse. Se avessimo il coraggio di credere. È più facile negare che ammettere. Dice lo stesso Gastel, in versi, in prosa, con gli scatti delle sue foto che vibrano di bellezza ma non di verità. Perché ciò accada, Giovanni Gastel cerca nelle sue modelle l’anima. E l’anima cerca nelle parole. La cerca in sé stesso. Non si lascia influenzare dalle regole e dalle mode. Scrive come in quel momento gli detta il sentimento. E lo stesso accade per Gjeke Marinaj. Peccato che devo fermarmi qui, ma queste riflessioni ci potrebbero portare lontano se solo potessimo documentarle con altre splendide poesie di questi due straordinari poeti. Ma mentre Gjeke continua il suo viaggio esistenziale mietendo meritatissimi successi in tutto il mondo, Giovanni Gastel è purtroppo un angelo con le “ali spezzate”, di cui la straordinaria poetessa Angela Strippoli ha fatto, a suo tempo, questo toccante, commosso e commovente necrologio in versi:

È morto Gastel?!// Il maestro/ Il poeta/ Il sognatore/ La Fotografia// La notizia è scioccante/ Paralizza/ Disarma/ Ha il rumore struggente del vuoto/ Nella città immensa// Ci ritroviamo orfani increduli/ Angeli persi nella notte che ci silenzia// Sono le cinque del pomeriggio/ Ed è buio pesto// Gastel è in volo// Il poeta di animo nobile/ Attraversa la luce// Il sognatore/ Deposto il macabro lenzuolo/ Ascende/ Con i suoi Angeli Caduti/ In Cieli nuovi e Terre nuove// Il volo è gentile/ Impercettibile/ Quasi ne fosse esperto// Forse sorride/ Forse canta/ Forse è malinconico/ Per quel perfetto imperfetto/ Che è l’umano// Icaro è con lui abbracciato/ Così mi piace pensare// Gastel è armonia/ Nel suo obbiettivo si fa strada il cielo/ Che a noi si estende// “Un eterno istante” la sua vita

Già un istante eterno tra noi, con noi, per noi. Dolore, Commozione, Nostalgia. Angela

 

mercoledì 28 dicembre 2022

Mercoledì 28 dicembre 2022: NICO MORI e sua figlia Manuela, insieme nel dolore e oltre...

A distanza di soli quattro giorni, in questo dicembre di culle e di urne, sono nati Nico Mori e la sua amatissima figlia Manuela. Ed è una immersione nel dolore da quando Nico è urna e non solo culla. Oggi, perciò, vorrei parlare del dolore sempre presente alla nostra vita, senza distinzione alcuna. Non c’è persona al mondo che non l’abbia conosciuto nelle sue innumerevoli forme fisiche, psicologiche, spirituali, e vissuto in vari modi del tutto personali: chi tacendo, chi urlando, chi pregando, chi imprecando e bestemmiando; chi con paura, chi con coraggio; chi subendolo stoicamente, chi ribellandosi e adottando tutti i mezzi per debellarlo. Manuela spesso lo fa con la sapida ironia ereditata da entrambi i genitori, e soprattutto da suo padre. Ma, anche una volta sconfitto, esso ritorna e ritorna ancora, come l’alta marea, come la risacca alla battigia, come il pianto del bimbo nella culla. Come strada lastricata di pietre d’inciampo che fanno male, senza soluzione di continuità. A salvarci potrebbe essere l’Arte nelle sue innumerevoli forme. Sì, penso che l’Arte in qualche modo ci possa salvare. C’è chi si distrae dalla sofferenza cercando rifugio nella musica, chi gettando colori su una tela, chi costruendo un puzzle, chi usando parole per gioco, passione, necessità, scrivendo un romanzo o poesie, chi esercitando la mente a pensare, leggendo e rileggendo il pensiero dei grandi filosofi dell’antichità o del cristianesimo e, via via, fino ai nostri giorni. Chi scrivendo a tale riguardo un saggio. Chi amando il teatro come attore o come spettatore. Ognuno impara strategie di sopravvivenza pur di non soccombere al male. È il nostro stesso spirito di conservazione o “slancio vitale” a darci la forza di tentare tutte le strade per venirne fuori. Fino al prossimo assalto. Non ho le conoscenze e le competenze giuste per poterne parlare a livello filosofico o scientifico. In letteratura forse. Ma in letteratura infiniti sono gli esempi di autori che hanno parlato del dolore, essendo uno dei temi più presenti in tutte le opere letterarie dell’intera umanità. Persino quando gli scrittori si propongono di far ridere a bel guardare non possono che filtrare la risata attraverso il pianto. Dovrei scrivere trattati e in un blog manca lo spazio e il tempo, manca anche la pazienza e la perseveranza dei lettori a leggere testi lunghi, come mi ammoniscono i miei figli e i miei nipoti ogni volta che scrivo una pagina che si moltiplica per quattro o più. E allora non mi resta che fare, prima o poi, riferimento ai poeti e scrittori contemporanei, magari anche a quelli che conosco, che incontro su FB, che mi permettono ricerche brevi e a portata di mano, che però abbiano qualcosa di incisivo da dire e che quel qualcosa susciti emozione, empatia, condivisione. Regalandoci la possibilità di essere insieme e di sentirci meglio. Di superare, in questo caso, per la frazione di un attimo, i nostri inevitabili dolori. Già parlarne è, a mio parere, catartico.

E comincio dalla canzone di un grande poeta e cantautore Roberto Vecchioni “Ho conosciuto il dolore” perché mi ha dato lo spunto per parlarne: Ho conosciuto il dolore/ (Di persona, s’intende)/ E lui mi ha conosciuto:/ Siamo amici da sempre,/ Io non l’ho mai perduto;/ Lui tanto meno,/ Che anzi si sente come finito/ Se, per un giorno solo/ Non mi vede o non mi sente./ Ho conosciuto il dolore/ E mi è sembrato ridicolo,/ Quando gli do di gomito,/ Quando gli dico in faccia:/ “Ma a chi vuoi fare paura?”/ Ho conosciuto il dolore:/ Era il figlio malato,/ La ragazza perduta all’orizzonte,/ Il sogno strozzato,/ L’indifferenza del mondo alla fame,/ Alla povertà, alla vita…/ Il brigante nell’angolo/ Nascosto vigliacco battuto tumore/ Dio che non c’era/ E giurava di esserci, ah se giurava di esserci… e non c’era./ Ho conosciuto il dolore/ E l’ho preso a colpi di canzoni e parole/ Per farlo tremare,/ Per farlo impallidire,/ Per farlo tornare all’angolo,/ Così pieno di botte,/ Così massacrato stordito imballato…/ Così sputtanato che al segnale del gong/ Saltò fuori dal ring e non si fece mai più/ Mai più vedere./ Poi l’ho fermato in un bar,/ Che neanche lo conosceva la gente;/ L’ho fermato per dirgli:/ “Con me non puoi niente!”./ Ho conosciuto il dolore/ E ho avuto pietà di lui,/ Della sua solitudine,/ Delle sue dita di ragno/ Di essere condannato al suo mestiere/ Condannato al suo dolore;/ L’ho guardato negli occhi,/ Che sono voragini e strappi/ Di sogni infranti: respiri interrotti/ Ultime stelle di disperati amanti/ - Ti vuoi fermare un momento? - Gli ho chiesto -/ Insomma vuoi smetterla di nasconderti?/ Ti vuoi sedere?/ Per una volta ascoltami! Ascoltami/ … E non fiatare!/ Hai fatto tutto/ Per disarmarmi la vita/ E non sai, non puoi sapere/ Che mi passi come un’ombra sottile/ Sfiorante,/ Appena-appena toccante,/ E non hai via d’uscita/ Perché, nel cuore rappreso,/ In questo attendere/ Anche in un solo attimo,/ L’emozione di amici che partono,/ Figli che nascono,/ Sogni che corrono nel mio presente,/ Io sono vivo/ E tu, mio dolore,/ Non conti un cazzo;/ Non conti un cazzo di niente.// Ti ho conosciuto dolore in una notte d’inverno/ Una di quelle notti che assomigliano a un giorno/ Ma in mezzo alle stelle invisibili e spente/ Io sono un uomo… e tu non sei un cazzo di niente.

Un pugno nello stomaco davvero. Ecco, Vecchioni reagisce a muso duro per tenere a bada il dolore e, da uomo che sente ancora emozioni e vive ancora sogni e dignità di uomo solidale, è sicuramente vincente.                                                                    

Il dolore di Manuela somiglia molto a quello di Vecchioni, anche se ogni dolore ha una sua ragione d’essere e un modo unico di esprimersi, manifestandosi o meno. Ma ogni dolore può somigliare ad ogni altro dolore? Pare proprio di no perché, anche se scoprissimo una matrice comune, per esempio il cancro, penso che toglieremmo verità a quello dell’altro malato dello stesso male: la reazione sia fisica che mentale e psicologica sarebbe inevitabilmente diversa per molteplici fattori endogeni (la soglia del dolore soggettiva, la personalità, il proprio vissuto o i traumi dell’infanzia mai superati…) ed esogeni (la cultura familiare, sociale, comunitaria, gli esempi o modelli di vita…), che potrebbero accelerare il decorso della malattia o ritardarlo. L’accettazione cristiana della sofferenza o la ribellione di chi non si affida ad alcun dio.

C’è un libro di Nico Mori che ci mette di fronte al suo dolore e a quello di Manuela. È Al confine di me (della SECOP edizioni, 2015). Il Prologo è una lettera proprio a Manuela. Prendo alcuni stralci fondamentali: Stanotte lui è venuto. All’improvviso ha smesso di essere solo una parola scritta su un referto e mi ha azzannato con denti di iena, contemporaneamente, in tutte le parti di me che silenziosamente in un anno ha saputo conquistare. La casa dormiva (…). Eravamo soli lui e io e mi avvolgeva con spire possenti (…). Ho realizzato, incredulo, che stavo morendo. Ma prima di quello che mi è parso come l’ultimo respiro, mi è esploso in cuore un urlo d’ira ed ho iniziato a difendermi, gridando al bastardo che non mi sarei arreso facilmente. Lui non sapeva, non sa, quanto a lungo io abbia resistito, negli anni di una vita intera, al dolore di un’anima maciullata dal tempo e dalla solitudine ma che ancora si ostina a inseguire teorie d’incanto. Un’anima che non smetterà mai di andare in cerca di meraviglie, dovunque si nascondano, quale che sia il prezzo da pagare anche solo per osservarle. Lui non sapeva, non sa, che opporre dolore a dolore può essere una strategia vincente e che quel nero d’anima che mi porto dentro è infinitamente più lancinante e distruttivo dei suoi morsi. (…). Non so, Manuela, se ti è capitato di leggere il Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa. Nelle sue parole, tu come nessun altro, riconoscerai gran parte di me, di quello che sono oggi:

… all’improvviso sono giunto ad una sensazione assurda. Ho capito, in una folgorazione intima, di non essere nessuno. Nessuno, assolutamente nessuno. (…)…

Ed è qui che Nico, non riconoscendosi più perché si sente nessuno (devastante sensazione di “non appartenenza” neppure al proprio “io”) consegna il suo dolore a sua figlia, facendola complice della sua immane sofferenza psicologica, più dilaniante degli artigli della iena che gli lacera il petto, le carni e tutto il corpo martoriato.

Poi, però, Nico continua: Ma questa non è una lettera triste, è una lettera d’amore e tu, come nessun altro, sai anche che non sono sempre e solo quello delle parole di Pessoa. Il tuo papozzo è e sarà sempre anche il compagno con cui andare a mangiare - complici - il gelato d’inverno a Torre a Mare o quello che ti sorride con il cuore quando gli dici seria e determinata: “Tu devi stare bene! Non puoi ammalarti senza il mio permesso, ed io questo permesso non lo darò mai!”…

E questa è la risposta di Manuela alla revoca, da parte del padre, della consegna di quel suo lacerante dolore per alleggerirne l’impatto dell’enorme peso sulle spalle certo forti della prediletta figlia, ma pur sempre asimmetriche nella misura degli anni che a dicembre si facevano/fanno culla per entrambi. Il suo “papozzo” non era/è solo dolore ma anche “complicità d’allegria, di segreti d’amore incommensurabile come l’oceano-mare che li attraversava/ attraversa. E Manuela ha condiviso quel dolore complice di lacrime e di segrete ribellioni e meraviglie fino alla notte in cui ho sentito in un sussurro la sua voce ferma e tremante: “Nico non c’è più!”. E il dolore non ha più parole. Angela

martedì 27 dicembre 2022

Martedì 27 dicembre: per GIOVANNI GASTEL, che oggi nasce ancora...

Ancora culle e urne in questo mese di dicembre che corre a cedere il posto al Nuovo Anno, mai così atteso e mai così paventato. Stiamo per lasciarci alle spalle un anno oltremodo difficile e stiamo per vivere un anno che non promette granché di buono. Pure, Spes ultima Dea! Vogliamo sperare e credere ancora come ogni essere umano credo abbia fatto dai primordi dell’umanità.

Ci separano pochi giorni da questo nuovo inizio convenzionale, ma importante per tutti noi che amiamo ricominciare: nascere e ri-nascere. E oggi voglio ricordare ancora e ancora Giovanni Gastel, che  compie 67 anni. Troppo pochi per un UOMO come lui. E di lui voglio parlare a sprazzi di ricordi, annidati nel cuore e nell’anima perché Persone così non vanno mai via per sempre. Rimangono più VIVE che mai per sempre. E parto dalla sua eccezionale umiltà, dote pregnante della sua personalità e umanità. E, del resto, l’umiltà è una dote necessaria all’uomo di fronte al mistero del Creato. Non se ne può fare a meno. Solo la nostra arroganza ci fa dimenticare questa necessità. C’è, a questo proposito, una poesia molto profonda di Giovanni. Eccola: Questo giardino/ potrebbe essere solo/ un bosco di persone/ agitate e complicate dal vento./ Ma non cerco la differenza stasera/ voglio con me il dubbio di non essere diverso/ da questi fiori da queste piante./ Senza più sangue pulsante/ ma verde linfa che scivola dentro di me./ Torna immenso Pan/ a confermarmi che sono ancora parte del tutto/ come era un tempo/ prima della paura e dell’arroganza.

Mi sembra giusto, però, dopo aver focalizzato la caratteristica che maggiormente lo connota, l’umiltà, rivolgergli un pensiero di affetto e gratitudine per quanto ci raccontano le sue fotografie, i suoi versi, i luoghi da lui attraversati sempre con occhi bambini e attenzione agli altri, al mondo. E voglio ricordarlo con le parole non mie, ma di chi lo ha conosciuto bene perché ha condiviso con lui esperienze di lavoro, gioie familiari, lunghe vacanze e risate insieme. Il testo mi è pervenuto grazie a Caterina De Fusco che lo ha letto per prima e me ne ha fatto dono con la sua consueta generosità. Leggete un po’: “Giovanni Gastel tiene bottega a Milano, in via Tortona numero 16. Anche se l’edificio moderno può trarre in inganno, si tratta di una delle ultime botteghe artistiche di tipo rinascimentale. Qui, sotto l’occhio vigile del maestro, le richieste dei principi della moda vengono soddisfatte da una schiera di professionisti come in ogni bottega d’arte che si rispetti. L’impressione è di un fervore continuo, a cui è molto difficile sottrarsi. Gastel appartiene a quel genere di autori che amano circondarsi di persone mentre lavorano, che traggono alimento dalla condivisione dei progetti. Quando ho accettato di scrivere il testo, non immaginavo che avrei fatto più riunioni per questa piccola mostra che per quella di Arcimboldo a Palazzo Reale. D’altra parte Giovanni è un artista sensibile e generoso e lavorare al suo fianco - almeno su di me - produce un effetto rigenerante. Come tutti gli artisti ricettivi, dotati di talento naturale, nel lavoro è veloce e poco prevedibile. (…) In queste Cose viste mi sembra di riconoscere una parte della personalità di Giovanni più profonda e riflessiva, di certo meno ironica di quella che conosciamo. (…) Come tutte le arti, la fotografia si fonda su un principio di selezione e di cristallizzazione: l’immagine deve diventare forma, e attraverso di essa acquisire un significato. Per risarcire l’indifferenza del tempo e delle cose, l’artista - non solo il fotografo - deve rendere universale l’istante particolare ed effimero, caricandolo di durata e di astrazione. Si potrebbe dire che in queste foto Gastel cerca di cogliere, fin dove gli è possibile, il lato perenne delle cose quotidiane. Gastel sembra comprendere che le forme ideali e le armonie segrete non appartengono più al nostro mondo, e infatti non le propone come modelli. Le lascia trasparire appena, come a indicare che la possibilità di attingere a un senso più vasto rimane anche oggi, se pure nell’incertezza che ci circonda, che la sacralità delle cose permane, se soltanto si è disposti a vederla”. (giovanni gastel, cose viste, a cura di francesco porzio, studiogiangaleazzovisconti, 15 settembre - 22 dicembre 2011, Silvana Editoriale).

Quanto segue è una mia la mia nota di rimando: ‘Si tratta di alcuni stralci della Prefazione del prof. Francesco Porzio al catalogo della mostra di Giovanni Gastel, dall’autore intitolata “cose viste” e curata appunto dal su citato eccellente studioso e critico d’arte. Già la copertina minimalista del catalogo, tutta in minuscolo e ridotta all’essenziale, connota la semplicità e l’umiltà del grande artista, che nel 2011 era già all’apice del suo successo di fotografo. Ma quello che ancora di più mi affascina è il modo pacato, sincero, empatico del prof. Porzio nel descrivere lo studio gasteliano, come luogo fisico e dell’anima, in continuo magico fermento in conformità alla personalità “sensibile e generosa” di Giovanni Gastel, veloce e imprevedibile nella realizzazione dei suoi lavori, in perfetta sintonia e armonia con i tanti professionisti e allievi di cui amava circondarsi per diffondere la sua luce intorno nell’ambiente che abitava e a tutti quelli che lo circondavano. Giovanni cercava, raggiungeva e conquistava ogni giorno attimi puri di felicità per la gioia che gli procuravano la passione e il talento, legati al suo lavoro e alla sua poesia, e per il bisogno/desiderio di condividerla con tutti: con i presenti nel suo studio, ma anche fuori, con quanti (tantissimi) seguivano la sua mitica Pagina FB. Con quanti amava abbracciare con il suo sguardo generatore e donatore di sogni. Ma vorrei concludere queste pagine con alcune significative parole della carissima Caterina, che ha spesso condiviso la gioia di Giovanni Gastel nel suo studio di Milano e non solo, collaborando con lui in tante suo Mostre da un capo all’altro del nostro pianeta: Gastel approdò al “pensiero creativo” nel momento in cui iniziò ad eseguire scatti non più con la testa ma con l’anima. in quel preciso istante fu dimentico di diaframmi, esposimetri, tempi controllati, la fotografia per Giovanni divenne estensione automatica di sé stesso; ciò gli permise di far pace con i suoi “demoni”. Scattare divenne “pura gioia”, similmente ad un danzatore di Sufi che entra in connessione tra Cielo-Terra.

E a noi non rimane che la gioia di averlo incontrato, conosciuto, ammirato, amato in quel poetico contagio di anime che diventa conquista quotidiana di attimi di felicità nella consapevolezza che sia stato e sia davvero un dono per sé e per gli altri… E, così, sempre più la sua personalità e il suo talento si definiscono in un intreccio continuo delle sue doti straordinarie, che via via si dipanano nel restituirci la sua genialità ricca di mille sfumature: l’umiltà, l’ironia, la gioia di vivere e di produrre bellezza; la malinconia, sempre presente nei suoi occhi che guardavano lontano; la poesia intima e notturna per comunicare con sé stesso, con la gente, con il creato e il suo Creatore; la fotografia, lavoro e passione da vivere e da condividere con gli altri, in una esaltazione dei sensi e dell’anima. Esaltazione che nasce quasi sempre da una folgorazione, dovuta, fin da ragazzino, alla Bellezza del suo lago di Como; all’Armonia, che vi scopriva nella sua immensa villa di Cernobbio sul lago; alla   Parola, che traduceva tutto quell’incanto in Poesia. Non a caso, trascorre, quando può e appena può, tutto il suo tempo libero in quel luogo incantevole, incendiandosi continuamente di passione per l’Arte a trecentosessanta gradi, facendola musa ispiratrice della sua scrittura: Scrivere è “il rumore del tempo” che passa. E ci trasforma pur lasciando intatta la nostra personalità di fondo. E la mia è quella di un sognatore. La parola è per me Luce che è la carezza di Dio, che ci ha donato tanta Armonia nel Creato: il giorno del plotone/ sia benda sopra gli occhi/ questa sconfinata bellezza.

Folgorazione, del resto, da folgorare, per estensione significa: lampeggiare, fulminare, balenare. È l’improvviso accendersi del cielo con luce molto intensa e luminosa. Quindi, è un diffondere vivida luce, ma anche colpire, uccidere (scarica elettrica dovuta ad un fulmine). 

Metaforicamente, la folgorazione è l’illuminazione improvvisa che coglie tutti gli artisti. E di folgorazione si può parlare di tutti i Progetti che Giò amava realizzare con gli altri e per gli altri. Lui non aveva bisogno di ulteriore fama, ma amava donare gioia agli altri. un esempio tra i tanto “Acque amate”, un Progetto creativo, poetico, fotografico, sollecitato da due straordinarie fotografe, discepole dell’immenso Giovanni Gastel, nel suo studio di Milano. Ho tratto dal loro libro Acque amate, appunto, firmato anche da Giovanni Gastel, due tra le più significative poesie che sono un canto d’amore per il mare Adriatico di Senigallia (Delia Biele) e per il lago di Como (Giulia Caminada).

La poesia di Delia ha per titolo “La vastità del mare” ed è decisamente filosofica. Ci aiuta a pensare e a riflettere: Quali varchi dovremo ancora attraversare/ naufraghi in ogni dove col pensiero/ affacciati sul mare/ confine dell’umanità/ a mani nude ci prepariamo alla lotta/ immersi nei nostri dolori/ accarezziamo l’onda/ sperando di partire/ o di tornare?

La poesia di Giulia s’intitola “Il mondo emerso”: Come tazza dal bordo irregolare,/ come fantasia senza geometria di una stoffa,/ come calligrafia rotta da un tratto/ o energia che sprigiona da un gesto./ Non è più l’occhio/ ma la mente che vede./ Parca di parole/ ascolta il ticchettìo/ della pioggia di primavera,/ partecipe dello splendore dell’universo.

Sono versi che corredano le splendide foto di Delia e Giulia, sotto la evidente ispirazione del loro Maestro, non solo per le immagini ma anche per le parole. L’intero Progetto piacque tanto al grande Giò, il quale sul libro scrisse solo un anno fa: … Sono acque tormentate e serene sono scrosci e bagliori. Sono macchine per pensare queste splendide fotografie. Brava Giulia, brava Delia. Con grande stima. Giovanni Gastel.

E ancora mare e ancora amore per questa distesa azzurra che ci regala fremiti di emozione purissima, in cui ritroviamo, ciascuno con la sua storia, gli “istanti imperituri" delle nostre vite.

E di “istanti imperituri” parla Giovanni, quando pone ogni sua speranza nella carezza di Dio a calmare ogni dolore: “Se come neve potesse/ la pace del cuore/ scendere su di noi./ Se il vuoto accogliesse/ il nostro dolore/ le nostre assenze/e restituisse presenza e gioia”./ Così mi hai detto/appoggiata alla notte./E non ho saputo rispondere/ ma ho pregato lo spirito del dolore/di alleggerire il nostro cammino./ Come angeli caduti/vaghiamo nel mondo/ aspettando il Dio che ritornerà/ a placare questa terribile solitudine/dell’anima./ Basterà una sua carezza a dare/ senso ad ogni cosa.

… E vorrei concludere, ancora una volta ma non per l’ultima volta, con il ricordo di quando affidò i suoi sogni d’amore a Dio e acconciò le ali per raggiungerLo, dove ogni ansia terrena si placa e si annulla nella Sua divina carezza. Ma è rimasto nel nostro cuore con tutta la Bellezza che ci ha regalato con le sue foto e le sue poesie, con tutta l’amorevole generosità con cui ha accolto ciascuno di noi, pago di veder fiorire la gioia ad ogni suo sguardo, ogni sua parola, ogni suo sorriso a chi aveva incontrato per un giorno o per la vita. Erano questi gli “abbracci” le “attenzioni minime e immense” che lo rendevano davvero felice. Infatti, solo due anni fa, così scriveva sulla sua Pagina FB: Un abbraccio vi manderò/ da questo mio mondo di parole./ Un abbraccio forte/ da questa mia solitaria isola./ Un abbraccio aspetterò/ mentre qui scende la sera/ inesorabilmente come il destino./ Un abbraccio/ che porterò con me fino al giorno/ in cui memoria e sogno/ balleranno confusi nella mia mente./ Un abbraccio. (Castellaro 2019).

Era questo il suo costante aprirsi agli altri per offrire e ricevere amore, senza mai pensare a una “deminutio” della sua fama e grandezza, del suo NOME. Desiderava solo amare ed essere amato. Grazie e ancora GRAZIE, Giovanni!

E per oggi mi fermo qui. Non ho più parole. Solo lacrime di ricordi, commozione, gratitudine. E il Nuovo Anno si tinge di Rimpianto e di Speranza. E siamo ancora insieme per RICOMINCIARE!  Tutti!

Giovanni Gastel compreso. A presto. Angela

martedì 20 dicembre 2022

Martedì 20 dicembre 2022: i compleanni, gli amici mai dimenticati...

E siamo al 20 dicembre, ad un passo dal Natale. Dicembre. Un mese di compleanni, come già detto. Oggi festeggia da qualche parte i suoi lunghissimi anni, lunghi più dei miei, il mio carissimo amico di una vita Biagio: mattacchione, sempre con la battuta pronta per strapparmi un sorriso. Eppure la vita non è stata generosa con lui. Quarant’anni fa dovette fare i conti con la perdita di Rosa, sua dolcissima compagna, suo malgrado, perché strappata all’amore immenso di suo marito e dai suoi tre figli, tutti in tenera età, da un “neo” che le procurò due anni di devastanti sofferenze con l’amputazione di una gamba e la fine già scritta negli occhi disperati di Pino, suo figlio maggiore appena dodicenne, se non ricordo male. E delle sue sorelle ancora piccoline, e forse ancora ignare di tanto dolore. Rosa era bellissima con la sua folta chioma rossa e tante lentiggini dorate sulle guance di pesca. Eravamo bambine quando ci siamo incontrate nello stesso quartiere e abbiamo stretto un patto di amicizia per la vita, oltre la vita. Biagio s’innamorò perdutamente di lei appena la vide. Poi, abbiamo avuto tante esperienze parallele e intrecciate negli stessi anni: matrimonio, figli, serate in semplicità e allegria nelle nostre case, fino al suo male a divorarla, a divorarci. Quante lacrime si fusero inconsolate tra me e Biagio, silenziose e senza un appiglio di salvezza. Quanto dolore condiviso.

Poi, Biagio incontrò Rina, che ha fatto da mamma ai suoi figli e asciugato le sue lacrime con comprensione e generosità. Con straordinaria forza e attenzione per tutti. E c’è stato sempre per me un posto nella loro casa, nel loro cuore. Ma gli anni che passano sono spesso impietosi per ciascuno di noi in vario modo. Dopo altre devastanti perdite e sofferenze, Rina e Biagio sono ancora insieme, anche i problemi di salute sono aumentati per entrambi. Ma Biagio non manca di tanto in tanto di farmi sentire la sua voce scanzonata per sorridere dei nostri non lievi acciacchi e per stringere in un nodo indissolubile la nostra bella amicizia. Più tardi sarò io a chiamarlo per augurargli un nuovo compleanno, nella speranza di riuscire a strappargli un sorriso. Ma sono quasi certa che sarà lui ancora una volta a farmi ridere. Incrocio le dita e gli dedico due versi beneaugurali: Fulgore di fiori/ nella tua casa/ a portare frammenti di luce profumata/ nei giorni dei passi danzanti/ nelle stanze della giovinezza/ che ci apparteneva/ nei sorrisi d’antica amicizia/ e cuore rinnovato ogni giorno/ di rinnovata allegria./ Ogni paura dimenticata./ Ogni sentimento centuplicato/ di distanza e mai assenza/dell’anima./ Il tempo impietoso/ ci ha vinto nel corpo piegato/ ma una commozione ci vince/ e  ci salva/ al richiamo delle nostre voci/ (oltre i lunghi silenzi/ che mai ci appartennero…).

 

E il 23 dicembre festeggerà con Primo e Cris il proprio compleanno tra le stelle un altro amico del cuore Nico, sempre presente ai miei giorni, con le sue radici di luce, di ironia e di poesia nella mia anima. Desidero qui ricordarlo con uno stralcio della poesia “Metà di me” da  Al confine di me (Secop, 2015), in cui c’è tutta la sua personalità di molteplici perché, tra la necessità di vivere nel mondo del lavoro, con onestà, competenza, coerenza, e l’incoercibile bisogno di immergersi nel mare (suo habitat naturale) con infinita poesia, alimento quotidiano del suo cuore e della sua anima: Metà di me non mi appartiene/ naviga/ dove il chiaro dell’aurora boreale/ si stempera nel blu infinito della notte./ Metà di me si dissolve in milioni di grani/ e si sparge e combina/ in simpatia con miliardi di atomi/ sulla linea d’ombra/ al limite di ogni verità/ dove certezze sconfinano nel dubbio/ e l’umano sapere è attonita coscienza dell’immenso./ Metà di me non mi appartiene, naviga/ tra l’Orrido e il Meraviglioso/ in consapevoli teorie dell’incanto/ verso lontani/ magici bagliori…

In risposta a tutto questo, mi sembra giusto fare riferimento a una lettera di Herman Rojas, lontano amico di tutti noi amici poeti, quando era semplicemente un poeta cileno scappato dalla sua terra perché ribelle al regime militare di Pinochet, e amico fraterno di Nico anche dopo il suo ritorno in patria. Questa lettera è di solo qualche anno fa. Dopo un lungo silenzio poetico di Nico… Le omissioni sono mie per via di una lettera molto lunga e ricca di ricordi e di sollecitazioni a tornare a pubblicare le sue poesie, di cui tutti avvertivamo la mancanza: Caro Nico (…) non lasciarci senza la tua parola, senza i tuoi sogni, senza la tua folle geografia italica, senza il tuo mare, senza la tua tenerezza. Vai oltre i “confini di te”, con tutta la forza che hai, non fermarti, non spegnerti (…). I nostri confini sono come l’utopia alla quale non rinunceremo mai. Perché tu e io siamo l’orizzonte e, insieme, noi siamo l’utopia. Pescatori di meraviglie, ricordi? A costo di annegare nei mari della luna. Ti abbraccio con l’immenso affetto di un fratello. Germàn (lettera contenuta nell’ultimo libro di Nico Mori PESCATORI DI MERAVIGLIE e altre storie (Secop, 2020).

Germàn è venuto solo un paio di mesi fa a Bari per incontrarci. In un ristorante per poter brindare insieme al nostro ritrovarci dopo tanti anni. Manuela, l’amatissima figlia di Nico, ha fatto da tramite. e suo marito Carlo. Una serata indimenticabile con Raffaella, mia figlia e Peppino suo marito e editore SECOP, Nicola e Anna Paola, i miei adorati nipoti, Anna Maria, mia sorella, “voce” graffiante e meravigliosa del gruppo di poeti di cui facevamo parte, e Gianni, suo marito, anche lui apprezzato scrittore e poeta. Ed è stato un incontro ricco di commozione e di ricordi. Intensamente vissuto tra inevitabili tenerissimi amarcord della nostra giovinezza di incanti, e calici levati per augurarci di rivederci ancora e ancora...

Ed è così che mi piace salutarvi, oggi, in attesa del Santo Natale e degli altri miei figli che vivono a Roma. Sereno Natale a tutti, in un’atmosfera di “incontro” e di “abbracci” finalmente reali, nelle nostre case, illuminate dalle luci degli alberi di Natale, dei presepi, della tenera carezza di Gesù Bambino al nostro cuore… Angela  

 

 

domenica 18 dicembre 2022

Domenica 18 dicembre 2022: CRIS CHIAPPERINI, UN POETA TRA LE STELLE... (fine)

E così siamo giunti alla tua culla, al giorno che ti diede i natali, mio caro Cris. Occorre che almeno per il momento io ti saluti. Tra una settimana è Natale. Occorre viverlo al meglio di quanto questo tempo possa concederci. In famiglia, possibilmente. Con i propri cari. “Sentire” profondamente il tempo dell’Attesa, scoprirne o riscoprirne la bellezza, accendendo dentro tutte le luci per rischiarare tutte le ombre, per sentirci in pace con noi stessi e con gli altri. “A Natale puoi” recita uno slogan pubblicitario. Potremmo, volendo, cambiarlo in “Ogni giorno puoi”. Basta armarsi di coraggio e di buona volontà. Quantomeno “tentare non nuoce”: è da questo slogan che nasce il cambiamento? Forse sì, almeno in parte. Poi ci sono tanti altri fattori da prendere in considerazione, sapendo che il cambiamento è alla base di ogni attimo della nostra vita. Solo che non è giusto accettarlo passivamente, non è giusto subirlo. Dobbiamo essere noi gli agenti del cambiamento in termini migliorativi. La stella cometa è ancora là sui nostri presepi a indicarci, con la sua luce, la strada. Il viaggio. Metafora della vita e della continua trasformazione delle nostre esperienze, ricerche, conoscenze da raccogliere a piene mani “insieme” per essere più forti nella conquista di noi stessi in una relazione di inter-esistenza, complessa ma stimolante. La nostra realtà fisica e spirituale, dunque, è fatta di inter-esistenza. Siamo strettamente interconnessi gli uni agli altri. Né dobbiamo temere di perdere la nostra unicità in questo processo continuo di inter-connessione.

E a questo proposito bellissima è la pagina riguardante la Rete di Indra tra induismo e buddhismo, che ci rivela il segreto dell’universo: Racconta di una rete di fili infinita presente in tutto il Cosmo. I fili orizzontali corrono attraverso lo spazio, i fili verticali attraverso il tempo. Ad ogni incrocio di fili c’è una persona con una perla di cristallo; ogni perla riflette la luce proveniente da ogni altra perla e dall’intero universo. Tutte le persone vengono illuminate simultaneamente.

Altra versione riguarda una tela multidimensionale che, al mattino presto, si ricopre di gocce di rugiada. E ogni goccia di rugiada contiene il riflesso di tutte le altre gocce di rugiada. E in ogni goccia di rugiada riflessa, i riflessi di tutte le altre gocce di rugiada in quel riflesso. E così all’infinito… (LA RETE DI INDRA, a cura di Rachele Re & Licia Marie Toccaceli, Paratissima. It)  

Insomma, tutto brilla di luce propria riflettendo la luce di ogni altro da sé. Bellissima immagine di interdipendenza in tutto il Creato. Dal particolare si passa all’universale. Ed è questa la legge che tiene coeso l’universo e lo rigenera continuamente in un continuo atto d’AMORE.

Con te, mio carissimo Cris, è stato proprio così, abbiamo vissuto ore di “viaggio”, di sera in sera, di libreria in libreria, della tua voce a leggere le mie poesie, del mio incanto nell’ascoltarti perché i miei versi letti da te si ammantavano di luce. Avevano prodigiosamente altro senso, altro significato. Un “altrove” che ci apparteneva e ci superava, andava oltre. Oltre il tempo e lo spazio. Oltre le ore e i giorni, le sere e gli applausi, i confini dentro e fuori di noi… e ci siamo arricchiti di pura amicizia, parole come perle da conservare nello scrigno delle cose preziose, da ricordare per consegnarle agli altri, ai figli, ai parenti, agli amici, ai conoscenti. Per contaminare POESIA e buoni sentimenti. La purezza del cuore. L’audacia del compito di portare a tutti la “lieta novella” per ri-nascere alla Speranza. Come tu mi hai insegnato. Come i tanti amici di penna e di cuore, del passato e del presente mi hanno insegnato e m’insegnano ancora.

Ma questi luminosi esempi parlerò nei giorni prossimi anche perché fra alcuni giorni, sempre in dicembre, prima e dopo Natale, ci sono altri compleanni da festeggiare tra le stelle.

Di te ancora qualche poesia per festeggiarti:

                                   ORMAI!  Questo furore di poesia

questa balbuzie

che mi opprime / e mi esalta

questa Venere Immacolata

questa Vergine / che si vela

ha rapinato / ormai / ogni forza

e mi ha sorriso.

Sono nel suo paradiso / tutti che l'amarono

                                / anche se maledetti.

Corteggiata con mille parole

notti senza sonno e giorni poveri

mi ha lasciato qui dove sono.

Solo.

Lasciatemi ora che il risveglio è completo

tirar sassi sulla spiaggia / come da bambino

nel mare

e gridare.

 

Meglio

svanita la mente

trascinare il sogno / di scherno in scherno

alzare pertiche russe / sui grattacieli

per nido al raro uccello / ormai / d'avventura

sulla foresta città / di antenne televisive

sotto il cielo così spesso tristemente fumoso

che scolora sempre più asmatico / ormai.

Il terso cristallino

così estraneo / agli occhi stanchi

che solo fissano prezzi nelle vetrine

sperduti imprigionati

nel reticolo di strade / sempre meglio tatuate.

 

Questo delirio di poesia / questa mattana

questa seducente puttana

lo so

non avrà mai orecchio / né perdono

ma solo l'educata compassione

silenzio pietoso

dell'ultimo conoscente.

 

 

Wu Ming Zen’ 0

 

             MARTA

            che tremava

 

 

È successo alla fontana del fiume

 

tenero

l'abbraccio del vento

aveva occhi furfanti

e piede marino

 

la dolce veronica

lisciava cosce di corallo

e voglia di conchiglia

 

non chiese aiuto

la camicetta

né la gonna ballerina

 

la faccia di brace

filtrava

un mistero d'acque profonde

 

il sole era svenuto

a tanto ardore

era un arancio

 

disse

il vento libertino

parole di liuto

a Marta che tremava

 

era alla fontana del fiume

a torcere i panni

 

                                                                       (Cris/O)

Quanto amore per la poesia in te, Cris, tra sogno e realtà, tra piacere e dolore, tra mistero e inganno, tra il visibile e l’invisibile, tra l’esaltazione dell’“eterno femminino” e il timore di perdersi in conchiglie di mare a risentirne il richiamo in una eco infinita.

Ed ora ti saluto, Cris, con una poesia a te dedicata per questo giorno di festa tra terra e cielo.

Cede l'inquieto autunno

una follia di foglie

al vento furioso di quasi inverno

che ti diede ricamo di culla

e un sogno

tra rami di neve a nido

e braccia morbide di madre

Strappò al cielo la luna

inghirlandata di Poesia

e te ne fece dono al guizzo

antico di giovani eresie

e occhi innamorati

sul grande palcoscenico della vita

Amasti folli amori con mani

di tenerezza e di abbandono

e lacrime di dolcezza

per i tuoi figli e il loro incanto

Mi donasti le tue ali e divenni

angelo di tenaci intese tra fogli

che sanno di velluto la tua voce

di pane e miele le mie poesie

il nostro canto insieme

E dimenticammo ferite

tra argini di parole alate

Ora nel Teatro del Cielo

acceso di stelle a migliaia

angeli e cherubini

ascoltano estasiati il tuo cuore

dove fioriscono versi

di cristallo e zucchero filato

di mandorle amare e di ulivi

verdi di inaudito splendore

Lievi le nostre sere di anni

e di magie

e di stagioni vissute ad una voce

come acqua di fonte sorrisi

di sole mistero di Cieli e di altari

 

(con Caterina la tua bimba di te

affamata e della tua carezza

sui doni d'anima a lei riservati

ti vengo anch'io come una volta

ancora una volta a cercare)

Per Cris Chiapperini e il suo compleanno tra le stelle

A prestissimo, Cris, con tanta Poesia ancora…

 

sabato 17 dicembre 2022

Sabato 17 dicembre 2022: CRIS CHIAPPERINI, UN POETA TRA LE STELLE... (continuazione)

La poesia di Cris, postata ieri, è una pioggia immensa di emozioni… E me lo conferma anche Caterina, sua figlia, che mi ha inviato tra mercoledì e oggi due commenti che mi confortano e mi commuovono: Grazie Angela davvero davvero per queste pagine dedicate a papà che esprimono il sincero e grande affetto che vi legava e che lui in qualche modo ha trasmesso a me certo che avrei saputo coltivarlo con cura. È il suo amore che ci lega... per sempre❤️ E quello riguardante la poesia postata ieri: una delle mie preferite🌸

Anche per me vale quanto Caterina mi ha scritto. Le voglio un bene immenso, frutto del gran bene che mi lega ancora oggi a suo padre. E anche la poesia è tra le mie preferite. Ma c’è una poesia che mi fa tremare tanto è vicina a questo nostro tempo di guerra, di lutti e di dolore.


SUOR ADDOLORATA DEL SUPPLIZIO

Dio d'amore coi lunghi capelli

Nino aveva i riccioli neri

 

-                             Un velo di latte Madre mia

            la camicia di lino che mi portò

 

               Ahi Madonna di mille grazie

               aveva denti di margherita

               mi chiamava Maria

               Nino dal petto bruno

               Nino di notte

               di giorno di sera -

                                   

                                    Partì soldato

                                    col cuore di zinco

 

                                    Morì alla guerra

                                    col nome Maria

 

-          Un grido di sangue Madre mia           

       la notizia di spine che mi arrivò

 

    Aveva denti di margherita

    Nino aveva i riccioli neri -

 

Perdona

Dio d'amore coi lunghi capelli

Suor Addolorata del Supplizio

se morta

in paradiso

cercherà chi chiama Maria                                                                                                                                                                (Cris/O)

Ogni commento è superfluo, sciuperebbe la struggente bellezza di questi versi. Ma mi piace riportare, a questo punto, un testo poetico in prosa, che ha un finale tragico, che deve molto farci riflettere. Un blog serve anche a questo: a “tenerci insieme” nei momenti di profonde riflessioni e verità. il testo si intitola “La guerra è finita” ed è di Daniela Leone, l’ultima mia nata che aveva meno di diciotto anni quando lo scrisse, ma è attualissimo:

L’uomo dalla barba troppo lunga camminava scalzo lungo il marciapiede.


I suoi passi - ritmicamente cadenzati senza perdere mai un colpo - sembravano calcolare quasi perfettamente la distanza da strada a strada, macinando infinite volte la stessa lingua d’asfalto. I suoi piedi avevano tutta l’aria di essere stati troppo a lungo attanagliati da due pesanti scarponi e adesso reclamavano ad alta voce la loro legittima libertà. Era quasi impressionante la meccanicità dei suoi movimenti. Incurante dei passanti con i loro sguardi sprezzanti, marciava - su e giù - senza mai alzare gli occhi da terra.

- Sguardo vuoto su piedi di polvere e squarci -. Non si era fermato neanche davanti ai pezzi di vetro sparsi per terra appartenuti alla bottiglia di vino rosso che il bimbo con le mani da bimbo aveva fatto cadere poco prima - e il bimbo biondo era ancora lì che piangeva, guardandosi le mani come fossero state pezzi di burro - e nelle lacrime tutto il terrore di una punizione senza ragione -.

L’uomo aveva continuato per tutto il tempo a marciare. Marciava la sua barba, marciavano i capelli, marciava il suo respiro, la sua ombra. Non aveva avuto la voglia di smuovere neanche un muscolo del viso di fronte a quel gruppo di ragazzi idioti che avevano continuato a seguirlo, in mezzo a boccacce e risa e insulti, per un buon quarto d’ora.

Non danzavano le sue mani. Erano lasciate penzoloni lungo la robustezza sei suoi fianchi. Urlavano stanchezza nel loro desiderio di immobilità, avrebbero forse voluto fermare il tempo, trattenere quella marcia infinita e armonizzare il tutto nella staticità del loro essere.

Poi, di colpo, come fosse stato svegliato da una violenta dolcezza, si fermò.

Alzò lo sguardo al cielo.

Mosse il viso in posizione di sorriso.

Uno scintillio di ferocia impotente attraversò le pupille.

Dalla tasca destra tirò fuori una rivoltella.

Uno sparo… e il resto del mondo si fermò a guardare… (
da: Perituoidiciottanni, raccolta di poesie e prose di Daniela Leone a cura di Angela De Leo, 1994)

E anche noi ci fermiamo col cuore in gola per tanta straziante solitudine e per tanto doloroso ricordo di una guerra mai finita nell’anima martoriata più del corpo dell’uomo possente e disperato, che continua la sua marcia all’infinito. E i tanti dettagli, anche ossimorici, servono a definire la situazione oggettiva del mondo che gli ruota intorno e la condizione soggettiva di chi ha troppo lottato la violenza con la violenza, ricavandone sconfitta e disinganno. E una stanchezza impotente per la propria finitudine sul vuoto assoluto dell’abissale distanza del cielo come unico richiamo... Mi sorprende, comunque, ancora oggi la profondità di pensiero e la cifra stilistica già ben definita dell’autrice non ancora diciottenne.

A questo punto, desidero riportare qui la cronaca, altrettanto amara, proprio di questi giorni di una scrittrice affermata anche se giovanissima, di appena ventitré anni, Angelica Grivel Serra, mia tenerissima amica:

Considerate se questo è un uomo. Cinque dicembre. Sino a quattro giorni prima, il nonno Riccardo, alla soglia dei novantanove anni, cuciva le asole e rassettava i bottoni sbilenchi, concentrando lo sguardo e i moti veloci dell’ago minuscolo tra le sue mani senili, secondo gli usi dell’antico mestiere. Di colpo, piomba. Una rapace fiacchezza gli avvince il corpo. Dorme, perlopiù. Nel riconoscere i nostri volti, in quei rari barlumi di vaga coscienza, dispensa un sorriso; ma un sonno invincibile avviluppa ogni ora della sua giornata. Sei dicembre, prime ore del pomeriggio. Urge un’ambulanza. La febbre è vertiginosa e impenna ai quaranta. Il termometro s’accende di rosso. È un principio di bronchite, ci dicono. E non è gestibile in casa. L’ambulanza lo porta via. Il nonno Riccardo, novantanove anni il primo di gennaio, finisce al Policlinico di Monserrato. Una prima chiamata placa per un istante il peggio: no, niente Covid. E no, non c’è degenerazione in broncopolmonite. L’istante dopo, il gelo: no, non potete fargli visita. E no, nei prossimi giorni non avrete informazioni. Perché? Ci sono le festività, rispondono. Perciò, c’è solo un medico di guardia. Ci danno dei numeri. Ma ogni chiamata è un incontro col vuoto. Non rispondono mai. Il nonno Riccardo, vegliato e vigilato qui con l’attenzione e la delicatezza di cui la sua fragile età necessitano, ora lo immagino lì, solo. Chi gli terrà la mano nottetempo? Chi gli porgerà uno sguardo amico? Chi ravviverà il suo coraggio? E soprattutto: quando risponderanno al telefono? Quando ci diranno se mio nonno è ancora vivo? Considerate se questo è un uomo. (Angelica Grivel Serra).

Angelica Grivel Serra non ha bisogno di ulteriori presentazioni. In tantissimi conoscono la bellezza della sua persona, l’eleganza dei modi, la schiettezza e la chiarezza dei sentimenti verso la vita e verso gli altri. Le sue attività culturali e artistiche che abitano la sua amata Sardegna, dilatandosi verso orizzonti sempre più ampi e lontani. L’originalità raffinata della sua scrittura. Ho letto questa sua cronaca intensa e amara dei primi di dicembre e ritengo sia giusto pubblicarla qui, nel nostro blog, in queste drammatiche vicende umane spesso “disumane”, perché “Se questo è un uomo”, in cui fa capolino anche la disperata condizione di Primo Levi, ha il coraggio di nonno Riccardo nella compiutezza della sua Persona, e la straordinaria sensibilità affettiva di Angelica a testimoniare una Umanità migliore.

Spero, intanto, che nonno Riccardo stia ancora lottando per regalarci il 1° gennaio la gioia di festeggiare insieme i suoi mitici 100 anni. E devo confessarvi, commossa, che il 1° gennaio ci saranno con noi altri tre compleanni da festeggiare: quello del mio adorato nonno Mincuccio (1/1/1882 - 11/1/1967), di mio padre Raffaele (1/1/1910 - 21/10/1986), e il compleanno di Primo, mio tempestoso e geniale marito (1/1/1941 - 4/6/2008). Sarà un incontro a metà strada tra le stelle del Cielo e quelle delle luci a rendere splendente il nuovo Capodanno. Ma occorre stemperare da subito tanta tristezza e tanta solitudine con due poesie, scoperte nelle Pagine FB di due carissime amiche, spesso presenti nel nostro blog: Maria Pia Latorre e Mariateresa Bari. Della prima ecco la dolcezza dell’Attesa, incarnata nel seno “di sferica perfezione” della Vergine Maria. “Ed è lì tutto l’indicibile amore”; della seconda leggeremo “Gaudete”.

D’umiltà magnifica/ il tuo sguardo/ culla notti stellate mentre/ in ventre tuo/ naviga/ il sogno incarnato// Limpido arco nel cielo/ in te si compie l’attesa/ sferica perfezione/ nell’universo silente/ Ed è lì/ tutto l’indicibile amore (Maria Pia Latorre).

Agguantato di stelle/ uno stupore fanciullo/ carezza il disincanto/ e si nastrina di silenzio// Stempera il lamentario/ del rimorso/ imperdonabile l’errore// Il perdono è guizzo di neve/ nel sonno del dire/ a rallegrare il tempo del fare (Mariateresa Bari).

Anche in queste due poesie, ricche di metafore e di simboli, con un linguaggio che sta definendo la poesia del terzo millennio, il messaggio e chiaro e luminoso per invitarci a “guardare” il Mistero del Natale come LUCE di RI-NASCITA, di GIOIA e di AMORE.

Oltre il buio doloroso delle vicende umane...

A domani. Angela