sabato 30 marzo 2024

Sabato 30 marzo 2024: IN ATTESA DELLA RESURREZIONE VERSI E IMMAGINI DI SILENZIO E DI PREGHIERA...

Da Sud…ario poesie (in dialetto e in italiano) di Vincenzo Mastropirro su suggestive Immagini di grafica di Giuseppe Fiorello, detto U’Dsignator. Quasi un poema di quindici nenie funebri che si snoda lungo le 14 stazioni della Via Crucis, dal Getsemani al Golgota, in una riproposizione in chiave contemporanea delle terribili tribolazioni di Cristo prima di morire sulla Croce. E l’immagine di copertina ne definisce, con nocche al fazzoletto per non dimenticare, la triste verità del nostro tradimento verso l’enorme rinuncia di Dio alla sua Onnipotenza per Amore dell’umanità. E con gocce di sangue da raccogliere, perché non se ne disperda il senso e il significato fino ai nostri giorni e oltre. Valga questa nenia per tutte:

“Il dolore”: Si muore di crepacuore/ se il dolore ti scoppia nel petto.// Se il dolore si chiama figlio/  Figghjemèje figliomio/ il cuore scoppia davvero.// Così sono morti/ padri e madri che hanno occhi/ inzuppati di lacrime, sangue e bestemmie.// Si riconoscono da come ti guardano.// Guardano a terra e abitano il niente/ guardano il virgulto e aspettano pazienti/ aspettano che cresca lentamente per poi diventare albero/ senza sapere che sotto ci sono radici secche/ senza sapere che quei virgulti nascono morti per sempre.

 E le anafore e le allitterazioni creano un ritmo incalzante e martellante quasi a inchiodarci al ricordo della Potenza e dell’Amore di Cristo. Al suo miracolo. Non così è la stazione del dolore. Qui non c’è miracolo che tenga. La perdita di un figlio è il dolore più straziante e inarrestabile nella sua infinita durata nel tempo. E il cuore scoppia veramente. E i poveri genitori, morti con il figlio, si riconoscono per lo sguardo spento nel “niente” che è meno di un vuoto. Solo le lacrime, il sangue e le bestemmie sono vivi per sempre. È lo stesso dolore di Dio e della Vergine Addolorata per quel Figlio ingannato, tradito, martoriato, ucciso? Non tutti si direbbero d’accordo. Ma il mistero della morte supera ogni umana comprensione e il dolore si rifugia nella preghiera o nella imprecazione per restituirsi/restituirci alla vita. Il dolore si fa spine, si fa solitudine, si fa sangue vivo che scorre. E non c’è partecipazione, non c’è comprensione, non c’è pietà nel cuore impietrito del nostro tempo, abitato da pensieri vuoti, dove non alberga il senso profondo della vita, dove non si scorge lo squarcio azzurro di un cielo rabberciato di pietà e di fratellanza. Solo la corona di spine, conficcata su quel capo sanguinante e umiliato, conosce il dolore umano di quell’Uomo divino, ad espiare da solo i mali dell’intera umanità. (a.d.l.)

Fanno da eco al libro di Vincenzo Mastropirro e Giuseppe Fiorello le Meditazioni Poetiche della Via Crucis di Enzo Quarto su Tavole in terracotta di grande intensità e suggestione ad opera di Vito Zaza.

Il pianto non può essere/ solo dolore/ inutile/ inconcludente./ Il pianto deve generare/ Pace,/ che sia utero/ che genera / amore./ Le pie donne piangono/ affrante/ da tanta violenza/ ma la violenza del mondo/ non ha fine/ si autogenera./ Ecco, dunque,/ la responsabilità:/ la gestazione di nuova vita/ il compito del ricominciare/ il pianto gravido/ che diventa/ sorgente.

Ancora una volta il dolore. Inevitabile in questi giorni di lacrime a ricordare un dolore antico di oltre duemila anni e sempre attuale. Oggi più che mai in un mondo, il nostro, fatto di nuova violenza e di spietato egoismo o colpevole indifferenza, mentre la nostra anima anela alla Pace, quale “utero che genera amore”. Che diventa “sorgente” di vita, di ri-nascita e di Perdono nel segno della Croce.

Stupenda la formella di terracotta con i “segni” visibili del dolore e del perdono. Un dolore che è della Madre trafitta, un pianto che è consolazione di braccia serrate nell’abbraccio del cuore, salvifico anche per lo scultore che quel dolore duplicato gli ha scorticato pelle cuore anima fino alla rivincita dell’abbraccio di Cristo, del tutto umano, nella sua immensa sofferenza, e del tutto divino, nel suo immenso Amore. (a.d.l.)

E, per stemperare la tensione che tanto pianto procura, ecco i “pensieri” di Raffaella Leone per vivere il “terzo giorno” con la fiducia che la Fede autentica genera al contatto con lo sguardo fiorito di pesco dei suoi alunni, a cui i versi sono dedicati: Pensa se i rami d’ulivo/ all’alba del terzo giorno/ si tingessero/     d’arcobaleno/ Pensa se la terra muta/ all’alba del terzo giorno/ profumasse/ di parole nuove/ Pensa se le nuvole del cielo/ all’alba del terzo giorno/ si sparpagliassero/ come petali rosa di pesco/ Pensa se l’odio del cuore/ all’alba del terzo giorno/ cantasse/ un GLORIA d’amore/ Risorgerebbe la/     Vita/ Rosa svettante tra spine/ nell’aria nuova/ colorata di/     Pace/ sarebbe/     Pasqua, Signore.

Lievità, leggerezza, colore, speranza cantano nei versi di Raffaella Leone che non perde mai la fiducia nell’umanità e la gioia di immergersi con Amore negli occhi bambini che attendono i suoi occhi per crescere e scoprire una nuova primavera che sempre ritorna con altri fili d’erba per intrecciare insieme panieri di Speranza, mentre l’arcobaleno sorride alto nel cielo… (a.d.l.).

“LA PASQUA DELLA MIA INFANZIA” di Luigi Lafranceschina: Obbligo di digiuno/ E si faceva peccato mangiare carne/ Durante la Settimana Santa/ E dal giovedì mute le campane/ E a battere il tempo per le strade/ il sagrestano con le raganelle./ La sera dopo la Messa dell’Ultima Cena/ Mano a mano di mia madre/Digrignando i gangali per il freddo/ In sette chiese si doveva andare/ A visitare i sepolcri del Signore/ E a mezzanotte del sabato/ in Cattedrale per la Resurrezione./ Ma io non vedevo l’ora/ Che arrivasse la domenica/ Per il pranzo e i dolci di Pasqua./ Famiglia allargata quel giorno/ Tutti riuniti in casa dei nonni/ E tra figli nipoti più di trenta./ Lunga la tavola della festa/ e sopra due o tre tovaglie/ E penuria di piatti e sedie/ E qualcuno mangiava in piedi!/ Nonno Francesco bicchiere in mano/ Ogni tanto faceva un brindisi/ E si metteva a cantare./ Dopo il Benedetto a fine pranzo/ Uova sode colorate e le scarcelle/ E per ricordare la festa/ Tutti in posa per una foto./ Poi siesta attorno al camino/ A parlare della raccolta dell’anno/ E quando il sole tramontava/ Una preghiera di ringraziamento/ E tutti a casa finita era la festa!  

È l’incanto dei ricordi che accomuna tutti quelli che come noi hanno vissuto la stessa infanzia, gli stessi riti, le stesse tavolate dai nonni col Benedetto e le scarcelle e tanto buon vino con brindisi alla salute e lacrime di commozione nei loro occhi. E “una preghiera di ringraziamento” a sottolineare una Fede genuina e semplice che ha illuminato anche i giorni bui di un tempo ricco di mille incognite. (a.d.l.).

Rita Bonetti: C’è un’unica finestra/ illuminata tra le tante/ nella tregua breve/ della mezza luce/ la prima luce di una stella/ stravaccata verso il buio/ scintilla come un calice alzato/ e tutto diventa un niente/ che si apre alla luce/ una preghiera spezzata/ nella voce dell’universo

Che bella questa finestra che guarda al cielo e conta le stelle nel primo buio della sera. Il “calice alzato” scintilla di luce nel mistero dell’universo e si fa silenziosa preghiera. (a.d.l.).

Antonella Coletti: Fiorisce ancora la luce/ argentea sull’olivo./ La luce lo respira,/ e lo accarezza/ ancora./ Ma la sua linfa/ lentamente si prosciuga./ Eppure sembra/ ancora così bello/ e vigoroso e ampio!/ Pare che si espanda verso il cielo/ e ne raccolga Pace./ Ancora quell’ulivo mi dà serenità/ come un Cristo che risorge/ dalla sua umanità ferita/ e sulla croce/ la denuda.

L’ulivo è un rifugio di serenità. È simbolo di Bellezza, Resistenza, Pace. Come “un Cristo che risorge dalla sua umanità ferita”. Splendida visione di un Dio fattosi Uomo per incontrare lo sguardo dell’uomo e salvarlo da ogni perdizione (a.d.l.).

“La notte del venerdì” di Maria Addamiano: Lucine di ceri/   s’innalzano   / nell’immensità/     alta     / Con le stelle  / tremolio d’argento/     assicurano     /   Mistica aria nell’aria   / brivido e devozione in ogni casa/     attesa in ogni via     /   Magia è il buio   /      nel Borgo:     / a tratti la luna misteriosa/   scorre veloce   / dietro stracci di nuvole./   Bianca, irreale luce   /     nella chiesetta     / fervente di preparativi/     come per sposa     / in uscita da casa paterna./  In silenzio devoto  /     il batticuore     / dei portatori, i mazzieri…/ Raccolta la confraternita./   Armonia di sguardi:   / i piedi del Cristo Morto/   inondano d’amore/  la notte del venerdì  / in una esplosione di emozioni.

Atmosfera di intensa suggestione la notte del venerdì santo sotto un “tremolio d’argento” che “le stelle assicurano” per creare mistero e magia per le vie del “Borgo”. E i confratelli in preghiera ai “piedi del Cristo Morto” sono inondati da tanto amore e da “una esplosione di emozioni”. L’umanità lascia ancora ben sperare nella Resurrezione non soltanto di Cristo dal sepolcro… E sarà alba di un nuovo giorno per tutti (a.d.l.).

Angela De Leo: Un giorno scoprii Dio negli occhi di un bambino e Lo trovai finalmente «buono». Ero in pullman, mi girai e mi persi nel fulgore dei suoi capelli biondi e dei suoi occhioni neri e delle sue guance di pesca baciate dal sole. Un raggio lo illuminava tutto. Si può incontrare Dio anche su di un pullman o la poesia. Da quel giorno vado sempre con lo sguardo attento, in attesa del miracolo. I miracoli esistono per chi li sa inventare o per chi li sa riconoscere? Un bimbo è un miracolo. Come la vita. Come la poesia. Dio è miracolo. Bisogna inventarselo o soltanto riconoscerlo? E oggi è Sabato Santo. Dio è silenzio e preghiera. Ognuno, anche se non ci crede, Lo sente come attesa di un miracolo nel cuore, soprattutto se per strada ha perso tanto cuore. Ma il miracolo dell’uomo è saperlo ritrovare dentro di sé sempre intatto ad ogni miracolo. Basta un bimbo. Un ritorno. Il ricordo. E domani è giorno di Resurrezione. Giorno di Rinascita e Perdono. Una Speranza che ancora ci sorprende e ci salva.   

Buona Pasqua a tutti! 

lunedì 25 marzo 2024

Lunedì 25 marzo 2024: "... PRIMAVERA D'INTORNO/BRILLA NELL'ARIA, E PER LI CAMPI ESULTA,..." ...

Primavera d’intorno/ brilla nell’aria, e per li campi esulti,/ sì ch’a mirarla intenerisce il core./ Odi spur festeggiando il lor tempo migliore… (da G. Leopardi, “Il passero solitario”)

E oggi mi sembra giusto festeggiare questa primavera che d’un colpo è esplosa con i peschi in fiore, con le corolle diafane di mandorli e albicocchi, col giallo squillante delle gaggìe, mimose e gerbere, con le primule viola e i nontiscordardime turchini, con tutti i colori delle pratoline, della lavanda,   della salvia… cielo e terra e mare si mescolano in una tavolozza dipinta da Mani infinite che conoscono il Sogno e la Bellezza del Creato.

“Il vento declina nomi” (poesia di un tempo che conta almeno quarant’anni) di Angela De Leo: Azzurro lacca il cielo/ ampio sui nostri pensieri/ Parole si disperdono al verde degli alberi/ il vento declina nomi all’infinito. Strappa / al tempo ogni ricordo./ Siamo invasi da una primavera nuova/ riscoperta tra i muretti a secco/ sulla sgusciante lucertola/ lucida di pelle tenera/ L’infinito nelle nostre mani/ da chiudere piano sulle attese di sempre/ Follia sarebbe frantumarlo/     per niente.

“LANTERNE ROSSE A PRIMAVERA” di Angela De Leo (passando dalle scintillanti attese della giovinezza alle attese sonnolente e ai nostalgici ricordi di oggi): Lanterne di rosse ciliegie/ accesero il ricordo/ di passate stagioni/ E sonnolente attese/ sorpresero la luna/ su bianche ali/ di nuvole fiorite/ a un passo dal cielo/ (nei palmi aperti sarai ricordo/     di lontana nostalgia).

Luciana De Palma: E di tutto potrei anche/ Fare a meno/ Eccetto di una rosa nel vaso/ Di un pezzo di cielo/ Non importa se nuvoloso o sereno/ Di una visione pronta a sparire/ Al primo accenno di vento/ Che sgombri il campo/ Da ogni tentazione/ Di un maglione pesante/ Di un ricordo felice/ E di un rifugio/ Lontano dal mondo/ A picco su un sogno

“Il tempo delle rose” di Anna Mininno: C’è penuria di rose, nel mio giardino/ Ce ne furono tante/ e le più tenere fiorirono al sole/ dell’innocenza/ Giravano in tondo, le mie rose,/ nei canti di bianco-asilo/ e fiocchi rosso-cuore/ E ne fiorirono a mille/ nelle ariose primavere/ e negli autunni, compagne di foglie morte,/ e ancor più preziose negli inverni dei camini/ C’è penuria di rise, nel mio giardino, ora,/ ma nello spazio del mattino/ nei petali del custodito amore/ nel profumo che sa d’antico/ io le sento,/ e m’avvedo dell’eterna primavera,/ nella giostra che va verso il suo altrove/ - e non sarò io a fermarne la via -  

Federica Nolasco: In via 8 marzo ci abitano Ugo, Bianca, Emma, Giulia e Alice. Ingranaggi dello stesso impianto che si muovono assieme, come un orologio in centro città che dice a tutti “è sempre tempo di sorridere”.

Nikifòros Vrettàkos: Se mi vedessero stare in piedi/ immobile, in mezzo/ ai miei fiori, come/ in questo istante,/ penserebbero che/ sto tenendo loro una lezione.// Invece/ sono il che ascolto/ e loro che parlano.// Lì, in mezzo a loro,/ mi insegnano la luce. (poesia suggerita da Rosi Brescia).

“Buona primavera a tutti!” di Maria Concetta Giorgi: … C’erano giorni gialli, perché i giorni hanno diversi colori, quello fu il giorno di una gonna gialla e una maglia a righe. In un silenzio che solo il vento avrebbe potuto sciogliere, lei pensò che le nuvole fossero una vera benedizione. Leggere e impalpabili si mossero come la gonna gialla, ondeggiarono, poi sparirono. Rimase il giallo del sole scottante, poi sparirono. Rimase il giallo del sole scottante, il naso si riempì di lentiggini. …

 Monello di un sole che anche quest’anno mi dipingerai il naso…

“Istante” di Mario Sicolo: Volo nomade/ d’ali nere/ fra sbuffi di nuvole// Ma la rondine/ che curva all’orizzonte/ è sogno d’antica primavera/ o canto di nuova stagione?// Il suo destino/ è tutto quello che non sai/ e pure quello che hai visto/ già non è più

Elina Miticocchio: Alleggerisco i pensieri e allento la presa, aspetto che un nuovo colore scriva il foglio. Ho terminato di leggere tutti i libri che avrei potuto leggere nella pausa positiva del tempo, ed ora la libertà di guardare l’azzurro mi dimora le radici. In fondo non siamo che alberi che sfidano le stagioni e ora è primavera. Forse il mio tempo è qui.

Ada De Judicibus: Conosci gli istanti trasognati/ quando si arresta il respiro del tempo/ e le cose si fermano d’improvviso?/ Sono gli istanti puri,/ quando nel tuo giardino/ la rosa è perfezione della rosa/ e gli occhi del tuo gatto sereno,/ l’oro della nuvola lontana,/ l’odore fondo dei fiori del limone,/ sembrano necessità./ Sono gli istanti compiuti,/ quando forse le nostre occasioni/ sono segni più chiari di assoluto.

Il grande poeta Sandro Penna: Mi adagio nel mattino/ di primavera. Sento/ nascere in me scomposte/ aurore. Io non so più/ se muoio oppure nasco. (versi segnalati dalla generosa amica Rosi Brescia)

“PASQUA 2024” di Lizia De Leo: Sono stelline terrestri le pratoline/ lungo i bordi delle strade// Papaveri impazziti di vento/ tra fili d’erba./ E bianche e gialle/ margheritine di sole// Un albero smilzo/ è un mandorlo in fiore/ contro un cielo/ di nuvole vaghe e diafane// Il porticciolo è soffio gentile / di mare/ fragranza di alghe salmastre// Sosta sul molo una barca/ che un barcaiolo sta/ malamente dipingendo/ d’azzurro// Ma che importa?// Sorride Primavera/ anche ai miei pensieri stanchi…

E, infine, uno stralcio di una canzone di Fabrizio De Andrè: La primavera non bussa, lei entra sicura/ come fumo lei entra in ogni fessura/ ha labbra di carne, i capelli di grano/ che paura, che voglia che ti prenda per mano,/ Che paura, che voglia che ti porti lontano. (“Un chimico”, canzone inclusa nell’album Non al denaro non all’amore né al cielo del 1971).

Buona primavera negli occhi, nel cuore, nell’anima… e fiori tra le mani e un rosso sorriso tra le labbra che riprendono a sognare…

 

 

venerdì 22 marzo 2024

Venerdì 22 marzo 2024: LA SCUOLA, GLI ALUNNI, LE FAMIGLIE: scoperte che aiutano a crescere...

Con il tempo si impara la sottile differenza

fra sostenere una mano e incatenare un'anima, (…)

e uno comincia ad accettare le sue sconfitte

a testa alta e con gli occhi

aperti

e uno impara a costruire tutti i suoi cammini nell'oggi,

perché il terreno di domani è troppo insicuro per

far piani…  e i futuri hanno la forma di cadere

a metà.

(“Col tempo imparerai” recita una poesia

attribuita a Jorge Luis Borges)

E così, senza mai averlo messo in conto, sono diventata insegnante, mio malgrado e con tanto amore, attraversando nel tempo quasi tutti i gradi di Scuola fino a collaborare con l’Università per parecchi anni, fino a quando la prima caduta mi precluse l’accesso al terzo piano dell’Ateneo, dove c’erano le facoltà che più mi si confacevano. E sempre senza averlo mai messo in conto nei miei rari progetti di vita, tra sogni a migliaia, sono stata preparatrice per oltre trent’anni, quasi per caso, di centinaia di candidati ai vari Concorsi di reclutamento nella Scuola di ogni ordine e grado, persino per Dirigenti scolastici. Tutti gli anni della giovinezza e dell’età matura. Una vita trascorsa sui libri e tra i libri. Chi l’avrebbe mai detto. Mai dire mai. Eppure a sedici anni avevo detto: MAI! E, invece, fu lunghissimo impegno vissuto con passione. SEMPRE! E tante parole ma anche tanto ascolto. Quanto importante l’ascolto!(lina secondo te… lina che mi consigli… lina ho dei problemi posso venire un po’ prima devo parlarti… lina mi spieghi di nuovo questi appunti… lina ho il cuore gonfio… parliamone…

perché non metti sulla porta “succursale del centro di ascolto” per cuori infranti per coppie in crisi per donne in preda alla solitudine alla dispersione d’identità alle prese con il caos dei tanti appunti da scrivere e studiare dei libri da consultare degli anta alle porte del tempo che avanza e la beltà cancella?… Primo ironico sornione irridente…).

Io da anni insegnante. Io insegnante? Sì. Insegnante. Chi l’avrebbe mai detto? Grazie a mio nonno, mio antico e ottimo maestro di ascolto e di vita? A “rə sflamamìndə” (ai rimproveri a gran voce di nonna Angelina? Al mio arrendermi a “fare di necessità virtù”? Non mi so rispondere. Sta di fatto che nella mia vita non ho mai scelto quello che avrei fatto, sarei diventata. Tutto mi è capitato per caso, sollecitato magari dagli altri. Non lo so. Mi è capitato. Senza mai un’ambizione, una determinazione, una motivazione a diventare, a fare… So che ho insegnato per oltre ventitré anni, andando però presto in pensione per via di una prima caduta e del femore spezzato per la prima volta, che non fu l’ultima. Esperienze devastanti che non amo ricordare. Io insegnante, dunque, senza mai averlo voluto. Anzi! Con un certo disagio nella scuola elementare per via di materie che non amavo e di competenze didattiche che non possedevo. E più tardi docente di lettere nella scuola media con un respiro più mio in nuovi percorsi didattici e in nuovi ambienti di lavoro. Nuovi incontri. Nuove sintonie e distonie. Nuove colleghe e amiche di viaggi brevi e di confidenze lunghe, con risate a propiziarci ogni rinnovato giorno da vivere insieme con i nostri alunni, da accogliere in classi di speranze e difficoltà e da lasciare andare al suono della campanella. Uno sciamare di rondini all’incontrario. E il mio paziente raccogliere, questo sì, gli appena abbozzati sogni e gli scarsi progetti di vita di tanti preadolescenti per arricchirli di conoscenze e di speranze. Con empatia e dolcezza. Con il dovuto ascolto per scoprire piccoli talenti e grandi bisogni in attesa di aiuto. Per “star bene insieme a scuola”.

  E descolasticizzare la sempre odiata istituzione  

Condivisioni e confronti con colleghe/amiche con cui vivere la gioia/fatica quotidiana di educare, insegnando, e di imparare contemporaneamente. Battute da inventare con i dirigenti scolastici per ogni possibile ritardo ed evitare a me e alle altre un richiamo con le parole e un rimprovero nello sguardo. Nicchie di buonumore a propiziarci ogni nuovo giorno di intenso impegno formativo. Responsabilità e progetti per allargare orizzonti e dilatare esperienze conoscitive ed esistenziali

(professore’, non verranno mai i miei genitori a parlare con te è inutile che insisti rassegnati sono io il padre e la madre di me stesso…)

(Professore’ cùssə jè fìgghjəmə tu dògghə mòuə e mu vénghə a pəgghià chə la ləcènzə tra tre jànnə nàn tènghə tìmbə da pèrdə chə la scòlə e chə rə prəfəssùrə…)

(professore’ questo è mio figlio te lo lascio adesso e me lo vengo a riprendere con la licenza fra tre anni io non ho tempo da perdere con la scuola e con i professori…)

Amare lezioni di spicciola filosofia da imparare dagli ultimi. E rincuoranti confronti con i primi della classe. Anche loro con problemi, di altra natura certo, ma da ascoltare, da seguire, da guidare nei loro voli, nelle loro urgenze E i tanti alunni con disagi relazionali, linguistici, affettivi, comunicativi. E Domenico, padre di sé stesso, e Cassandra, orfana di madre e già matura con una nonna da accudire. E Valeria, bravissima a cimentarsi anche lei con testi poetici, ma anche lei con una enorme pena nel cuore. E Barbara, sua compagna di banco, altrettanto brava e altrettanto attenta. E Giacomo e Cesare a primeggiare per volare lontano…  Me li porto tutti nel cuore, senza fare distinzione alcuna, se non quella della urgenza della mia presenza, accogliente e attenta ad ogni loro disagio, nei giorni vissuti insieme. E anni lunghi vissuti nelle varie strutture scolastiche nei paesi più vicini al mio paese, dove non mi andava di insegnare, per intuibili motivi che è superfluo raccontare. Ma sempre con Parole da dire e da ascoltare e correggere e valutare a scuola e a casa. Parole con gli alunni, con gli insegnanti, con i Capi d’Istituto, con le famiglie. Con i genitori che venivano subito da me chiamati per “stringere un patto di alleanza" sui programmi da seguire insieme, sulle insolite metodologie che avevo in cuore di adottare, sulle valutazioni da fare in comune e persino le autovalutazioni da vivere a coronamento, nel bene e nel male, di ogni anno scolastico".

C’è un tempo per capire,

un tempo per scegliere,

un altro per decidere.

C’è un tempo che abbiamo vissuto,

l’altro che abbiamo perso

e un tempo che ci attende.

(Lucio Anneo Seneca)

Sì c’è un tempo per ogni nostra esperienza di vita. Un tempo per insegnare e un tempo per imparare? No. Un tempo per insegnare e imparare insieme! Se accadesse contemporaneamente, vinceremmo la più grande battaglia contro l’ignoranza e la diffidenza; contro la presunzione di chi crede di sapere e l’umiliazione di chi pensa di non sapere e si rifiuta di imparare… ce lo ha insegnato proprio Seneca circa duemila anni fa e non abbiamo ancora imparato la sua preziosa lezione: Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt. (Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore e accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché gli uomini, mentre insegnano, imparano).

C’è un tempo per vincere e un tempo per perdere; un tempo per ricominciare, per incontrare gli altri e per incontrare sé stessi. Un tempo per amare ed essere folli d’amore oltre ogni dire. E un tempo in cui quei ricordi sono sorgente di vita più che di rimpianti. Ma è sempre, in ogni tempo, tempo di parole. Per comunicare. Per esprimersi. Per ascoltarsi. Anche i silenzi parlano a quelli che sanno ascoltarli. E anche con i figli c’è stato il tempo delle parole oltre al tempo dei silenzi. E nuovi ricordi mi illuminano il cuore. E non importa se li ripropongo ancora.

         Le parole… I figli…

Fiori sbocciati e non attesi e subito da me amati, subito protetti da ogni incertezza e sofferenza e subito lasciati ad ogni incertezza e sofferenza. Uno dopo l’altro: Raffaella a restituirmi risate e parole. Ancora oggi lei sa vestire le parole con ricami di sorriso e di luce. Ombretta, che ebbe fretta di nascere perché io potessi sapere del suo lungo pianto e delle sue risa di ciliegi incantati ad ogni primavera del suo cuore. Con parole inventate, arrangiate, distorte, cantilenate. Giuliano a donarmi la felicità nella frazione di un attimo: il suo affacciarsi al mondo. Il mio bimbo di sorrisi in un dilagare di giorni che speravo più sereni. E il suo tornare a casa con sempre un racconto strampalato da inventare per sorprenderci o farci preoccupare. Una fantasia indomabile di parole la sua conquista di libertà. Daniela, “la mia appendice che rischia di diventare appendicite con pericolo di peritonite”, come le ripetevo per il suo essere legata a me a doppia mandata, e ai miei biondi capelli che le regalavano “fiumi di parole tra noi” (I Jalisse) (perché io non ho i capelli biondi? li voglio biondi come ce li hai tu a furia di lavarli e pettinarli devono diventare biondi… anch’io da bambina li avevo castani poi con la polverina magica diventarono di sole e spighe di grano… li voglio pure io… quando diventerai grande… li voglio adesso…). 

Figli come ciliegie da mangiare a ciuffi a manciate. L’una tira l’altra. E letterine da insegnare a tutti prima che la scuola bloccasse la loro gioia d’imparare (a come Avventura/ b come Bravura/ c come il Cestino della frutta e la verdura/ d come Diamante/ e come Elefante… f come Farfalla che nel prato prenderò…). In intervalli di complicità e fatica, una nuova scintilla di vita sotto il mio cuore e un aborto oltre il quarto mese e un nuovo dolore da ingoiare con labbra mute. Esperienza lacerante con l’anima in frantumi da ricomporre ancora e ancora. Un altro bimbo a ricordarmi lacrime perdute in fondo al pozzo di una luna bizzarra e prigioniera. E parole da dedicargli e ninnenanne da cantargli in silenzio solo in silenzio. Non ho saputo mai urlare il dolore.

Ma i figli che crescono e si crescono senza una regola certa da seguire. “Che dite se oggi non andiamo a scuola?”, io seduta in cucina dopo la colazione a invogliarli a rimanere a casa, e i loro occhi increduli ad interrogarmi ed io incredula a registrare la loro voglia di andare, e il loro senso innato del dovere a chiamarli nonostante le tenere persuasive parole materne a trasgredire, e io a perdermi nella loro incredulità. Quella voglia di non andare a scuola era la nostra bandiera di descolarizzatori, mia e di Primo, issata sul pennone della nostra navepirata sempre in viaggio tra mille flutti e marosi, in mattine di pioggia o di neve, ma anche in azzurre giornate di sole (che dite? ce ne andiamo in campagna a vedere i ciliegi in fiore? conosco un campo che conosce i passi ridenti della mia infanzia…). Non avevo mai amato la scuola sin da bambina, e non l’ho amata neppure da insegnante amando, quasi più dei miei stessi figli, gli alunni; rovistando, soprattutto negli occhi dei più ribelli, dei più timidi, dei più lenti e svogliati, le loro difficili, amare, improponibili storie. Invogliando i più diseredati a recitare meglio dei più preparati le drammatizzazioni e le rappresentazioni teatrali che imbastivo durante l’anno scolastico soprattutto per loro: la loro e la mia rivincita in una scuola che li voleva perdenti e sconfitti. Che mi avrebbe voluto perdente e sconfitta senza riuscirci mai (‘non mollare mai non mollare di fronte alla regola… a due più due che deve dare quattro mentre per te è sempre più di nove… non mollare di fronte alla banalità di uno studio mnemonico di una lettura consigliata e non vissuta… di una grammatica o sintassi studiata sui libri e dimenticata nei testi da leggere e da scrivere… di una interrogazione che non ha senso se non ami quello che ti chiedono di dire’…).

E anche per oggi va bene così. Ma non demordo. Tra poco sarò ancora con voi e la mia detestata/amata scuola e il mio detestato/amato ruolo/compito di insegnante. Buona lettura. Angela/Lina

mercoledì 20 marzo 2024

Mercoledì 20 marzo 2024: Giornata Mondiale della Felicità: riconosciamola lungo i prati di questa nuova primavera...

   … Per il mattino che ci dà l’illusione di un principio

           (Jorge Luis Borges, Altra poesia dei doni)

           “Se incontrarsi resta una magia,

            è non perdersi la vera favola

            (Massimo Gramellini)

Oggi è la Giornata Mondiale della Felicità. Ed io augurerei un “pizzico” di felicità a tutti nel mondo, se non fossi consapevole di questi giorni bui e difficili in tutto il nostro Pianeta, che stiamo distruggendo con le nostre stesse mani in nome del dio-denaro che ottenebra orai mente e cuore di chi regge le sorti delle “umane genti”. Eppure sono convinta che un “pizzico di felicità” esiste per tutti noi, altrimenti non avremmo neppure coniato la parola felicità. Fosse pure per un istante l’abbiamo incontrata, provata, vissuta. E poi dimenticata. Tentiamo allora, almeno oggi, di farla riaffiorare in qualche bel ricordo del passato. La felicità era più a portata di mano? Non credo, perché ogni epoca ha avuto le sue tempeste, ma anche i suoi arcobaleni, altrimenti l’umanità si sarebbe estinta già agli albori delle sue prime aurore. Ed ecco i miei ricordi che si vestono anche di felicità.

*Quando tornai a casa per iscrivermi all’Università, ritrovai le mie amiche di sempre e solo pochi amici.

Ci eravamo iscritti entrambi, io e Primo, alla Facoltà di Lingue: lui per passione, io solo per seguirlo. Ancora una volta da perfetta incosciente, avendo piena consapevolezza che le lingue non riuscivo a masticarle affatto. Ero decisamente negata, non tanto nella traduzione, quanto nella lettura e nella comunicazione orale. Mai avrei imparato a pronunciare una sola parola straniera correttamente. E ancora oggi mi accade. (Così come non sono riuscita mai ad imparare i dialetti dei vari paesi abitati.  Per le lingue ci vuole un orecchio speciale tranne che per la lingua materna, che ci penetra dentro profondamente sin dai nostri primi giorni di vita e mai si cancella. E si ripropone in ogni situazione viscerale di disagio, di crisi, di gioia, di dolore).

Fu un anno senza mai partecipare ad una sola lezione, paghi soltanto di essere insieme.

Incoscienti e felici. Immemori e felici. Appassionati e felici.

Corso Trieste. Lunghe giornate a chiacchierare nella saletta degli studenti, dietro i vetri e con i libri mai sfogliati. Passeggiate romantiche sul lungomare, infaticabili camminatori noi in gara con i gabbiani. Corso Cavour: e i panzerotti al Bar Italia, i gelati al Bar Gasperini, il caffè alla Motta. Lunghe incursioni all’UPIM e alla STANDA. I regalini da quattro soldi e la felicità nelle tasche vuote. Altri attimi di gloria e di euforia per essere stata eletta miss matricola. Ancora una volta la bellezza a incoronarmi regina. Esaltazioni in due. E danze e voli e ricami di voli e sogni. E progetti…

Poi, il Concorso di Primo l’anno successivo e il suo impiego nella scuola come il più giovane maestro d’Italia. Io non vi avevo partecipato. Sapevo con certezza che non volevo fare l’insegnante. Soprattutto nella scuola elementare. Ma fui contenta della sua scelta e del suo successo. La mia corsa, la mattina dell’assegnazione della prima sede d’insegnamento, sotto un temporale spaventoso, per raggiungerlo in Provveditorato, dove c’era anche suo padre. Portai con me due bicchieri di carta e una bottiglietta d’acqua per brindare (… “brindisi coi bicchieri colmi d’acqua/ al nostro amore povero e innocente”…)*.

<Lo raggiunsi che ero la cascata del Niagara (il papà di Primo si preoccupò e mi rimproverò bonariamente), ma io rimasi bagnata fradicia fino al mio ritorno a casa, la sera.  Tu ti allarmasti e mi guardasti a lungo in silenzio. Il nonno della pioggia ebbe paura della pioggia e imprecò contro l’incoscienza della giovinezza. Rimasi a lungo a letto con febbre e raffreddore. E senza Primo, che dovette presentarsi a scuola e poi ripartire con suo padre in attesa dell’inizio dell’anno scolastico. Il primo ottobre.

Mi avevano iscritto, intanto, contro il mio volere, alla Facoltà di Lettere, previo esame di ammissione, essendo a numero chiuso. Dato che, secondo il vostro parere, avevo sprecato inutilmente un anno, che, a mio parere, avevo vissuto in una pienezza perfetta di momenti irripetibili e meravigliosi. Cercai in tutti i modi di non sostenere l’esame, ma Lizia e Pinuccio, che nel frattempo era diventato il suo ragazzo, mi accompagnarono fino dentro l’Ateneo e, mio malgrado, dovetti svolgere negligentemente un tema su Pascoli e D’Annunzio (ce la misi tutta per farmi bocciare, improvvisando una mia discutibile argomentazione sul valore immaginifico della poetica dannunziana contro la semplicità puerile di quella pascoliana, l’esatto opposto della tesi sostenuta dal noto professore salentino, docente di Lingua e Letteratura Italiana nel nostro Ateneo, in un suo saggio monografico appena pubblicato e da me ignorato!).

Come ben sai, mio malgrado e con grande sorpresa, risultai tredicesima su oltre duemila concorrenti per sole trecento iscrizioni, per cui dovetti accettare di cambiare Facoltà e Sede e soprattutto di separarmi, ancora una volta, da Primo.

Cosa mai avrò scritto di così convincente da farmi superare con quella valutazione un esame così selettivo? Non me lo sono mai più chiesto dopo la telefonata che ricevetti da Peppino tuo nipote che, essendo stato il primo cospiratore e fautore della mia iscrizione all’esame di ammissione alla Facoltà di Materie Letterarie, che lui riteneva più consona alle mie capacità e inclinazioni, era andato per curiosità all’Ateneo a rendersi conto di persona dei risultati. Da me intenzionalmente ignorati. Mi comunicò l’ammissione e il voto con grandi esclamazioni di giubilo, gettandomi nella disperazione più nera al pensiero di dover abbandonare la mia postazione nella saletta degli studenti di via Trieste per trasferirmi sola soletta all’Ateneo. Dove, mio malgrado, cominciai a frequentare i vari Istituti del terzo piano con grande riluttanza e propositi di fuga. E, lasciata a me stessa, mi imbarcai in un periodo alquanto ingarbugliato della mia vita. Arrivavo sistematicamente in ritardo alle lezioni o le saltavo del tutto, non individuando per tempo l’aula o andandomene in giro per negozi in via Sparano.  Voi, tu e la nonna, eravate ora fieri di me. Finalmente avevo imboccato la strada giusta. In realtà, dopo solo qualche mese commisi la prima imperdonabile gaffe: scambiai un giovane assistente per uno studente e, chiedendogli il programma d’esame che avrei dovuto sostenere due giorni dopo, gli dissi che non avevo ancora aperto libro. Ridemmo insieme. Il giorno dell’esame, me lo ritrovai, ed era il mio primo esame, in cattedra, pronto ad interrogarmi, avendo entrambi negli occhi il nostro piccolo grande segreto. Conseguente batticuore e voglia di scappare via. Lizia mi spinse verso la cattedra non appena venne pronunciato il mio nome. E, mentre lui si stava divertendo un sacco nel vedermi così sconvolta e avvilita, cominciai ad avvertire sotto i piedi le sabbie mobili in cui avrei voluto sprofondare. Per inciso, il professore si divertì come non mai a mettermi in difficoltà con le sue domande, ma alla fine inaugurò con un trenta il libretto, sollecitandomi ironicamente a continuare a studiare così come avevo fatto per quel primo esame. Con già la immeritata corona d’alloro sulla testa e tra i pensieri i mille applausi di osanna a me stessa, tornai a casa, dove tu e la nonna stavate ad aspettarmi con tanta ansia nel cuore e tanto orgoglio nello sguardo (...). 

Dopo quelle due belle affermazioni, però, cominciai a pensare per davvero di dovermi mettere di buzzo buono a studiare per non rischiare altre brutte figure, patemi d’animo, qualche probabile bocciatura e la perdita di un altro anno senza un briciolo di responsabilità e di amor proprio. (Negli anni, mi è capitato spesso di pensare all’onestà intellettuale del professore, Presidente di Commissione d’esame, nel rispettare la sgangherata tesi di una oscura studentessa, che probabilmente lo aveva convinto solo perché era riuscita ad argomentare il suo assurdo assunto in maniera insolita e forse un tantino poetica come a me piaceva fare). Gratificata, comunque, da quell’insperato e non desiderato apprezzamento, sentii dentro una insolita consapevolezza delle lacune accumulate: un pozzo senza fondo da riempire. Non era più tempo ormai di fiabe e di fanfaluche, ma tempo di impegno sistematico e attento. E anche tu e la nonna scopriste ben presto una Lina più responsabile e impegnata nello studio. Vi sembrò un miracolo. Da addebitare questa volta a san Giuseppe da Copertino, il protettore degli studenti. Il santo che volava. E mi stava anche bene. Pure io continuavo a librarmi in volo con la fantasia e non avrei smesso mai. Ma ora stavo imparando a fare i conti anche con la realtà che, però, nella sua ferocia imprevista e improvvisa mi avrebbe nuovamente schiacciata di lì a poco, impedendomi nuovamente di studiare, sostenere esami, vivere serenamente i miei vent’anni>.

*Per un aneurisma morì, nello spazio di un giorno appena, una mia cara compagna di scuola. Fu per me un trauma indicibile. Si ripropose il terrore della morte con tutte le sue derivazioni (nel senso letterale di andare alla deriva) psicosomatiche*.

<Somatizzai quell’aneurisma con sudorazioni, tremori, tachicardia, senso di soffocamento e terribili mal di testa che m’impedirono, per due anni, di aprire un libro, leggere una sola riga. Tu mi guardavi preoccupato e infelice, non sapendo come fare per alleviare la mia pena. Ti vennero meno persino battute e narrazioni. Non un solo racconto. Saltarono tutti i miei buoni propositi di colmare le enormi voragini conoscitive che ben mi rodevano dentro. Niente studio. Niente esami. Niente voglia e capacità di vivere, di organizzare il mio tempo. Tu non mi rimproverasti mai. E neppure la nonna lo fece. Entrambi aspettaste tempi migliori, preoccupati solo dei miei affanni. Delle mie paure. Degli attacchi di panico improvvisi e devastanti. Non ricordo più come ne venni fuori. Forse la giovinezza mi aiutò con la sua imperiosa voce. Forse il mio amore per Primo. Forse le vostre silenziose e amorevoli cure. Certo, pian piano, riemersi da quel profondo pozzo di sofferenza, che lo scrittore Giuseppe Berto definì, un paio di anni dopo, in un suo libro famoso, “Il male oscuro”. Dopo circa due anni di costante malessere, tornai alla luce.

Quelli, comunque, furono sicuramente ancora anni di tenerezze da parte tua, così rare in tempi ancora oscuri di autoritarismi e severità destabilizzanti per chi come me o Pino rivelava più che mai fremiti di sogni e di anarchia. (…). Fosti tu più che la nonna, ancora una volta, quella fonte di tenerezza e protezione, a cui la mia anima anelava, mai paga di dare e ricevere amore. (…) Una sera, ricordi?, prima che precipitassi nel tunnel della depressione per la morte della mia amica, ero seduta jìndə a la chəcənéddə” (nella piccola cucina) che avevamo nel cortile, proprio accanto al grande camino all’aperto, con i piedi appoggiati sul portabraciere di legno rotondo, dove eravamo soliti riscaldarci, insieme, al calore dei carboni accesi, che tu ti premuravi costantemente di portare dal camino, e stavo studiando per un esame che avrei dovuto sostenere qualche giorno dopo. Erano trascorse alcune ore da quando avevo cominciato e mi sentivo molto stanca. Il forte mal di testa mi costrinse ad alzarmi per cercare una pillola, ma non riuscii a farlo. Mi piegai sulle ginocchia in un nero profondo e sarei crollata sul braciere acceso se tu non fossi stato fulmineo nell’afferrarmi. Mi ritrovai alcuni minuti dopo nel mio letto con un fazzoletto bagnato sulla fronte. Mi dissero poi che eri stato tu a portarmi dalla cucina in casa, nella nostra cameretta (mia e di Lizia) e nel nostro letto, attraversando tutto il cortile con me in braccio. Sì, ero un fuscello, ma pesavo pur sempre quanto un sacco di olive pieno a metà. Ed ero inerte. E tu avevi ottant’anni.

                                            Miracolo dell’amore

che si è rinnovato negli anni ogni volta che ho avuto bisogno di aiuto. Ogni volta che un buco nero mi risucchiava. Ti sognavo. Ti sogno ancora. Sempre. E mi afferri e mi porti in salvo. Sempre. Miracolo dell’amore. Miracolo in cui credo. E che mi sostiene. E ora vedo che mi sorridi e, sospirando, annuisci. (…). 

Mi dividevo ormai tra due paesi a me cari, tra due case che da una parte mi colmavano di te e, dall’altra, di mamma e degli altri miei fratelli. Da una parte, i tuoi campi, di cui via via ti liberavi perché non eri più in grado di seguirli e, dall’altra, il mare nelle cui acque dimenticavo ogni senso di costrizione. Da una parte, lo studio (stavo scoprendo finalmente che mi piaceva studiare e conoscere nuove realtà passate e presenti con uno sguardo attento al futuro), e le lezioni private (per non pesare economicamente su di voi: cominciai a diciannove anni e non ho smesso ancora); dall’altra, le chiacchierate con mamma, le confidenze e le complicità con Anna Maria, che rivelava sempre più uno spirito intraprendente e battagliero…>

*Avevo ancora le mie paure e i miei ardimenti. E avevo i miei idoli: letterari, canori, televisivi, cinematografici, teatrali. Italiani e stranieri. Il cui elenco sarebbe la coda di una cometa persa nello spazio. Ho letto tanto in quegli anni. Mi piaceva leggere. E in ogni eroina trovavo parte di me. Gli scrittori e i poeti russi in primis. E quelli americani. E i francesi. Gli italiani, famosi in quegli anni di grandi autori e grandi pensatori. Un po’ tutti di sinistra. Con alcune eccezioni, vedi Pitigrilli, che mi catturavano per la bellezza dello stile più che per la profondità sociale, civile o storico-politico-culturale dei contenuti delle loro opere. Poi, i giornalisti e le grandi testate. Montanelli, Biagi, Cervi, Giorgio Bocca, Guareschi, Vittorio G. Rossi. Adoravo quest’ultimo e divoravo i suoi scritti.

E la televisione. Che ormai ci portava parte del mondo in casa. Storie di amori da copertina. Maria Callas e Aristotele Onassis. Fausto Coppi e la Dama Bianca. Edoardo VIII e Wallis Simpson: lui, divenuto poi semplicemente Duca di Windsor, dopo la sua abdicazione al trono per amore di lei perché pluridivorziata.

E tutte le storie e le follie dei divi di Hollywood e nostrani che ci facevano sognare in quei primi anni della seconda metà del Novecento…

E, nei primi anni Sessanta, Kennedy e Marilyn e la curiosità per il loro controverso rapporto e il dolore per la loro morte, prematura e crudele.

(E i poeti della Beat Generation e gli scrittori americani e la loro vita da romanzo tra follie amorose, alcol, droghe, avventure “on the road”, e i primi approcci con le filosofie orientali, la poesia zen, il mondo sconosciuto e fascinoso delle fiabe indiane e tibetane, ma anche di alcune fiabe pugliesi che mio nonno conoscevi molto bene e di cui faceva tesoro nel raccontarcele.

E, intanto, io e Primo facevamo progetti per un futuro insieme con la superficialità della nostra giovinezza.

C’era, però, uno sguardo nuovo a guardare il mondo: più attento e consapevole. Più critico e agguerrito contro una società da cambiare e da rimodellare sulla falsariga di una civiltà che si andava tecnologizzando rapidamente, omologando lingue, comportamenti, aspirazioni. I jeans resero persino democratico il modo di vestire degli operai e dei menager, dei ragazzi e degli adulti. Le differenze sociali si assottigliavano sempre più. E noi due ci adeguavamo volentieri, sempre ribelli anche se meno incoscienti. Sempre innamorati e sempre determinati a regalarci scampoli di felicità*

Alla prossima, ma vi lascio con alcuni versi che mi cantano nel cuore perché domani è primavera ed è la Giornata Mondiale della Poesia. E il compleanno della mia Poesia più bella: Anna Paola.           

         La felicità è dentro di te.

Quindi rompi le catene del tuo cuore

 e lascia che tu diventi il dolce fiore che sei.

 Conosco la soluzione: basta aprire le ali

 e metterti in condizione di essere libera.

 (Lettera di Jimi Hendrix alla sua bambina) 

lunedì 18 marzo 2024

Lunedì 18 marzo 2024: ROMA - PREMIO "IL GIORNO DOPO DONNA TUTTO L' ANNO"...

PER ALDO MORO, PER LA SUA SCORTA, PER UN’INDETERMINATA GENERAZIONE. PER IL FUTURO CHE NON È PIÙ LO STESSO del poeta Mauro Contini. Uno stralcio della sua poesia in memoria: …    Mi sommerge/ la straniera tenerezza delle tue parole,/ quelle scritte, quelle costrette/ nella dimora del mutismo,/ le sapevi ultime,/ fanno breccia nel battito/ attraversato dal tempo/ della tua irraggiungibile prigionia,/ paralisi di un popolo/ non pronto alla comune perdizione…

Mi sembra più che doveroso ricordare.

Intanto, da due giorni sono a casa, con ancora nel cuore il tumulto delle emozioni vissute nella Sala Girolamo Mechelli del Consiglio Regionale del Lazio, Via della Pisana, 1301 - Roma.

Desidero subito dire che l’Immagine del Manifesto, che contiene i nomi delle 11 Donne premiate, mi ricorda Chagall e i suoi dipinti in volo, in un mondo di azzurro e di luce a illuminare il giorno. Per tutte noi, “IL GIORNO DOPO”. Le premiate: Cristina Aurigemma per la Medicina, Chiara Castellani per il Volontariato, Paola Cervelli per il Giornalismo, Angela De Leo per la Letteratura, Sandra Di Blasio per il Sindacato, Veronica Fernandes per il Giornalismo, Ornella Laneri per l’Imprenditoria, Marisa Leo (alla memoria) per l’Imprenditoria, Carmina Mancino per la Pubblica Amministrazione, Luciana Montanino per la Legalità, Giorgia Venerandi per l’Associazionismo. Con il Patrocinio della Presidenza del Consiglio Regionale del Lazio, Confintesa, Oreste Berlucci, FMPI.

Questi i dati ufficiali. Con tutte le biografie delle premiate. Ma io vorrei andare oltre per giungere ai volti e al cuore di tutti i coinvolti in questa straordinaria Manifestazione, nel senso proprio di “fuori dall’ordinario”, dal quotidiano, dalla routine a volte banale e scontata di tutti i giorni.

Importanti, oltre al Presidente del Consiglio Regionale Onorevole Antonello Aurigemma, anche e soprattutto i volti e i nomi dei componenti il Comitato d’Onore: Francesco Prudenzano, Segretario generale di Confintesa, Antonella Terranova, Presidente di FMPI, Adalberto Bertucci, Presidente dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Roma, Massimo Flaccomio e Massimo Visconti, che hanno selezionato con cura le 11 figure femminili di spicco, rappresentanti dell’eccellenza nei rispettivi campi.

Ma il mattatore dell’intera Manifestazione è stato senza ombra di dubbio Massimo Visconti che non si è risparmiato un solo istante nel presentare il curriculum di ogni Donna premiata, offrire i bellissimi bouquet di fiori freschi a ciascuna, porre le domande per meglio focalizzarne l’individuale percorso professionale e umano, donando la preziosa Scultura, opera dell’Artista Federica Pepe e l’importante Attestato con le motivazioni del Premio.

Massimo Visconti ha elogiato il talento, il coraggio, la dedizione di ciascuna al proprio lavoro; l‘impegno costante rivolto alla valorizzazione dei giovani che dovranno costruire un futuro più giusto, solidale, inclusivo per tutti. Bellissima la sua testimonianza nel definire noi Donne, a partire da quelle premiate nelle precedenti tre edizioni, “esempi di talento, passione, ispirazione per contribuire alla crescita sociale, culturale e professionale del nostro Paese” (vedi anche Mario Sicolo Direttore del quotidiano online <daBitonto>, 14 marzo 2024).

Fuori dalle rigide regole istituzionali il gesto amoroso di portare un bouchet di fiori alla sua compagna di vita, signora Emanuela, che era lì a sostenerlo, a incoraggiarlo, a prendersi cura di lui, che si prendeva cura di tutte noi.

Per tutto questo il mio grazie speciale va proprio a Massimo Visconti, e soprattutto per avermi permesso, con le sue domande e il suo calore umano, umile e sincero, di raccogliere le tante storie narrate dalle protagoniste, le loro voci, importantissime per me che amo penetrare più nel non detto che nell’esplicitato, al fine di cogliervi verità lasciate in sospensione di giudizio, come in questi casi spesso accade. Ma anche le tante parole, che hanno creato un vero incontro persino nella contraddizione delle diverse espressioni. E le contraddizioni, come afferma Simone Weil, sono alla base di ogni conoscenza logica e ontologica, che ci permette persino di sfiorare il divino. Voci e volti e occhi e gesti che hanno raccontato le tante storie, sottese a una costante violenza, insita probabilmente nella mente umana che improvvisamente esplode devastando il cuore di chi ne rimane vittima. Storie drammatiche o anche tragiche, storie che, come matriosche, si sono aperte o dischiuse o moltiplicate per favorirne la conoscenza, la comprensione, la condivisione.

Qual è il contrario di “violenza”? è stato chiesto. Una risposta molto significativa è stata appunto: “la condivisione”. Ebbene, io, pur “condividendo”, ho scelto la parola “ascolto” perché non possiamo condividere qualsiasi cosa se prima non ascoltiamo le motivazioni di chi si appresta a farla. Si tratta, però, di un ascolto vero, nel senso di “sentire” l’altro o gli altri, andando oltre il nostro ascoltarci, cosa che ci riesce molto più facile e naturale. Se si dovesse dire, infatti, a qualsiasi interlocutore “quest’anno ho avuto purtroppo seri problemi di salute, difficilmente ci sentiremmo rispondere “mi dispiace molto, come è andata? Raccontami”. Molto più spesso sentiremo di rimando: “Sapessi come sono stata male io” e bla bla bla…

Occorre, in realtà, superare il nostro perdurante egocentrismo per incontrare, veramente con amore e disponibilità all’ascolto, l’altro/gli altri. Il “sentire gli altri” include il “sentimento”: entrambe le parole, a ben guardare, hanno lo stesso etimo, ed esprimono Amore per le storie delle Persone, affinché l’IO si trasformi realmente in NOI. Ciò significa, come afferma in una sua poesia Giuseppe Selvaggi, altro mio amico e autore SECOP, fare “spazio” sinceramente ai nostri interlocutori, dedicando loro anche il nostro “tempo”. Ciò significa “prendersi cura”. Il prendersi cura, infatti, ha bisogno di tempo e di spazio. Non può risolversi in un breve incontro.

Di qui l’importanza, venerdì mattina, delle tante storie narrate e ascoltate con amore, fatte mie per depositarle nello “scrigno del cuore”, dove nulla è dimenticanza… Ma non per tenerle lì prigioniere, semmai per rivitalizzarle all’occorrenza e farle rifiorire con naturalezza al tempo giusto come i prati della nostra eterna primavera, della nostra anima che non conosce confini. Come l’alba della nostra vita, quando avevamo occhi vergini per scoprire il mondo. Non è necessario, dicevo venerdì, spostarsi da un luogo all’altro del nostro pianeta per scoprire qualcosa di nuovo e di diverso; è necessario, aggiungo oggi, avere gli “occhi verdi” della creatività, della fantasia, dell’immaginazione per ancorarsi all’“Infinito” di leopardiana memoria: Ma sedendo e mirando, interminati/ spazi di là da quella, e sovrumani/ silenzi, e profondissima quiete/ io nel pensier mi fingo; ove per poco/ il cor  non si spaura...

L’ignoto ci spaventa sempre, ma ci spinge anche ad osare, ad andare oltre, in un “altrove di noi”, dove è più facile incontrare la Poesia. Mi piace riportare, a questo proposito, alcune riflessioni, sollecitate dalle domande di Massimo Visconti su Scrittori famosi e visionari che, pur non muovendosi mai dalla propria casa o dal proprio ufficio, come Emilio Salgàri e Fernando Pessoa, hanno usato la loro immensa fantasia (Pessoa era semplicemente un contabile eppure…), per incantarci con le loro storie immaginate in Paesi lontani mai visitati. Pessoa addirittura usa gli eteronomi per vivere le mille vite mai vissute. Per non parlare delle sue imprevedibili poesie, che racchiudono il senso filosofico e poetico della vita e della morte. Di Poesia è impregnata, dunque, la nostra vita, occorre solo saperla riconoscere. Venerdì mattina l’ho incontrata dappertutto e soprattutto tra le domande di Massimo Visconti, nello sguardo attento e commosso del mio carissimo amico, saggista e archivista di larga fama, soprattutto per quanto riguarda i suoi numerosi e apprezzati libri sul Brigantaggio meridionale, le Brigantesse e tanti altri saggi sui grandi Autori pugliesi, come Gaetano Salvemini. Parlo di Valentino Romano. E che dire di Milica Ostojic, la meravigliosa Giornalista serba Copywriter LINK Group che fa parte dell’Associazione Stampa Estera, anche lei presente nella splendida Sala Mechelli? Mi ha fatto una lunga e molto amorevole intervista, standomi vicino con grande professionalità e tantissimo amore. Fra una settimana l’intervista farà il giro del mondo per fermarsi tra le mie mani. Grazie, mia amatissima Milica.

Ma, appena tornata a casa, ho nuovamente incontrato la Poesia nelle parole delle mie figlie Daniela e Ombretta. Daniela Leone ha scritto: ‘Ascoltare è ciò che meglio si potrebbe contrapporre alla violenza’, queste le parole di mia madre. E ascoltare le storie altrui dona un nuovo senso all’esistenza. 11 storie per 11 vite altre. 11 donne straordinarie premiate per la loro straordinarietà. Mia madre tra queste. Oggi sono fiera e felice del riflesso che sono di lei. Oggi e sempre sono orgogliosa di lei e della vita che mi ha donato. Non vorrei essere altro rispetto a quello che sono. Conservo gelosamente la mia capacità di ascoltare, stupirmi e commuovermi ancora e sempre di fronte alla vita, con tutte le sue molteplici sfumature. Grazie a mia madre e a tutte le donne come lei, diverse da lei, ma con un’unica grande anima. Perché l’anima non ha sesso anche se coniata al femminile… Premio nazionale ‘Il giorno dopo: donna tutto l’anno’. Grazie Angela De Leo per tutto l’universo che sei e che ci dai, sempre. Ti amo tanto. Con cuoricino verde. E Ombretta Leone: Le giornate belle… quelle con la famiglia e la gioia e la commozione per il premio per la letteratura a mia madre Angela De Leo. Con tanti cuoricini, tante foto, tanti video. Ha fatto testimonianza diretta di tutta la superba manifestazione. E, ieri, l’ho scoperta di nuovo nelle parole di Anna Paola Piacente, la mia nipotina non più bambina ma con tante stelle ancora negli occhi: “Lei è una poetessa, complimenti!”. Così delle persone a noi estranee riconoscono e salutano mia nonna, all’uscita del Consiglio Regionale del Lazio, dopo la premiazione durante la manifestazione “Il giorno dopo: donna tutto l’anno”.  Sì, avete capito bene, mia nonna ha vinto un ulteriore premio per la letteratura incantando tutto il pubblico con la sua anima dolce come quella di un bambino e la capacità di stupirsi come chi guarda i “primi sorrisi dell’alba”. Io sono sempre più fiera di te e sarò sempre al tuo fianco, a volte anche dietro una macchina fotografica per poter immortalare le tue “parole” e nascondere più facilmente le lacrime di commozione. I love youuuuu. Con tanti cuoricini rossi e un piccolo girasole, che sta ad indicare figurativamente il nomignolo con cui mi chiamava suo nonno, Primo Leone, mio compagno di vita per oltre quarant’anni. Il tutto corredato da splendide foto che zumano il mio pianto commosso e irrefrenabile al momento della premiazione.

Ed è solo di ieri sera un commento di Besa Nuhi, che merita tutta la mia gratitudine e ammirazione perché denota una grandissima cultura e una straordinaria sensibilità poetica e artistica nel senso più ampio della parola. Besa Nuhi Mone, albanese, è molto giovane e molto bella; è Docente di Matematica e Fisica nei licei, mediatrice culturale e scrittrice, Docente anche nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Dipartimento di Matematica. Risiede in Puglia e vive proprio a Corato a due passi da casa mia. Lei scrive: In diversi eventi culturali ho ascoltato con profonda attenzione le parole di tua nonna, Angela. Se Angela pronuncia due parole, sicuramente ne ha dette tre. Mai ho udito ripetere le stesse frasi due volte, e mi chiedevo se fosse una sorgente inesauribile, un ruscello di parole cristalline che non cessano mai di scorrere. La gente ama l’arte visiva, come le fotografie artistiche o i dipinti dei grandi maestri che sembrano fissare momenti di vita e invece la animano. Tra l’opera d’arte e l’occhio c’è quasi sempre una distorsione. L’immagine dell’opera arriva all’occhio con qualche deformazione, dovuta alla presenza di questa o queste interferenze, e ciascuno la percepisce a modo suo. Se questo spazio si riempisse con le parole di Angela De Leo, allora l’angolo della distorsione scomparirebbe e la percezione raggiungerebbe il massimo livello, con tutte le sfumature dei colori e con tutte le luci e ombre dell’opera. Angela è capace di questo. Con grande ammirazione, le auguro una lunga vita di poesia.

Sono profondamente emozionata e commossa per queste sue indimenticabili parole e mi sento grata a lei e alla vita che mi ha permesso, alla mia età, finalmente di conoscerla per davvero! I miracoli accadono. Io ci credo fermamente per le tante vicissitudini da me vissute tra realtà e magia.

E questo mio riportare tante storie e testimonianze che riguardano soprattutto me non vuole essere un mettermi narcisisticamente in vetrina perché la vera vetrina è stata vissuta da tutte noi donne premiate nella Sala Girolamo Mechelli, su uno schermo gigante, con i flash dei tanti fotografi, alla presenza catturante di Agnese Moro che si è fatta portavoce di molteplici storie amare, difficili, edificanti: la perdita recente di una figlia meravigliosa in attesa di una bambina, sconfitta da una mano armata, che ha sconvolto la vita di due genitori affranti; la perdita di un marito amato ad opera di una band di ragazzacci senza scrupoli, che diventano motivo di salvezza e di rinascita per la moglie; la perdita di una madre uccisa per errore, circa trent’anni fa, e la figlioletta di pochissimi anni rimasta sola senza neppure riuscire a ricordare le sue carezze. Storie terribili di "perdite" dai risvolti imprevedibili eppure reali nella determinazione a migliorare il mondo attuale ancora così devastato da guerre e violenze di ogni genere. I miracoli accadono. Ci sono bacchette magiche dappertutto. Soprattutto nel nostro cuore. Tutto può accadere dietro l’angolo. Mai dire mai nella nostra quotidiana esperienza di vita, tanto da poter concludere con i versi di Albert Camus: Mia cara,/ nel bel mezzo dell’odio/ ho scoperto che vi era in me/ un invincibile amore./ Nel bel mezzo delle lacrime/ ho scoperto che vi era in me/ un invincibile sorriso./ Nel bel mezzo del caos/ ho scoperto che vi era in me/ un’invincibile tranquillità./ Ho compreso, infine, che nel bel mezzo dell’inverno/ ho scoperto che vi era in me un’invincibile estate./ E che ciò mi rende felice./ Perché afferma che non importa/ quanto duramente il mondo/ vada contro di me,/ in me c’è qualcosa di più forte,/ qualcosa di migliore/ che mi spinge subito indietro.

Perché tutte queste emozioni vissute in una sola mattinata si facciano “ascolto” del mio cuore per condividerle con quanti hanno la bontà di leggere le mie parole, che sempre scoprono in qualsiasi stagione “qualcosa di invincibile” per sperare in nuove carezze d’anima... Grazie a tutti.  Angela 

mercoledì 13 marzo 2024

Mercoledì 13 marzo 2024: SONO PASSATI TRE ANNI MA LE POESIE DI GIOVANNI GASTEL RIFIORISCONO D'ETERNA PRIMAVERA...

Non andare a piedi nudi sull’erba,

il mio giardino è pieno di schegge.

(Edith Sodergran)

Nell’esergo la sintesi di una vita all’insegna del sogno, trafitto dalla dura realtà quotidiana. Per comprendere meglio queste parole, occorre riportare altre parole, questa volta proprio di Giovanni Gastel, che si definisce “un sognatore”: La parola è per me Luce che è la carezza di Dio, che ci ha donato tanta armonia nel Creato: il giorno del plotone/ sia benda sopra gli occhi/ questa sconfinata bellezza… (dall’Antologia Il sentimento della scrittura della SECOP edizioni, 2021).

Sono passati tre anni, ma è come se fosse accaduto ieri.

<Mai avrei potuto immaginare, e lo dico con grande commozione, di dover cominciare questa premessa dalla fine, dopo il tuo volo improvviso verso la Luce da te tanto agognata e temuta. Ma mi conforta pensare che ogni fine contempla sempre un inizio che combacia con il tuo “eterno istante” che è un eterno presente.

Ho incontrato prima le poesie sulla tua Pagina fb. Non conoscevo niente di te, se non i tuoi versi così discorsivi, insoliti, veri. Spietati verso i limiti della tua personalità complicata in un mondo tanto complesso e disorientante: limiti evidenziati con coraggio e sincerità. Versi nuovi, spiazzanti: dialoganti e monologanti. Mi sorpresero e mi affascinarono. Cominciai a postare qualche commento rapidamente, non avendo il tempo neppure di fare una ricerca sul loro Autore. Solo quando mi sorpresero e affascinarono anche alcune tue foto sugli Angeli precipitati dal Paradiso terrestre sulla Terra, scoprii che eri un grande fotografo e volli saperne di più. Nascita, vita, miracoli. Mi aiutarono Google e Wikipedia. (…). In estrema sintesi un nobile signore dall’inconfutabile “sigillo” della creatività.

E qui mi sentii a disagio, quasi avessi commesso un atto sacrilego ad entrare nel mondo magico e dorato del nobile Giovanni Gastel, dandogli del tu come si fa con un amico. Ma erano stati i tuoi affettuosi rimandi ai miei commenti di “poetologa” a determinare sa subito, senza che me ne rendessi conto, un rapporto paritario tra noi. E, per mia buona pace, ben presto mi accorsi che il grande e irraggiungibile Giò era solito rispondere a tutti i suoi tantissimi lettori sempre con estremo garbo e affettuosa gratitudine. (…). Scoprii, infatti, che sin da ragazzino avevi manifestato amore per la Poesia, per il Teatro, la Scrittura, la Fotografia. Ragazzo prodigio, dunque, che a diciassette anni aveva già conservato nel cassetto il suo primo romanzo, con una scrittura sorprendentemente matura; aveva pubblicato i suoi primi versi densi di emozioni adolescenziali; si andava cimentando con entusiastico impegno in alcune opere teatrali; si appassionava alla fotografia fino a diventare il fotografo oggi conosciuto e apprezzato in tutto il mondo.

E, fino a ieri pomeriggio, 13 marzo 2021, sei stato sintesi di eleganza, raffinatezza, sensibilità, amore per i tuoi cari e per il prossimo: qualità estremamente rare ai nostri giorni. (…). Ma, nonostante questa meravigliosa armonia di eccelse virtù, tu, Giovanni Gastel, avevi una personalità così complessa e contraddittoria che sfuggiva a ogni definizione perché eternamente cangiante, sorprendente. Ma erano forse proprio queste peculiarità a renderti così affascinante e amabile, amato.  

Come uno sbandato cane

in cerca di pace

ho girato il mondo.

Molti cuori

hanno accompagnato

a tratti il mio cammino.

Quasi questa mia malinconia

fosse una calamita

e i miei occhi uno specchio

in cui ritrovarsi.

Non ho molto da lasciarvi

amici cari

qualche fotografia

qualche poesia…

L’eredità di un sognatore

cascato in un mondo che fa fatica a capire.

Milano 2020

Ecco perché tutte le tue Opere servono a darci di te, ancora oggi, un’idea veritiera e sempre apparente perché l’Artista guizza continuamente tra l’essere e il non essere. Ossimoro di te stesso sempre, nella tua assoluta verità.

Approdato come un naufrago in terra

Sconosciuta, ho misurato il territorio appreso

La lingua dei nativi. Sono invecchiato raccontando

Del mio mondo lontano, ma ancora la notte nel buio

Sogno navi amiche che mi riportino a casa.

A rileggerla oggi avverto l’amaro sapore di un profetico addio. Già dal primo verso che parla di approdo “come naufrago in una terra/sconosciuta”, una terra, il nostro mondo che non era il tuo mondo. Pure, con grande coraggio, curiosità intellettuale e umiltà, avevi imparato “la lingua dei nativi”, di quanti non avevano le tue difficoltà a riconoscersi in un mondo sconosciuto e ostile. E lo hai fatto fino all’ultimo giorno, raccontando, però, del tuo mondo ormai da te perso nelle brume della lontananza, ma chiuso comunque nel tuo cuore, come sacra reliquia da venerare, sognando “navi amiche” a riportarti “a casa”. Certo, sognando, in un mondo così estraneo a te, navi sicure, navi che non ti avrebbero mai tradito. Ma è accaduto davvero? A Casa sei giunto, sicuramente amato e atteso, ma come? Avresti preferito forse fidarti solo selle tue Ali in volo, sorretto dalle carezze di tutti i tuoi cari a sostenerti… Il mondo pandemico ha tradito anche te. Il mondo estraneo al tuo cuore di sognatore intriso d’amore.

Come non riportare alcune tue frasi al riguardo, rilasciate al giornalista Christian Pradelli in una intervista telefonica di solo alcuni mesi fa?

D. C’è un regalo che vorrebbe ricevere in questo Natale così particolare?

R. Un vaccino che può salvare l’umanità, non chiedo di più.

D. Maestro, adesso è il momento giusto per?

R. Per la bellezza, credo. La bellezza è un grande anestetico che ti stacca un po’ dal dolore, dalla sofferenza, dall’angoscia. Quest’epoca è dominata dall’angoscia, la bellezza ti riporta a un mondo quasi classico, in cui la natura e gli uomini erano la stessa cosa. E credo che sia il cammino che dovremo intraprendere prima o poi.

D. Pensa a Milano: il primo posto che ti viene in mente.

R. Senti, è sempre stato fin da ragazzino piazza Mercanti. Incredibilmente due delle mie mostre più importanti sono state fatte al Palazzo della Ragione, quindi era destino. Ai tempi andavo lì ad aspettare l’alba, che è di una bellezza sovrumana.

Ed io sono qui a ricordare quanto dolore si sia condensato in dieci minuti, attraverso i fendenti di parole e ricordi, che hanno reso più fragile la mia anima mentre le tue ali volavano sempre più verso la Luce che non ha confini. Noi confinati nello spazio/tempo di questi giorni increduli e dolenti di esterrefatta consapevolezza che niente sarà più come prima. Parlare di te e usare parole per connotarti significa il vano tentativo di trattenerti ancora con noi. Vano, non perché tu non ci sia, incancellabile, dentro di noi, ma perché il Divino Disegno vince ogni umano bisogno di trattenere le persone care, la loro voce, i pensieri, i sogni…  

Sempre a casa torniamo

vittoriosi o sconfitti

poco importa.

Non c’è silenzio più dolce

di quello della terra che ci accoglierà.

Dimenticare la battaglia

vinta o persa

(anche la vittoria lascia un incolmabile vuoto)

e scomparire nel nulla

che forse è la vera pace

promessa da Dio.

Troppo rumore in questa vita

troppe decisioni prese a caso

al bivio di Edipo

e neppure una Sfinge a porre il suo interrogativo.

Troppe le giustificazioni

che mormoriamo a noi stessi per sopravvivere

                                                             al nostro vuoto.

Prendimi bellezza e fuggiamo dal gioco infernale

                                                                       del reale

che ha già una fine prevista.

Da sempre.

Milano 27 aprile 2020

Eppure sono convinta che continuare a parlarne sia salvifico non per chi fa ritorno a Casa, ma per chi è ancora per strada e ha necessità di non perdersi del tutto nel dolore che porta nella direzione opposta e, dunque, verso il buio. E ne buio è facile perdersi e non riuscire più a ritrovare neppure le vie del Cielo, che pure sono infinite. E allora ne parlo, ancora, e ancora. Per ritrovare il filo di luce a cui aggrapparsi per non naufragare anche nel buio del silenzio. Sì, anche il silenzio può cedere al lato oscuro del silenzio, che non ha più il respiro di una preghiera. Ed oggi è giorno di preghiera silenziosa per tutti quelli che, come te, da oltre due anni sono andati via in silenzio, vinti da un nemico oscuro e impietoso senza una carezza ad accompagnarli oltre la soglia di casa per condurli, con l’amore tangibile di una mano protesa, verso la vera Casa che, amorevole, ci attende con la sua carezza di Cielo>. (da A. De Leo, Tenero il tuo lago d’erba tagliente - Giovanni Gastel e la Bellezza visibile, SECOP edizioni, Corato-Bari, 2021). Alla prossima. Angela/Lina