venerdì 1 marzo 2024

Venerdì 1° marzo 2024: Ma siamo sicuri che le SINTONIE siano più efficaci delle DISTONIE?... (continua)

Prima di ricominciare a raccontare sento l’urgenza di ringraziare innanzitutto Maria Concetta Giorgi per il suo bel racconto su di me, commuovendomi fino alle lacrime; Anna Maria Staffieri che si dice sempre entusiasta di quello che scrivo e mi sollecita affettuosamente a continuare; Anna Mininno sempre gratificante nei suoi commenti misurati e sinceri; Mariantonietta Bellezza, la cui meravigliosa amicizia mi scalda il cuore dagli anni della prima giovinezza; Anna Cellaro, “new entry”, che ha tutte le carte in regola per entrare nel nostro blog in perfetta “sintonia” con tutti noi; Mariateresa Bari, sempre attenta e amorevole nei miei riguardi con i suoi interventi altamente poetici; Maria Pia Latorre, con cui c’è un bellissimo e corroborante “feedback” poetico (e non solo); Caterina Chiapparino e le sue sorelle, chi sono con me come carezze d’anima quotidiane, anche se siamo fisicamente impossibilitate ad incontrarci; Luigi Lafranceschina, a cui mi legano lunghi anni di militanza nella scuola e una più recente “sintonia” empatica; Vito Tricarico, che dalle mie parole estrapola quelle giuste per farmi sentire profondamente compresa; Francesca Petrucci, prodiga sempre di commenti sinceri e affettuosi; Elina Miticocchio, costantemente al mio fianco e sempre attenta a “vigilare” sulle parole da “conservare” e su cui riflettere… E poi, via via, tutti voi che mi leggete attentamente, costantemente, amorevolmente, pazientemente con “sintonie/distoniche”.

                              G R A Z I E E E E E E E E E !!!!!!!!!

E riprendo a raccontarmi.

<Appena adolescente, intanto, scoprii precocemente che mi piaceva anche addentrarmi negli immensi misteri della vita, con supposizioni e ipotesi del tutto personali che non tenevano affatto nella giusta considerazione le teorie dei grandi filosofi greci, latini, orientali. Che perlopiù ignoravo. Salvo ad avere un confronto maldestro durante le interrogazioni, vissute tutte sul filo di acrobazie funambolesche di improvvisazioni, reminiscenze di qualche lezione ascoltata distrattamente, di illogiche e stentate deduzioni, con i professori che mi riportavano, obtorto collo, sulla retta via del sillogismo aristotelico, ascoltandomi per divertirsi un po’.

Sì, strano a dirsi, ma con me i professori si infuriavano e si divertivano. Trovavo sempre il modo di fare una battuta simpatica tra tante corbellerie che sparavo per andare fino in fondo con le improponibili risposte che davo alle prevedibili domande che ricevevo. Mi piaceva spararle grosse. Mi divertivo. Riuscivo a rendere complici delle mie spacconerie anche alcuni insegnanti più indulgenti che ai miei racconti e alle mie battute ridevano. Ed erano tempi bui in una scuola autoritaria e verbalistica, ancora incatenata alla Riforma Gentile del 1923; una scuola immortalata da Domenico Starnone molto più tardi nei suoi romanzi-denuncia: Solo se interrogato ed Ex cathedra. Sono una sopravvissuta a quella sconfortante e demotivante scuola grazie alla mia propensione ad improvvisarmi affabulatrice “pallonista” in parte ereditata da te. Ma solo in parte. Di mio ci ho messo quella più istrionica e buffona o quella più strappalacrime e di irrisolti tormenti? Non lo so… so che come te amo raccontare…

Con ogni nuova insegnante di lettere, del resto, (tutte rigorosamente donne sono state le mie fino all’Università!), subivo il trattamento speciale di essere messa “in cattedra” perché, dopo i primi temi col punto interrogativo, dovevo dimostrare di non aver copiato e di non copiare da libri o giornali quanto le professoresse non ritenessero “farina del mio sacco”.

Naturalmente, erano costrette ad una valutazione che non corrispondeva al mio rendimento scolastico nelle materie orali o in matematica, in cui collezionavo pessimi voti. Ingaggiai, anzi, come già detto, sin dalla prima media, una lotta senza quartiere con i vari professori di quest’ultima disciplina, e con i quali ero sempre in disaccordo a tal punto da rifiutarmi di rispondere alle interrogazioni

(ma benedetta figliola perché non vieni alla cattedra per rispondere a domande facili facili?...

no... - ed era solo un cenno altero del capo… ma così rischi di essere rimandata a settembre!...

no... - ed era solo un suono indistinto tra le labbra: nz! ma benedetta figliola fai venire qualcuno a parlare... no... - ed era solo un fare spallucce con noncuranza)

e da lasciare in bianco i compiti in classe, contrassegnandoli con enormi macchie nere: metaforico ma evidente messaggio del buio che si formava nel mio cervello di fronte ai calcoli scritti e alle astruse formule con le x e le y dell’algebra, o alle prese con l’aritmetica razionale.

 

Il caro, indulgente professore rimaneva sconfortato e impotente. Si arrabbiava. Balbettava. Mi sollecitava. Ma niente. Per me l'incognita rimaneva una macchia nera a oscurarmi il cervello.

(L’incognita è rimasta sempre una incognita nella mia mente irrazionale anche oggi che sono costretta a districarmi con i numeri, scoprendo che nel calcolo orale sono velocissima attraverso strategie tutte mie di somme, resti, quozienti e fattori, per far quadrare il bilancio di una “doppia” pensione che va sempre per sottrazioni e mai per addizioni e men che mai per moltiplicazioni. La fine del mese è sempre una reiterata, avvilente incognita). (…). Agli orali, poi, ero un mezzo disastro in tutte le materie rasentando spesso il 4, ma riuscivo a rastrellare alcuni 6 sulla pagella di fine trimestre grazie agli scritti dove di solito mi qualificavo da 8. E così la media matemarica (4+8 = 12:2 = 6) mi permetteva di salvarmi in corner in tutte le classi senza esami. Non così per la matematica: c’era proprio un contenzioso irrisolto tra me e i numeri scritti, calcoli compresi.

Indimenticabile la mia figura becera col professore di matematica non appena entrai nella scuola statale che navigava a vista sul mare. Era un ingegnere, anche molto simpatico e alla mano, che però era solito spiegare i teoremi concludendo sempre, ogni santissima volta che si trattava dei due teoremi di Euclide, “questo è il teorema di battaglia”. Io, che nulla sapevo di Euclide e della sua importanza in fisica e in matematica, e men che nulla sapevo di battaglia o Battaglia, alla prima interrogazione alla lavagna, mentre malamente mi districavo tra triangoli e cateti, esordii trionfante perché in quelle acque agitate di numeri e vele geometriche avevo scorto il mio salvagente: “E come dice il teorema di Battaglia!!!…”. Tumulto di acque rumoreggianti di risate mi permisero un pessimo approdo sulla faccia sorpresa ed esterrefatta dell’ingegnere, che mai in tutta la sua onorata carriera di insegnante di matematica aveva registrato un naufragio così disperato e disperante senza cognizione di causa. Neppure Schettino negli anni a venire sarebbe stato capace di tanta incoscienza, millantata per conoscenza, sapienza e verità!>.

(Ritengo che i miei compagni d’allora, se sono ancora in discreta salute anche mentale, e amano come me ricordare non avendo niente altro a cui pensare, si facciano ancora oggi delle grosse e grasse risate!).

<Tu, invece, continuasti ad essere quasi sempre testimone dispiaciuto delle mie impennate contro l’asfittico mondo in cui vivevamo. Il Sessantotto era di là da venire, ma io ne anticipavo ribellioni e infrazioni alle regole imposte ancora dall’Autoritarismo della Scuola, della Famiglia, della Chiesa, dello Stato, della Società. E fu così che, mentre Lizia veleggiava con grande sicurezza attraverso gli scogli impervi del Liceo Classico e collezionava lodi e premi e borse di studio, ed era l’orgoglio di tutti quanti noi in famiglia (sì, anch’io mi sentivo fiera di avere una sorella bravissima e apprezzata da tutti: professori, compagni di scuola, parenti e amici), io a malapena rimediai, agli esami di terza media, come già detto, ben tre materie a settembre, col rischio di essere bocciata.

Durante gli esami, con la mia solita incoscienza e disinvoltura, tornavo a casa trionfante, procurando lacrime di gioia a nonna Angelina, ad ogni esclamazione: “Oggi ho fatto benissimo! La no’, sto in una botte di ferro!”. E giù lacrime e preghiere di ringraziamento di nonna allo Spirito Santo.

In realtà, come ben sai, feci benissimo solo il tema di italiano che si trascinò due striminzite sufficienze in storia e geografia e altre materie, ritenute allora erroneamente di corollario, riuscendo a scongiurare per il rotto della cuffia di dover ripetere l’anno. A circa metà luglio, andai baldanzosa e speranzosa a scuola per vedere i quadri ma, lungo la strada, i miei compagni di appena un “ciao” sentirono un moto di solidarietà e mi avvisarono per tempo della mia débacle, evitandomi l’umiliazione di andare a leggere in rosso le tre materie incriminate. Dal mio canto, non avendo il coraggio di deludervi, evitai di tornare a casa per l’intero giorno. Soluzione di stratosferica intelligenza! E menomale che babbo era lontano perché sicuramente, oltre alla rabbia e alla indignazione per il mio comportamento da irresponsabile, avrebbe avuto la conferma di avere una figlia completamente “senza cervello”. (L’inevitabile umiliazione mi fu risparmiata, ma questa era Lina di quegli anni: svolazzante, priva di senso critico e piena di sogni e illusioni. Sempre con la testa tra le nuvole e non solo in senso metaforico. Con il culto della bellezza fisica e basta. Incapace di prevedere le conseguenze nefaste di ogni azione e reazione, era sempre alle prese con innocenti trasgressioni che per quegli anni di bigottismo acuto erano degli imperdonabili comportamenti peccaminosi. Chissà se in cuor tuo sapevi tutto questo di me e te ne addoloravi. Non me lo hai mai detto né rimproverato. Eri sicuramente più libero e autentico nei tuoi giudizi, che non erano mai pregiudizi, di tanti ipocriti o sprovveduti o supponenti e blateranti tuoi compaesani. Di cui temevo l’ignoranza e il perbenismo di facciata perché la semplicità delle donne e degli uomini della mia infanzia cominciava già ad essere un vago ricordo).

E, quando a sera mi decisi a rientrare temendo che, per l’ansia della mia prolungata e immotivata assenza, vi rivolgeste ai carabinieri, dovetti affrontare l’ira della nonna che, ben presto, oltre alla agitazione di non sapere che fine avessi fatto, dovette fare i conti con il tradimento dello Spirito Santo, che non si era affatto scomodato ad illuminare le tenebre della mia ignoranza. E giù nuove recriminazioni e più abbondanti lacrime, questa volta di disperazione e di rabbia, di dispetto per la sua fiducia malriposta e per la mia totale incoscienza

(mə vénənə rə zìrrə də strafəquàttə ‘ngànnə chə rə mànə mè stèssə. Cè pəccàtə sò fàttə jé a crìstə pə pəgghjàmmə tùttə ‘stù véssə pə ‘na mənènnə sénza cərvìddə e spatrəjàtə accòmə a tè. Jè mégghjə ca tə nə vèjə chə màmmətə e attàndə e nòn ca ténghə tùttə ‘sta rəspònzabilità chə attàndə ca pòuə fàcə cìnghə mənótə də tramòutə e jè nàn mə vógghjə e nàn mə pózzəchə chiù agətà…)

(mi vengono tanto i nervi che mi viene voglia di strangolarti con le mie mani. Che peccato ho fatto io a Dio per prendermi tutta questa vessazione per una ragazza senza cervello e senza capacità di intendere e di volere. È meglio se te ne vai con tua madre e tuo padre e non avere tutta questa responsabilità con tuo padre che poi fa cinque minuti di terremoto e io non voglio e non posso più agitarmi…).  Tu mi rimproverasti con gli occhi del silenzio. Quel tuo rimprovero, che avvertii come mille scudisciate in pieno viso, mi valse la promozione a pieni voti a settembre, dopo essere andata a ripetizione durante l’estate, bruciandomi le vacanze con mamma e babbo nel Salento dove, nel frattempo, il capofamiglia era stato trasferito. In quel lontano 1956, però, rimasi con voi per via delle lezioni da seguire per gli esami di settembre. Poi, anche quell’anno storico di neve incanto batticuore presunzione devastazione del mio ego, di tenero rapporto con te e di quello più tempestoso ma ugualmente divertente e stimolante con la nonna, ebbe fine... Affiorava continuamente in me il rimpianto di non aver continuato a studiare con la signora Carmela, la quale, ad ogni nostro incontro, rimarcava, a sua volta, l’enorme dispiacere provato per avermi persa come alunna. Quando morì, alcuni anni dopo, sentii un grande vuoto e la tristezza dei primi addii. Mi pesava aver perso l’amore per lo studio e la possibilità di frequentare il liceo. Non ne facevo parola con nessuno, neppure con te, ma avevo perso buona parte della fiducia che, in precedenza, avevo riposto in me stessa. E non avevo niente da rivendicare. Niente di cui sentirmi fiera e appagata. Anzi, stranamente mi sentivo in colpa. Con me stessa>. (vol. II de Le piogge e i ciliegi, “2017 )

Ancora una volta, nell’arco degli anni, ho dovuto fare i conti con un’adolescenza ribelle, che ha comportato una sempre maggiore consapevolezza di una scuola che mal sopportavo e di un bisogno di confermarmi nel desiderio di leggere senza la guida asfittica dei professori, che si intestardivano ad imporci i testi scolastici, e la capacità di scrivere in maniera sempre più mia e sempre in maniera divergente: Unica possibilità di riscatto per me la scrittura. Non so fare altro! Non ho imparato a fare altro, ma sono in buona compagnia. Anche Andrea Camilleri in una intervista ha confessato qualche anno fa: “Scrivo perché non so fare altro”.

Da te ho appreso la gioia della narrazione. Da babbo la paura di sbagliare sempre in agguato. 

Pure di babbo ho scritto tanto. La sofferenza ha sempre trovato nelle parole, nella poesia, una via di fuga. Non ha scritto Mariella Bettarini, mia carissima amica e una delle poetesse più importanti dei nostri giorni, che “la poesia nasce sempre da una ferita”? In realtà, pur condividendo l’affermazione di Mariella, anche da bambina e da adolescente, nei tempi felici, io scrivevo scrivevo scrivevo. Dapprima, dopo quei due anni di confusione e disperazione per il devastante ingresso nella scuola, lo facevo persino sul piano nero e lucido dei banchi di legno, dove avevamo a disposizione il calamaio e l’asticciola con il pennino, che furono, poi, via via sostituiti dalle penne stilografiche e dalle penne a sfera. E, se prima segnavo e scorticavo quelle superfici nere come la pece con il pennino intriso di inchiostro (quanti ne avrò spuntati, non so, ne persi subito il conto), da adolescente scrivevo i miei versi con l’inchiostro blu della Bic o con il gesso non più sui banchi, ora di formica verde e lucida, ma nei bagni, nei corridoi, sui marciapiedi, sui muri delle strade che attraversavo. Dappertutto.

(Ai nostri giorni, fino a quando ho potuto, ho continuato a scrivere sui muri di casa, sotto i lucernari, lungo le scale... Era ed è una esigenza insopprimibile andare oltre il foglio, la carta, la regola… e gli altri di casa accettano tra il divertito e il concesso, anche se all’inizio della loro scoperta di me come nonna bislacca i miei nipoti mi rimproveravano di “imbrattare i muri” con tante agende, che colleziono in maniera maniacale, a mia disposizione).

Anche allora dovevo scrivere. Fissare emozioni, stati d’animo, sogni, ricordi, attese. Noncurante dei rimproveri da parte di bidelli, insegnanti, adulti: tutti trovavano disdicevole che non scrivessi esclusivamente sui quaderni… Non tutti i professori, in verità, mi rimproveravano. Ebbi la fortuna di incontrare anche insegnanti illuminate che apprezzavano i miei versi e avevano nei miei riguardi atteggiamenti di affettuosa ammirazione. Le mie compagne di classe erano convinte che fossero mie parenti, e io glielo lasciavo credere. Era troppo complicato spiegare che non c’era alcuna parentela tra noi. E che d’altro genere era l’empatia che ci univa.

<In quegli anni, come tu ricorderai benissimo, c’era anche un anziano sacerdote e teologo, grande studioso delle Lettere antiche e moderne, che mi prese tanto a benvolere, dopo una poesia che gli dedicai per il suo “Giorno genetliaco”, da venirmi a trovare quasi quotidianamente a casa. Non si stancava mai di parlare con me e di me con te, della mia bravura in italiano, della mia creatività e fantasia, meravigliandosi che potessi scrivere pensieri così profondi, dati i miei pochi anni e la mia scarsa esperienza di studi e di vita. Si sedeva con noi davanti al “portone di ferro” e mi chiedeva di tutto. Le nostre conversazioni si dipanavano per ore lungo impervi sentieri di cultura classica e contemporanea in cui mi districavo come meglio potevo e sapevo. Lasciavo quasi sempre che fosse lui ad illuminarmi con la sua sapienza. Tu ti compiacevi nell’ascoltarlo ma, quando andava via, me ne parlavi perplesso e meravigliato che quel “pozzo di scienza” si fosse fatto incantare pure lui da due “cìppə e ciàppə” (due scarabocchi) che sapevo mettere sui quaderni e da “quattro fesserie” che ero in grado di imbastire lì per lì, e ridevamo insieme, pensando che ormai il grande don Nicola… non avesse più “tutte le rotelle del cervello a posto”>. (idem).

Alla prossima, per non approfittare della vostra illimitata pazienza… Angela

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