mercoledì 20 marzo 2024

Mercoledì 20 marzo 2024: Giornata Mondiale della Felicità: riconosciamola lungo i prati di questa nuova primavera...

   … Per il mattino che ci dà l’illusione di un principio

           (Jorge Luis Borges, Altra poesia dei doni)

           “Se incontrarsi resta una magia,

            è non perdersi la vera favola

            (Massimo Gramellini)

Oggi è la Giornata Mondiale della Felicità. Ed io augurerei un “pizzico” di felicità a tutti nel mondo, se non fossi consapevole di questi giorni bui e difficili in tutto il nostro Pianeta, che stiamo distruggendo con le nostre stesse mani in nome del dio-denaro che ottenebra orai mente e cuore di chi regge le sorti delle “umane genti”. Eppure sono convinta che un “pizzico di felicità” esiste per tutti noi, altrimenti non avremmo neppure coniato la parola felicità. Fosse pure per un istante l’abbiamo incontrata, provata, vissuta. E poi dimenticata. Tentiamo allora, almeno oggi, di farla riaffiorare in qualche bel ricordo del passato. La felicità era più a portata di mano? Non credo, perché ogni epoca ha avuto le sue tempeste, ma anche i suoi arcobaleni, altrimenti l’umanità si sarebbe estinta già agli albori delle sue prime aurore. Ed ecco i miei ricordi che si vestono anche di felicità.

*Quando tornai a casa per iscrivermi all’Università, ritrovai le mie amiche di sempre e solo pochi amici.

Ci eravamo iscritti entrambi, io e Primo, alla Facoltà di Lingue: lui per passione, io solo per seguirlo. Ancora una volta da perfetta incosciente, avendo piena consapevolezza che le lingue non riuscivo a masticarle affatto. Ero decisamente negata, non tanto nella traduzione, quanto nella lettura e nella comunicazione orale. Mai avrei imparato a pronunciare una sola parola straniera correttamente. E ancora oggi mi accade. (Così come non sono riuscita mai ad imparare i dialetti dei vari paesi abitati.  Per le lingue ci vuole un orecchio speciale tranne che per la lingua materna, che ci penetra dentro profondamente sin dai nostri primi giorni di vita e mai si cancella. E si ripropone in ogni situazione viscerale di disagio, di crisi, di gioia, di dolore).

Fu un anno senza mai partecipare ad una sola lezione, paghi soltanto di essere insieme.

Incoscienti e felici. Immemori e felici. Appassionati e felici.

Corso Trieste. Lunghe giornate a chiacchierare nella saletta degli studenti, dietro i vetri e con i libri mai sfogliati. Passeggiate romantiche sul lungomare, infaticabili camminatori noi in gara con i gabbiani. Corso Cavour: e i panzerotti al Bar Italia, i gelati al Bar Gasperini, il caffè alla Motta. Lunghe incursioni all’UPIM e alla STANDA. I regalini da quattro soldi e la felicità nelle tasche vuote. Altri attimi di gloria e di euforia per essere stata eletta miss matricola. Ancora una volta la bellezza a incoronarmi regina. Esaltazioni in due. E danze e voli e ricami di voli e sogni. E progetti…

Poi, il Concorso di Primo l’anno successivo e il suo impiego nella scuola come il più giovane maestro d’Italia. Io non vi avevo partecipato. Sapevo con certezza che non volevo fare l’insegnante. Soprattutto nella scuola elementare. Ma fui contenta della sua scelta e del suo successo. La mia corsa, la mattina dell’assegnazione della prima sede d’insegnamento, sotto un temporale spaventoso, per raggiungerlo in Provveditorato, dove c’era anche suo padre. Portai con me due bicchieri di carta e una bottiglietta d’acqua per brindare (… “brindisi coi bicchieri colmi d’acqua/ al nostro amore povero e innocente”…)*.

<Lo raggiunsi che ero la cascata del Niagara (il papà di Primo si preoccupò e mi rimproverò bonariamente), ma io rimasi bagnata fradicia fino al mio ritorno a casa, la sera.  Tu ti allarmasti e mi guardasti a lungo in silenzio. Il nonno della pioggia ebbe paura della pioggia e imprecò contro l’incoscienza della giovinezza. Rimasi a lungo a letto con febbre e raffreddore. E senza Primo, che dovette presentarsi a scuola e poi ripartire con suo padre in attesa dell’inizio dell’anno scolastico. Il primo ottobre.

Mi avevano iscritto, intanto, contro il mio volere, alla Facoltà di Lettere, previo esame di ammissione, essendo a numero chiuso. Dato che, secondo il vostro parere, avevo sprecato inutilmente un anno, che, a mio parere, avevo vissuto in una pienezza perfetta di momenti irripetibili e meravigliosi. Cercai in tutti i modi di non sostenere l’esame, ma Lizia e Pinuccio, che nel frattempo era diventato il suo ragazzo, mi accompagnarono fino dentro l’Ateneo e, mio malgrado, dovetti svolgere negligentemente un tema su Pascoli e D’Annunzio (ce la misi tutta per farmi bocciare, improvvisando una mia discutibile argomentazione sul valore immaginifico della poetica dannunziana contro la semplicità puerile di quella pascoliana, l’esatto opposto della tesi sostenuta dal noto professore salentino, docente di Lingua e Letteratura Italiana nel nostro Ateneo, in un suo saggio monografico appena pubblicato e da me ignorato!).

Come ben sai, mio malgrado e con grande sorpresa, risultai tredicesima su oltre duemila concorrenti per sole trecento iscrizioni, per cui dovetti accettare di cambiare Facoltà e Sede e soprattutto di separarmi, ancora una volta, da Primo.

Cosa mai avrò scritto di così convincente da farmi superare con quella valutazione un esame così selettivo? Non me lo sono mai più chiesto dopo la telefonata che ricevetti da Peppino tuo nipote che, essendo stato il primo cospiratore e fautore della mia iscrizione all’esame di ammissione alla Facoltà di Materie Letterarie, che lui riteneva più consona alle mie capacità e inclinazioni, era andato per curiosità all’Ateneo a rendersi conto di persona dei risultati. Da me intenzionalmente ignorati. Mi comunicò l’ammissione e il voto con grandi esclamazioni di giubilo, gettandomi nella disperazione più nera al pensiero di dover abbandonare la mia postazione nella saletta degli studenti di via Trieste per trasferirmi sola soletta all’Ateneo. Dove, mio malgrado, cominciai a frequentare i vari Istituti del terzo piano con grande riluttanza e propositi di fuga. E, lasciata a me stessa, mi imbarcai in un periodo alquanto ingarbugliato della mia vita. Arrivavo sistematicamente in ritardo alle lezioni o le saltavo del tutto, non individuando per tempo l’aula o andandomene in giro per negozi in via Sparano.  Voi, tu e la nonna, eravate ora fieri di me. Finalmente avevo imboccato la strada giusta. In realtà, dopo solo qualche mese commisi la prima imperdonabile gaffe: scambiai un giovane assistente per uno studente e, chiedendogli il programma d’esame che avrei dovuto sostenere due giorni dopo, gli dissi che non avevo ancora aperto libro. Ridemmo insieme. Il giorno dell’esame, me lo ritrovai, ed era il mio primo esame, in cattedra, pronto ad interrogarmi, avendo entrambi negli occhi il nostro piccolo grande segreto. Conseguente batticuore e voglia di scappare via. Lizia mi spinse verso la cattedra non appena venne pronunciato il mio nome. E, mentre lui si stava divertendo un sacco nel vedermi così sconvolta e avvilita, cominciai ad avvertire sotto i piedi le sabbie mobili in cui avrei voluto sprofondare. Per inciso, il professore si divertì come non mai a mettermi in difficoltà con le sue domande, ma alla fine inaugurò con un trenta il libretto, sollecitandomi ironicamente a continuare a studiare così come avevo fatto per quel primo esame. Con già la immeritata corona d’alloro sulla testa e tra i pensieri i mille applausi di osanna a me stessa, tornai a casa, dove tu e la nonna stavate ad aspettarmi con tanta ansia nel cuore e tanto orgoglio nello sguardo (...). 

Dopo quelle due belle affermazioni, però, cominciai a pensare per davvero di dovermi mettere di buzzo buono a studiare per non rischiare altre brutte figure, patemi d’animo, qualche probabile bocciatura e la perdita di un altro anno senza un briciolo di responsabilità e di amor proprio. (Negli anni, mi è capitato spesso di pensare all’onestà intellettuale del professore, Presidente di Commissione d’esame, nel rispettare la sgangherata tesi di una oscura studentessa, che probabilmente lo aveva convinto solo perché era riuscita ad argomentare il suo assurdo assunto in maniera insolita e forse un tantino poetica come a me piaceva fare). Gratificata, comunque, da quell’insperato e non desiderato apprezzamento, sentii dentro una insolita consapevolezza delle lacune accumulate: un pozzo senza fondo da riempire. Non era più tempo ormai di fiabe e di fanfaluche, ma tempo di impegno sistematico e attento. E anche tu e la nonna scopriste ben presto una Lina più responsabile e impegnata nello studio. Vi sembrò un miracolo. Da addebitare questa volta a san Giuseppe da Copertino, il protettore degli studenti. Il santo che volava. E mi stava anche bene. Pure io continuavo a librarmi in volo con la fantasia e non avrei smesso mai. Ma ora stavo imparando a fare i conti anche con la realtà che, però, nella sua ferocia imprevista e improvvisa mi avrebbe nuovamente schiacciata di lì a poco, impedendomi nuovamente di studiare, sostenere esami, vivere serenamente i miei vent’anni>.

*Per un aneurisma morì, nello spazio di un giorno appena, una mia cara compagna di scuola. Fu per me un trauma indicibile. Si ripropose il terrore della morte con tutte le sue derivazioni (nel senso letterale di andare alla deriva) psicosomatiche*.

<Somatizzai quell’aneurisma con sudorazioni, tremori, tachicardia, senso di soffocamento e terribili mal di testa che m’impedirono, per due anni, di aprire un libro, leggere una sola riga. Tu mi guardavi preoccupato e infelice, non sapendo come fare per alleviare la mia pena. Ti vennero meno persino battute e narrazioni. Non un solo racconto. Saltarono tutti i miei buoni propositi di colmare le enormi voragini conoscitive che ben mi rodevano dentro. Niente studio. Niente esami. Niente voglia e capacità di vivere, di organizzare il mio tempo. Tu non mi rimproverasti mai. E neppure la nonna lo fece. Entrambi aspettaste tempi migliori, preoccupati solo dei miei affanni. Delle mie paure. Degli attacchi di panico improvvisi e devastanti. Non ricordo più come ne venni fuori. Forse la giovinezza mi aiutò con la sua imperiosa voce. Forse il mio amore per Primo. Forse le vostre silenziose e amorevoli cure. Certo, pian piano, riemersi da quel profondo pozzo di sofferenza, che lo scrittore Giuseppe Berto definì, un paio di anni dopo, in un suo libro famoso, “Il male oscuro”. Dopo circa due anni di costante malessere, tornai alla luce.

Quelli, comunque, furono sicuramente ancora anni di tenerezze da parte tua, così rare in tempi ancora oscuri di autoritarismi e severità destabilizzanti per chi come me o Pino rivelava più che mai fremiti di sogni e di anarchia. (…). Fosti tu più che la nonna, ancora una volta, quella fonte di tenerezza e protezione, a cui la mia anima anelava, mai paga di dare e ricevere amore. (…) Una sera, ricordi?, prima che precipitassi nel tunnel della depressione per la morte della mia amica, ero seduta jìndə a la chəcənéddə” (nella piccola cucina) che avevamo nel cortile, proprio accanto al grande camino all’aperto, con i piedi appoggiati sul portabraciere di legno rotondo, dove eravamo soliti riscaldarci, insieme, al calore dei carboni accesi, che tu ti premuravi costantemente di portare dal camino, e stavo studiando per un esame che avrei dovuto sostenere qualche giorno dopo. Erano trascorse alcune ore da quando avevo cominciato e mi sentivo molto stanca. Il forte mal di testa mi costrinse ad alzarmi per cercare una pillola, ma non riuscii a farlo. Mi piegai sulle ginocchia in un nero profondo e sarei crollata sul braciere acceso se tu non fossi stato fulmineo nell’afferrarmi. Mi ritrovai alcuni minuti dopo nel mio letto con un fazzoletto bagnato sulla fronte. Mi dissero poi che eri stato tu a portarmi dalla cucina in casa, nella nostra cameretta (mia e di Lizia) e nel nostro letto, attraversando tutto il cortile con me in braccio. Sì, ero un fuscello, ma pesavo pur sempre quanto un sacco di olive pieno a metà. Ed ero inerte. E tu avevi ottant’anni.

                                            Miracolo dell’amore

che si è rinnovato negli anni ogni volta che ho avuto bisogno di aiuto. Ogni volta che un buco nero mi risucchiava. Ti sognavo. Ti sogno ancora. Sempre. E mi afferri e mi porti in salvo. Sempre. Miracolo dell’amore. Miracolo in cui credo. E che mi sostiene. E ora vedo che mi sorridi e, sospirando, annuisci. (…). 

Mi dividevo ormai tra due paesi a me cari, tra due case che da una parte mi colmavano di te e, dall’altra, di mamma e degli altri miei fratelli. Da una parte, i tuoi campi, di cui via via ti liberavi perché non eri più in grado di seguirli e, dall’altra, il mare nelle cui acque dimenticavo ogni senso di costrizione. Da una parte, lo studio (stavo scoprendo finalmente che mi piaceva studiare e conoscere nuove realtà passate e presenti con uno sguardo attento al futuro), e le lezioni private (per non pesare economicamente su di voi: cominciai a diciannove anni e non ho smesso ancora); dall’altra, le chiacchierate con mamma, le confidenze e le complicità con Anna Maria, che rivelava sempre più uno spirito intraprendente e battagliero…>

*Avevo ancora le mie paure e i miei ardimenti. E avevo i miei idoli: letterari, canori, televisivi, cinematografici, teatrali. Italiani e stranieri. Il cui elenco sarebbe la coda di una cometa persa nello spazio. Ho letto tanto in quegli anni. Mi piaceva leggere. E in ogni eroina trovavo parte di me. Gli scrittori e i poeti russi in primis. E quelli americani. E i francesi. Gli italiani, famosi in quegli anni di grandi autori e grandi pensatori. Un po’ tutti di sinistra. Con alcune eccezioni, vedi Pitigrilli, che mi catturavano per la bellezza dello stile più che per la profondità sociale, civile o storico-politico-culturale dei contenuti delle loro opere. Poi, i giornalisti e le grandi testate. Montanelli, Biagi, Cervi, Giorgio Bocca, Guareschi, Vittorio G. Rossi. Adoravo quest’ultimo e divoravo i suoi scritti.

E la televisione. Che ormai ci portava parte del mondo in casa. Storie di amori da copertina. Maria Callas e Aristotele Onassis. Fausto Coppi e la Dama Bianca. Edoardo VIII e Wallis Simpson: lui, divenuto poi semplicemente Duca di Windsor, dopo la sua abdicazione al trono per amore di lei perché pluridivorziata.

E tutte le storie e le follie dei divi di Hollywood e nostrani che ci facevano sognare in quei primi anni della seconda metà del Novecento…

E, nei primi anni Sessanta, Kennedy e Marilyn e la curiosità per il loro controverso rapporto e il dolore per la loro morte, prematura e crudele.

(E i poeti della Beat Generation e gli scrittori americani e la loro vita da romanzo tra follie amorose, alcol, droghe, avventure “on the road”, e i primi approcci con le filosofie orientali, la poesia zen, il mondo sconosciuto e fascinoso delle fiabe indiane e tibetane, ma anche di alcune fiabe pugliesi che mio nonno conoscevi molto bene e di cui faceva tesoro nel raccontarcele.

E, intanto, io e Primo facevamo progetti per un futuro insieme con la superficialità della nostra giovinezza.

C’era, però, uno sguardo nuovo a guardare il mondo: più attento e consapevole. Più critico e agguerrito contro una società da cambiare e da rimodellare sulla falsariga di una civiltà che si andava tecnologizzando rapidamente, omologando lingue, comportamenti, aspirazioni. I jeans resero persino democratico il modo di vestire degli operai e dei menager, dei ragazzi e degli adulti. Le differenze sociali si assottigliavano sempre più. E noi due ci adeguavamo volentieri, sempre ribelli anche se meno incoscienti. Sempre innamorati e sempre determinati a regalarci scampoli di felicità*

Alla prossima, ma vi lascio con alcuni versi che mi cantano nel cuore perché domani è primavera ed è la Giornata Mondiale della Poesia. E il compleanno della mia Poesia più bella: Anna Paola.           

         La felicità è dentro di te.

Quindi rompi le catene del tuo cuore

 e lascia che tu diventi il dolce fiore che sei.

 Conosco la soluzione: basta aprire le ali

 e metterti in condizione di essere libera.

 (Lettera di Jimi Hendrix alla sua bambina) 

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