venerdì 29 ottobre 2021

Venerdì 29 ottobre 2021: L' AMORE in incanti di POESIA continua ad emozionarci...

Riprendo a parlare di AMORE e di POESIA, che ancora ci incantano e ci emozionano, riportando due belle poesie d’amore di Filippo Mitrani dalla sua silloge BRINE, che va ben oltre la tenerissima dedica al nipotino Pierpaolo, meravigliosa luce accesa nei suoi giorni. La prima è un trionfo d’azzurro, il colore che dona felicità al poeta e lo colma d’amore per la natura, la vita, e la sua esaltazione infinita, in tutte le sue immense declinazioni: Policromia in azzurro/ Azzurri i boschi, il lago, la collina,/ azzurre le luminarie della festa,/ le voci amiche - impermeabili ai pensieri -/ azzurri i miei travestimenti,/ gli applausi, i sorrisi senza viso,/      azzurri questi vuoti,/ azzurro ogni respiro e battito d’attesa,/ azzurra la ragione e la spericolata fantasia./     Azzurro./ Azzurro, soltanto azzurro/ concerto ininterrotto di emozioni/ che azzurri ha reinventati arcobaleni/ e azzurri tinge spazi e azzurri i tempi./ Azzurro-azzurro che dilata il sogno/   e incanta oggi il mio futuro. E poi, come non parlare d’amore con Filippo, un uomo-poeta intriso d’amore in ogni sua percezione del mondo? Il titolo di questa sua seconda poesia, infatti, è “Parlo d’Amore”: Un fico d’India/ appollaiato sotto il muretto di sostegno/ ed una collinetta sbavata di bitume/ inutile risulta del cantiere./ Chiuso da tempo. Parlo d’amore/     certo/      parlo d’amore./   La collinetta/ vestita di erba alta e di gramigna/ s’ergeva a fiero bosco di betulla/   e sorrideva al ceppo/   per nulla intimidito/ del fico d’India nato così, per caso./ Audace il verde delle foglie/     irte di spine/   sfrontate, irriguardose/ e i frutti belli inturgiditi di colore./     Terra rimossa./     Un fico d’India./ Livido asfalto. Parlo d’amore/     certo/ d’amore parlo. E mi sorprende e m’incanta questo amore testardo che rivendica il suo spazio tra “foglie irte si spine” e il “livido asfalto”. Così tanta è la forza dell’amore? Mi chiedo e vi chiedo! E intanto mi accorgo che una splendida poesia di Luisa Varesano, altro pilastro della letteratura, declinata anche in inglese, francese e tedesco, Autrice preziosa della SECOP e mia carissima amica di penna e di incanti, si intitola “V Fiore - Amore” e recita così, quasi in risposta alla poesia d’amore di Filippo: Non fu l’amore/ una rosa rossa/ non fu una zolla/ di terra smossa/ e nemmeno un bacio sensuale/ o un corpo sudato/ adagiato su un letto/ disfatto.// L’amore/ fu un ritmo di danza/ fu uno sfiorare di ciglia/ fu un abbraccio silenzioso/ lo sguardo d’un figlio/ la domanda d’un bambino/ il rischio/ d’un destino.// L’amore/ fu una spina/ conficcata nel petto/ fu un canto/ alla ricerca di senso.// L’amore/ mi schiuse alla vita/ dopo il terrore/ della caduta.// L’amore/ bello e fecondo/ mi riscattò/ dall’inganno immondo/ in un lavacro/ lento e profondo./ L’amore lieve/ l’amore giocondo/ l’amore sacro/ salvò il mio mondo./ Non fu l’amore/ a fugare il dolore./ Fu il dolore/ a forgiare l’amore. Sì è una risposta chiara a Filippo ma anche ai nostri interrogativi: spesso è il dolore “a forgiare l’amore”. Non a caso, la grande poetessa Mariella Bettarini, a cui mi lega profondo affetto, sostiene che “si diventa poeti” in seguito ad una “ferita”. Potenza sconfinata del dolore, dunque. E qui si potrebbe aprire un dibattito davvero molto interessante e salutare per tutti noi (potremmo riservarlo al nostro “Retino”, non appena i tempi saranno maturi… che ne dite?). E ancora una poesia “possente” (che riecheggia nel titolo e nei versi di altre poesie da me riportate sul blog) per l’emozione che suscita e il canto estremo tra immagine e parola, come tutte le poesie che Luisa Varesano ha inserito in questa sua nuova sorprendente e originalissima silloge, intitolata fiore e canto. Questa seconda poesia ha per titolo “Epilogo”: Ed ecco dall’acqua/ profonda e scura/ sollevarsi il guerriero/ in possente armatura.// “Chi sei?”/ gli chiesi tremante/ “tu che possiedi/ la spada tonante?”/ “Colui che Distilla”/ udii voce grave/ “Colui che purifica/ e filtra ogni goccia./ Colui che travasa/ lenisce e rabbocca.// Vieni con me/ ti porto al tuo sposo/ dove potrai/ trovare riposo.// Non è ancora questo/ il mare che cerchi./ È un mare più grande/ più calmo e sicuro/ è azzurro turchese/ non è mai scuro. E la rima ci culla in un incantevole mare “azzurro turchese”, quasi una ballata, quasi una ninnananna dal sapore antico, ma vicina al cuore fino ad impregnare di sé l’anima. E di “Acque amate” parlano anche le poesie di due straordinarie fotografe, discepole dell’immenso Giovanni Gastel, nel suo studio di Milano, ricche di vis poetica, come vedremo. Ho tratto dal loro libro Acque amate, appunto, firmato anche da Giovanni Gastel, due tra le più significative poesie che sono un canto d’amore per il mare Adriatico di Senigallia (Delia Biele) e per il lago di Como (Giulia Caminada). La poesia di Delia ha per titolo “La vastità del mare” ed è decisamente filosofica. Ci aiuta a pensare e a riflettere: Quali varchi dovremo ancora attraversare/ naufraghi in ogni dove col pensiero/ affacciati sul mare/ confine dell’umanità/ a mani nude ci prepariamo alla lotta/ immersi nei nostri dolori/ accarezziamo l’onda/ sperando di partire/ o di tornare? La poesia di Giulia s’intitola “Il mondo emerso”: Come tazza dal bordo irregolare,/ come fantasia senza geometria di una stoffa,/ come calligrafia rotta da un tratto/ o energia che sprigiona da un gesto./ Non è più l’occhio/ ma la mente che vede./ Parca di parole/ ascolta il ticchettìo/ della pioggia di primavera,/ partecipe dello splendore dell’universo. Sono versi che corredano le splendide foto di Delia e Giulia, sotto la evidente ispirazione del loro Maestro, non solo per le immagini ma anche per le parole. L’intero Progetto piacque tanto al grande Giò, il quale sul libro scrisse solo un anno fa: … Sono acque tormentate e serene sono scrosci e bagliori. Sono macchine per pensare queste splendide fotografie. Brava Giulia, brava Delia. Con grande stima. Giovanni Gastel. E ancora mare e ancora amore per questa distesa azzurra che ci regala fremiti di emozione purissima, in cui ritroviamo, ciascuno con la sua storia, gli “istanti” imperituri delle nostre vite. Questa volta è di scena lo splendido golfo di Gaeta con la poesia   “La baia dell’antica Villa Ariana” di Antonio Scatamacchia, altro caro amico-poeta di Roma, editore di una Rivista letteraria di grande pregio <Dialettica tra le Culture>, fondata dalla carissima e sempre rimpianta Silvana Folliero, scrittrice, poetessa, critico letterario di grande valore. La poesia di Antonio così recita: L’onda imperla la battigia/ Con ricami di telline/ Tu passante premi impronte sulla rena/ Che il mare non cancella/ Sovrapposte a tante/ Si confondono con la storia./ Sinusoidi di luce si riflettono/ Sulle ondine di sabbia/ Attraverso centimetri d’acqua/ E il sussurrio del mare disegna cadenze/ Interminabili del respiro del mare./ La tua figura affanna il vortice della sabbia/ E trasporta a riva conchiglie d’altri tempi./ La linea dell’orizzonte s’avvicina in una culla/ Che disegna una nenia/ Giunta appena spenta sull’asciutta riva./ Discorre lenta una vela/ Mentre il tremore del tempo/ Non affatica anzi si dondola quieto/ Nell’atmosfera iridata/ Dietro una protezione di colline/ Da selve a semicerchio/ A chiudere in una bolla sferica/ Gli istanti della vita. (25 sett.2021 Antonio Scatamacchia). Quanta tenerezza nella dettagliata descrizione da parte di Antonio di questo angolo di paradiso che percepisce poeticamente come “culla” e sente, con una bellissima sinestesia, come ninnananna che va a spegnersi “sull’asciutta riva”, mentre una “vela discorre lenta nel dondolio del tempo che non affatica”, anzi restituisce “attimi puri” alla vita. E di una giovanissima studentessa di quinto ginnasio, ma col sacro fuoco della poesia impresso nelle vene sin da bambina, ecco una poesia d’amore, piena di sogni e di speranze in un futuro ancora tutto da scrivere. Si chiama Maria Elena Varesano. È solo un caso di omonimia con la grande Luisa Varesano, ma a quanto pare promette molto bene come quest’ultima. La sua poesia s’intitola appunto “L’amore”: Lamentarmi, attribuire la colpa agli altri/ è ciò che mi rimane: tu mi dici./ Non convincerti di questo,/ non subire per ciò che sei,/ per quello che vuoi dimostrare,/ non cercare di nasconderti dalle lacrime, dalla sofferenza/ perché il presente è premessa del futuro,/ perché un giorno quando dalla tua clessidra/ cadrà l’ultimo granello di vita,/ il denaro, l’invidia, l’odio/ si dissolveranno nel nulla./ Ed è proprio in quell’oblio che davanti all’Eterno/ conterà solo lui, lui l’amore./ Allora non indugiare:/ Ama, ama più che puoi!/ Risanati dalla prigione del quotidiano,/ prendi in mano le redini della tua vita/ e va’ oltre il confine della parola,/ va’ dove il sentimento ti conduce,/ percorri con semplicità il sentiero della vita,/ ascolta i tuoi sogni/ e corri da loro! Come non dare spazio su questo blog a versi così maturi e ricchi di esortazioni ad amare e a liberarsi dalle catene delle banalità quotidiane, che fanno a pugni, quasi per gioco, con i brevi anni di Maria Elena? Lei, che ama tanto la parola, si prefigge con determinazione di superarla solo in nome dell’amore, con una dose in più d’amore, sentimento che alimenta i sogni e che spinge gli innamorati a raggiungerli per realizzarli in tutta la pienezza di ciò che chiamiamo vita. Per contrasto vengo rapita e ispirata da una poesia che pure parla d’amore e di vita in maniera del tutto diversa, come si evince già dal titolo “COME SE FOSSIMO MORTI” del bravissimo cantautore, musicista e poeta, Mauro Massari, a cui mi lega un grande affetto e tanta stima per tutto quello che fa (concerti a livello internazionale, per esempio,…) nonostante i suoi giovanissimi anni: Non vedo baci e nemmeno caffè/ in questo risveglio bianco/ di lenzuola e lino stirato/ Proust e Boll sul tavolino/ il mio tabacco rovesciato/ i bicchieri sporchi di ieri sera/ la mia unica colpa./ Soffro il tempo mischiato e perso/ nel continuo aspettare/ mi affaccio all’assoluto/ così come alla fine/ sei cresciuta/ camminando scalza/ e ne hai le forme sotto i piedi// dici/ dico/ Che a prescindere da te/ non lo è mai stato./ Poi i miei polsi, i tuoi bracciali, l’uva sopra la testa/ ancora il bianco/ dei muri,/ del tuo vestito, della mia camicia,/ del divano, fare l’amore/ fare la spesa al supermercato tu/ chiamalo pure niente./ A chi importa? Mi brucia/ le labbra la sigaretta dell’insonnia.// “Mi piaceva vederti/ sorridere”  ti ho detto./ “Come se fossimo morti”. Insolita visionaria immediata irridente poesia eppure intrisa d’amore, mai del tutto accettato e rivelato nella sua intensità di essere. Mauro mi ricorda tanto il solitario eroe dei film western (sul tipo di Gary Cooper o Clint Eastwood) che, dopo aver fatto giustizia dei suoi nemici e amato l’unica donna che conta nella sua vita, monta in sella e si allontana, lasciandosi tutto alle spalle ma portandosi per sempre nel cuore annidato il suo amore. Il titolo e la conclusione di questa poesia mi hanno riportato, intanto, alla silloge poetica POESIE PER MAMMA ELDA di Mariella Bettarini, scritta dopo la morte della sua amatissima Madre. E per oggi vorrei concludere proprio con questo altro tipo d’amore, quello filiale e imperituro di Mariella Bettarini, spesso da me citata con grande affetto e ammirazione, verso la sua meravigliosa “Mamma Elda”. Scelgo la VI poesia della II sezione: Racconti e ricordi. Eccola: poi tutto si va/ stemperando - il tempo porta via - cancella/ e già ricordo ormai poco e fra breve/ tutto sarà passato// vite/ di niente - tempo vanamente/ sottratto alla dimenticanza - buio:/ di noi a chi importa? a chi dire memorie - e/ perché?// tra poco sarai solo un nome/ sopra una lapide -/ eppure moltissimo/ avevi amato - dato di te - Maestra/ nell’amore - grande Anima e grande Cuore -/ e per questo - anche se/ destinata alla dimenticanza - tu indimenticabile  Mariella Bettarini è tra le più grandi poetesse del nostro tempo. Con uno stile del tutto personale, ricco di reminiscenze classiche e parole nuove nella necessità di essere sempre presente al proprio tempo, oggi più che mai. E si concede e ci concede giochi di parole tra presente-passato-futuro con ampi spazi tra i versi e le parole isolate che dicono tutto il non detto (vedi Paul Eluard), e con i trattini che frantumano i pensieri, già frantumati nell’anima senza più la presenza fisica di sua madre, tempio insuperato d’Amore. Versi brevi e brevissimi e versi lunghi e lunghissimi per parlare di Lei, una donna straordinaria nella sua semplicità vocazionale ad amare incondizionatamente… Indimenticabile. Indimenticata. Alla prossima con ancora POESIE D’AMORE…    

 

 

 

 

 

lunedì 25 ottobre 2021

Lunedì 25 ottobre 2021: e l'AMORE si confronta ancora con la POESIA...

E riprendo con alcune poesie d’amore con molteplici significazioni, che comprendono molte che abbiamo affrontato fino qui. Mi viene incontro “LA SEPARAZIONE” di Stefania Colavito/ Hera: E così ci separammo,/ pezzo dopo pezzo./ E ci allontanammo./ Niente più sorrisi, niente più abbracci,/ nessuna confessione né alcuna discussione./ Il vuoto, la distanza, l’estraneità,/ la dimenticanza./ E così ci separammo,/ pezzo dopo pezzo./ E ci allontanammo./ Ma in ogni epoca a venire,/ secolo dopo secolo,/ le nostre anime,/ come liberi e splendidi uccelli neri,/ si libreranno in volo nei cieli delle menti folli,/ dei pensieri irrazionali e degli amori immortali,/ l’una in protezione dell’altra. (da  Gli Amanti di Nidaros, SECOP edizioni, 2021). E della stessa autrice prendo anche “LA MANCANZA”: Ti conservo in poche cose./ Ti conservo nella notte,/ nel sogno,/ negli incubi./ Ti conservo negli occhi,/ nel respiro, nel pensiero./ Ti conservo nei vecchi film,/ nell’ironia,/ in un liquore./ Ti conservo in un déjà vu’,/ in uno spasmo,/ in un’assenza,/ in una casa,/ in un giardino./ Ti conservo nell’immaginario,/ in un odore,/ in una voce./ Ti conservo nella parte oscura dell’anima/ e negli angoli bui delle ormai sterili e gelide/ stanze del mio cuore./ Ti conservo nei sorrisi, apparenti./ Ti conservo tra la gente./ Ti conservo nelle domande/ e nel dubbio dell’esistenza./ Nelle note,/ negli spartiti delle più belle melodie,/ nelle coperte,/ nel battito,/ nel vento,/ nel fuoco,/ nella cenere./ Ti conservo nell’opinione,/ nello studio,/ nell’impegno,/ nel lavoro./ Ti conservo sul terreno che calpesto./ Nell’asfalto rovente./ Nelle pietre./ Nel terrore./ Nella solitudine./ Nell’orrore./ nella bugia./ Nelle cattiverie./ Nella neve appena posata./ Nel tuono estivo appena esploso./ Nel cielo d’autunno./ Nell’eco del tempo./ Ti conservo nella prima cosa che vedo/ e anche nell’ultima./ Ti conservo nell’appartenenza,/ impostata e decisa ancor prima di venire al mondo./ Ti conservo nell’anima./ E per questo,/ ti conservo sin da quando il primo ventre fu fecondato,/ fino all’ultimo respiro dell’ultimo uomo sulla terra./ E forse,/ ti conservo anche oltre. Che ne dite? Vale la pena di soffermaci su questo amore/assenza che è presente in tutto, e di riflettere e commentare perché così è l’amore. E, invece, ecco una poesia d’amore lieve, incantata e breve come una carezza, perché anche così è l’amore. Il suo titolo è, infatti, “Ci bastava la carezza” del compianto Umberto Kuhtz, persona di rare virtù e di profonda sensibilità poetica e umana. Una di quelle personalità di spicco, ma di grande umiltà, che ci rendono indubbiamente migliori: Ci bastava/ la carezza lieve/ del vento/ di primavera/ per sentirci/ immersi/ nella pace dell’universo.// Ora ci serve anche/ la voce dolce/ di un’amica/ sussurrata per noi/ dal suo cuore. (da CI BASTAVA LA CAREZZA, SECOP edizioni 2014). E quella carezza, che abbraccia l’intero universo, diventa più ricca di tenerezza se può dilatarsi, negli anni che inargentano i capelli, a comprendere il cuore degli altri, che rendono più viva e vera e reciproca la tanto agognata Pace. Ma che dire della dedica di Filippo Mitrani, altro carissimo amico poeta, al suo nipotino di appena cinque anni, Pierpaolo, all’alba della sua tenerezza ancora tutta da vivere, nella prima pagina della sua bellissima silloge di poesie “fresca di giornata”, bilingue (italiano e francese) e appena reduce dal Salone del Libro di Torino, sempre della SECOP edizioni? Eccola: A Pierpaolo   Quant’altro potrei amarti/ se il mio pensiero vola al successivo abbraccio?/     Cos’altro potrei dirti    /  Che già non ti abbia detto?  / Ma quanto ancora potrà inebriarmi il tuo sorriso?/ Non so se assisterò alla conquista del primo tuo traguardo/  angosciano i pensieri delle sicure assenze:  /   dovrò gioire del tempo che mi è dato.   /  Io che per te sconfiggerei ogni affanno  /  so di negare il razionale ammonimento  /  quando con la complicità del sentimento  / m’immolo all’innocente assurdità del tuo richiamo./     Vivo e Vivrò     /  Col nome tuo nel palmo della mano. (Filippo Mitrani, BRINE - GELÈES BLANCHES). L’amore dei nonni, come abbiamo già sperimentato moltiplica all’infinito il senso e il significato di AMORE oltre ogni sua significazione. Non così l’amore descritto in un solo ironico quanto feroce epigramma da un altro nostro Autore, che fa dell’ironia e dell’autoironia l’arma con cui combatterlo apertamente e con cui cercarlo velatamente in ogni lettera del suo rapido esporsi per non subire ulteriori inganni e danni. E rubo dalla sua pagina FB quanto segue dal titolo decisamente emblematico “IN AMORE”: In amore l’ultima arrivata è sempre la migliore, specie a suo dire. “Aforisma fulminante”, lo ha definito Giovanni Romano, un nostro Saggista raffinato e mordace che fa egli stesso dell’aforisma un affilato coltello. Ma i commenti sono davvero tanti e tutti degni di nota. Purtroppo non posso trascriverli. Vi invito a leggere la sua divertentissima pagina di Alberto. Né altro tono egli ha nella sua primissima silloge di poesie Postumi del disincanto di SECOP START, datata 2014. Anche il titolo, del resto, non lascia ben sperare. Il titolo dei brevi versi, nonostante siano passati ben 17 anni, non cambia molto: “Ricambio d’amore”. Ecco un nuovo arrivo!// Poco più che / brezza impaurita/ nel dissesto del cuore// Molto meno di questo/ bagno al largo.// Sicuro! E anche qui l’ironia è l’arma per strappare un amaro sorriso allo stesso Autore, che pare accumulare incontri su incontri e altrettante delusioni e battute d’arresto. Fino al nuovo incontro, alla rinnovata speranza, presto dissolta. Non a caso, sempre dalla stessa silloge, ecco un’altra testimonianza: “Niente di niente” ed è tutto dire, il titolo. Non eravamo niente,/ ma proprio niente di niente!// Eppure/ fa sempre un certo effetto/questa commistione/ di corpo e delirio/ che qui chiamano/ amore. E non c’è più niente da dire. Niente da capire! Altre pagine, invece, sono la dimostrazione che l’amore si può vivere anche tra due innamorati, sposi o compagni che siano, raccolti nel silenzio di una sera colma di stelle o nell’intimità di una preghiera. Ecco una pagina tratta da SIA FATTA LA VOLONTA’ DEL SILENZIO di Valentino Losito, altro cavallo di razza della nostra sempre più agguerrita scuderia, ed ecco una delle tante bellissime poesie, “QUEL PASSO LEGGERO”, che rende lieve e tenero ancora una volta il ricordo luminoso del primo amore: Avevamo/ il passo leggero/ degli adolescenti felici/ quando i giorni/ erano/ campi di luce./ Oggi abitiamo/ i chiaroscuri./ Ascoltiamo la vita/ sillabare silenzi/ dalle feritoie/ delle diroccate ore./ Ci accudisce/ la tenera notte/ per sbarcarci sottovoce/ sulle periferie dell’alba. E ci coglie, nel tempo, nonostante il disinganno del tempo nel tempo, una dolcezza nuova per la tenerezza della notte a rendere ancora viva l’attesa insieme di ogni nuova alba. E qui devo dare spazio a “L’amore per le parole” di Elina Miticocchio che ben si uncina alle sillabe dei silenzi di Valentino, per dare ulteriore spazio alla “grazia” delle parole appunto: Parlo con i fiori/ immaginari del giardino/ che spalanca le braccia/ anche questa volta/ mi ha accolto il tuo sguardo/ parola di pane/ che mastico piano/ Intanto colora la pagina/ ancora una si aggiunge/ ed io la ringrazio (datata 25/ 10/ 2021, cioè oggi). E ritrovo addirittura versi simili in una prosa di David La Mantia, altro carissimo amico di penna, a testimoniare il contagio delle parole che si fanno sempre e comunque Poesia: Dimmi poco, pochissimo. Parole di pane che concedano dei nomi alle piccole cose, sole per riconoscere, grazie da offrire in dono, nudi. Baci da lasciare là, alle soglie. Insegnami a perdermi nei boschi, a rinunciare alle mappe, preparami a rallentare, a scolorire, piano, ad abbracciare ancora, amare l’arco azzurro dell’esistere  

E ci ritroviamo davvero tutti in un universo condiviso che si fa VITA, si fa AMORE. E per oggi è tutto, ma non finisce qui. Abbiamo ancora tanto da esplorare insieme… 

giovedì 21 ottobre 2021

Giovedì 21 ottobre 2021: i tormenti d'AMORE risanati dalla POESIA?

 La scorsa volta ho concluso con una poesia che ci ha lasciato un po’ d’amaro in bocca per un tradimento che non ha lasciato più scampo a chi l’ha subìto d’improvviso e senza alcuna nube a far presagire l’inganno. Almeno questo ho letto io tra i versi davvero apprezzabili e di una profondità struggente. Mi piacerebbe ricevere i vostri commenti. Parlarne. Approfondire. Per salvarci, magari proprio con la scrittura. La poesia. E, intanto, non posso fare a meno di pensare a un primo atto: chiedere scusa. Ecco, infatti, una poesia che dovrebbe farci riflettere molto. L’ho catturata su FB. So solo che è di Laura Ferri, che non conosco e a cui va, comunque, il mio grazie, anche se non lo saprà mai: È così che ci si perde./ Tra una parola non detta/ e una parola detta di troppo./ Tra un’attenzione mancata/ e un sentimento non dimostrato./ Tra un’emozione taciuta/ e un eccesso di rabbia esternato./ È così che ci si perde./ Per orgoglio./ Per non saper chiedere scusa./ Per non saper rimediare/ a un errore che ha ferito chi ci ama./ Ci si perde un pezzetto alla volta./ Fino ad arrivare ad un punto in cui/ non si riesce più a tornare indietro./ Fino ad arrivare ad un punto in cui/ non ci si riesce più a ritrovare./ È così che ci si perde. Quanta verità detta con coraggio e semplicità. E per tutta la vita si portano addosso cicatrici indelebili che condizionano ogni nostra altra scelta nel presente che inevitabilmente sfiora il futuro. In considerazione di tutto questo, ritengo che quando qualcuno ha il coraggio di raccontarci a cuore aperto le proprie ferite, mai del tutto cicatrizzate (e quanto vitale è la cicatrizzazione per non morire!), è sacrosanto, se non lo ha fatto chi ha ferito, che lo facciamo noi. E lo faccio innanzitutto io con alcuni versi, intitolati “PER TUTTO QUESTO”, che ho recuperato negli scaffali del passato, quando ero ancora ragazza e abbracciavo il sogno di andare sposa, di lì a poco, al ragazzo che amavo, abitati entrambi da amica Poesia. Ho scelto questi versi che mi appartengono perché il mio sia un atto di riparazione e consolazione, in quanto chi ama intensamente non è mai lontano dal dolore. Mai: Per tutte le cose/ Che mai t’ho detto/ Per tutte le rose/ Che mai t’ho dato/ Per tutte le volte/ Che non t’ho cercata/ Per i momenti/ In cui non t’ho pensata/ Per tutte le volte/ Che ti ho lasciata/ Per l’egoismo/ La noia/ E tutta la mia idiozia/ Per la tristezza/ Del mio malumore/ Per il mio amarti/ Poco, da bambino/ Per l’infelicità/ Di certe parole/ Per il mio farti/ Soffrire/ Per la dolcezza/ Che non ti uso/ Per tutto quanto/ Posso darti/ E non ti do/ Per il mio esistere/ Infine/ Per non meritarti/ Ancora/ Ecco/ Per tutto questo/ Io/ Ti chiedo scusa. (da Poeti d’oggi- Primo Leone, INCANTO E DISINCANTO, Gastaldi Editore, Milano 1967). Diciamo poeti di ieri e dell’altro ieri. Ma i poeti muoiono. La poesia rimane. Ed io spero che prima delle nostre, delle mie scuse, siano giunte quelle a te dovute, amico/a, che occupi oggi il nostro pensiero e il nostro cuore. Ma ecco una poesia d’amore che non chiede scusa, perché è dono di ogni attimo vissuto, da vivere. È di Andrea Bitonto ed è senza titolo: Io ti dono le onde incessanti/ sulle spiagge esauste/ come quando mi accarezzi./ Io ti dono le lacrime della terra/ ché non le merita il posso più profondo./ Io ti dono la pelle bruciata delle mani/ per ricordarti che sono sempre un uomo./ Io ti dono una fogliolina secca/ per avvisarti di ciò che saremo./ Io ti dono i miei piedi stanchi/ per la felicità del mio viaggio verso te./ Io ti dono la sabbia dei deserti/ per tenere al caldo il segreto cuore della terra,/ per nasconderlo alle mani degli uomini./ Io ti dono una qualsiasi parola d’amore/ che serva a sciogliere la paura,/ allacciare le vene tremanti,/ i percorsi di due venti sperduti.// Io ti dono una poesia/ perché questo è quello che posso,/ ed è solo un folle attimo/ del tempo che tu hai fermato. (da Semi di Poesia in Azione - AMORE - Poesie, SECOP edizioni, 2014). Bella, vero? Tutto l’amore in dono in una poesia “attimo/ del tempo che tu hai fermato”. Che meraviglia! Lasciatemelo dire. E dallo stesso “seme” recupero questi altri versi d’amore dal titolo “Epilogo” di Piero Sansò: Il mare negli occhi/ nella bocca il sole/ e sulle tue mani/ l’odore della luna./ Se musica e vino/ intossicano/ di malinconia./ Per le cose/ che non abbiamo/ ancora fatte/ che non ci siamo/ ancora dette./ Prima/ della luna piena/ voglio/ riempirti/ il cuore,/ prima/ della prossima luna/ voglio riempirti/ del mio amore. Ed è un bellissimo epilogo: ancora dono d’amore questa poesia che ci vince di dolcezza, e di tutto quanto possa colmare anche le nostre mani di incanti, che hanno “l’odore della luna”… “prima/ della prossima luna”. Sì, ne sono sempre più convinta. La poesia ci salva da ogni tormento, da ogni stagione della vita, da ogni impedimento, persino dalle catene d’amore, che spesso strangolano ogni anelito alla libertà di essere e di realizzarsi secondo i propri sogni e i personali talenti. L’amore è il potente collante di tutto, ma la poesia lo supera perché ne cicatrizza ferite e ne eterna l’attimo del suo felice compimento. Ne sono testimonianza le “Parole sospese” di Dina Ferorelli: Scrigni di luce/ parole sospese/ sul tabernacolo del cuore// Scritte sulla sabbia/ piramidi d’eternità incise/ sulla pergamena della storia// Scolpite sulla roccia/ goccia si goccia a lenire/ universi di silenzi e solitudini// Dono delle tue mani/ olio sulla tavola imbandita/ scrutare con gli occhi/ le mie parole sospese (da Il sentimento della scrittura, SECOP edizioni 2021, sezione Ottanio). “Scrivere per irrorare il mondo di luce”, intitola Dina Ferorelli il suo raccontarsi agli amici autori, che compongono questa insolita e originale Antologia, e lo fa soprattutto con l’arte poetica. La poesia, dunque, inonda il mondo di luce e porta una folgorazione sognante, fatta di calore, luminosità, appagamento del corpo e dell’anima, soprattutto nell’incontro con gli altri e per gli altri. Ma allora la poesia coincide con l’amore, non lo supera, come prima ho affermato? Probabilmente sarebbe meglio ipotizzare che la poesia lo abbracci, lo sostenga, gli dia le ali, lo inviti a percorrere tutta la Bellezza del Creato e delle sue Creature, come ho avuto modo di dire e ribadire più e più volte… E qui mi viene incontro, a testimoniare tutto questo, la stupenda poesia della straordinaria Mariangela Gualtieri: Sii dolce con me. Sii gentile./ È breve il tempo che resta. Poi/ saremo scie luminosissime./ E quanta nostalgia avremo/ dell’umano. Come ora ne/ abbiamo dell’infinità./ Ma non avremo le mani. Non/ potremo/ fare carezze con le mani./ E nemmeno guance da sfiorare/ leggere./ Una nostalgia d’imperfetto/ ci gonfierà i fotoni lucenti./ Sii dolce con me./ Maneggiami con cura./ Abbi la cautela dei cristalli/ con me e anche con te./ Quello che siamo/è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei/ e affettivo e fragile. La vita ha/ bisogno/ di un corpo per essere e tu sii dolce/ con ogni corpo. Tocca leggermente/ leggermente poggia il tuo piede/ e abbi cura/ di ogni meccanismo di volo/ di ogni guizzo e volteggio/ e maturazione e radice/ e scorrere d’acqua e scatto/ e becchettio e schiudersi o/ svanire di foglie/fino al fenomeno/ della fioritura,/ fino al pezzo di carne sulla tavola/ che è corpo mangiabile/ per il mio ardore d’essere qui./ Ringraziamo. Ogni tanto./ Sia placido questo nostro esserci -/ questo essere corpi scelti/ per l’incastro dei compagni/ d’amore. E non ci sono davvero parole da aggiungere, casomai ancora alcuni versi che confermino tutto questo in una sintesi affilata dalla sempre presente Mariateresa Bari, che questa volta non ha inviato nulla di nuovo. Io, però, ho mille risorse quando sento profumo di poesia e prendo tra le mani la sua silloge poetica Intraverso, spiragli nell’essere (NeP edizioni, Roma 2020), dono prezioso, di cui farò tesoro come in questo momento. “IL MATTINO DEI TUOI OCCHI” è il titolo: Sciami di suoni/ a piena orchestra/ scivolano docili/ e destano/ il mattino dei tuoi occhi/ che scarmigliati/ si specchiano nel profondo./ Nelle sue viscere aleggia euforico Amore. E per oggi ci fermiamo qui. Ma l’Amore continua…   

domenica 17 ottobre 2021

Domenica 17 ottobre 2021: e torniamo a parlare d'AMORE con POESIA...

Sono ancora tante le poesie d’amore che mi sono pervenute o che ho raccolto affacciandomi su FB. Le trovo imperdibili perché cantano l’amore in tanti modi diversi e con sfaccettature diverse, di cui occorre tener conto per comprenderlo di più questo sentimento così intimo e privato e così universale. Alcuni studiosi della comunicazione sempre più vissuta sui social esprimono parere negativo su questo fenomeno che ci coinvolge ormai un po’ tutti perché non c’è momento di vita quotidiana, dalla nascita alla morte, che non trovi il suo spazio su Facebook, Twitter, Instagram e così via. Annullando completamente la privacy. Sono d’accordo anch’io in linea di massima perché mi sconvolge l’annuncio della morte di una persona cara immediatamente dopo la sua dipartita. E il dolore? Come si fa ad avere tempo e pensieri rivolti al social mentre urge dentro e strangola il dolore per la perdita di una nonna, una madre, un fratello, un figlio? Eppure oggi accade. E ogni sentimento positivo o negativo naviga in rete, diventando di tutti e di ciascuno. Così avviene anche per l’amore condiviso. È un danno? È una ricchezza? È un senso di comunità e di appartenenza che si dilata e ci fa sentire meno soli? È puro esibizionismo? È desiderio di condivisione? Potrebbe essere di tutto un po’. Bisognerebbe scavare nei meandri complessi e insondabili dell’animo umano (un insieme di corpo-mente-cuore-DNA-passato-presente-futuro a formare il tutto che è sempre molto di più della somma delle singole parti). Personalmente, penso che ben vengano le poesie d’amore in un mondo, anche quello virtuale, che sempre più oggi è intriso di indifferenza, egoismo, violenza, odio, sopraffazione, fino ai dati estremi di omicidio/suicidio sempre più frequenti nel nostro tessuto sociale e familiare. E dunque, è bene, a mio parere, continuare a parlarne. Non credo possa farci male. Ho tra le mani ancora poesie molto belle che voglio condividere per apprezzarle insieme e per un confronto sempre arricchente e salutare anche tra pareri discordanti, anzi soprattutto tra punti di vista diversi.

E allora vado a cominciare con alcune poesie d’amore di Maria Pia Latorre, che ci offre dell’amore una vasta gamma di accezioni tutte ricche di pathos, in una veste originale, insolita, nuova ma in sintonia con la poetica di questi ultimi tempi, con tante sinestesie e tante metafore e tante figure retoriche con rivisitazioni in rima. Titolo della prima  “Ti amo e in te la vita”: Ti amo e in te la vita/ sorpresa in questo spasmo/ impasta nuvole e lenzuola/ con le palpebre di finestre/ abbassate a metà/ a far cantare la città// Ti amo e in te la vita/ ha consistenza di frutta/ rovesciata sull’erba/ un biglietto Roma New York/ rollato nella tasca del cappotto// In te la vita amo/ e amo il tuo mare/ tra mocassini rattoppati/ stesi sulla tela/ cuori vaganti/ in respiri d’edera// Ti amo e in te la vita/ non è vita se non per reggere il destino/ col sorriso impavido/ di un buon profumo/asperso per sfida// In te la vita amo/ scivola la mia mano/sul tuo mare velluto/ dentro cose adagiate per sbaglio/ dimentiche della nostra essenza/ scivola sull’ennesima emissione di fiato// spezzato in due/ si espande il pensiero/ senza considerare la luna fiorita tra i rami// Quanta attrazione per dirci,/ solo per dirci// due fiumi d’acciaio bianco e nero,/ avvinti dai primordi/ nel tempo fermo// ma se s’inarca/ nell’ansa del collo/ uno slancio//    un arcobaleno/ in/ fiamma ci avvolge; “Gymnopedie n. 1” è il titolo della seconda: Con te sfioro la pienezza del vivere eterno// le sabbie del deserto di Gerico/ ammaliate da sfolgorii radianti/ come acquerugiole diamantine// giacigli di gelsomini astrali/ seguono il destino delle viole/ e del pensiero…/ ah! il pensiero/ muove a folle velocità/ negli spazi profani/ delle disimmetrie/ con le lune immote nei destini/ disgiunti/ e i corpi congiunti// allegria di frastuoni si affacciano/ alle finestre/ cercando il dove/ cercando il se del sé/ nei gesti incorporei/ di stolida felicità// senza accorgercene/ ci espandiamo/ nel vivere eterno/ dell’incorporeità// torneremo ancora quaggiù?; “Montepiano”, titolo della terza: Scrutiamo il futuro/ a passi felpati/ come gatti su tegole incerte./ Hai preso la mia vita/ e ne hai fatto felicità// Le nostre promesse/ sollevate dal vento/ tra i vicoli pietrosi/ un tetto di carta indorata/ la quiete che ferma il tempo/ sulle nostre teste (da L’enigma dei crochi). Meriterebbero un commento dettagliato tanto sono ricche di senso e significazione, ma non è possibile in questa sede. Vorrei sottolineare la bellezza del “tempo fermo” che la “quiete” regala, cercando anche ma non solo “il se del sé”, il dubbio che vanifica persino la parte più intima di noi nel momento in cui ci oggettiviamo e prendiamo le distanze da ciò che eravamo e che siamo per riscoprirci diversi e nuovi. Dove la certezza? Nel passato remoto o nel futuro che ci attende mentre noi lo attendiamo, senza il coraggio di andargli incontro? O forse sì? Da soli? In due? In tanti?

Ma ecco un’altra bellissima poesia d’amore di Assunta Braì al suo uomo Gino Locaputo. Entrambi poeti, entrambi con un passato difficile da indossare come abito mai del tutto dismesso, entrambi forti e coraggiosi nel rinascere ad ogni nuovo sole “sulle sciagure umane”. L’importante è essere insieme. Il titolo emblematico “Dammi la mano”: Dammi la mano/ e camminiamo insieme/ verrò con te/ negli anni verdi tuoi/ nella mia gioventù/ ti guiderò…/ e poseremo i piedi/ in prati verdi// nell’erba mai falciata/ dei tratturi/ e ti farò ammirare/ gigli bianchi/ nel cielo azzurro/ di un antico giugno/ poi torneremo insieme/ ebbri di sole/ a vivere quello che…/ ci resta/ vestiti gli occhi tuoi/ di verde e azzurro/ di gioventù/ che dicono trascorsa. (dedicata a Gino Locaputo che da più di sei anni è il mio compagno di vita). Tenerissimo canto che incanta di giovinezza sempre viva, acciuffata per i capelli sempre lunghi di ricordi da rivivere senza rimpianti e nostalgie, assaporando il presente attimo dopo attimo.

E ad un amore da vivere con… “quello che resta” ecco affiancarsi l’incanto del “PRIMO AMORE” di Lizia De Leo: C’era il plenilunio/ quella sera d’agosto/ di non so quante centinaia/ di anni fa…// Una brezza leggera/ muoveva le cime/ delle palme/ e le foglie degli ulivi.// Saliva da lontano/ con una fragranza leggera/ il salino del mare.// E un vecchio giradischi/ posato sull’erba secca/ dilatava una musica lenta.// Ballavo tra le tue braccia./ Eri il primo amore./ Ma tu non lo sapevi…  Tutto era magico, anche il “vecchio giradischi/ posato sull’erba secca”, in quel cerchio di “musica lenta” che il “plenilunio” illuminava a giorno e faceva capriolare il cuore in un tumulto silenzioso che “lui”, il ragazzo amato, ignorava. La conclusione di innocente malinconia rimescola realtà e sogno tra rimpianto e nostalgia di quel primo segreto batticuore… Ma ecco come contraltare un nuovo amore, diverso, vissuto nella pienezza dei sentimenti condivisi, pur nella inevitabile asimmetria degli anni. Ma quanto vero, meraviglioso, salvifico! “Nonna e nipotina”: Tengo la tua mano/ nella mia./ Piccola./ Tenera./ Tiepida.// E mi sembra/ di stringere/ il tuo futuro/ aurora di primavera/ luce liquida/ di un azzurro mattino.// Inconsapevole/ della tua pura energia/ con i tuoi abbracci/ lenisci le mie ferite/ le perdite e le assenze.// E smentisci/ tu, creatura agli albori,/ il tempo breve/ che mi resta/ negandone il compimento.// Nipotina e Nonna:/ mistero di un amore di miele/ e di vaniglia/ dialogo muto con la meraviglia. Improvvisa dolcissima rima che tutti riempie di meravigliosa emozione.

E stamattina leggo su FB una storia d’amore che supera il tempo e lo spazio e si fa infinita. È di Mattia Cattaneo, delle cui poesie d’amore ho già parlato qualche settimana fa. Ma i versi che ho letto stamattina meritano una condivisione più estesa e senza limiti: pelle resa/ a livida seppia/ nel pneuma/ di questo srotolare/ i nastri consumati// giorni diluiti/ in una messa a fuoco riuscita male/ dove si vive solo di uno sguardo/ o di gesti mossi da un’aria/ che sa di parto improvviso// incagliato/ sui miei precipizi/ ti dissi nel pieno silenzio// so reagire ad un addio.  Conclusione urlata coraggiosamente che non corrisponde a verità. Perdere la propria mamma da ragazzino è una ferita nell’anima che nessun altro amore risana, eppure tutti li comprende perché si fa arco d’infinito, in cui Mattia rinasce (“parto improvviso”, che sa di partenza e di arrivo) all’amore per lei, per la sua compagna, per gli altri ad ogni nuova alba…

Poi, Elina Miticocchio mi porta tra le mani una poesia d’amore assoluto: Tu solo puoi abitarmi/ tu infinito/ tu cielo/ tu fronda d’albero/ Ho mani invisibili ai più/ tu curi la mia sostanza/ e se sono strana/ e ti cerco/ ringrazio per non trovarci/ Un giorno ci incontreremo/ e saremo visibili/ ai più, ai tanti… E l’amore che rende “visibili/ ai più, ai tanti…” è una nuova benedizione.

Infine, un anonimo (un uomo, una donna?) mi scrive “Le intenzioni interrotte” su cui credo che occorra riflettere molto:  Sfolgorante bellezza naturale/ a sedici anni coniati d’oro puro/ lei del primo del secondo/ del terzo amore si fece vanto// al quarto dedicò labbra e mani/ passione carezze tutto il cuore/ e pugnali ebbe tra schiena/ e petto a trafiggerla di giorni/ mesi anni e un solo tormento// Lei avrebbe voluto un uomo/ a proteggerla da ogni inganno/ un figlio da amare/ la mano sua da stringere/ contro il seno// contro ogni tradimento/ e pietre da scansare/ o fiume da cercare/ prima di tuffarsi in alto mare/ contro rapide torrenti cascate// imboscate e rovinose cadute/ ma le attese senza richiami/ inaridirono lo slancio del cuore/ interruppero la voglia di danzare… La forza devastante dei tradimenti? Un tema da affrontare. Forse nel Retino. A partire da gennaio. (continua)

mercoledì 13 ottobre 2021

Mercoledì 13 ottobre 2021: ULIVO e i nostri commenti in prosa e in poesia...

Oggi, mercoledì, è giorno dedicato a Mercurio, il dio alato, il messaggero di buone novelle, il tramite tra gli dèi e gli uomini, tra il cielo e la terra. E io spero che il suo messaggio beneaugurale giunga a tutti noi che siamo giunti alla fine di questo percorso affascinante nelle pagine del libro I RACCONTI DI ULIVO, in cui abbiamo abbracciato le fantastiche tele di Enzo Morelli e ci siamo commossi ai racconti che cantano questo Altare sacro e umano, il nostro Ulivo, dipinto e vissuto in tanti modi e sul quale è stato facile scrivere. Comincio da quanto ha scritto la carissima Mariateresa Bari subito dopo aver partecipato alla inaugurazione della Mostra delle tele di Enzo Morelli e alla presentazione del libro, nel bellissimo Chiostro del Palazzo di Città di Corato, la sera del 2 ottobre: “Le tele del geniale artista saranno esposte dal primo all’otto ottobre. Gli scatti e i miei versi a raccontare le emozioni per la magica serata! Per le foto, rimando alla mia pagina del 2 ottobre su FB; per la poesia, intitolata “Approdo”, eccola: “Bruco ai bordi del sapere/ in ammirata contemplazione/ Dalle mie ossa nude/ si prolungano radici/ ad abbracciare l’anima/ E sarà immacolata consolazione/ se l’autentico si annida/ cinguetta il cielo alla vita/ È prodigio/ nel celeste fiorito tra i rami/ del mio belare un frullio d’ali.”. E sempre di Mariateresa:  Si può dipingere anche l’invisibile. Si può dipingere la sofferenza, i sogni, l’amore. E Morelli ci riesce benissimo… Commovente il suo incipit: ‘Negli ulivi ho dipinto me stesso, i miei dubbi, le mie ansie, le mie fragilità…’. Grazie Angela per questo approfondimento della sua poetica…”. Ma Mariateresa, riportando le parole di Valentino Losito, e ispirandosi anche ad altri Autori, ha scritto ancora: “Sopraffatti dal rumore fuori e dentro di noi, siamo radici in cerca di silenzio. Il non detto, le parole mute che irrompono nella nostra anima”. “Uomo, torna uomo!”, ha esclamato: “È il grido della nostra Terra. È il grido di tutti noi. E c’è da interrogarsi su questa grande verità!…”. Certo, c’è da interrogarsi! Ed io spero che sul nostro blog se ne parli ancora insieme per un salutare confronto. Ma poi ecco una poesia breve ma intensa e molto profonda, come è nelle corde luminose e dorate di Angela Strippoli: “Vengo dalla zappa del contadino/ Sono figlia delle forbici da pota/ Ho spina dorsale delle vigne/ e i seni ricamati di pizzo/ Per morire ho tempo/ Ora voglio guardare il sole”. E tutto diventa lieve, incantato, di solare voglia di vita. E propongo anche i vari preziosi apporti di Vito Tricarico in prosa e con bellissime immagini dei campi di ulivi di ieri e di oggi (per chi volesse “assaporarle” rimando, ancora una volta, alla mia pagina…): “Ciò che dipinge Enzo Morelli è il miracolo dell’ulivo. È un miracolo che vede protagonista una divinità del mondo antico, venerata nel mondo greco, come anche nella nostra terra: la dea Minerva. Mi sembra bello rammentare la leggenda della sfida tra Atena e Poseidone per diventare la divinità protettrice della città di Atena. Entrambi avrebbero offerto un dono agli Ateniesi per la scelta di quale fosse il migliore. Poseidone piantò a terra il suo tridente facendo scaturire una sorgente d’acqua. Atena, invece, conficcò la sua lancia nella terra e da questa fuoruscì il primo ulivo idoneo ad essere coltivato. Forse a causa del sapore salmastro dell’acqua della sorgente, o pensando giustamente che l’ulivo avrebbe procurato legname, cibo e olio, gli Ateniesi scelsero il dono di Atena, eleggendola a patrona della città. Un albero che ha avuto tante attenzioni, merita di essere raccontato, descritto, esaltato cantato dagli artisti nei diversi campi dell’Arte…”. A questo intervento dettagliato sulla leggenda, che vuole Minerva anche sacra alla città di Bitonto (di cui hanno parlato con altrettanto amore Zaccaria Gallo, Antonio V. Gelormini e altri autori...) ha risposto Cettina Fazio Bonina, mia carissima amica e Presidente dell’ormai famosa Associazione culturale “Porta d’Oriente: “Vito Tricarico, grazie del contributo che hai portato con questo messaggio, i saperi arricchiscono l’animo!”; “I racconti di Ulivo, un libro di grande valore culturale che coniuga Letteratura e Pittura con competenza e professionalità! Complimenti alla SECOP!…”.  Ma anche Zaccaria dice la sua: “Caro Enzo, ho aperto per caso su Facebook oggi e ho trovato questa novità. Sono contento per te e per il tuo sogno che ha preso forma reale. Complimenti e in bocca al lupo.”. E Nicola Patronelli commenta: “Se gli ulivi parlassero, ogni uno di loro raccontassero la loro storia, sarebbe il massimo del fascino esistente sul nostro pianeta.”. E Caterina De Fusco sintetizza efficacemente: “Bravi… Grazie per la vostra dedizione”. E ancora: “Una bellezza non quantificabile in moneta ma ‘in un prendersi cura’”. È così che si fa rete:  nell’arricchimento reciproco e nella possibilità di allargare il dialogo e di aprirsi al confronto. E, infatti, Vito Tricarico continua ad arricchirci con la sua esperienza di chi ama l’ulivo fino a coltivarlo nel rispetto delle regole antiche: “Sua maestà l’Ulivo è la pianta tipica del nostro Paese. Gli ulivi che popolano la nostra piana e adornano le nostre colline, come raccontato nel testo odierno, sono fonte di ispirazione per i pittori, fotografi, poeti e scultori. Se non sopraffatti da malattie e da colpevoli incendi, resteranno sempre a testimoniare l’amore per l’essere umano col loro prezioso olio, oltre che essere fonte di ispirazione, ma… Ho avuto il piacere di piantumare molti ulivi novelli, tutti a debita distanza di almeno 6 metri fra ogni pianta. Oggi purtroppo gli ulivi novelli vengono piantati in filari come le viti e crescono con grande spreco di acqua e concimi… Occorrerà, in seguito, ancora più cura dei vecchi ulivi centenari che ornano il nostro territorio, perché le novelle piantagioni, dopo vent’anni, hanno bisogno di essere espiantate…”. Ancora: “Ulivi: fonte di continua ispirazione. Grazie Angela De Leo per la tua disamina artistica… In autunno è un incanto ascoltare la brezza lieve che in silenzioso concerto le foglie d’argento sfiora e i tronchi nervosi ristora.”. E, intanto, mi vengono quotidianamente incontro le poesie di Elina Miticocchio e tutto si colora di gioiose parole che il cielo le detta, fra un volo azzurro di Chagall e un verde prato, dove radici di libri ricamano l’appartenenza al mondo della scrittura, mai dimentica del vento tra gli alberi, del fruscio delle foglie: “Ho deciso di volare in un fresco settembre/ le foglie rosse a tappeto/ ed io seduta su una panchina/ all’ombra di un grande ulivo/ a leggere e studiare./ Sarà così o forse sto sognando/ ma in fondo ad ogni sogno/ trovo la mia verità…”; “Sono neve che scioglie i nodi/ nido che culla me stessa/ imparo un alfabeto nuovo/ mi amo intera/ e in terra lascio le vesti/ e trasparente vado/ per i miei campi/ mi nutro di chiome di alberi/respiro l’ombra di un ricordo/ lo lascio danzare/ sulla mano/ aperta”; “noi siamo le nostre radici/ salde da proteggere/ siamo il suono della terra/ utero// infine siamo Cielo/ che si è fatto pezzetto/ in noi”.   

Ed ero convinta di dover chiudere col l’azzurra lievità trasparente di Elina, ma poi ho letto la pagina imperdibile di Nicola Pice e non ho potuto fare a meno di rubargliela per postarla qui a conclusione (e che conclusione!) di questo nostro stare insieme all’ombra luminosa del nostro imperituro ULIVO.

CRISTEFINGE, UN CANTO POPOLARE DISPERSO

Nello studio di onomasiologia relativo a Opere e attrezzature della olivicultura e della viticultura scritto da Francesco Rutigliano sul finire degli anni quaranta e pubblicato nel 1980 nell’ambito della collana “La nostra Bitonto” a cura della locale associazione turistica Pro-Loco, la voce ‘Cristəfingə’ è così descritta: “E’ l’atto con cui gli operai, in segno di letizia, finite le opere della olivicultura e del frantoio, legano il padrone ad un albero o a un carro agricolo o a una sedia: evidente il ricordo del Cristo fisso (finge, da figo) alla croce, ricordo che nel parlante o è svanito o non ha l’ombra della irriverenza”. Nel suo Lessico dialettale del 1957 Giacomo Saracino spiegava a sua volta così la voce Cristəfingə: “Festa che i contadini e specialmente le contadine fanno, tornando sui carri da campagna, l’ultimo giorno del raccolto delle olive: *Cristus vincit (canto predominante, durante la festa)”. In effetti a questo rito, una sorta di saturnali dell’olio, con il rovesciamento dei ruoli di padrone e servitori di esso, seguiva uno scomposto corteo di lavoratori, donne e ragazzi, che attraversava il paese ostentando un tronco d’olivo. Liberamente si cantava da parte della festosa brigata dei partecipanti. Poi seguiva un banchetto, per lo più modesto, con i rituali “ziti”: era una sorta di kùnzuə dopo gli estenuanti lavori di campagna. In questa perduta antica tradizione forse c’è traccia di un rito pagano (impiastricciarsi il volto con la feccia di vino durante la vendemmia) combinato insieme allo scherno dei soldati al Cristo legato alla colonna, spesso raffigurato con la scritta Christus vincit, un motto, che è l’inizio dell’inno cantato dalla chiesa cattolica nelle solennità, specie nelle messe pontificali. Ritengo che il nostro Cristəfingə - in evidente assonanza con Christus vincit - possa ricondursi al verbo latino fingo, ‘immaginare, inventare’, dunque Cristofinto. Di quella stornellata risultavano sopravvissute solo due quartine di ottonari a rima baciata, ma nessuna traccia del testo nella sua interezza, sino a quando una più ampia testimonianza è emersa nel recente testo di Peppino Moretti “Vətòndə: la vàucə d’ajìrə”, che riporta in appendice proprio il nostro Cristəfingə. Su questo testo sono intervenuto apportando tutte quelle modifiche necessarie per una migliore rispondenza alla organizzazione e distribuzione delle parti tra i vari cantori e ancor più per un miglior accordo con la struttura compositiva del canto. Esso risulta strutturato in strofe di ottonari a rima baciata con gli accenti metrici collocati nella terza e settima sillaba, al fine di una accentazione che facilmente si imprime e meglio si dispone ad una cadenza cantilenante. Il testo si compone di 138 ottonari: 58 eseguiti da una voce assolo, 42 da un duetto di voce maschile e voce femminile, 38 da un coro di campagnoli. Il tutto appare un brioso ‘recitar cantando’ che evoca vicende gioiose attraverso un gioco di parole contrassegnato dal ricercato equivoco del doppio senso e dallo scherno irriverente, senza rinunziare ad esprimere emozioni e sentimenti pregne di sapore, odore e colore. Riappare una traccia di un mondo contadino perduto, una sorta di specchio di quella realtà sociale sia pure trasferita a un piano di demistificazione parodico-caricaturale. La tradizione orale, difatti, racconta di un grosso ramo di ulivo portato dalla campagna, legato ad una estremità di una verga a indicare il Cristo. In paese si snodava un lungo corteo di contadini sia uomini che donne, preceduti dal portatore del suddetto ramo, simbolo di ricchezza e di allegria. Si creava un clima di intensa allegria, che maturato durante la festa suggeriva una sorta di realtà alternativa o di mondo alla rovescia, in cui diventava lecito legare all’albero il padrone. Ungendolo di olio e di vino e legandogli una fune intorno al petto, fingevano di seviziarlo tra grida e canti per poi farsi promettere, in cambio della liberazione, un pranzo coi fiocchi: un vero e proprio rito propiziatorio e liberatorio, le cui radici antropologiche andrebbero forse ricercate in antiche usanze orgiastiche e feste rituali. Oggi è completamente dimenticata questa usanza del Cristəfingə, che si poneva a suggello della festosa conclusione dei lavori della raccolta delle olive. (qui riporto i primi 42 versi)

Voce assolo

‘Ndoppə màngə e ‘ndoppə mìngə,

s’acchəmmènzə u Cristəfìngə.

Né a patràunə né a patrìunə

u chərròivə né a nəsscìunə.

Vè pə sànghə la natìurə, 5

tènə vòcchə e tènə fìurə.

Anəmèulə, fèmənə e màsquə

vònnə tuttə a gìrə də vàsquə,

e la vàsquə du trappòitə

pe la fèstə vòlə u ‘mbòitə. 10

Uè patrìunə e uè patràunə

tùtt’a sciùchə, cə sə nàunə,

‘mbìcchə sèulə e ‘mbìcchə aciòitə,

nùddə a chiàngə e tùtt’a rròitə.

La paròulə du nagghìirə 15

mèttə u bbàstə au dəcətìirə.

Dəcətìirə a rràgghiə də ciùccə,

l’apərtìurə a ‘mbà Vətùccə.

‘Mbà Vetùccə jè chəmbratàurə,

du patrìunə nu bbùnə trəsàurə. 20

Attaccàmə la canzòunə

e brəndàmə a la patràunə,

u patrìunə vè pə ssòttə.

jèddə rèiscə tùttə rə bbòttə.

Coro

Cristəfìngə, Cristəfìngə, 25

cchiù tə strìngə e cchiù m’avvìngə,

e cə mègghiə tu vu fèuə,

au paràitə u dà prəttèuə.

Duetto

Uèh uèh Marì, uèh uèh Ciccì,

vìine all’àcque au pùzze mì! 30

- Uèh Marì, e ce vìne sòla sàule

T’àgghia ròmbe la rezzàule

- Uèh Ciccì, e ce vìine assule assìule

T’àgghia fa vèive jìnde au rezzìule.

- E ce vìine acchembagnèute 35

T’àgghia ròmbe la pegnèute.

- E ce vìine acchembagnèute

T’agghia jègne la pegnèute.

- E ci vìine de matòine

T’agghia ròmbe u piattòine. 40

- E ci vìine matìne matòine,

trùuv’achìuse u pettegòine.

Voce assolo: Dopo a mangiare e a pisciare, / diamo inizio al Cristofinto. / Non si offenda il padrone / o la padrona né nessuno. / Nel sangue scorre la natura / ed ha bocca e versa fiori. / Animali, femmine e maschi / vanno tutti a giro di vasca, / e la vasca del frantoio / per la festa vuole l’invito. / Ehi, padrone, e tu, padrona, / tutti a giocare: caso contrario, / poco sale e poco aceto, / nessun pianto, ma solo riso. / La parola del capo-frantoio / mette fine alla diceria. / Diceria a raglio d’asino, / l’apertura a compare Vituccio. / Compare Vituccio è fattore, / un buon tesoro del padrone. / Cominciamo il canto / e brindiamo alla padrona, / il padrone va … di sotto, / ma lei regge ogni …botta.

Coro: Cristofinto, Cristofinto, / più ti stringi e più m’avvinci, / e se meglio tu vuoi fare / al parete lo devi portare.

Duetto: Uèh uhè Marì, uhè uhè Ciccì, / vieni per l’acqua al pozzo mio!

- Uèh Marì, se vieni sola soletta / ti romperò la brocca

- Uèh, Ciccì, se vieni solo soletto / ti farò bere nella broccola.

- E se vieni accompagnata / ti romperò la pignatta.

- E se vieni accompagnato / ti riempirò la pignatta.

- E se vieni di mattino / ti romperò il piattino

- E se vieni di buon mattino / trovi chiuso il botteghino.

Grazie, Nicola, per questa preziosa perla recuperata. È la conclusione giusta a I RACCONTI DI ULIVO, in cui tutti ci siamo immersi e ritrovati, riconoscendoci nelle nostre comuni radici, nel nostro ESSERE ed ESSERCI, insieme, come in una bella grande famiglia: ieri, patriarcale; oggi, estesa; domani, interplanetaria. E, alla fine, abbiamo scoperto, dopo tanta reclusione, che è bello RITROVARSI E ESSERCI! Il nostro “botteghino” (senza doppi sensi!) è sempre aperto perché gli Ulivi di Enzo Morelli ci faranno ancora compagnia come i canti e le tradizioni popolari. Fanno parte di noi e della nostra storia. E tutto rinasce e rivive nell’Amore che ha generato ogni bellezza, e di Amore parleremo ancora… Angela

 

  

lunedì 11 ottobre 2021

Lunedì 11 ottobre 2021: AA.VV., I RACCONTI DI ULIVO, a cura di Enzo Morelli... (quinta parte)

Alla verve istrionica di Gerardo Placido, attore di teatro e di cinema di fama internazionale, dobbiamo la piacevolissima pagina, dal respiro teatrale o cinematografico, di un viaggio in Irlanda, organizzato da alcuni giovani appassionati dei famosi strapiombi di Moher sull’oceano Atlantico. Il nostro autore non disdegna di mischiarsi alla giovane e allegra compagnia, grazie all’invito di una ragazza vivace e bella, di nome OLIVE. L’insolito nome gli richiama alla mente gli indimenticati frutti dei nostri Ulivi e la terra di Puglia, a cui egli stesso appartiene. “L’Irlanda è meravigliosa, è una piccola grande isola, dove c’è tutto il mondo (…) e se mi permettete tante belle ragazza dai capelli rossi. Oggi infatti sto andando ad un incontro, forse amoroso, lo dico incrociando le dita, proprio con una bella ragazza dai capelli rossi e occhi color oliva, verdi, come il colore dell’olio che porto con me in una bottiglietta…”. Questo l’incipit del frizzante racconto, è tutto giocato sulle attese amorose di questo anziano “sciupafemmine” (termine da me usato nella sua accezione ironica ma non irrispettosa!), l’autore, con tutte le velleità di antiche, audaci avventure amorose, e i timori che s’insinuano in un corpo provato dagli anni, come un ulivo dal tronco rugoso e ferito che il tempo e le stagioni di un millennio non hanno risparmiato. “Certo la notte non ho dormito, per la bellezza di questa ragazza, e soprattutto perché incredulo che una giovanissima mi avesse invitato lì su due piedi ad una passeggiata in compagnia di altrettanti giovani. Infatti, puntualmente, si è presentato un incubo durante la notte, data la mia non tenera età, tra la gioia e qualche angoscia, eh eh, l’età l’età che ti fa. Cosa avrei potuto dare a lei e a dei ragazzi io?”. Le esperienze del viaggio, intanto, sono tante come le attese, le illusioni, le aspettative, le paure, il desiderio di una lontana giovinezza mai del tutto spenta. Sarebbe bastato un bacio per riprendere a sognare. E il miracolo accade. Leggere l’intrigante racconto serve a scoprire come, quando, dove e soprattutto perché… accade!

 Anna Santoliquido, da grande poetessa qual è, non poteva che impersonare un Ulivo-Poeta, i cui “sogni sono echi di storie lontane, grovigli di passioni e vite spezzate”. Sogni, dunque, simili a quelli degli uomini, alla loro vita. Ma gli uomini hanno vita brevissima, un soffio, rispetto ai secoli e ai millenni del tempo attraversato dagli alberi dalle chiome argentate e dalle radici intricate nel profondo della terra. L’Ulivo-Anna ama giocare con le parole e trasformarle in poesia. O sono le parole che giocano con Ulivo-Anna?. Lei ce ne parla con profondo, affettuoso rispetto.  Ulivo, lei racconta, fu accudito da Giuseppe che, nel tempo lontano della semplicità del vivere quotidiano con i riti poveri che arricchivano la mensa di pane, vino, olio, lo colmò di premure tra il canto degli uccelli e le ali del vento. E tutto sapeva di buono e di altruistico amore, di generosa convivenza tra gli uomini, la terra, gli animali, la natura. Ma, dopo l’amore oblativo di Giuseppe, purtroppo, tutto, nel tempo (quanto fondamentale il trascorrere del tempo sulle vicende umane!), è cambiato e si è trasformato. Sono subentrate indifferenza e abbandono. Solitudine. “L’uomo del terzo millennio è distratto. Percorre strade che lo allontanano dalla terra. Conquistare lo spazio non è un delitto, lo è, purtroppo, avvelenare le colture, incendiare i boschi, contraffare i prodotti. L’oltraggio alla natura ha causato danni irreparabili”. L’uomo contemporaneo, dunque, “è distratto” da innumerevoli input che lo allontanano dalla natura, dai valori antichi, dalla parola, dalla poesia. Eppure, c’è in Ulivo, come in Anna, la determinazione a resistere per ESISTERE. Nella ricchezza della memoria che riattualizza i ricordi, e nella grazia del perdono che risarcisce e salva.

 Un abbraccio lirico appassionato e avvincente è il racconto di Mario Sicolo. E noi ritroviamo nel suo Ulivo il malinconico poeta, intriso di poesia, che ci fa assistere, come in un film alla moviola, ai momenti più salienti della storia dell’umanità, dalla notte dei tempi fino ai nostri giorni, attraverso gli occhi e il cuore magici di questo nostro albero (e di Mario naturalmente) che ha “rami nodosi protesi verso l’infinito del cielo come una preghiera antica che sa di solitudine, le foglie dipinte di smeraldo impolverato dell’argento delle stelle, la corteccia del tronco ritorto ruvida come la crosta del pane che si faceva in casa all’alba”. Come non rimanere estasiati di fronte a questa celebrazione dell’Ulivo che è canto e incanto senza fine? Ogni parola è un magico cesello di rara bellezza. Ogni immagine che se ne ricava ricama ai nostri occhi un frammento insaziato e indimenticabile di quanto accaduto, vissuto, osservato presso il suo tronco ferito: l’anima lacerata di Cristo lasciato solo nel campo del Getsemani e portato via dai soldati come un malfattore; la vecchietta smemorata e sperduta che ritorna innocente bambina; la donna di tutti e di nessuno con lacrime di sogni infranti celati nel cuore; le mani di nonni e nipoti intrecciate in tenerissima sintonia per la festa del raccolto; lo stridore dei treni in collisione e le urla spente di vittime innocenti. La magia di un pittore, carico di anni e di passione antica a riflettere sulle sue tele lo splendore degli ulivi di questa nostra terra siticosa e amara, ma generosa e votata alla Pace. Una Pace tanto attesa e mai raggiunta. Ma sulle tele dell’anziano pittore il miracolo avviene. “Così, mentre il pittore sollevava l’opera dal treppiede per riporla nel portabagagli della sua auto, ho potuto sbirciare quel piccolo grande capolavoro. Mi aspettavo di riconoscere rami, tronco, radici, foglie… Sì, c’erano, ma di più: vi ho scorto un incanto che non pensavo di possedere e che mi ha subito affascinato. Sì, dentro quel quadro c’era la mia stessa anima…”. È lui il pittore, che ha dipinto l’anima di Ulivo? Enzo Morelli? Ne ha tutta l’aria e la luminosità sognante dei nostri cieli negli occhi.

 Infine, un racconto tenero e forte insieme di Enrica Simonetti, che si libera dalle vesti di giornalista affermata per vestire le sue membra e il suo cuore delle foglie sempreverdi dell’Ulivo innamorato. Appassionato di storie e di stagioni. Amareggiato per quanto nel tempo abbia dovuto subire. Ma nel suo tronco ferito si nasconde una donna che continua ad amare con tutte le sue forze, il suo coraggio. Perché “Quando una donna ulivo ama… lo fa per sempre”. E per sempre significa dalla notte dei secoli all’aurora di un futuro infinito come il Tempo del prima e del dopo la nascita dell’uomo con la sua storia di passioni, tormenti, lacrime lunghe, e brevi attimi di esaltante felicità. Quando una donna ulivo ama sa attendere che Lui arrivi, ha pazienza e perseveranza, persino la resilienza/resistenza che l’aiuta a vincere dubbi e incertezze e a vestirsi di speranza. E Lui va e ritorna, col suo spirito libero e ribelle, felice del distacco e dell’abbraccio; determinato a viaggiare per scoprire nuovi mondi, in questa terra che ricorre ai miti per salvarne il ricordo, e continuare a perpetuarne la bellezza e l’armonia che ci aiuta a conoscere e sapere, a fare delle scelte nella consapevolezza del nostro valore e di quello altrui in un confronto che dilata orizzonti ed esperienze, addirittura interplanetarie. Ma il suo ritorno è dolcissimo e vale il tempo dell’attesa e del sogno. Lui è Tempo e Spazio, Attesa e Sogno, appunto! Lui è vitale intesa perché accarezza la donna ulivo per ritrovare la terra amata, la nostra Puglia, in cui ritroviamo un po’ tutti noi antiche radici… In questa nostra nobile terra c’è un Principe azzurro, un Lui. Che ha colore di mare e impeto di vento… Ma chi è questo Lui che si carica sempre più di mistero e c’incatena alla lettura? Con un colpo magistrale di meravigliosa scrittura, la giornalista/scrittrice Enrica Simonetti ci sorprende e spiazza col suo grido innamorato: “Ti amo, …!”. E non vi svelo il suo nome. Andate a cercarlo e… buona lettura! Ma no… lo dico, tanto vi siete così innamorati di questa donna/Ulivo innamorata che andrete a leggere e rileggere il suo racconto! Scrittura/Scrittrice, Enrica ci sorprende e spiazza col suo grido innamorato: “Ti amo, Libeccio!”. Libertà, ribellione, creatività mista ad un pizzico di follia che non fa mai male ma ci trasporta sulla luna, dove si ritrovano sempre i folli e gli innamorati. O gli innamorati folli?

E, intanto, devo sottolineare che tutte le parole di questo splendido libro hanno il respiro immenso della POESIA e della CREATIVITA’, che magicamente si annidano in una stessa unica ANIMA. UNIVERSALE. Tutte cantano di Ulivo la maestosità e l’arrendevolezza, il vigore e la fragilità, il coraggio e lo scoramento. Quasi tutte raccontano la solitudine di desertificate contrade del Nord e la festa di ramoscelli frementi di pace a Gerusalemme. Le rughe del tempo che non perdona e i germogli del tempo della rinascita su rami di foglie a toccare il cielo. Ma sopra tutte svettano per liricità e profondità le parole del compianto Michele Campione, che non ha bisogno di presentazioni, e che, in versi indimenticabili, le ha mirabilmente sintetizzate tutte: Ho piantato un ulivo/ dal tronco sottile e flessuoso/ come i corpi delle ragazze quindicenni/ che sorridono con gli occhi./ Ho affondato le mani/ nel terreno soffice/ e umido/ per raccogliervi le radici/ come in una culla./ Ho contato le foglie grigio-argento/ e le inflorescenze/ impotenti ancora/ a trasformarsi in frutto/ come gli amori precoci dei ragazzi./ Io non vedrò/ il mio ulivo dalle radici profonde,/ il tronco scolpito/ e i rami potati a candelabro./ Gli ulivi si piantano/ per i figli/ e i figli dei figli./ Esorcismo antico/ per proiettare la memoria di noi/ in un arcobaleno di tempo/ che si spegne sul mare.  

E non posso fare a meno di focalizzare almeno due o tre espressioni: la giovinezza del cuore di Michele Campione, testimoniata da due similitudini “giovani giovani”: “come i corpi delle ragazze quindicenni” e “come gli amori precoci dei ragazzi”. E ancora una similitudine tenerissima: “come in una culla”, che ci riporta indietro nel tempo fino alla nascita dell’umanità e del nostro venire al mondo. Infine, ecco un insolito “in un arcobaleno di tempo”: sarebbe stato più normale dire “arco di tempo” e, invece, “arcobaleno” porta in sé e con sé “i colori della Pace”, come auspicio e speranza che si propaghi fino a “spegnersi”, purtroppo oggi, perché siamo ancora lontani dal realizzarla, “sul mare”, il “Mare Nostrum”, il Mediterraneo, le cui acque si arrossano sempre più di sangue, ma sono pronte a portarci lontano in tutte le direzioni del mondo… E l’Ulivo è un Talismano di verde smeraldo con cui ingioiellare le dita per sposare ogni giorno una terra, la nostra Puglia, amara da amare…

Questa la mia conclusione, ma non finisce qui. Perché queste pagine hanno dato la stura a commenti poetici che desidero condividere con tutti i lettori la prossima volta, in quanto nel nostro blog abbiamo creato un’atmosfera di particolare “inter-esistenza”. E mi piace riportare, a questo proposito, una pagina stupenda del pensatore zen Thich Nhat Hanh, riportata da Francesco Bellino nel suo libro GIUSTI E SOLIDALI (Edizioni Dehoniane, Roma, 1994): Un poeta, guardando questa pagina, si accorge subito che dentro c’è una nuvola. Senza la nuvola, non c’è pioggia; senza pioggia gli alberi non crescono; e senza alberi non si può fare la carta. Si può dire allora che la nuvola e la carta “inter-sono”, perché senza nuvola non c’è carta. (…). Nel foglio di carta è presente ogni cosa: il tempo, lo spazio, la pioggia, i minerali, la luce del sole, la nuvola. Ogni cosa “co-esiste” nel foglio. <Essere è in realtà un “inter-essere” (…) Questo foglio, così sottile, contiene tutto l’universo> (T.N.Hanh, Essere Pace, Roma 1989). Il blog esiste ed è vitale per i tanti lettori che “inter-agiscono” e dialogano inviando bellissimi messaggi. GRAZIE. (continua)                                                 

 

  

domenica 10 ottobre 2021

Domenica 10 ottobre 2021: AA.VV., I RACCONTI DI ULIVO, a cura di Enzo Morelli... (quarta parte)

 Anche il racconto di Annamaria Monterisi è incentrato sulla straordinaria forza travolgente degli Ulivi per vincere il tempo e tutte le devastanti trasformazioni fisiche e psicologiche che esso comporta nel tempo, e che non risparmiano niente e nessuno. Persino le tragedie intessono di assordante rumore e silenziosa tristezza i giorni lunghi da vivere e interminabili da capire, nei tronchi rugosi di antiche ferite e nelle chiome verdeggianti di gloriose vittorie. “Io il tempo lo conosco. Anzi, mi sono convinto di esserne la misura. Su di me, dentro di me, le stagioni passano e mi trasformano. E io trasformo loro, regalando ombra, riparo, nutrimento e ispirazione. E ancora vita (…) così tanta da non sapere cosa farne. E allora mi tocca regalarla”. Gli anziani muoiono e i giovani lasciano la terra, in cui i padri hanno creduto con fatica e sudore, per tentare fortuna altrove. E accadono anche tragedie impensabili, di cui Ulivo è a volte testimone: “Una sera, anni fa, un’auto si è avvicinata alle mie radici esposte e si è fermata cercando riparo dalla luna piena. All’interno un uomo e una donna, le loro voci come burrasca impetuosa, urlo di vento e rantolo di mare grosso. (…). Poi, nella luce irreale della luna piena di fine estate, la pistola ha sparato ancora. Le mie braccia hanno vegliato sino al mattino quei corpi caduti sulla mia terra, insieme a poche cicale. A nulla è servito il profumo dei fichi…”. Ma niente può scalfire l’eterno canto della luna anche se è in arrivo “una nuova tempesta”. Perché così è la vita. Nel nostro fatale andare. (Una nota a margine ma non troppo: una scrittura altamente poetica che merita una lettura approfondita e maggiore attenzione alle splendide metafore usate e non solo, per connotare Ulivo).

“All’ombra del nodoso fusto, mentre il sole filtra tra i rami cangianti e il vento scompiglia le foglie d’argento, riposa il contadino esperto e attende i verdi frutti che generosamente gli offriremo quando sarà il tempo. Lui sa per certo che non siamo tutti uguali, sembriamo tali perché il colore della corteccia e delle foglie è lo stesso, ma il sapore delle olive è ben diverso…”. Così l’incipit del racconto di Antonio Moschetta, voce solitaria in mezzo a tutte le altre. Nonostante anche lui si identifichi negli Ulivi, pur partendo dalle parole del contadino che se ne prende cura di anno in anno con grande perizia e amore, come è facile notare dà alle sue riflessioni un taglio diverso, direi scientifico, come del resto è giusto che sia: una sorta “di lectio magistralis” di chi sa e conosce addirittura il DNA variegato degli alberi che danno frutti diversi e diverso sapore all’olio che da questi si ricava. Con varie denominazioni nella stessa Puglia, nel “rispetto della biodiversità”, tema sempre più attuale e importante, che deve sollecitarci a scelte di valore anche per la nostra salute e per un futuro più sereno per le nuove generazioni. Impresa ardua ai nostri giorni, ma non impossibile se ciascuno fa la sua parte con consapevolezza di sé e degli altri. Con il coraggio che le grandi imprese richiedono perché diano i loro sorprendenti e vitali frutti, non solo nel presente quanto per il futuro prossimo e remoto. Il tempo degli Ulivi non conosce tempo…

È un interessante dialogo/monologo quello che Marino Pagano ricama di realistica poesia nel suo racconto dal titolo suggestivo “Dammi le tue mani”. E l’interlocutore privilegiato di Ulivo è l’uomo attraverso il tempo di millenni che si fa storia di antenati, della loro fatica e delle loro speranze, per assicurare ai figli e ai figli dei figli una ricchezza non quantificabile in moneta, ma nella bellezza del “prendersi cura” con amore di quanto la natura possa offrire alla sopravvivenza delle creature viventi sul nostro pianeta nel rispetto della volontà/generosità del Creatore. Via via, però, al canto glorioso del passato si mescola il lamento triste della visione purtroppo amara del presente e del futuro. “Sono il frutto di un sogno d’amore.  Ma la tua, uomo, è la generazione che non coglie frutti, che ha abbandonato i verbi sacri del mio mondo (…). E allora, uomo, io ti voglio dire come mi fai sentire oggi. Oggi io e i miei fratelli, noi tutti insomma che siamo verdi, noi che ti diamo e offriamo tante cose buone, ci vediamo dimenticati. (…). Ci vediamo rimossi dal tuo cuore…”. Da notare il linguaggio fortemente lirico e fortemente realistico nel racconto di Marino Pagano a sottolineare le antinomiche connotazioni dell’Ulivo di ieri e di oggi. La sua storia gloriosa di millenni - la sua condizione di sconfitta nel mondo contemporaneo che già getta le premesse per il futuro. La conclusione sa di supplice preghiera all’uomo dei nostri giorni: “Sono qui. Ti tendo i rami, tu dammi le tue mani”. La reciprocità è un atto d’amore che mai si perde nell’abbraccio che avvolge e si fa nido e protezione.

Intenso, commosso e commovente il ricordo di via Megra in agro di Bitonto, la patria dell’Ogliarola (oggi Cima di Bitonto Doc), campo in cui affondano le radici non solo degli “ultracentenari” Ulivi, ma anche dell’amore a loro riservato dal padre di Nicola Pice e dal padre di suo padre e da quello di sua madre e, probabilmente, andando a ritroso nel tempo, da qualche suo trisavolo. Non più identificazione nell’albero, ma personificazione di “figura vivente, come un corpo in movimento con le braccia protese verso il cielo”. Ricordo tenerissimo del fitto dialogo quotidiano, lui ancora bambino, di suo padre con i suoi amati alberi dalle chiome argentate e di colore cangiante col trascorrere delle ore, dall’alba al tramonto. Quanto sudore e quanta fatica in quelle carezze ai loro tronchi e ai loro rami. “Ti ho dissodato il terreno intorno, ti ho spesso accarezzato la corteccia, estirpato i polloni che si spingevano in un abbraccio soffocante che ti negava luce e aria, ti ho potato in maniera adeguata, ho fatto respirare con la zappa le tue radici, tolto dalle spalle il legno sterile, sgomberato il terreno da essenze infestanti. Quale sarà la tua sorte, quando verrà meno la forza delle mie braccia? È difficile che i figli dei contadini continuino la vita dei padri…”. E Nicola Pice ne è l’esempio lampante. È diventato professore di greco e di latino, ma contro ogni amaro scoramento di suo padre ha continuato ad amare quella terra e i suoi ulivi. E il suo ricordo ancora lo vince. “Per noi ragazzini (…) Megra era una sorta di paradiso terrestre” in cui l’infaticabile padre parlava agli alberi col silenzio delle sue parole mute… “Un delirio amoroso (o, un dolore lancinante?) di un albero e di un padre contadino, ma noi continuavamo a cercare le ‘viole’ d’un verde smeraldo che si posavano sulle more dei rovi straripanti dei muretti di confine…”. L’innocente crudeltà dei giochi d’infanzia e l’innocente crudeltà dei rovi per mani incaute e ignare d’ogni pericolo, mentre “l’eco sorda delle ruspe gialle” copre quell’antico dialogo d’amore che vorremmo tanto riascoltare.

Vive nel territorio di Giovinazzo l’albero di Agostino Picicco,  “contorto e nodoso ma robusto”, conservando buona memoria del trascorrere perenne delle stagioni e delle trasformazioni, spesso in peggio, del terreno e del paesaggio per l’incuria e l’indifferenza degli uomini. Ma il ricordo del passato è ancora fortemente radicato nell’autore che pure da molti anni è andato via dalla sua terra per approdare a Milano, dove svolge, ancora oggi, più compiti di grande responsabilità come giornalista di varie testate importanti e in ambienti di difficile accesso ai comuni mortali. Egli, infatti, impersonando un Ulivo, racconta con grande nostalgia che accanto a lui c’era un tempo una torre, ormai diroccata, che tanta paura incuteva, ma che offriva sicuro rifugio ai contadini dagli assalti dei saraceni lungo il mare Adriatico. “Dovete sapere che tanto tempo fa le nostre coste erano assalite dai saraceni provenienti da terre lontane su agili e minacciose imbarcazioni che solcavano il mare. Assaltavano le città, saccheggiavano, distruggevano, uccidevano. (…). Ecco il compito di quella torre perché occorreva avvistare il pericolo e comunicarlo agli abitanti dei dintorni e a quelli delle campagne dell’entroterra più distanti dalla costa…”. E i ricordi dilagano lungo il tempo e lo spazio per accendersi di segnali di fuoco e di fumo che, allora, sostituivano parole di avviso di imminente pericolo. Ma tutto cambia e tutto continua a parlare con i segni dei nuovi tempi fatti di rumori assordanti, parole al vento, musiche provenienti da smartphone e cellulari che, azzerano la voce silenziosa di preghiera e gratitudine per la vita di chi non abita più il campo e non può più opporsi allo scempio di quel silenzio pacificato dopo ogni tempesta. Non c’è stata mai pace o non c’è più pace tra gli ulivi, dunque? (continua)