Calzante l’identità
vissuta da Carlo Alberto Augieri ai
margini di un appezzamento di terreno, con affaccio sulla strada, da oltre 500
anni, in una condizione di tranquilla sedentarietà.
Unica preoccupazione:
combattere la siccità col trattenere, nel suo tronco ferito e segnato dalle
rughe del tempo, l’acqua, prezioso alimento che dà vita alla terra e a tutti i
suoi abitanti. Ma occorre saperla conservare l’acqua. Gli Ulivi insegnano a noi
uomini a non sciuparla, a non disperderla in sprechi inutili e dannosi, ma occorre
farlo insieme. Ecco l’importanza della comunità e della solidarietà: “avere radici significa non amare l’invano, né
sentirsi in disaccordo tra il proprio tronco e i rami: ogni parte è un tutto,
ogni particolare un insieme”, ci ricorda l’autore. Ed è come la “tela di
Indra”, che tutti abbraccia dando luce e splendore ad ogni singolo filo che la
compone.
Molteplici testimonianze
di questa solidarietà, che si identifica con l’amore oblativo degli Ulivi, si
originano dal dono di sé attraverso l’olio, prezioso oro liquido anche per i
poveri; succo vitale che umilmente illumina e guida gli uomini lungo gli argini
della loro vita e delle esperienze che fermano nel tempo gli attimi da
ricordare e da tramandare alle nuove generazioni. E le identità si fanno
numerose attraverso il Tempo e lo Spazio (“abbiamo tante stagioni”) che
contengono la storia dell’intera umanità fino ai nostri giorni e oltre… E ogni
stagione per gli Ulivi ha il suo tempo, di attività e di riposo, perché poi possano
“rigenerarsi”, magari col vento o con le fasi lunari, con la neve d’inverno, le
piogge autunnali, le rondini a primavera, un cantare di grilli e frinire di
cicale in estate… E ritrovarsi per riconoscersi e sapere dei prodigi che sanno
compiere dove hanno radici nella terra e foglie verso il cielo…
In Pierfranco Bruni scopriamo uno dei
tanti misteriosi silenzi di Ulivo nella sua confessione più dolente: “Ogni taglio di ramo è stata una ferita”.
E ancora: “Ci vendono, ci scambiano, ci
potano. Fanno di noi ciò che credono sia opportuno, ma essere ulivo è portare
nella propria identità il senso dell’appartenenza”. Una confessione
identitaria molto profonda perché mette in luce la necessità di sentirsi parte
viva di una comunità, di un territorio, che spesso gli uomini avvertono molto
forte, tanto da indurli a tornare per ritrovare le radici mai perdute nel
proprio cuore e nella propria anima. in alcuni casi, però, il senso di libertà
annulla quello di appartenenza, avvertito più come catena che strangola e non
come legame che abbraccia. Ci sono infatti fughe senza ritorno. Si evita così
il pericolo della nostalgia (dal greco: nostos, cioè ritorno e algia, ossia
struggimento per l’attesa di quel ritorno o per il ricordo di quanto non possa
più tornare), che ha in sé anche la dolorosa sensazione del cambiamento non
previsto, non accettato per non disperdersi del tutto nel nuovo che
destabilizza e crea dubbi, incertezze, paure. Per fortuna la paura, come la
rabbia, alimenta in sé anche la ribellione e, quindi, spinge ad agire, e a
reagire, per superarla e trovare vie alternative a ciò che non ci piace, non ci
soddisfa, non è confacente ai nostri principi e valori, alle nostre pregresse
esperienze familiari, culturali e sociali. È il panico, che ci sorprende di
fronte a quanto ci è sconosciuto, che ci blocca e ci vince. Tra le righe, l’autore
ci spinge a prendere consapevolezza della necessità del cambiamento, al quale
bisogna prepararsi per tempo, prima che le certezze si facciano abitudini
irreversibili. La conoscenza di sé e degli altri, dei tempi giusti di
maturazione per ogni progetto di vita è fondamentale.
Luca De Ceglia ci parla degli Ulivi che parlano e si raccontano. Il suo si
chiama Giulivo e per secoli ha goduto della sua storia, ricca di stagioni e di
voci adulte e bambine. Della saggezza dei vecchi. Poi la Xilella giunse anche
in terra di Bisceglie a decimare i suoi fratelli e a minare la sua stessa vita.
“Si era a metà novembre, di un anno che non ricordo, quando accadde un
fenomeno strano che turbò tutti. I miei amici ulivi iniziarono ad avvertire un
malessere, un bruciore su tutto il tronco. Fu come se di colpo la longevità
espressa nei tronchi, tra i solchi che parevano rughe eterne, si trasformasse
in un mostro invisibile. I rami erano diventati di colpo pesantissimi…”. L’autore
ne fa una descrizione dettagliata e commossa, intrisa di verità e di poesia. Una
descrizione che ben si attaglia anche alla pandemia da Covid che di lì a pochi
anni si sarebbe abbattuta sugli esseri umani con identiche conseguenze mortali.
I sopravvissuti, ancora oggi, si sentono graziati da un vaccino che sta
sconfiggendo il virus, dalla buona sorte e dal buon Dio, ma si sentono in colpa
per quanti sono stati piegati dalla morte silenziosa e dal dolore muto.
Lui, Giulivo, però, ha
una bella storia di rinascita che ci insegna ad avere la forza e il coraggio di
lottare per risorgere a nuova vita. Unico sopravvissuto, dopo lunga prigionia e
solitudine, infatti, incontra una pianta giovane e verdeggiante portata dai
contadini per ripopolare la loro amata terra e se ne innamora perdutamente. Finalmente
corrisposto, dopo le iniziali riluttanze e schermaglie amorose, continua a dare,
con la sua amata, “olio meraviglioso.
Un intreccio di radici
è testimone ancora oggi della loro storia d’amore.
Angela De Leo si fa denuncia amara e tenera delle tre solitudini del
millenario Ulivo. La prima: per il trascorrere del tempo e delle generazioni,
che lo costringono a perdere amori, sogni, amicizie. La seconda: per
l’abbandono dei campi da parte dei figli dei vecchi contadini, che vivono essi
stessi con amarezza e senso di fallimento lo stesso abbandono. La terza: per lo
sradicamento dal Sud verso le grandi ville della gente danarosa del Nord,
estranea alla sua storia e al suo cuore. “E
il cielo non fu più mio. E neppure le stelle. Solo ricordi lontani a
scorticarmi il cuore”.
Giuseppe Dimiccoli racconta l’incontro tra Ulivi di culture diverse, in terra
di Puglia. Incontro, che diventa storia di accoglienza e diffidenza, di
reciproca lenta conoscenza e di reciproco lento adattamento. Niente è facile
per chi viene accolto, anche con le migliori intenzioni, in terra straniera
alla propria terra da chi non conosce la sua storia, i suoi sogni traditi, le motivazioni
spesso drammatiche che lo hanno indotto a fuggire. Col tempo, il raccontarsi
colma il silenzio e placa i tumulti del cuore, la nostalgia per la propria
terra lontana, straziata di guerra e di morte. La commozione che il racconto
genera è un forte richiamo a sentirsi fratelli per un possibile futuro di Pace.
Ancora incerto, ancora devastato dalle tante guerre che insanguinano il nostro
pianeta “atomo opaco del male”, come Pascoli ci ammonisce con amarezza e dolore
per il pianto delle stelle sul suo dolore (X agosto: giorno dell’uccisione di
suo padre, uomo onesto e probo). Gli Ulivi
e gli animali sono più misericordiosi e umani degli uomini: “Uno scafista,
durante la notte con il mare in tempesta, iniziò a buttare tutti giù. Solo lui
voleva salvarsi. Mi salvò una colomba che vedendomi infante, con grande sforzo,
mi prese e mi portò con sé. Arrivati sul cielo della Puglia, riconobbe la
vostra terra, e mi adagiò sul terreno. Fui accolto con amore e dolcezza. La forza
della pace mi permise di affondare le mie radici e di crescere tra voi e con
voi. Per questo sono qui tra voi”. Occorre imparare dagli altri esseri viventi
per diventare meno disumani? Eppure abbiamo il grande dono del raccontare che annulla
le distanze e ci rende fratelli sotto l’unico cielo che tutti ci comprende.
Altamente poetiche sono
le numerose connotazioni di Ulivo, dovute alla felice penna di Giovanni Dotoli che, impersonandolo, lo
canta e lo definisce in mille modi: “Tutti
mi chiedono chi sia, io che porto il nome nobile di Ulivo. Nome semplice e di
poesia. Nome profondo e azzurro. Dalla notte dei tempi, sono l’albero del
Mediterraneo, della pace e dell’ideale. In me si uniscono gli elementi della
natura. Acqua, terra, aria, fuoco. Simboleggio la bellezza, il linguaggio, la
disciplina, la libertà, l’idealismo, lo spirito, la prosperità, il cielo, la
luce, l’infinito”. Quanta realistica visionarietà in questi termini
identitari di Ulivo! Dotoli, tra l’altro, ricama con straordinari fili di
percorsi letterari e artistici i fortunati incontri della verdeggiante pianta,
baciata dal sole e accarezzata dal vento, fino a cantarsi nella gloria dei
tempi: “Io Ulivo sono prosperità e bontà,
luce e segno del tempo. Curo ogni dolore e angoscia. Illumino templi e chiese.
Scaccio il demonio. Proclamo la presenza di Dio. Sono poeta dei poeti. Sono
artista del paesaggio. Sono il padre della civiltà”. Una civiltà che fa
fatica ad emergere ancora oggi nel terzo millennio e in questi ultimi anni
provati da una pandemia che ha piegato tutti al dolore a alla morte, ma non al
buon senso, al rispetto di ogni diversità, al dono di vivere “giusti e
solidali” (vedi Francesco Bellino) gli uni per gli altri… Eppure dovremmo imparare
dalla natura, dagli animali, dalle piante la reciprocità dell’amore, la gioia
di essere insieme, il coraggio di farsi scudo e volo verso orizzonti di
bellezza e di bontà sempre più ampi. Certo, la natura può essere anche crudele
e devastante, ma è sempre innocente. L’uomo non lo è mai quando distrugge, perché
ha la responsabilità della sua libertà di scegliere… (continua)
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