mercoledì 6 ottobre 2021

Mercoledì 6 ottobre: AA.VV., I RACCONTI DI ULIVO, a cura di Enzo Morelli...(seconda parte)

Calzante l’identità vissuta da Carlo Alberto Augieri ai margini di un appezzamento di terreno, con affaccio sulla strada, da oltre 500 anni, in una condizione di tranquilla sedentarietà.

Unica preoccupazione: combattere la siccità col trattenere, nel suo tronco ferito e segnato dalle rughe del tempo, l’acqua, prezioso alimento che dà vita alla terra e a tutti i suoi abitanti. Ma occorre saperla conservare l’acqua. Gli Ulivi insegnano a noi uomini a non sciuparla, a non disperderla in sprechi inutili e dannosi, ma occorre farlo insieme. Ecco l’importanza della comunità e della solidarietà: “avere radici significa non amare l’invano, né sentirsi in disaccordo tra il proprio tronco e i rami: ogni parte è un tutto, ogni particolare un insieme”, ci ricorda l’autore. Ed è come la “tela di Indra”, che tutti abbraccia dando luce e splendore ad ogni singolo filo che la compone.

Molteplici testimonianze di questa solidarietà, che si identifica con l’amore oblativo degli Ulivi, si originano dal dono di sé attraverso l’olio, prezioso oro liquido anche per i poveri; succo vitale che umilmente illumina e guida gli uomini lungo gli argini della loro vita e delle esperienze che fermano nel tempo gli attimi da ricordare e da tramandare alle nuove generazioni. E le identità si fanno numerose attraverso il Tempo e lo Spazio (“abbiamo tante stagioni”) che contengono la storia dell’intera umanità fino ai nostri giorni e oltre… E ogni stagione per gli Ulivi ha il suo tempo, di attività e di riposo, perché poi possano “rigenerarsi”, magari col vento o con le fasi lunari, con la neve d’inverno, le piogge autunnali, le rondini a primavera, un cantare di grilli e frinire di cicale in estate… E ritrovarsi per riconoscersi e sapere dei prodigi che sanno compiere dove hanno radici nella terra e foglie verso il cielo…

In Pierfranco Bruni scopriamo uno dei tanti misteriosi silenzi di Ulivo nella sua confessione più dolente: “Ogni taglio di ramo è stata una ferita”. E ancora: “Ci vendono, ci scambiano, ci potano. Fanno di noi ciò che credono sia opportuno, ma essere ulivo è portare nella propria identità il senso dell’appartenenza”. Una confessione identitaria molto profonda perché mette in luce la necessità di sentirsi parte viva di una comunità, di un territorio, che spesso gli uomini avvertono molto forte, tanto da indurli a tornare per ritrovare le radici mai perdute nel proprio cuore e nella propria anima. in alcuni casi, però, il senso di libertà annulla quello di appartenenza, avvertito più come catena che strangola e non come legame che abbraccia. Ci sono infatti fughe senza ritorno. Si evita così il pericolo della nostalgia (dal greco: nostos, cioè ritorno e algia, ossia struggimento per l’attesa di quel ritorno o per il ricordo di quanto non possa più tornare), che ha in sé anche la dolorosa sensazione del cambiamento non previsto, non accettato per non disperdersi del tutto nel nuovo che destabilizza e crea dubbi, incertezze, paure. Per fortuna la paura, come la rabbia, alimenta in sé anche la ribellione e, quindi, spinge ad agire, e a reagire, per superarla e trovare vie alternative a ciò che non ci piace, non ci soddisfa, non è confacente ai nostri principi e valori, alle nostre pregresse esperienze familiari, culturali e sociali. È il panico, che ci sorprende di fronte a quanto ci è sconosciuto, che ci blocca e ci vince. Tra le righe, l’autore ci spinge a prendere consapevolezza della necessità del cambiamento, al quale bisogna prepararsi per tempo, prima che le certezze si facciano abitudini irreversibili. La conoscenza di sé e degli altri, dei tempi giusti di maturazione per ogni progetto di vita è fondamentale.

Luca De Ceglia ci parla degli Ulivi che parlano e si raccontano. Il suo si chiama Giulivo e per secoli ha goduto della sua storia, ricca di stagioni e di voci adulte e bambine. Della saggezza dei vecchi. Poi la Xilella giunse anche in terra di Bisceglie a decimare i suoi fratelli e a minare la sua stessa vita.

Si era a metà novembre, di un anno che non ricordo, quando accadde un fenomeno strano che turbò tutti. I miei amici ulivi iniziarono ad avvertire un malessere, un bruciore su tutto il tronco. Fu come se di colpo la longevità espressa nei tronchi, tra i solchi che parevano rughe eterne, si trasformasse in un mostro invisibile. I rami erano diventati di colpo pesantissimi…”. L’autore ne fa una descrizione dettagliata e commossa, intrisa di verità e di poesia. Una descrizione che ben si attaglia anche alla pandemia da Covid che di lì a pochi anni si sarebbe abbattuta sugli esseri umani con identiche conseguenze mortali. I sopravvissuti, ancora oggi, si sentono graziati da un vaccino che sta sconfiggendo il virus, dalla buona sorte e dal buon Dio, ma si sentono in colpa per quanti sono stati piegati dalla morte silenziosa e dal dolore muto.

Lui, Giulivo, però, ha una bella storia di rinascita che ci insegna ad avere la forza e il coraggio di lottare per risorgere a nuova vita. Unico sopravvissuto, dopo lunga prigionia e solitudine, infatti, incontra una pianta giovane e verdeggiante portata dai contadini per ripopolare la loro amata terra e se ne innamora perdutamente. Finalmente corrisposto, dopo le iniziali riluttanze e schermaglie amorose, continua a dare, con la sua amata, “olio meraviglioso.  

Un intreccio di radici è testimone ancora oggi della loro storia d’amore.

Angela De Leo si fa denuncia amara e tenera delle tre solitudini del millenario Ulivo. La prima: per il trascorrere del tempo e delle generazioni, che lo costringono a perdere amori, sogni, amicizie. La seconda: per l’abbandono dei campi da parte dei figli dei vecchi contadini, che vivono essi stessi con amarezza e senso di fallimento lo stesso abbandono. La terza: per lo sradicamento dal Sud verso le grandi ville della gente danarosa del Nord, estranea alla sua storia e al suo cuore. “E il cielo non fu più mio. E neppure le stelle. Solo ricordi lontani a scorticarmi il cuore”.

Giuseppe Dimiccoli racconta l’incontro tra Ulivi di culture diverse, in terra di Puglia. Incontro, che diventa storia di accoglienza e diffidenza, di reciproca lenta conoscenza e di reciproco lento adattamento. Niente è facile per chi viene accolto, anche con le migliori intenzioni, in terra straniera alla propria terra da chi non conosce la sua storia, i suoi sogni traditi, le motivazioni spesso drammatiche che lo hanno indotto a fuggire. Col tempo, il raccontarsi colma il silenzio e placa i tumulti del cuore, la nostalgia per la propria terra lontana, straziata di guerra e di morte. La commozione che il racconto genera è un forte richiamo a sentirsi fratelli per un possibile futuro di Pace. Ancora incerto, ancora devastato dalle tante guerre che insanguinano il nostro pianeta “atomo opaco del male”, come Pascoli ci ammonisce con amarezza e dolore per il pianto delle stelle sul suo dolore (X agosto: giorno dell’uccisione di suo padre, uomo onesto e probo).  Gli Ulivi e gli animali sono più misericordiosi e umani degli uomini: “Uno scafista, durante la notte con il mare in tempesta, iniziò a buttare tutti giù. Solo lui voleva salvarsi. Mi salvò una colomba che vedendomi infante, con grande sforzo, mi prese e mi portò con sé. Arrivati sul cielo della Puglia, riconobbe la vostra terra, e mi adagiò sul terreno. Fui accolto con amore e dolcezza. La forza della pace mi permise di affondare le mie radici e di crescere tra voi e con voi. Per questo sono qui tra voi”. Occorre imparare dagli altri esseri viventi per diventare meno disumani? Eppure abbiamo il grande dono del raccontare che annulla le distanze e ci rende fratelli sotto l’unico cielo che tutti ci comprende.

Altamente poetiche sono le numerose connotazioni di Ulivo, dovute alla felice penna di Giovanni Dotoli che, impersonandolo, lo canta e lo definisce in mille modi: “Tutti mi chiedono chi sia, io che porto il nome nobile di Ulivo. Nome semplice e di poesia. Nome profondo e azzurro. Dalla notte dei tempi, sono l’albero del Mediterraneo, della pace e dell’ideale. In me si uniscono gli elementi della natura. Acqua, terra, aria, fuoco. Simboleggio la bellezza, il linguaggio, la disciplina, la libertà, l’idealismo, lo spirito, la prosperità, il cielo, la luce, l’infinito”. Quanta realistica visionarietà in questi termini identitari di Ulivo! Dotoli, tra l’altro, ricama con straordinari fili di percorsi letterari e artistici i fortunati incontri della verdeggiante pianta, baciata dal sole e accarezzata dal vento, fino a cantarsi nella gloria dei tempi: “Io Ulivo sono prosperità e bontà, luce e segno del tempo. Curo ogni dolore e angoscia. Illumino templi e chiese. Scaccio il demonio. Proclamo la presenza di Dio. Sono poeta dei poeti. Sono artista del paesaggio. Sono il padre della civiltà”. Una civiltà che fa fatica ad emergere ancora oggi nel terzo millennio e in questi ultimi anni provati da una pandemia che ha piegato tutti al dolore a alla morte, ma non al buon senso, al rispetto di ogni diversità, al dono di vivere “giusti e solidali” (vedi Francesco Bellino) gli uni per gli altri… Eppure dovremmo imparare dalla natura, dagli animali, dalle piante la reciprocità dell’amore, la gioia di essere insieme, il coraggio di farsi scudo e volo verso orizzonti di bellezza e di bontà sempre più ampi. Certo, la natura può essere anche crudele e devastante, ma è sempre innocente. L’uomo non lo è mai quando distrugge, perché ha la responsabilità della sua libertà di scegliere… (continua)

  

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