Anche il racconto di Annamaria Monterisi è incentrato sulla straordinaria forza travolgente degli Ulivi per vincere il tempo e tutte le devastanti trasformazioni fisiche e psicologiche che esso comporta nel tempo, e che non risparmiano niente e nessuno. Persino le tragedie intessono di assordante rumore e silenziosa tristezza i giorni lunghi da vivere e interminabili da capire, nei tronchi rugosi di antiche ferite e nelle chiome verdeggianti di gloriose vittorie. “Io il tempo lo conosco. Anzi, mi sono convinto di esserne la misura. Su di me, dentro di me, le stagioni passano e mi trasformano. E io trasformo loro, regalando ombra, riparo, nutrimento e ispirazione. E ancora vita (…) così tanta da non sapere cosa farne. E allora mi tocca regalarla”. Gli anziani muoiono e i giovani lasciano la terra, in cui i padri hanno creduto con fatica e sudore, per tentare fortuna altrove. E accadono anche tragedie impensabili, di cui Ulivo è a volte testimone: “Una sera, anni fa, un’auto si è avvicinata alle mie radici esposte e si è fermata cercando riparo dalla luna piena. All’interno un uomo e una donna, le loro voci come burrasca impetuosa, urlo di vento e rantolo di mare grosso. (…). Poi, nella luce irreale della luna piena di fine estate, la pistola ha sparato ancora. Le mie braccia hanno vegliato sino al mattino quei corpi caduti sulla mia terra, insieme a poche cicale. A nulla è servito il profumo dei fichi…”. Ma niente può scalfire l’eterno canto della luna anche se è in arrivo “una nuova tempesta”. Perché così è la vita. Nel nostro fatale andare. (Una nota a margine ma non troppo: una scrittura altamente poetica che merita una lettura approfondita e maggiore attenzione alle splendide metafore usate e non solo, per connotare Ulivo).
“All’ombra del nodoso
fusto, mentre il sole filtra tra i rami cangianti e il vento scompiglia le
foglie d’argento, riposa il contadino esperto e attende i verdi frutti che
generosamente gli offriremo quando sarà il tempo. Lui sa per certo che non
siamo tutti uguali, sembriamo tali perché il colore della corteccia e delle
foglie è lo stesso, ma il sapore delle olive è ben diverso…”. Così l’incipit
del racconto di Antonio Moschetta, voce
solitaria in mezzo a tutte le altre. Nonostante anche lui si identifichi negli
Ulivi, pur partendo dalle parole del contadino che se ne prende cura di anno in
anno con grande perizia e amore, come è facile notare dà alle sue riflessioni
un taglio diverso, direi scientifico, come del resto è giusto che sia: una
sorta “di lectio magistralis” di chi sa e conosce addirittura il DNA variegato
degli alberi che danno frutti diversi e diverso sapore all’olio che da questi
si ricava. Con varie denominazioni nella stessa Puglia, nel “rispetto della
biodiversità”, tema sempre più attuale e importante, che deve sollecitarci a
scelte di valore anche per la nostra salute e per un futuro più sereno per le
nuove generazioni. Impresa ardua ai nostri giorni, ma non impossibile se
ciascuno fa la sua parte con consapevolezza di sé e degli altri. Con il
coraggio che le grandi imprese richiedono perché diano i loro sorprendenti e
vitali frutti, non solo nel presente quanto per il futuro prossimo e remoto. Il
tempo degli Ulivi non conosce tempo…
È un interessante
dialogo/monologo quello che Marino
Pagano ricama di realistica poesia nel suo racconto dal titolo suggestivo
“Dammi le tue mani”. E l’interlocutore privilegiato di Ulivo è l’uomo
attraverso il tempo di millenni che si fa storia di antenati, della loro fatica
e delle loro speranze, per assicurare ai figli e ai figli dei figli una
ricchezza non quantificabile in moneta, ma nella bellezza del “prendersi cura”
con amore di quanto la natura possa offrire alla sopravvivenza delle creature viventi
sul nostro pianeta nel rispetto della volontà/generosità del Creatore. Via via,
però, al canto glorioso del passato si mescola il lamento triste della visione
purtroppo amara del presente e del futuro. “Sono
il frutto di un sogno d’amore. Ma la
tua, uomo, è la generazione che non coglie frutti, che ha abbandonato i verbi
sacri del mio mondo (…). E allora, uomo, io ti voglio dire come mi fai sentire
oggi. Oggi io e i miei fratelli, noi tutti insomma che siamo verdi, noi che ti
diamo e offriamo tante cose buone, ci vediamo dimenticati. (…). Ci vediamo
rimossi dal tuo cuore…”. Da notare il linguaggio fortemente lirico e
fortemente realistico nel racconto di Marino Pagano a sottolineare le
antinomiche connotazioni dell’Ulivo di ieri e di oggi. La sua storia gloriosa
di millenni - la sua condizione di sconfitta nel mondo contemporaneo che già
getta le premesse per il futuro. La conclusione sa di supplice preghiera
all’uomo dei nostri giorni: “Sono qui. Ti
tendo i rami, tu dammi le tue mani”. La reciprocità è un atto d’amore che
mai si perde nell’abbraccio che avvolge e si fa nido e protezione.
Intenso, commosso e
commovente il ricordo di via Megra in agro di Bitonto, la patria dell’Ogliarola
(oggi Cima di Bitonto Doc), campo in cui affondano le radici non solo degli
“ultracentenari” Ulivi, ma anche dell’amore a loro riservato dal padre di Nicola Pice e dal padre di suo padre e da
quello di sua madre e, probabilmente, andando a ritroso nel tempo, da qualche
suo trisavolo. Non più identificazione nell’albero, ma personificazione di “figura vivente, come un corpo in movimento
con le braccia protese verso il cielo”. Ricordo tenerissimo del fitto
dialogo quotidiano, lui ancora bambino, di suo padre con i suoi amati alberi
dalle chiome argentate e di colore cangiante col trascorrere delle ore,
dall’alba al tramonto. Quanto sudore e quanta fatica in quelle carezze ai loro
tronchi e ai loro rami. “Ti ho dissodato
il terreno intorno, ti ho spesso accarezzato la corteccia, estirpato i polloni
che si spingevano in un abbraccio soffocante che ti negava luce e aria, ti ho
potato in maniera adeguata, ho fatto respirare con la zappa le tue radici,
tolto dalle spalle il legno sterile, sgomberato il terreno da essenze
infestanti. Quale sarà la tua sorte, quando verrà meno la forza delle mie
braccia? È difficile che i figli dei contadini continuino la vita dei padri…”.
E Nicola Pice ne è l’esempio lampante. È diventato professore di greco e di
latino, ma contro ogni amaro scoramento di suo padre ha continuato ad amare
quella terra e i suoi ulivi. E il suo ricordo ancora lo vince. “Per noi ragazzini (…) Megra era una sorta di
paradiso terrestre” in cui l’infaticabile padre parlava agli alberi col
silenzio delle sue parole mute… “Un delirio amoroso (o, un dolore lancinante?)
di un albero e di un padre contadino, ma noi continuavamo a cercare le ‘viole’
d’un verde smeraldo che si posavano sulle more dei rovi straripanti dei muretti
di confine…”. L’innocente crudeltà dei giochi d’infanzia e l’innocente
crudeltà dei rovi per mani incaute e ignare d’ogni pericolo, mentre “l’eco sorda
delle ruspe gialle” copre quell’antico dialogo d’amore che vorremmo tanto
riascoltare.
Vive nel territorio di
Giovinazzo l’albero di Agostino Picicco,
“contorto e nodoso ma robusto”,
conservando buona memoria del trascorrere perenne delle stagioni e delle trasformazioni,
spesso in peggio, del terreno e del paesaggio per l’incuria e l’indifferenza
degli uomini. Ma il ricordo del passato è ancora fortemente radicato nell’autore
che pure da molti anni è andato via dalla sua terra per approdare a Milano,
dove svolge, ancora oggi, più compiti di grande responsabilità come giornalista
di varie testate importanti e in ambienti di difficile accesso ai comuni
mortali. Egli, infatti, impersonando un Ulivo, racconta con grande nostalgia
che accanto a lui c’era un tempo una torre, ormai diroccata, che tanta paura
incuteva, ma che offriva sicuro rifugio ai contadini dagli assalti dei saraceni
lungo il mare Adriatico. “Dovete sapere
che tanto tempo fa le nostre coste erano assalite dai saraceni provenienti da
terre lontane su agili e minacciose imbarcazioni che solcavano il mare. Assaltavano
le città, saccheggiavano, distruggevano, uccidevano. (…). Ecco il compito di quella torre perché occorreva
avvistare il pericolo e comunicarlo agli abitanti dei dintorni e a quelli delle
campagne dell’entroterra più distanti dalla costa…”. E i ricordi dilagano
lungo il tempo e lo spazio per accendersi di segnali di fuoco e di fumo che,
allora, sostituivano parole di avviso di imminente pericolo. Ma tutto cambia e
tutto continua a parlare con i segni dei nuovi tempi fatti di rumori
assordanti, parole al vento, musiche provenienti da smartphone e cellulari che, azzerano la voce silenziosa di preghiera e gratitudine per la vita di chi non
abita più il campo e non può più opporsi allo scempio di quel silenzio
pacificato dopo ogni tempesta. Non c’è stata mai pace o non c’è più pace tra
gli ulivi, dunque? (continua)
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