domenica 10 ottobre 2021

Domenica 10 ottobre 2021: AA.VV., I RACCONTI DI ULIVO, a cura di Enzo Morelli... (quarta parte)

 Anche il racconto di Annamaria Monterisi è incentrato sulla straordinaria forza travolgente degli Ulivi per vincere il tempo e tutte le devastanti trasformazioni fisiche e psicologiche che esso comporta nel tempo, e che non risparmiano niente e nessuno. Persino le tragedie intessono di assordante rumore e silenziosa tristezza i giorni lunghi da vivere e interminabili da capire, nei tronchi rugosi di antiche ferite e nelle chiome verdeggianti di gloriose vittorie. “Io il tempo lo conosco. Anzi, mi sono convinto di esserne la misura. Su di me, dentro di me, le stagioni passano e mi trasformano. E io trasformo loro, regalando ombra, riparo, nutrimento e ispirazione. E ancora vita (…) così tanta da non sapere cosa farne. E allora mi tocca regalarla”. Gli anziani muoiono e i giovani lasciano la terra, in cui i padri hanno creduto con fatica e sudore, per tentare fortuna altrove. E accadono anche tragedie impensabili, di cui Ulivo è a volte testimone: “Una sera, anni fa, un’auto si è avvicinata alle mie radici esposte e si è fermata cercando riparo dalla luna piena. All’interno un uomo e una donna, le loro voci come burrasca impetuosa, urlo di vento e rantolo di mare grosso. (…). Poi, nella luce irreale della luna piena di fine estate, la pistola ha sparato ancora. Le mie braccia hanno vegliato sino al mattino quei corpi caduti sulla mia terra, insieme a poche cicale. A nulla è servito il profumo dei fichi…”. Ma niente può scalfire l’eterno canto della luna anche se è in arrivo “una nuova tempesta”. Perché così è la vita. Nel nostro fatale andare. (Una nota a margine ma non troppo: una scrittura altamente poetica che merita una lettura approfondita e maggiore attenzione alle splendide metafore usate e non solo, per connotare Ulivo).

“All’ombra del nodoso fusto, mentre il sole filtra tra i rami cangianti e il vento scompiglia le foglie d’argento, riposa il contadino esperto e attende i verdi frutti che generosamente gli offriremo quando sarà il tempo. Lui sa per certo che non siamo tutti uguali, sembriamo tali perché il colore della corteccia e delle foglie è lo stesso, ma il sapore delle olive è ben diverso…”. Così l’incipit del racconto di Antonio Moschetta, voce solitaria in mezzo a tutte le altre. Nonostante anche lui si identifichi negli Ulivi, pur partendo dalle parole del contadino che se ne prende cura di anno in anno con grande perizia e amore, come è facile notare dà alle sue riflessioni un taglio diverso, direi scientifico, come del resto è giusto che sia: una sorta “di lectio magistralis” di chi sa e conosce addirittura il DNA variegato degli alberi che danno frutti diversi e diverso sapore all’olio che da questi si ricava. Con varie denominazioni nella stessa Puglia, nel “rispetto della biodiversità”, tema sempre più attuale e importante, che deve sollecitarci a scelte di valore anche per la nostra salute e per un futuro più sereno per le nuove generazioni. Impresa ardua ai nostri giorni, ma non impossibile se ciascuno fa la sua parte con consapevolezza di sé e degli altri. Con il coraggio che le grandi imprese richiedono perché diano i loro sorprendenti e vitali frutti, non solo nel presente quanto per il futuro prossimo e remoto. Il tempo degli Ulivi non conosce tempo…

È un interessante dialogo/monologo quello che Marino Pagano ricama di realistica poesia nel suo racconto dal titolo suggestivo “Dammi le tue mani”. E l’interlocutore privilegiato di Ulivo è l’uomo attraverso il tempo di millenni che si fa storia di antenati, della loro fatica e delle loro speranze, per assicurare ai figli e ai figli dei figli una ricchezza non quantificabile in moneta, ma nella bellezza del “prendersi cura” con amore di quanto la natura possa offrire alla sopravvivenza delle creature viventi sul nostro pianeta nel rispetto della volontà/generosità del Creatore. Via via, però, al canto glorioso del passato si mescola il lamento triste della visione purtroppo amara del presente e del futuro. “Sono il frutto di un sogno d’amore.  Ma la tua, uomo, è la generazione che non coglie frutti, che ha abbandonato i verbi sacri del mio mondo (…). E allora, uomo, io ti voglio dire come mi fai sentire oggi. Oggi io e i miei fratelli, noi tutti insomma che siamo verdi, noi che ti diamo e offriamo tante cose buone, ci vediamo dimenticati. (…). Ci vediamo rimossi dal tuo cuore…”. Da notare il linguaggio fortemente lirico e fortemente realistico nel racconto di Marino Pagano a sottolineare le antinomiche connotazioni dell’Ulivo di ieri e di oggi. La sua storia gloriosa di millenni - la sua condizione di sconfitta nel mondo contemporaneo che già getta le premesse per il futuro. La conclusione sa di supplice preghiera all’uomo dei nostri giorni: “Sono qui. Ti tendo i rami, tu dammi le tue mani”. La reciprocità è un atto d’amore che mai si perde nell’abbraccio che avvolge e si fa nido e protezione.

Intenso, commosso e commovente il ricordo di via Megra in agro di Bitonto, la patria dell’Ogliarola (oggi Cima di Bitonto Doc), campo in cui affondano le radici non solo degli “ultracentenari” Ulivi, ma anche dell’amore a loro riservato dal padre di Nicola Pice e dal padre di suo padre e da quello di sua madre e, probabilmente, andando a ritroso nel tempo, da qualche suo trisavolo. Non più identificazione nell’albero, ma personificazione di “figura vivente, come un corpo in movimento con le braccia protese verso il cielo”. Ricordo tenerissimo del fitto dialogo quotidiano, lui ancora bambino, di suo padre con i suoi amati alberi dalle chiome argentate e di colore cangiante col trascorrere delle ore, dall’alba al tramonto. Quanto sudore e quanta fatica in quelle carezze ai loro tronchi e ai loro rami. “Ti ho dissodato il terreno intorno, ti ho spesso accarezzato la corteccia, estirpato i polloni che si spingevano in un abbraccio soffocante che ti negava luce e aria, ti ho potato in maniera adeguata, ho fatto respirare con la zappa le tue radici, tolto dalle spalle il legno sterile, sgomberato il terreno da essenze infestanti. Quale sarà la tua sorte, quando verrà meno la forza delle mie braccia? È difficile che i figli dei contadini continuino la vita dei padri…”. E Nicola Pice ne è l’esempio lampante. È diventato professore di greco e di latino, ma contro ogni amaro scoramento di suo padre ha continuato ad amare quella terra e i suoi ulivi. E il suo ricordo ancora lo vince. “Per noi ragazzini (…) Megra era una sorta di paradiso terrestre” in cui l’infaticabile padre parlava agli alberi col silenzio delle sue parole mute… “Un delirio amoroso (o, un dolore lancinante?) di un albero e di un padre contadino, ma noi continuavamo a cercare le ‘viole’ d’un verde smeraldo che si posavano sulle more dei rovi straripanti dei muretti di confine…”. L’innocente crudeltà dei giochi d’infanzia e l’innocente crudeltà dei rovi per mani incaute e ignare d’ogni pericolo, mentre “l’eco sorda delle ruspe gialle” copre quell’antico dialogo d’amore che vorremmo tanto riascoltare.

Vive nel territorio di Giovinazzo l’albero di Agostino Picicco,  “contorto e nodoso ma robusto”, conservando buona memoria del trascorrere perenne delle stagioni e delle trasformazioni, spesso in peggio, del terreno e del paesaggio per l’incuria e l’indifferenza degli uomini. Ma il ricordo del passato è ancora fortemente radicato nell’autore che pure da molti anni è andato via dalla sua terra per approdare a Milano, dove svolge, ancora oggi, più compiti di grande responsabilità come giornalista di varie testate importanti e in ambienti di difficile accesso ai comuni mortali. Egli, infatti, impersonando un Ulivo, racconta con grande nostalgia che accanto a lui c’era un tempo una torre, ormai diroccata, che tanta paura incuteva, ma che offriva sicuro rifugio ai contadini dagli assalti dei saraceni lungo il mare Adriatico. “Dovete sapere che tanto tempo fa le nostre coste erano assalite dai saraceni provenienti da terre lontane su agili e minacciose imbarcazioni che solcavano il mare. Assaltavano le città, saccheggiavano, distruggevano, uccidevano. (…). Ecco il compito di quella torre perché occorreva avvistare il pericolo e comunicarlo agli abitanti dei dintorni e a quelli delle campagne dell’entroterra più distanti dalla costa…”. E i ricordi dilagano lungo il tempo e lo spazio per accendersi di segnali di fuoco e di fumo che, allora, sostituivano parole di avviso di imminente pericolo. Ma tutto cambia e tutto continua a parlare con i segni dei nuovi tempi fatti di rumori assordanti, parole al vento, musiche provenienti da smartphone e cellulari che, azzerano la voce silenziosa di preghiera e gratitudine per la vita di chi non abita più il campo e non può più opporsi allo scempio di quel silenzio pacificato dopo ogni tempesta. Non c’è stata mai pace o non c’è più pace tra gli ulivi, dunque? (continua)

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