domenica 30 giugno 2019

23-26-29 giugno: tre presentazioni de Le piogge e i ciliegi, parte seconda.

Domenica scorsa eravamo a Cernobbio sul lago di Como per presentare il mio quasi romanzo Le piogge e i ciliegi (della SECOP Edizioni, 2018-2019) a “ParoLario, prestigioso Festival Letterario che tante emozioni ha suscitato in me e in tutti i presenti, grazie soprattutto alla scanzonata, ma altrettanto profonda, affabulazione di un “superbo” Giovanni Gastel.
E, nell’arco della settimana, emozioni senza fine nelle due serate che hanno visto i fari della condivisione di tanti amici presenti illuminarsi sui due volumi che compongono l’intera opera (almeno per il momento).
A Corato ci sono state le parole del meraviglioso Relatore Vito Di Chio, mio fraterno amico e studioso infaticabile di Letteratura e di Poesia internazionali e, perciò stesso, sensibilissimo critico letterario, di cui mi piace riportare alcuni stralci significativi dell’illuminato Intervento. Ma molto interessanti sono stati i commenti di Silvana Mangano, altra mia grandissima amica della mente e del cuore, a cui per anni ho affidato anche la mia salute (molto apprezzato il suo intervento “a latere” sulla maternità e genitorialità, nel passato e ai nostri giorni, analizzato con grande competenza e altrettanta umiltà); di Isabella Antonacci e di suo marito Umberto, di Zaccaria Gallo.
È stato intessuto così un dibattito molto vivace, che ha arricchito la serata.
A Bitonto, invece, nel magico giardino/cortile dove le tantissime storie da me raccontate hanno avuto quasi inizio, sono stata affiancata da altri due splendidi Relatori: Valentino Losito e Mario Sicolo. Entrambi affermati giornalisti ed entrambi miei carissimi amici. Ci accomunano l’amore per la scrittura ed empatiche sintonie.
I loro Interventi, che potrei definire complementari, senza che assolutamente si fossero accordati, hanno illuminato di calda, amorevole luce il grande melograno che ci confortava con la sua ombra in tanto sole. Due Interventi di altissima intensità emotiva e di profondissima competenza linguistica, storico-sociale e culturale, che hanno filigranato di autentica commozione la loro tenace umanità. Spero di poter quanto prima pubblicare anche le loro catturanti, avvolgenti, e stupende riflessioni.
Per ora ho a disposizione quelle di Vito Di Chio che sono già un dono per me e per chi legge…
LE PIOGGE E I CILIEGI. FOGLIE E FRUTTI DI UN ALBERO SEMPRE VERDE
Nel 2012, in concomitanza con la pubblicazione “Trattenendo il respiro” ho avuto la fortuna e la gioia di incontrare Angela De Leo.
Incontrare Angela De Leo è regalarsi un momento lieto nella vita … - dopo il primo contatto hai già la sensazione limpida di conoscerla da sempre, perché lei ti spalanca subito una finestra sui suoi sogni e ti cattura con la sua poesia, con la poesia della sua vita. Così è capitato anche a me, e questa impressione si è rafforzata man mano che leggevo e gustavo le sue ultime pubblicazioni, che prendono forma per cogliere l’indicibile inscritto nelle micro o macrostorie della vita di tutti i giorni. Fatti ed eventi che anche noi incrociamo nella nostra realtà quotidiana, ma che archiviamo rapidamente, perché non siamo in grado, né disposti a cogliere in essi questo ineffabile - e cioè ciò che ferisce e ciò che risana nell’esistenza umana (C. Milosz). Sono grato a lei per l’invito, racchiuso in ogni racconto, a fare dei passi insieme lungo un sentiero bello, ma pieno di rovi, dove però il cuore dice alla ragione: “È in te stesso che si trovano le spine. Resta silenzioso, strappa la spina dall’esistenza del tuo cuore, per scoprire nella tua stessa anima roseti fecondi” (Rumi). (…)
TUTTO MI STA A CUORE - I CARE. PERCHÉ NULLA VADA PERDUTO.
PAROLE - CHIAVE:
1. INIZIO - RI-COMINCIARE
Questo desiderio di “cominciare”, di “dare inizio a qualcosa di nuovo” è presente in tutti e due i volumi, è come una “trama” sotterranea del suo scrivere:
Per ogni fine / c’è un nuovo inizio (Antoine de Saint Exupéry) “Qualunque cosa tu possa fare. Qualunque sogno tu possa sognare. Comincia. L’audacia reca in sé genialità, magia e forza. Comincia ora.
Esergo del Cap. I: Goethe:
“Ogni inizio è abitato da un momento magico che ci protegge e ci aiuta a vivere”
Hermann Hesse, Stufen (Gradini):
Ma è stata H: ARENDT, in Vita activa a mettere in luce l’importanza del “poter avere un inizio”, del COMINCIARE.
La conditio humana è segnata da cinque aspetti fondamentali (natalità, mortalità, corporeità, essere nel mondo, pluralità),
Di cui il primo è IL POTER AVERE UN INIZIO
- in pratica: l’essere libero. In virtù di questa condizione siamo capaci di introdurre il nuovo, di agire in modo differente dall’atteso, di introdurre “una discontinuità che interrompe una serie o un’identità già consolidata”, e, in primo luogo, “l’inesorabile scorrere della vita quotidiana”. Che cosa è questo “nuovo” che viene introdotto da questa condizione dell’agire umano? Il nuovo non si riferisce alla produzione di una idea o piano geniale dell’attore, ma al tessuto di interazioni in cui l’azione va ad inserirsi e alla costellazione delle reazioni dinamiche e alla sua apertura al futuro.
- «Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità».
- Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell'esperienza umana che l'antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa e efficace espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la «lieta novella» dell'avvento: «Un bambino è nato fra noi».
1. SAPER PERDONARE E PERDONARSI
È una parola-chiave nel pensiero di Angela De Leo: vedi II Volume, pag. 167. Anche qui ci aiuta H. ARENDT a fare luce:
Saper perdonare e imparare a perdonarsi a vicenda è il risultato di un lungo processo (auto-) formativo. La pluralità è felice proprio per questo “allenamento al perdono” che essa comporta. Perdono che non esige dall’altro, dal prossimo una confessione, che non richiede dall’altro una ritrattazione di ciò che si è fatto, del proprio passato. Perdono significa lasciar perdere il mio diritto alla vendetta (anche alle piccole vendette del quotidiano), non portare nel “discorso” insistentemente l’ingiustizia subita, ma nello stesso tempo perdono non vuol dire scusare e giustificare il comportamento dell’altro. Perdono esige anzitutto una decisione personale. Perdonare è premessa per un nuovo inizio.
“A verità conduce poesia” (Clemente Rebora)
A QUALI VERITÁ “CONDUCE” LA POESIA DI ANGELA DE LEO?
1. “La bellezza della mamma” ma contemporaneamente non ignorare la relazione ferita tra Madre-Figlia
- Pag. 32: La stella più luminosa era mamma
- Pag. 75 -77 Mamma sotto processo
- Pag. 141: “non l’avevo mai vista così affaticata”
- Pag. 395 Ma come si fa a sopravvivere alla propria madre?
2. Contro i pregiudizi. Nonno Domenico prende posizione
L’amore ci rende immuni da pregiudizi Pag. 36 - 38:
- Contrasto tra la figura del Nonno e la personalità del padre:
- Un parlarsi a lungo, ma senza incontrarsi / una scostante severità
3. Nonna Angelina stava per incontrare dopo 50 anni il suo primo amore (pag. 123 segg.) - storia delicata e attuale
4. La storia di zio padre Leonardo (pag. 149 seg.)
n Tagore: La lettera (pag. 151)
n L’amore era uno “straniero” (pag. 152)
n Delicatissima immagine del tempo che fu (pag. 155)
5. L’addio del Nonno Domenico (pag. 160 - 169)
6. Il “QUASI” - filosofia e teologia del non finito (pag. 194 - 199)
7. Ministorie: Rosa (dai dorati capelli): (pag. 257 - 261
8. PRIMO (pag. 262 segg.)
9. Tutto cambia - pag. 294
10. IL SILENZIO (pag. 330 - 332)
11. “oggi si apre il mare”. (pag. 361 segg.)
12. “Sei tu il mio grande vecchio giovane (pag. 373

         TUTTO MI STA A CUORE
     ANGELA DE LEO, LE PIOGGE E I CILIEGI
   FOGLIE E FRUTTI DI UN ALBERO SEMPRE VIVO
1. “Tutto mi sta a cuore”
Don Milani fece scrivere su un cartello all’ingresso della scuola di Barbiana il motto “I CARE”, ripreso poi come mantra da molte organizzazioni politiche e religiose, non ultimo dal presidente Obama. “Tutto mi sta a cuore”, una frase che riassumeva bene le finalità di cura educativa di una scuola orientata a promuovere una forma di sollecitudine per le persone, la natura, le cose. “I care” trasporta come messaggio la disponibilità a non essere centrati su sé stessi e riconcentra l’attenzione e l’interesse al mondo degli altri, sollecitando un comportamento di rispetto della dignità della persona.
“Tutto mi sta a cuore” è la matrice originaria della Storia di un uomo straordinario, il nonno Domenico dell’Autrice ed è anche la sorgente nascosta a cui Angela De Leo attinge per dare forma ai suoi sogni, alle sue speranze e ai suoi ricordi, ossia a tutte quelle fantasie impalpabili che chiamiamo immaginario e con il quale la poetessa ha imbastito poeticamente questa (auto)biografia.
È lei stessa a confessare candidamente di dissetarsi a questa fonte, quando, per esempio, caratterizza con pennellate multicolori la sua relazione con i figli e, in particolare, con Daniela:
«E proprio Daniela, proprio lei, che ora ha bisogno di carezze materne, mi ha fatto ancora una volta un dono dolcissimo: mi ha dedicato “La cura”, una canzone meravigliosa di Franco Battiato.» infiorata di versi indimenticabili:
“Ed io, avrò cura di te (…)
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza (…)
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto.
Io sì, che avrò cura di te (…)”
La scrittrice commenta, tramandando quel gesto e quelle parole:
“Il cuore ha avuto un sussulto. Da tempo non mi capitava. Che bello il prendersi cura di qualcuno”.
Le cose più piccole, le realtà viste nella loro creaturalità come esseri che ci interpellano “stanno a cuore” del nonno Domenico e della sua Angela:
- Raffaella e il suo ragazzo occhi-verdi
- “Siediti. È festa. La tua vita è in tavola”.
- La variegata percezione della pioggia con le sue infinite variazioni; “Pioveva in quei giorni di ansia e di paura. Una pioggia né buona, né cattiva, una pioggia d’attesa” … “Neppure la pioggia mi consolava”.
- D’improvviso un mondo di sofferenza chiude ogni via di fuga. E tuttavia i ciliegi tornano a fiorire.
- E così scrutando l’amore “che basta a sé stesso, come sentimento che attraversa il tempo e lo spazio, facendosi assoluto” lo percepisce come “stupore di ciliegi a primavera”.
- Anche le nuvole sono onnipresenti e caratterizzano la nostra inquieta interiorità:
- “Siamo nuvole che si aggregano e si disgregano, si formano e si disfanno, assumono sembianze diverse nello spazio e si dileguano”.
- Siamo a noi stessi e agli altri sconosciuti.
- Anche il mare, afferma la poetessa, “l’ho scoperto con te e con te l’ho amato”, con il nonno Domenico, con il quale Angela il 29 giugno, festa di San Pietro e Paolo, andava ad aprire il mare: “oggi si apre il mare”. Una relazione vissuta come “inaugurazione augurale”.
- La relazione come dono e ricchezza da gestire. In tutta la storia di Domenico e del racconto che Angela De Leo ne fa, si tocca con mano il valore delle persone, anche delle più umili, incontrate lungo la strada della vita. Normalmente basta a noi poco per lasciar “perdere” una persona, per toglierle la stima e il rispetto. Nessuna - in questa autobiografia - viene lasciata cadere. Per esempio, è commovente leggere come siano rimaste vive nel ricordo e nella tenerezza del cuore le “tante donne dell’infanzia”. Ricordandole, dedica loro delicati versi attinti al repertorio poetico di Primo Leone: “Le donne del Sud”.
- Lungo la narrazione c’è un confronto continuo con nomi che evocano persone concrete, le più variopinte, che nonostante il tempo e le molteplici vicissitudini della vita abitano nell’oggi della poetessa.
- C’è pure un franco e disarmante confronto con relazioni amicali e parentali che, nonostante il lato ombra della singola personalità, continuano a riempire di valori e di senso il fluire del tempo. Il lettore deve muoversi all’interno di una giungla di incontri vissuti quasi sempre con grande intensità, come pietre miliari lungo la via della vita. Il rispetto e la stima per le persone che il nonno Domenico, con il suo esempio, ha inculcato nella nipotina Angela sboccia come un fiore di primavera in ogni momento della narrazione.
- Anche i nomi degli animali amati e perduti sono ricordati con toccante tenerezza, così come i gatti di Ombretta. Neppure loro sono “lasciati perdere”. La poetessa fissa in una calda poesia il ricordo di Dylan, il cane di famiglia:
- “Tutto mi sta a cuore”, anche le cose, e soprattutto la terra, “madre amara e generosa”. (…)
- 2. Perché nulla vada perduto
Mentre leggo con partecipata attenzione e tensione interiore questa “storia che non ha fine”, mi viene in mente il racconto della moltiplicazione dei pani tramandatoci dai Vangeli. Dopo che cinquemila persone furono saziate con i cinque pani e i due pesci, Gesù disse ai discepoli: "Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto. Riempirono dodici canestri" (Gv. 6,12).
Angela, perché nulla andasse perduto della “storia infinita” di ricordi, di incontri, di attese, di dolore, di amore, di timori, di morte, di pace, delle fragilità…, in cui è coinvolta e in cui si lascia ancora coinvolgere, ha riempito dodici ceste di pane di questa storia. È il secondo volume del racconto “Le piogge e i ciliegi”. Pane fresco, ma anche pane sbocconcellato, - tutto quello che sembra a prima vista “avanzo” o piccolo frammento - pane amaro e pane che è promesso alle nuove generazioni… perché nulla vada perduto - mi sembra uno dei leitmotiv del suo romanzo autobiografico di un uomo straordinario che attraversa tutto il racconto.
È vero, è un paragone un po’ ardito, sovradimensionato per caratterizzare un romanzo autobiografico, ma che tuttavia coglie il senso di questa "storia infinita", dalla quale la poetessa è catturata e nella quale è coinvolta. È proprio quello che lei, con la sua profonda sensibilità poetica e umana ha saputo cogliere e "raccogliere": “Non voglio - afferma lei stessa con intimo trasporto - che di quell'uomo "straordinario" si perda neppure un tratto, una parola, una intenzione, un sentimento, perché è grazie a lui se ho conservato negli anni la purezza del cuore, gli occhi incantati di bambina, l'amore per gli altri e per la vita, una tenerezza particolare per i miei cari e per i miei nipoti a cui desidero consegnare il suo  messaggio più bello: l'autenticità dei sentimenti e la riconoscenza sempre verso il Creatore per tutti i doni che riserva a ciascuna delle sue creature, nella consapevolezza di essere briciola infinitesimale di una sola Anima...”
Cosa salvare allora? “Il ricordo del passato perché non muoia con noi” - risponde Angela, e, quasi come un canto, riassume il tutto con questi versi:
…la culla la casa il filo di luna sospeso
ai camini del tempo
e lo stupore di noi bimbi a cercare
arance e fichisecchi nella calza della befana
e tutti i frutti di sole e di miele raccolti
da una madre amara e generosa
la mia terra
(che d’erba e di mare un tempo profumo aveva)
Il fondamento su cui poggia questa “missione di raccoglitrice” e di “Vestale delle tradizioni” di una famiglia del Sud, nel cui centro c’è un “Uomo straordinario”, il nonno Mincuccio, è la sua fede nel miracolo della vita che continuiamo a sperimentare come ordine e armonia nonostante l’apparente contraddizione delle cose: “Non è possibile che siamo il prodotto del caos primordiale che a caso ci ha generati. Se così fosse, non fiorirebbe la rosa ad ogni maggio né maturerebbero le ciliegie a sorridere di complicità ai papaveri e ai sogni che rinascono a primavera. Non avremmo un bambino e poi un ragazzo e un uomo adulto e, infine un vecchio. Saremmo lapilli impazziti in un pazzo universo. E, invece, tutto è ordine e armonia, anche nell’apparente contraddizione delle nostre vite e di tutte le cose”.
3. Nella filigrana della memoria rifioriscono persone, incontri, tradizioni, valori dell’umano
Al contrario di quanto succede a noi oggi “prigionieri del presente”, senza passato e, di conseguenza, senza futuro, dominati dalla tecnologia, dalla velocità e dal consumismo, con un Io ripiegato in maniera narcisistica su se stesso e sui propri interessi, l’Autrice di questa storia di un uomo straordinario fa rifluire con grande consapevolezza il passato nel presente, narrandolo sia con ritmo diacronico che con procedimento sincronico, sollecitando le microstorie delle singole persone, le loro interazioni, i valori, di cui sono portatrici,  a rifiorire nella stretta dinamica del presente. La poetessa aveva scritto nel I, volume di quest’opera:
“Penso che la scrittura sia un dono divino: fissa nel tempo lacrime e sorrisi. / È simile a una foto. Questa, però, eterna volti e corpi, l’involucro di noi. / La scrittura perpetua l’anima. Doppia immortalità”.
Angela De Leo non è “prigioniera del passato”, dei dorati ricordi d’infanzia. Il suo raccontare è “lontano dall’Io”, sono gli altri, è il mondo al centro della sua attenzione. Ecco perché - quasi per miracolo - ogni più piccolo evento, ogni incontro sprigiona la sua essenza interiore.
Le sue esperienze sono incise - come lei stessa si esprime - sul suo “animo bianco”, bianco come il vestito da sposa, bianco come la somma di tutti i colori, bianco che, proprio perché non colora, è “in attesa di pennellate perché abbia un senso. Come la vita. Ed io quel giorno ero ancora un colore bianco da pennellare con tutti colori dell’amore e dei sogni e delle speranze. Dei fiori intatti…”.
(fine prima parte)



sabato 29 giugno 2019

29 giugno 2019: San Pietro e San Paolo. "Oggi si apre il mare"...


"                                                  MARE
           Anche il mare l’ho scoperto con te e con te l’ho amato.
Quando arrivava il 29 giugno, giorno di San Pietro e Paolo, in casa si diceva “oggi si apre il mare”. Anche amici e conoscenti dicevano “ehi, che oggi si apre il mare!” e cominciavamo ad attrezzarci per “aprire la stagione dei bagni”. Io fantasticavo su quel mare che si apriva dopo un anno che qualcuno lo aveva chiuso coprendolo con tavole e chiodi e martello. Non avevo mai visto il mare d’inverno e, quindi, per me aveva poca importanza andare al mare tanto era coperto con le tavole. Tu, pur avendo la possibilità di comprare una villa al mare durante la guerra poiché i prezzi erano crollati, non volesti mai farlo per via dei lutti e della disperazione di tanta gente, per cui, dopo il 29 giugno, andavamo ad “aprire il mare” con la nonna e altri parenti e amici, con i traini e con i calessi (e il viaggio breve di andata e ritorno era una lunga magica scia dei canti delle donne a cui faceva eco il sommesso e suggestivo controcanto degli uomini… ed io ascoltavo rapita quel coro di voci che rompeva il silenzio dei campi o il disturbante frinire delle cicale: Bella tu sei qual sole/ bianca più della luna…).
Poi, si stava tutto il giorno in riva, tra pietre levigate e ciottoli bianchissimi, a viverlo in tutta la sua luce, la sua meraviglia.
                                 Il mare finalmente schiodato             
     C’era sempre qualcuno che lo aveva aperto prima di noi

Si gridava “il maaare!”
all’ultima curva
che disvelava all’orizzonte
la riga d’azzurro
tesa su verdi alberi
a sottolineare il cielo
quasi fosse un errore.
E rotolava il grido dal calesse
e scivolava sotto le ruote in corsa
perdendosi nel ritmo
degli zoccoli del cavallo
che batteva il vento e l’afa
tra campi d’ulivi assolati
con zampe a falce
a raccogliere-lasciare pezzi di strada
dietro la nostra allegria.
Ne ritrovavo l’odore
tra l’alga e lo scoglio
e l’esaltata spuma
in gara col mio cuore. (…)
E mi sorprese più volte
lo stupore acceso io maga
non dell’impossibile incontrare
               l’immenso
      quanto di catturarlo
nello spazio del mio fazzoletto
tra le nocche a nodo
quasi rete a pelo d’acqua.
Mai sazi di mare
aspettavamo la sera (…)
Si accendevano lanterne di carri
(rassegnata l’attesa tra ciuffi d’erba)
e lungo scogli si perdevano passi
a cercare granchi in lotta
contro mani imprudenti
(piedi nudi lasciavano orme di sangue
ad arrossare stanche onde alla battigia)
La via del ritorno aveva
un ricamo di stelle
nel rimpianto degli occhi
a frugare nel cielo
il respiro del mare…
(“Il respiro del mare”, stralci.
 Da Sul naufragio del sole)

E il mare era quello del “Bersaglio”, una costruzione forse un tempo rosa, con porte e finestre sventrate, certamente un residuo bellico a ricordarci una violazione straniera, che opponeva un confine tra il paese che si snodava lungo la riva con punti di riferimento certi
(il tram con i binari che finivano in riva al mare; il bar “Qui si gode” proprio lì a due passi; “u vargàlònə”, non meglio identificato in italiano, dove era proibito tuffarsi per via di alcuni scogli e correnti a formare pericolosi vortici; e poi, via via, alcune sciale: da “La Rotonda” alla “Cala d’oro”, dove le famiglie borghesi si vantavano di avere la propria spiaggia)
e la nostra voglia di mare in fondo al “Lido Lucciola” a concludere quel rettilineo di case e di azzurro (immortalato dai bellissimi acquerelli del nostro grande Francesco Speranza!), che s’incurvava a formare un’ansa un po’ appartata, dove le suore osavano fare il bagno e dove, in un pugno di acque scogli bianchi e ciottoli, c’era il “bagno dei cavalli” e subito dopo lo spiazzo per i carri, quasi guglie di minuscole cattedrali, con le stanghe, rivolte al cielo e coperte dai “panni delle olive”, sotto cui ci si riparava dal sole per l’intera giornata. Alcuni ardimentosi osavano trascorrervi anche le notti per vivere interamente a contatto con il mare quei pochi giorni di “villeggiatura”. A qualche metro, ecco la protezione di quella casa aperta a mille voci e a mille venti. E, all’imbrunire, i ragazzi della comitiva, cugini e figli di amici, c’invitavano ad andare alla “jàcchə” (a pesca?), a scovare tra gli scogli appuntiti, con fil di ferro arrugginito e coltellini di fortuna e secchielli colmi a metà d’acqua salata, i granchi e le pelose, che si difendevano dalla invasione di dita nemiche con le loro chele furibonde, in agguato nell’ombra dei loro rifugi di pietra bucherellata. Infuriava la battaglia fino alla nostra ritirata con dita sanguinanti di paura, nell’avanzare del buio della sera ad inghiottire il mare.
Dopo, i figli del piccolo esercito degli ardimentosi ci mostravano fieri il loro bottino. Io battevo sempre in ritirata prima che la battaglia si potesse fare più aspra e cruenta. Mai un atto di coraggio da parte mia. Mai.
Rimaneva alle nostre spalle uno sciabordio lento a riportaci una nenia di sonnolente onde ad accarezzare i nostri occhi vinti di sonno". 
 (Una pagina da Le piogge e i ciliegi, II volume: Foglie e fiori di un albero sempre vivo", SECOP Edizioni, Corato- Bari, giugno 2019)

martedì 25 giugno 2019

25 giugno: i ricordi del giorno dopo...



Ieri sono tornata a casa. Da Como. Macinando oltre 1000 chilometri di autostrada. Per fortuna, non a piedi. Con la Dacia di Peppino, mio genero nonché editore della SECOP Edizioni, che ha pubblicato i due volumi del mio ultimo romanzo Le piogge e i ciliegi, presentato proprio a “ParoLario”, il prestigioso Festival Letteraio di Como e “altri luoghi”, e con mia figlia Raffaella, nella insolita veste, almeno ufficialmente, di mio angelo tutelare, piuttosto che di Pr. della Casa editrice, scrittrice per ragazzi (e non solo), coordinatrice di presentazioni, serate e incontri culturali.
Meravigliosa esperienza in un luogo incantevole, il parco della stupenda Villa Bernasconi, in stile Liberty, di Cernobbio, dove siamo stati accolti da Denise, una ragazzina bella, attenta, sorridente, che una magnifica, puntuale organizzazione del Festival ha messo a nostra disposizione, con un bravo aiutante tuttofare, per rendere confortevole e unica la Presentazione del primo volume del romanzo, non essendo ancora in distribuzione il secondo.
Alle 18,30, l’appuntamento con Giovanni Gastel, mio stratosferico interlocutore, e con gli ascoltatori, che sono stati davvero tanti e tutti molto coinvolti e attenti.
Giovanni, principe di Cenobbio a tutti gli effetti, è stato insuperabile: elegante, scanzonato, affettuoso, affascinante, profondo, tenero, divertente.
Ha avuto parole di grandissima rilevanza letteraria, culturale, umana nei miei riguardi e nei riguardi del mio libro, approfondendone, in maniera mirabile, la struttura linguistica e contenutistica, l’afflato poetico che sorregge tutta l’opera, e avendo parole dolcissime nei riguardi del protagonista della storia: mio nonno Mincuccio, da lui cantato come il “patriarca” di una famiglia che ha conservato, grazie al suo esempio, i valori più importanti, come la dignità, la solidarietà, l’eticità della nostra esperienza terrena; valori che, invece, in molti casi, dalla seconda metà del Novecento in poi, sono andati perduti. E che dovremmo cercare di recuperare per non morire nella totale desertificazione della nostra anima. Più o meno questa la sua conclusione.
Non sono mancate battute divertite e divertenti, lanciate lì con nonchalance (Giovanni Gastel ha il dono della bellezza, dell’eleganza e dell’armonia persino quando dice le “parolacce”), rendendo l’atmosfera davvero magica per lievità incantata, delicatezza sorniona e tenerezza antica.
Bellissima la complicità del cuore con suo figlio Marco (a lui tanto somigliante fisicamente e nei modi signorili), seduto in prima fila e fatto tenerissimo oggetto delle sue battute complici e del suo immenso amore.
Molto pregnanti anche gli interventi da parte del pubblico, primo fra tutti quello della mia carissima amica Maria Cristina Brandini, che mi ha posto due domande di grande intelligenza e sensibilità. E così quelle delle altre signore appena conosciute, ma già mie amiche per sintonia emotiva e bella consonanza, immediatamente avvertite tra noi. Molti gli ascoltatori che sono venuti a complimentarsi perché si sono ritrovati nelle stesse esperienze postbelliche e nei ricordi molto simili ai miei. Le affinità compiono prodigi di immediate intese.
Come ringraziare tutti: ParoLario, gli organizzatori, lo staff, i presenti?
Come ringraziare il grande Giovanni Gastel per tanta generosità nei miei confronti? Ancora non so. Cosa si può donare ad un uomo che ha tutto, se non un’amicizia vera, profonda, incondizionata? Affetto, stima, ammirazione. E voti perché sia felice!
Dopo la magnifica serata, ecco l’invito nella sua Villa a due passi da Villa Bernasconi. Si fa per dire a due passi. Tutta Cernobbio si identifica in una immensa Villa Erba divisa in due enormi ville, tra lunghi intricati percorsi di alberi secolari oltre i maestosi cancelli e l’alto lunghissimo muro che le separa dal resto del mondo, con profumatissime e altissime siepi di gelsomini a ricamare l’intera facciata della principesca dimora, di una grandezza inimmaginabile e di una severità elegante e raffinata, dove è di casa la storia dei Visconti e degli Erba, nei volti degli antenati, dipinti da pittori famosi…
Saloni meravigliosi anche per la musica e le danze. Altro non so descrivere. Sono rimasta letteralmente abbagliata e stordita da tanto inimmaginabile incanto. L’immenso prato, circondato da siepi di rose a perdita d’occhio.
Giovanni ci raccontava di sé e dei suoi avi tra bicchieri di ottimo vino ed io non riuscivo più a connettere, ad ascoltare, a seguire. La sindrome di Stendhal in agguato per la rara Bellezza che mi era davanti agli occhi, nonostante gli spazi infiniti. E raro e bellissimo anche il racconto di Giovanni, e il silenzioso e attento procurarci ogni possibile comfort da parte di Marco, aiutato nel fare gli onori di casa dal maggiordomo.
Ma forse sto descrivendo il tutto in maniera imprecisa e confusa, ma davvero sono senza pensieri e senza parole. Solo un fascio di emozioni come le rose, i gelsomini, le siepi, i prati, le parole che volano in questo immenso parco delle meraviglie.
E mormorii di voci lontane eppure mai perdute nel tempo…
Grazie, Giovanni Gastel, anche e soprattutto per lo stupore che hai acceso nei miei occhi. Nella mia anima…
E questa poesia composta di notte per ParoLario ora la dedico anche a te, perché il Lario sei tu. Qui le tue storiche e nobili radici. Qui le tue parole innamorate e che innamorano. Qui l’incanto di ogni tua possibile POESIA: in immagini, in prosa, in versi.
La POESIA incantata della tua anima inquieta eppure così sorridente, lieve, gioiosa.

Scivola il verde delle foglie
sulla pelle ombrosa del Lario
e liquide chiome dorate arabescano
il fondo incantato d'ogni magia.
Il mondo è fuori, lontano, dimenticato.
Onde come richiami di voci navigano
tra "monti sorgenti dall'acque" in un addio antico
che mai si acquieta.
Volano pagine, rose o gabbiani
di carta e di segni,
alla danza del vento che canta il giorno
bambino, con storie tutte da raccontare e tante.
S'inerpica un suono d'arpe su sogni intrecciati e diversi
d'affollati incontri e di parole.
Versi danzano sulla morbida spuma
che sa del tramonto maestoso
la malinconia e il rimpianto.
Scivola umile e superba lungo un pendio narciso,
a specchiarsi in questo mare raccolto e in sé conchiuso,
la bellezza delle pietre levigate
dalla nostalgia, della casa, il profumo dei gelsomini,
la stretta di mano, il concavo nido delle braccia,
il sorriso del ritorno, e ignora
ogni altro viaggio, la riva, l'ignoto.
È qui che voglio restare a riscrivere
la storia di due sposi promessi
"su quel ramo del lago di Como"
dove germogliano di stupore i miei occhi d'erba...

Angela De Leo 

martedì 18 giugno 2019

18 giugno 2019: Compleanno di mia figlia Ombretta


GRAZIE MAMMA  Angela De Leo
In questo dardeggiare di miele
a mezzogiorno,
ti ritrovo tra braccia
di mare lontano
ad accoglierti
in un tuffo del cuore.
Ci siamo ancora,
imbrigliate di risate,
in piena quiete
dei nostri nuovi giorni
a cantarci i progetti un tempo rimandati.
Oggi realtà viva
nella vostra casa,
che respira il cielo
e ha grovigli di stelle
a cullare di tenerezza
sogni di mici e di luci di corolle multicolori che profumano
di vento.
E alberi innamorati
e vele inventate
a riportare tra i rami tutto l'azzurro possibile
per non naufragare mai...
(A Ombretta per il suo compleanno)
Mamma
                                                          1970
Ombretta,
sgusciata dal mio sacco amniotico nella frazione di pochi attimi quasi in ascensore. Ed era una domenica speciale.
Era con noi, ancora una volta e forse per l’ultima volta, zio Padre Leonardo che volle portare tutti a pranzo fuori, mentre io finii in clinica proprio all’ora di pranzo perché lei nascesse. E quasi sapesse della fretta che il padre e sua nonna avevano per raggiungere gli altri con gli occhi sul mare, la mia piccolina ebbe fretta di salutare il mondo e di farmi compagnia col suo pianto.
Primo per tre volte rinnegò sua figlia:
“Non può essere mia figlia, mia moglie è appena stata portata in sala-parto…”.
“Vi dico che non è mia figlia, sì o no mia moglie è arrivata all’ascensore…”.
“Vi state sbagliando, di sicuro non è mia figlia!”.
Poi, fu chiamato a conoscerla e a riconoscerla.
“No, è troppo brutta per essere mia figlia. Preferisco lasciarla a sua madre. Io e mia suocera abbiamo un pranzo che ci aspetta e siamo in ritardo…”.
Non ricordo se ci fu il canto del gallo per la terza volta. Ricordo soltanto che quel pianto mi tenne compagnia per due lunghi anni, scoraggiando il mio sonno e il mio letto. Notti in cucina. Per non turbare il sonno degli altri…
(signora ma come dobbiamo fare con questa bambina dal soffitto ci arriva la sua voce e c’impedisce di dormire… lo so vi chiedo scusa ma non dormo neppure io… signora mia ma la figlia è vostra non nostra… già è solo mia… solo mia…)
fino al fiorire di strane frasi inanellate a canzoncine che Ombretta si cantava da sola mentre le manine disegnavano mondi irreali che i suoi occhi guardavano incantati.
E, se Raffaella fu subito fiume di parole cristalline, Ombretta fu a lungo turbinio di ingorghi di sillabe ingarbugliate e sorprendenti, che ci mettevano allegria
(pipitozzolo = capezzolo… carcingiengica = carta igienica… i ceci = piselli lenticchie fave… zia il pussino è stecchino = zia il pulcino è morto stecchito… di di è desto dolore? = di chi è questo colore?...). 
Una bimba-cartone animato, che troppo a lungo avrebbe riso, troppo a lungo avrebbe pianto…
(ombretta sdegnosa/ del mississippì/ non far la ritrosa/ ma baciami qui…)
Alla mente mi ritornava la canzoncina che Michelino mi aveva insegnato e che più tardi avrei scoperto dedicata da Lucio Ardenzi alla piccola protagonista di Piccolo mondo antico di Fogazzaro.
Già da bambina mi dicevo che se un giorno mi fossi sposata come mamma e come mamma avessi avuto delle bambine, una l’avrei chiamata proprio così, ignorando il triste destino della bimbetta fogazzariana.
Quella piccola ombra mi faceva sognare come le ombre piccole della mia infanzia protetta dalla tua ombra grande).
Ombretta, più tardi, musa incontrastata di suo padre, per i lunghi capelli di splendida seta.
(per me ombra di ansie e di paure… ombra di pianto… ombra sul cuore… tormento di ospedali e intima preghiera di dare a me ogni dolore che potesse sfiorarla… colpevole io del mio RH-, diagnosticato, in modo altalenante, con corse forsennate tra il nostro ospedale e la clinica del capoluogo fino alla Banca del sangue per “tagliare la testa al toro”, come mi dissero, dove mi sottoposero al test di Coombs per determinare la presenza di anticorpi nel mio sangue e salvare la serenità della mia attesa solo dieci giorni prima che la mia bambina si catapultasse per piangere tutte le sue lacrime sul mio seno impotente e paziente…
e il costosissimo RhoGAM, appena giunto in Italia per vie clandestine, da somministrare entro le settantadue ore dal parto per salvaguardare altre gravidanze dalle temibili conseguenze della incompatibilità del mio sangue con quello dei nascituri…
e la corsa di Primo a cercare l’introvabile iniezione-salvacondotto per altri eventuali bimbi da far fiorire nel mio ventre dove germogliarono ancora e ancora…
Oggi mi fa sorridere l’aver scoperto su recenti riviste mediche che l’Rh- è indice di sangue “puro”, unico sulla terra. Solo il 15% degli esseri umani ne è portatore ed è il solo donatore universale, mentre può riceverlo esclusivamente dai portatori dello stesso Rh-. E gli studiosi continuano: “Pare che sia un sangue di esseri evoluti approdati sulla terra qualche migliaio di anni fa, di fatto questo sangue risulta un mistero”. E continuano a parlare delle eccezionali caratteristiche di chi appartiene a questo gruppo sanguigno. Ne cito pochissime perché potrei montarmi la testa: “Senso di non appartenenza… Senso di dover compiere una ‘missione’ nella vita… Empatia e compassione… Percettività extrasensoriale… Tendenza a fare sogni molto vividi… Ansia di conoscenza e ricerca della verità…”.
In alcune caratteristiche mi ci ritrovo e tutto ciò mi diverte e mi mette di buonumore. In pratica, ciò che tanti anni fa mi sembrò una iattura oggi è diventato fonte di orgoglio. Caspita! Come cambiano le cose nella vita! Niente è per sempre! Tutto è relativo. L’ErreH negativo è oggi un gruppo sanguigno considerato raro e prezioso e generoso, di etnia misteriosa e forse stellare. Che fortuna! Ed io che non me ne ero mai accorta! E, quantomeno, ora, alcune mie strane peculiarità mi sono finalmente chiare!
Nonostante i tanti problemi vissuti per Ombretta e le tante ansie provate per i figli nascituri, sento di dover ringraziare il buon Dio per quanto mi ha donato…
(alcune pagine tratte dal romanzo Le piogge e i ciliegi-I ciliegi, II volume, SECOP Edizioni, Corato, maggio 2019).


sabato 15 giugno 2019

14 giugno. Leopardi e la sua siepe...


Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Avrei voluto pubblicare ieri questa mia piccola “divagazione” su Giacomo Leopardi e la sua immensa Poesia, ma non ne ho avuto il tempo. Troppi altri impegni di scrittura me lo hanno impedito, ma l’impedimento non ha spento il mio desiderio di ricordare il suo pensiero e ripensarlo a modo mio. Postandolo testardamente sul mio blog.
La morte, 14 giugno 1837, del grande Poeta, sempre amato dai giovani di tutte le età, mi porta a fare delle considerazioni, mie e non solo, non sulla sua fine (se ne sta parlando tanto e con tesi tutte controverse), ma sulla “siepe”, che si opponeva al suo sguardo assetato di infinito. Anche della siepe si è parlato e si sta parlando ancora molto, ma un pensiero voglio esprimerlo anch’io. Non fosse altro perché ieri l’ostacolo a scrivere di lui è stato da me vissuto come una siepe a sbarrarmi il passo già malfermo. E, del resto, ogni siepe mi affascina e mi danna.  Come gli intralci, appunto, gli intoppi, le contrarietà, le barriere. Ci sono siepi cariche di fiori che mi mettono allegria, come gli oleandri di più colori, che un tempo ridevano sulle autostrade grigie di grigio asfalto, oppure le siepi di gelsomino dall’inebriante profumo a rendere atmosfere di sensualità e dolce incanto o, ancora, le siepi di alloro selvatico (prunus laurocerasus), che mi fanno pensare ai serti di alloro di cui si cingono oggi le fronti dei
neolaureati, e un tempo le antiche fronti dei grandi Poeti. Tutte e tre queste siepi circondano perimetralmente il giardino della nostra casa e creano un locus amoenus della tradizione classica oppure un hortus conclusus di medievale memoria: per me un luogo di verde, di pace, di lontananza da un mondo troppo rumoroso, convulso, difficile ormai da vivere. Anche la nostra siepe, dunque, ci esclude la vista di orizzonti ben più ampi, ma non mi ha dato mai il senso della reclusione o della solitudine. Anzi! Mi dà sempre un senso di benessere e di tranquillità, non disgiunte dalla possibilità di “fingermi” altri mondi. Altro e altro ancora. E sono proprio quelle siepi a farmi fantasticare e a portarmi sempre “oltre”. Ecco perché ritengo che l’ostacolo alla vista di un luogo nella sua banale quotidianità possa dischiudere innumerevoli opportunità di orizzonti altri da scavalcare, superare, per andare, in orizzontale, verso sconosciute terre senza fine e, in verticale, verso impensabili universi, ricamati di stelle e buchi neri fino a sentire l’alito divino, in un richiamo che ci nasce dall’anima e nell’anima si completa.
Le siepi, inoltre, mi fanno pensare anche alla terra che custodiscono, e alle radici che vi trovano dimora e alimento, nel buio di ogni mistero che avvolge la nostra nascita e la nostra esplosione alla luce. Ogni seme, piantato o portato per caso dal vento oppure da insetti impollinatori, si schiude per mettere radici. E ogni radice si avvinghia alla terra, abbracciandola, per far nascere rami e fiorire foglie… E, tra queste, ecco schiudersi germogli che invitano alla speranza di sempre rinnovate stagioni di fioritura e rinascita. E le foglie anelano al cielo. Sempre. Forse solo quelle del salice sembrano piangere la loro sconfitta. In verità, io paragono la vita degli uomini a siepi e ad alberi, che hanno bisogno di radici e mistero, ma anche di rami e di foglie per innalzarsi verso la luce e protendersi verso il cielo. Chi non avverte dentro questo anelito è come il salice piangente, ripiegato sulla sua sconfitta che esclude ogni azzurro, ogni soffio divino. Lo stesso stormire delle foglie produce un suono che si fa musica, canto, senso di pace. Mormorio di ricordi lontani, ancestrali, eterni. E “per poco/ il cor non si spaura”. Troppo piccoli noi, infinitamente piccoli, nell’infinitamente grande mistero che ci avvolge in questa bolla iridescente che chiamiamo Natura. “E mi sovvien l’eterno…”. E il pensiero si fa preghiera.  
Ben vengano, dunque, le siepi a impedirci la vista di quanto sta oltre per stimolare la nostra curiosità e far sorgere, da questa, l’interesse, che è il motore della motivazione personale a cercare per scoprire. E questa motivazione, forte, ad andare oltre fa   esplodere la nostra creatività, immaginazione, fantasia. Quel fuoco d’artificio che è illuminazione, esaltazione, pura gioia, appagamento. Ci fa sprofondare dentro di noi, nelle nostre eterne radici, e ci fa volare fuori di noi, verso un futuro che non ci appartiene, ma che possiamo prefigurarci a nostro piacimento. Superando il presente che ci fa stare male perché ci ha rapinato del senso e del significato della nostra storia e della storia dell’umanità, che si perde nella notte dei tempi e si fa mito, leggenda, fiaba, poesia. Paradossalmente, il nostro tempo ci ha rapinato proprio delle radici, per cui non riusciamo più a mettere rami e foglie e fiori. Neppure le siepi fanno parte del nostro presente. Solo muri e cemento, che spengono ogni curiosità, azzerando creatività e fantasia.
Un tempo, gli stessi condizionamenti fisici, familiari, sociali, culturali erano siepi che, come sostiene Adler, bisognava superare per “compensazione”. E la creatività compiva veri miracoli in tal senso. Oggi sono i muri a dividere, a escludere, a recludere. Ogni difetto fisico viene eliminato con la chirurgia estetica, con le protesi, i trapianti. Non costituiscono più un ostacolo, una siepe.
Ogni condizionamento familiare è stato apparentemente annullato da genitori permissivi, ultra protettivi, assenti, indifferenti, azzerando la siepe. Tutto è a portata di mano, di tasca, di strada.
La società complessa, iconica, elettronica, scientifica e tecnologica offre tutti i mezzi per vedere e sentire una realtà virtuale più che reale; offre mezzi supersonici per muoversi “alla velocità della luce” in tempo reale. Basta fare un clic e il mondo virtualmente è nelle nostre mani. Anche qui la siepe è sparita.
E culturalmente si gioca così al ribasso che basta essere poco avvezzi alla lettura, allo studio, alla scrittura per assurgere, seduta stante, a posti di potere, di massima responsabilità, ai vertici di ogni gruppo, comunità, settore, sistema. Con un’apparente assioma: siamo in democrazia. Tutti hanno gli stessi diritti. Non è stato il nostro Novecento il secolo dei diritti contro l’Ottocento, secolo dei doveri kantiani o mazziniani? E gli stessi principi democratici non si sono affermati da noi proprio nel “secolo breve”, con l’emanazione della Costituzione Italiana? E dal Sessantotto in poi non si è preteso, per qualche decennio, agli esami di Stato o a quegli universitari, il “sei politico”, per via di un frainteso senso di “diritto allo studio” di tutti e di ciascuno, che invece di elevare le masse ha abbassato paurosamente il livello culturale di tutti? Anche nella scuola niente più siepi.
E niente siepi in amore. Pare, quest’ultimo, un sentimento ormai ignorato da tutti in funzione di un sesso che reclama i “suoi diritti” del “tutto e subito”, senza neppure che i partner si conoscano, provino un brivido di vera passione, si scambino una promessa di eternità.
Solo Vecchioni riprede l’infinito dell’ultimo Leopardi e ne fa una canzone ricca di sentimenti e di emozioni, attribuendoli al grande recanatese e facendone un capolavoro, per quanti amano la sua musica, la sua poesia.
E forse alcuni insegnanti/educatori ancora capaci di non dare risposte complete ai loro alunni perché possano scoprire da soli, oltre la siepe, le possibili risposte “creative”, che diventino una entusiasmante conquista più che un piatto dato certo, attinto dalla voce di quelli che per forza di cose ne sanno più di loro.
Ed ecco che, grazie alla buona volontà e alla pazienza di chi sa “formare”, almeno in alcune scuole, si piantano ancora siepi e ancora radici e ancora rami, fiori, germogli che daranno frutti. E lasciano ancora un filo di verde speranza.
Ed io sono qui a cancellare ogni triste realtà, perché vorrei ancora poter, con Leopardi e non solo, riprendermi la mie siepi e ritrovare l’immensità dell’anima poetica, in cui dolcemente “naufragar”… Certamente lo farò domani…
E vi ho avvisato che erano solo delle divagazioni sul tema… Buttate là un po’ troppo creativamente? Fate voi…

domenica 9 giugno 2019

9 giugno: San Primo martire


 È un santo quasi sconosciuto san Primo, come raro è il suo nome. E, a quanto pare, era un bimbetto di soli quattro anni e pochi mesi quando subì il martirio. Tempi peggiori dei nostri. Penso che la natura umana sia sempre la stessa attraverso i millenni della nostra storia: c’è sempre un Abele e un Caino. Il Bene e il Male divisi in ugual misura a farci divini e dannati, angeli e demoni. Ma questa è un’altra storia.
Primo, il tuo nome raro. Abbinato al cognome, poi, Leone suscitava qualche perplessità e non poche battute in tono scherzoso, frutto di reminiscenze storiche, legate a Leone Primo papa o a Leone Primo imperatore. Comunque, grandi ascendenti. Il primo, detto anche “Magno”, bloccò addirittura Attila, “flagello di Dio”; il secondo, il Trace, detto anche “il grande”, fu il primo a ricevere la corona dalle mani del Patriarca di Costantinopoli. Entrambi più o meno contemporanei e destinati a grandi imprese. Niente male, dunque. Nomen omen, dunque! Primo Levi. Primo Carnera. Primo Mazzolari. Primo Reggiani. Primo Riccitelli...
Anche io rimasi stranita quando mi dicesti il tuo nome. E mi spiegasti che i tuoi ti vollero chiamare così perché eri nato alle sei del mattino del primo gennaio del 1941: 1/1/1941. E sembrò loro una data beneaugurale. E furono buoni profeti. Eri nato, inoltre, con la camicia; anzi, con il cappuccio, come ricordava tua madre. E, infatti, nella vita sei stato un uomo fortunato. Non soltanto per aver incontrato me (ah ah ah!) ed eravamo appena adolescenti, ma perché hai vinto sempre nella vita. E non solo psicologicamente parlando. Quante volte tornavi a casa gridando: “Ho vintoooo!”. Una volta si trattava di una vincita al totocalcio, una volta al lotto o all’enalotto, al gratta e vinci, a tombola, a risico, a… anche l’aria che respiravi diventava vincente. E vincenti erano i tuoi passi. Ti precedeva quel tuo nome insolito. Svettante. Vincente. Sempre PRIMO in tutto: il primo a scuola, con viaggi premio e borse di studio. Finisti anche sulla <Gazzetta del Mezzogiorno> tra gli studenti più bravi d’Italia e fosti il primo maestro d’Italia a prendere la cattedra d’insegnamento ad appena vent’anni. Altro articolo sullo stesso Quotidiano.
Una volta, già dirigente scolastico, partecipasti con alcuni tuoi colleghi ad un Convegno di tre giorni sulla Scuola, con sorteggio di premi ad ogni fine giornata. E, con nostra grande meraviglia ed esclamazione di giubilo dei tuoi figli, ad ogni ritorno portavi il pacco del premio vinto. Insolitamente, il terzo giorno, dicesti: “Mi vergogno come un ladro perché ad ogni sorteggio viene estratto il mio nome tra gli sfottò, un po’ invidiosi, di tutti i partecipanti, e siamo davvero un gran bel numero!”. Ed erano oggetti elettronici di un certo valore che, in realtà, ti rendevano felice.
Un 31 gennaio di circa cinquant’anni fa, mentre io subivo il trauma violentissimo dell’estrazione di ben tre molari, decalcificati, in un sol colpo e senza anestesia perché incinta, tu esultavi di incontenibile gioia per aver vinto sette chili e mezzo di lingotti d’oro perché eri risultato il secondo vincitore (questa volta, mannaggia, non il primo!!!) del Concorso “I 25 anni della Candy”.  E non finisce qui. Quando andasti a Milano a ritirare il premio ci fu anche la gradita sorpresa di un picco nella valuta del giorno, per cui te ne tornasti a casa con un bel po’ di denaro in più sulle nostre rosee previsioni. Potemmo, così, dare un congruo anticipo per l’acquisto della nostra prima casa. Più fortunato/i di così!
Ma non basta. Già da ragazzo, per una vincita concorsuale, un po’ di gettoni d’oro ti piovvero tra le mani: vincesti 10 gettoni d’oro per aver partecipato ad un Concorso indetto dalla Ditta dell’incollatutto Huhù (“Non pianger più/ tutto ripara Huhù” era lo spot pubblicitario), e aver mandato la foto di una tazza giapponese da caffè incollata magnificamente (perché, detto fra noi, mai rotta!).
Poi, ci fu il Concorso Zegna (ma eravamo già nella nostra casa “Grazie, Candy!”), di cui risultasti primo vincitore in tutto l’italico suolo, con altri gettoni d’oro a pioggia tra le tue mani. Insomma, vincite minime e vincite massime sempre a incoronarti “Primo!”.
Tu polverizzavi anche il detto evangelico: “I primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi!”. Tu non sei mai stato ultimo.
E sei stato il primo di noi due anche ad andare via per sempre. Con una morte improvvisa e rapida, che paradossalmente ti fu vittoria e non sconfitta. Ti fu “dono”. Tu non avresti mai sopportato una malattia lunga, una lunga agonia. Un piccolo foruncolo ti allarmava e debilitava e destabilizzava quasi fosse un vulcano in eruzione. Le pillole ti infastidivano. La sofferenza ti trovava agguerrito e nemico. La disabilità ti spaventava. Dicevi sempre che avresti preferito l’eutanasia al vivere a metà. E, anche in questo, sei stato esaudito. Senza creare devastanti problemi etici e inevitabili sensi di colpa a nessuno di casa. Men che mai a me… Te ne è andato, 11 anni fa, affrontando la morte che ti aveva colto di soppiatto, con molto coraggio e altrettanta rassegnazione: “Sto morendo. Tra qualche minuto non respiro più. Finisce qui la mia storia. Finisce qui il racconto di noi due…”. E così accadde.
“The game is over”, avevi scritto, qualche tempo prima, sotto un tuo schizzo con inchiostro di china…
A te, “Guerriero di carta e di sogni”, sempre vincitore e mai vinto, fortunato onomastico anche tra le stelle!