martedì 4 giugno 2019

4 giugno 2008 - 2019: Primo


                                                         Primo 
“In poco più di mezz’ora, in quella notte d’inizio giugno, di pioggia sui tetti e di ciliegie sul tavolo in cucina, e di attesa di rivedere il mare, ho perso Primo con la sua ultima disperata dichiarazione d’amore.
                             “Ti ho amato sempre Ti ho amato tanto”
mi sussurrò poco prima di accasciarsi completamente sul nostro letto e l’anima già gli volava via. Alcuni minuti prima, si era alzato per andare in bagno e subito dopo un colpo di tosse altissimo gli aveva fatto sputare sangue e l’aveva spinto a rifugiarsi da me, seduta sulla sponda del letto in ascolto del suo ritorno. Si sedette anche lui e io presi ad accarezzarlo e a rincuorarlo in attesa che arrivassero i soccorritori chiamati subito da Raffaella che si era allarmata a quel grido di squassati muri e di infranto   silenzio. Respirava a fatica e mi disse che stava morendo col capo chiuso nell’incavo tra il mio braccio e il mio seno.
                                              “Non respiro più”
“Respira, respira. Stanno arrivando. Adesso ti aiutano. Ti salvano”.
Si rialzò per abbracciarmi e per darmi un bacio, l’ultimo, sentendo venirgli meno le forze. Ma quell’abbraccio e quel bacio ci furono solo a metà. Più nelle sue intenzioni che realmente. Mi prese la mano mentre cadeva riverso sul letto. Le sue parole d’amore si fermarono a metà tra le sue labbra e i miei occhi. Forse vi lesse un filo d’incredulità, che passò nel suo sguardo di disperato rammarico. Non aveva più il tempo di provarmelo, non ci sarebbe stato più il tempo di dimostrarmelo. Gli accarezzai la fronte pallidissima madida di sudore.
“Resisti”, gli dissi, “resisti, respira, stanno arrivando, adesso ti aiutano”.
E feci spazio al medico e agli infermieri che già sentivo per le scale. Il medico gli si avvicinò e gli chiese: “Come ti chiami?”.
Vidi le sue labbra muoversi impercettibilmente nello sforzo di rispondere, ma non articolò suono alcuno. Gli infermieri gli misero immediatamente la mascherina per l’ossigeno, ma fu allora che roteò gli occhi e spirò.
Gli tolsero la mascherina e spinsero il letto per adagiarlo per terra e azionare febbrilmente il defibrillatore.
Raffaella mi chiamò ed io uscii dalla nostra camera con negli occhi le sue gambe che sussultavano inerti ad ogni nuova scossa. Raffaella mi ingiunse di scendere con lei. La mia presenza era ormai inutile e forse ingombrante. Sapevo già, ma non volevo crederci.
                                       Aspettavo Aspettavo Aspettavo
 Aspettai fino al certificato di morte da firmare. Incredula.
                                            Io lo sapevo immortale
(…)                                                        
                                                           Dopo
gli misero un vestito dignitoso, ne aveva tanti e tutti di ottima fattura.
Non il migliore, uno dei tanti.
Gli misero una bella camicia. Non la più bella, una delle tante.
Anche la cravatta originale. Non la più originale. Una delle tante.
Non era lui a scegliere, come aveva sempre fatto. Non fui io a scegliere come non avevo mai fatto. Casomai gli facevo da specchio.
Hanno scelto gli altri per lui. Per me. Lui non lo avrebbe permesso. E hanno scelto come hanno potuto. Io non sapevo neppure dare le indicazioni giuste:
“Nell’armadio di sopra, no bisogna andare giù. No, no, è meglio quello nero, anzi meglio l’antracite, il blu, il rigato, non so, fate voi…”.
Lui non l’avrebbe permesso. Io sì, come sempre. Delegare delegare delegare. Ad alcuni sembra il mio motto.
(…)
Per anni c’era sempre stato chi pensasse per me e provvedesse a sostituirsi nelle scelte che avrei dovuto fare io, nelle iniziative da proporre, nelle faccende da sbrigare fuori di casa. Poi, era subentrato l’adattamento. Con l’adattamento, l’abitudine. E, alla fine, pur volendo essere autonoma con tutte le bandiere issate per dire “sono uno Stato Sovrano”, mi accorsi che di sovranità non ne avevo neppure un briciolo: mi mancavano i mezzi, l’esperienza, la fierezza, l’ardire.
Io, libera solo con te, ma figlia sempre: del padre-padrone, del marito-padrone e dei figli-padroni. Con i quali è stato solo un chiedere per evitare di dovermi giustificare dei miei limiti e per le tante cose che non sapevo e non so fare
(come mai non hai imparato a fare cose che s’imparano fino a dieci-quindici anni e non oltre?).
Come spiegare? Cosa spiegare e a chi? Personalità? Condizionamenti? Esperienze vissute e quelle mancate? E, dopo aver spiegato o tentato di spiegare, mi sarei salvata? Avrei imparato? Sarei stata perfetta come io avrei voluto e come gli altri richiedevano che fossi? E ho capitolato su tutti i fronti. Sì, mio caro e buon papà, ho capitolato. Elogio dell’imperfezione.
       Nella imperfezione la serenità di una vita che è umana e mai eroica
 Di accettazione di sé nel tentativo di migliorarsi per quanto possibile, senza inutili stress e illusioni.
Ma, quel giorno della morte del mio compagno di vita, questi pensieri mi accompagnavano forse soltanto per non pensare non pensare non pensare.
                                                       Dopo
quando l’ho visto per l’ultima volta, per l’ultimo bacio sulla fronte, anche la sua di gelido marmo, per l’ultima carezza, tenera sulla guancia morbida e con la barba docile e il volto sereno come se dormisse, era bello e quieto. Con l’addome gonfio. Ebbi timore di sistemargli meglio la giacca su quella pancia enfiata. Né volli indagare sul suo collo che mi dissero arrossato come di sangue che s’allargava in lago o mare o oceano, non seppi mai. Mi colpirono le mani chiuse a pugno. Le sue belle mani quadrate eppure magre, da artista. Non avrebbero mai più dipinto quelle mani. Mai più scritto. Mai più digitato. Mai più accarezzato, coppa di tenerezza e passione, i miei lunghi capelli che voleva sempre più lunghi. Per affondare meglio, le sue mani, nel biondo ormai colorato di quelle spighe sempre indocili e sempre appassionate in lunghe e mai stanche notti d’amore...
Ma anche quelle mani erano pensieri per non pensare. Per non ricordare. Per non proiettarmi in un futuro, che era già presente, senza...
(“fa’ che i tuoi capelli siano sempre più lunghi/ perché solo così sei più bella che mai…”)
                                 Lui mi dedicava E ora io cantavo
Lo avevo perso e cantavo, sì, ancora e ancora e ancora, io cantavo.
Per andare in deviazione. Per non pensare. Per non soffrire.
Strano medico la mente. Strano medico il cuore. Strano medico la vita
(voglio amarti così/ teneramente/ voglio amarti ogni dì/ con tutto il cuor…)
Cantavo tutte le nostre passate canzoni. Cantavo il passato perché il futuro sarebbe stato senza più “canzoni con dedica”, come dicevo io…
(Tutto passa lina tutto passa)
Dicevi tu ed ora era un ritornello che mi ossessionava per fare passare il tempo del dolore.
(Tutto passa lina tutto passa).
La pioggia stava cominciando a cadere mentre sorgeva l’alba e cominciava a venire gente. Sorgeva una nuova alba senza. E la gente veniva perché per tutti sorgeva l’alba. E per tutti cadeva la pioggia
(tttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt) 
(Tutto passa lina tutto passa).
Vennero le mie sorelle e i miei fratelli, i miei cognati e le mie cognate. Poi arrivarono gli altri miei tre figli e l’altro mio genero e piansero senza darsi pace e senza darsi voce. Sgomenti. Arrivarono da lontano gli amici e i nipoti: quelli che potettero venire. I miei. I suoi. Lo portarono poi nella Sala dell’ultima Accoglienza al centro del paese con la pioggia battente come il dolore. Ero là, circondata da tutti e da nessuno e i ricordi mi assalivano per rendermi lontana da tutti e da nessuno. E i rimorsi e i ripensamenti e i dubbi e se… forse sarebbe ancora vivo… non sarebbe stato nell’Altrove in cui mi perdevo
(…)
(Che stupidi ricordi si affacciavano alla mente ora che era necessario cancellarli tutti: stupidi inopportuni inutili… eppure erano lì a blaterare occupando tutti gli spazi possibili. Che strano clown la mente per distrarci dal dolore e permetterci di sopravvivere).
E ora ero davvero in un altrove che era già passato. Il mio e quello di Primo. Non ci sarebbe stato più il presente o il futuro per noi due. Solo il passato.
E ogni parola, ogni coniugazione, ogni immagine, ogni suono di noi due era al passato. Fino a sole poche ore prima c’era stato il presente. Ora non più. Non più neppure la nostra casa. Tutto al passato. Io stessa ero un passato. Non più “coniugata”, ma “vedova”. Non più con, ma senza. Non più potenziata dall’altra metà, ma mancante dell’altra metà 
(tutto passa, lina, tutto passa).
E anche quel giorno di pioggia battente e di ciliegie abbandonate sul tavolo in cucina passò e noi andammo a casa a riposare.
La Casa dell’ultima Accoglienza si chiuse alle nostre spalle ed io sentii una stretta al cuore nel saperlo solo. Nessuno a fargli compagnia. Ora era solo. Ed io avevo tutti accanto a me. Mi sembrò un’ingiustizia. Mi sembrò una situazione irreale. L’incubo da cui mi sarei svegliata...”
 (dal II volume de Le piogge e i ciliegi (I ciliegi - Foglie e frutti di un albero sempre vivo, SECOP Edizioni, maggio 2019)                                   




2 commenti:

  1. Un abbraccio affettuoso... Non so cos'altro scrivere... Ti sono vicina... (Rita Vecchi)

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  2. Grazie, mia carissima Rita, sei sempre molto attenta e presente. Bella e di grande conforto è questa "corrispondenza di amorosi sensi"...

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