Primo
“In poco più di mezz’ora, in quella notte
d’inizio giugno, di pioggia sui tetti e di ciliegie sul tavolo in cucina, e di
attesa di rivedere il mare, ho perso Primo con la sua ultima disperata
dichiarazione d’amore.
“Ti ho amato sempre Ti ho amato tanto”
mi sussurrò poco prima di accasciarsi
completamente sul nostro letto e l’anima già gli volava via. Alcuni minuti
prima, si era alzato per andare in bagno e subito dopo un colpo di tosse
altissimo gli aveva fatto sputare sangue e l’aveva spinto a rifugiarsi da me,
seduta sulla sponda del letto in ascolto del suo ritorno. Si sedette anche lui
e io presi ad accarezzarlo e a rincuorarlo in attesa che arrivassero i
soccorritori chiamati subito da Raffaella che si era allarmata a quel grido di
squassati muri e di infranto silenzio. Respirava a fatica e mi disse che
stava morendo col capo chiuso nell’incavo tra il mio braccio e il mio seno.
“Non respiro più”
“Respira, respira. Stanno arrivando. Adesso
ti aiutano. Ti salvano”.
Si rialzò per abbracciarmi e per darmi un
bacio, l’ultimo, sentendo venirgli meno le forze. Ma quell’abbraccio e quel
bacio ci furono solo a metà. Più nelle sue intenzioni che realmente. Mi prese
la mano mentre cadeva riverso sul letto. Le sue parole d’amore si fermarono a
metà tra le sue labbra e i miei occhi. Forse vi lesse un filo d’incredulità,
che passò nel suo sguardo di disperato rammarico. Non aveva più il tempo di
provarmelo, non ci sarebbe stato più il tempo di dimostrarmelo. Gli accarezzai
la fronte pallidissima madida di sudore.
“Resisti”, gli dissi, “resisti, respira,
stanno arrivando, adesso ti aiutano”.
E feci spazio al medico e agli infermieri che
già sentivo per le scale. Il medico gli si avvicinò e gli chiese: “Come ti
chiami?”.
Vidi le sue labbra muoversi
impercettibilmente nello sforzo di rispondere, ma non articolò suono alcuno.
Gli infermieri gli misero immediatamente la mascherina per l’ossigeno, ma fu
allora che roteò gli occhi e spirò.
Gli tolsero la mascherina e spinsero il letto
per adagiarlo per terra e azionare febbrilmente il defibrillatore.
Raffaella mi chiamò ed io uscii dalla nostra
camera con negli occhi le sue gambe che sussultavano inerti ad ogni nuova
scossa. Raffaella mi ingiunse di scendere con lei. La mia presenza era ormai
inutile e forse ingombrante. Sapevo già, ma non volevo crederci.
Aspettavo
Aspettavo Aspettavo
Aspettai fino al certificato di morte da
firmare. Incredula.
Io
lo sapevo immortale
(…)
Dopo
gli misero un vestito dignitoso, ne aveva
tanti e tutti di ottima fattura.
Non il migliore, uno dei tanti.
Gli misero una bella camicia. Non la più
bella, una delle tante.
Anche la cravatta originale. Non la più
originale. Una delle tante.
Non era lui a scegliere, come aveva sempre
fatto. Non fui io a scegliere come non avevo mai fatto. Casomai gli facevo da
specchio.
Hanno scelto gli altri per lui. Per me. Lui
non lo avrebbe permesso. E hanno scelto come hanno potuto. Io non sapevo
neppure dare le indicazioni giuste:
“Nell’armadio di sopra, no bisogna andare
giù. No, no, è meglio quello nero, anzi meglio l’antracite, il blu, il rigato,
non so, fate voi…”.
Lui non l’avrebbe permesso. Io sì, come sempre.
Delegare delegare delegare. Ad alcuni sembra il mio motto.
(…)
Per
anni c’era sempre stato chi pensasse per me e provvedesse a sostituirsi nelle
scelte che avrei dovuto fare io, nelle iniziative da proporre, nelle faccende
da sbrigare fuori di casa. Poi, era subentrato l’adattamento. Con
l’adattamento, l’abitudine. E, alla fine, pur volendo essere autonoma con tutte
le bandiere issate per dire “sono uno Stato Sovrano”, mi accorsi che di sovranità
non ne avevo neppure un briciolo: mi mancavano i mezzi, l’esperienza, la
fierezza, l’ardire.
Io,
libera solo con te, ma figlia sempre: del padre-padrone, del marito-padrone e
dei figli-padroni. Con i quali è stato solo un chiedere per evitare di dovermi
giustificare dei miei limiti e per le tante cose che non sapevo e non so fare
(come mai non hai imparato a fare cose che
s’imparano fino a dieci-quindici anni e non oltre?).
Come spiegare? Cosa spiegare e a chi?
Personalità? Condizionamenti? Esperienze vissute e quelle mancate? E, dopo aver
spiegato o tentato di spiegare, mi sarei salvata? Avrei imparato? Sarei stata
perfetta come io avrei voluto e come gli altri richiedevano che fossi? E ho
capitolato su tutti i fronti. Sì, mio caro e buon papà, ho capitolato. Elogio
dell’imperfezione.
Nella
imperfezione la serenità di una vita che è umana e mai eroica
Di
accettazione di sé nel tentativo di migliorarsi per quanto possibile, senza
inutili stress e illusioni.
Ma,
quel giorno della morte del mio compagno di vita, questi pensieri mi
accompagnavano forse soltanto per non pensare non pensare non pensare.
Dopo
quando
l’ho visto per l’ultima volta, per l’ultimo bacio sulla fronte, anche la sua di
gelido marmo, per l’ultima carezza, tenera sulla guancia morbida e con la barba
docile e il volto sereno come se dormisse, era bello e quieto. Con l’addome
gonfio. Ebbi timore di sistemargli meglio la giacca su quella pancia enfiata.
Né volli indagare sul suo collo che mi dissero arrossato come di sangue che
s’allargava in lago o mare o oceano, non seppi mai. Mi colpirono le mani chiuse
a pugno. Le sue belle mani quadrate eppure magre, da artista. Non avrebbero mai
più dipinto quelle mani. Mai più scritto. Mai più digitato. Mai più
accarezzato, coppa di tenerezza e passione, i miei lunghi capelli che voleva
sempre più lunghi. Per affondare meglio, le sue mani, nel biondo ormai colorato
di quelle spighe sempre indocili e sempre appassionate in lunghe e mai stanche
notti d’amore...
Ma anche quelle mani erano pensieri per non
pensare. Per non ricordare. Per non proiettarmi in un futuro, che era già
presente, senza...
(“fa’
che i tuoi capelli siano sempre più lunghi/ perché solo così sei più bella che
mai…”)
Lui mi dedicava E ora io cantavo
Lo
avevo perso e cantavo, sì, ancora e ancora e ancora, io cantavo.
Per
andare in deviazione. Per non pensare. Per non soffrire.
Strano
medico la mente. Strano medico il cuore. Strano medico la vita
(voglio
amarti così/ teneramente/ voglio amarti ogni dì/ con tutto il cuor…)
Cantavo
tutte le nostre passate canzoni. Cantavo il passato perché il futuro sarebbe
stato senza più “canzoni con dedica”, come dicevo io…
(Tutto passa lina tutto passa)
Dicevi tu ed ora era un ritornello che mi
ossessionava per fare passare il tempo del dolore.
(Tutto
passa lina tutto passa).
La
pioggia stava cominciando a cadere mentre sorgeva l’alba e cominciava a venire
gente. Sorgeva una nuova alba senza. E la gente veniva perché per tutti sorgeva
l’alba. E per tutti cadeva la pioggia
(tttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt)
(Tutto
passa lina tutto passa).
Vennero
le mie sorelle e i miei fratelli, i miei cognati e le mie cognate. Poi
arrivarono gli altri miei tre figli e l’altro mio genero e piansero senza darsi
pace e senza darsi voce. Sgomenti. Arrivarono da lontano gli amici e i nipoti:
quelli che potettero venire. I miei. I suoi. Lo portarono poi nella Sala dell’ultima
Accoglienza al centro del paese con la pioggia battente come il dolore. Ero là,
circondata da tutti e da nessuno e i ricordi mi assalivano per rendermi lontana
da tutti e da nessuno. E i rimorsi e i ripensamenti e i dubbi e se… forse
sarebbe ancora vivo… non sarebbe stato nell’Altrove in cui mi perdevo
(…)
(Che stupidi ricordi si affacciavano alla
mente ora che era necessario cancellarli tutti: stupidi inopportuni inutili…
eppure erano lì a blaterare occupando tutti gli spazi possibili. Che strano
clown la mente per distrarci dal dolore e permetterci di sopravvivere).
E ora
ero davvero in un altrove che era già passato. Il mio e quello di Primo. Non ci
sarebbe stato più il presente o il futuro per noi due. Solo il passato.
E ogni
parola, ogni coniugazione, ogni immagine, ogni suono di noi due era al passato.
Fino a sole poche ore prima c’era stato il presente. Ora non più. Non più
neppure la nostra casa. Tutto al passato. Io stessa ero un passato. Non più
“coniugata”, ma “vedova”. Non più con, ma senza. Non più potenziata dall’altra
metà, ma mancante dell’altra metà
(tutto
passa, lina, tutto passa).
E anche quel giorno di pioggia battente e di
ciliegie abbandonate sul tavolo in cucina passò e noi andammo a casa a
riposare.
La Casa dell’ultima Accoglienza si chiuse
alle nostre spalle ed io sentii una stretta al cuore nel saperlo solo. Nessuno
a fargli compagnia. Ora era solo. Ed io avevo tutti accanto a me. Mi sembrò
un’ingiustizia. Mi sembrò una situazione irreale. L’incubo da cui mi sarei
svegliata...”
(dal
II volume de Le piogge e i ciliegi (I
ciliegi - Foglie e frutti di un albero sempre vivo, SECOP Edizioni, maggio
2019)
Un abbraccio affettuoso... Non so cos'altro scrivere... Ti sono vicina... (Rita Vecchi)
RispondiEliminaGrazie, mia carissima Rita, sei sempre molto attenta e presente. Bella e di grande conforto è questa "corrispondenza di amorosi sensi"...
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