venerdì 24 aprile 2020

Dal 21 aprile al 21 maggio


Dal 21 aprile al 21 maggio

Come i carcerati in attesa
di libertà
all'alba del giorno faccio tacche invisibili sul muro 
che definisce la sponda il letto 
le duemila e quattrocento ore di prigionia e dolore 
e un refolo di coraggio
Ad ogni alba che sale dalla terra e ricama nel cielo petali sparsi
di mandorli e ciliegi già sfioriti
peschi a trattenere il primo sole
in una pioggia di piume setose
che precorrono dolce sapore
di ciliegie in panierini d'infanzia
innalzo un inno al nuovo giorno che verrà 
con carezze di madre
e sarà diverso
     più ricco di me
che conosco l'attesa il filo spinato il sogno indifeso
il cielo stellato...
oltre il disincanto il buio la paura incido sul grigio del muro
tacche di pensieri luminosi che altri non sanno
trenta giorni all'alba 
(Fiaccola accesa io di speranze mi vestirò di glicini in fiore
in una pioggia di cielo a darmi voce e sarà giorno di festa
 ‌                                                         il mio ritorno a casa)

martedì 14 aprile 2020

Domenica 12 aprile - Domenica di Pasqua

Tratto da Le Piogge e i Ciliegi - La storia di un uomo straordinario (Capitolo IV - Pag.105)

[...]
Poi la festosa Pasqua

Le campane a gloria della mezzanotte e le mille chiese del nostro paese a salutare “la Rəsòscətə”, (la Resurrezione di Cristo), e la nostra gioia per l’avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini. Noi c’inginocchiavamo per ringraziarLo. La nonna batteva i pugni sul tavolo per scacciare il diavolo e fare entrare Cristo risorto. E ci baciavamo tutti in segno di rinnovato amore. Con tenera riconoscenza. A pranzo, tu benedicevi l’abbondante tavolata e “u bənədìttə” (il benedetto) col ramo d’ulivo e l’acqua santa, che prendevamo dalla pila della chiesa e portavamo a casa in una bottiglietta
(e mai il timore di un’infezione a sfiorarci e mai una malattia a colpirci per la nostra incoscienza, ben sapendo di tutte le mani, più sporche che pulite, a calarsi quotidianamente in quella pila per il segno della croce in ingresso e in uscita dalla chiesa!). 
Il benedetto era (e forse è) la specialità del pranzo pasquale nel nostro paese: uova sode tagliate a metà, arance con la buccia tagliate a fette (piccoli soli ad illuminare il giorno del perdono), ricotta dura e salata, salumi vari. E il ragù e l’agnello e la frutta secca e quella di stagione, e i dolci di Pasqua e il rosolio. E la lettera sotto il piatto come a Natale e tanta tanta ingenuità tra le mani negli sguardi nel cuore. Ci sentivamo davvero più buoni. Riconciliati con il mondo intero e con la vita
(e… buona pasqua a pasqualino/ buona pasqua a nicolino/ buona pasqua anche a torino/ ah sì bè/ buona pasqua pure a te!/… vedi poi che in fondo in fondo/ fa la pace tutto il mondo/ fa i capricci/ fa i pasticci/ ma alla fine devi dir…
ah, sì bè/ buona pasqua pure a me!

Carosone dalla radio cantava anche per noi…) 
Il giorno dopo era ancora un giorno di festa, condito di verde spensieratezza. Si andava in campagna per vivere “u pascəcónə” (la Pasquetta) con parenti e amici e lunghe tavolate con altri cibi tradizionali, l’immancabile “vrədéttə”
(non credo sia traducibile in italiano, forse “il brodetto”, ed era una sorta di pastina in ragù d’agnello allungato in brodo con dentro carne sfilacciata e uova rapprese e piselli…)
e altro buon vino e chiacchiere e risate.
Tu raccontavi...
Poi, giunse il tempo della Pasquetta con gli amici. E tu e nonna restavate a casa perché non era più, per voi due, tempo dei lunghi passi tra l’erba, delle inerpicate sui sassi, delle scampagnate faticose. C’era ormai la stanchezza di giorni lunghi da portare su spalle più curve e su gambe sempre più malferme. 
(‘na ròutə da rəpàrà u səllénə da səstəmà u manùbriə da addrezzà e u cambanìddə ca dəchiàrə allàrmə còmə a ‘na campàna ròttə e stənàtə… cə nə məttémə tùttə ‘nzìmə jìndə a la màchənə pə fànnə abbəvèscə nàn jèssə jùnə bbùnə…)
(una ruota da riparare il sellino da sistemare il manubrio da raddrizzare e il campanello che dichiara allarme come una campana rotta e stonata…
se ci mettono tutti insieme nella macchina del restauro di tanti vecchi non ne viene fuori neppure uno sano…)
[...]

venerdì 10 aprile 2020

Venerdì 10 aprile - Venerdì Santo




Tratto da Le Piogge e i Ciliegi - La storia di un uomo straordinario (Capitolo IV - Pag.101)


[...]
Dal venerdì, invece, si entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola che coprivano tutte le nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti gli specchi (in cui di sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna Angelina, derivatale da secoli di medioevo) nelle nostre case.
La mia vanità subiva un feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio maggiore era non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio
(jìndə au spécchiə stèjə u diàvuə e tu sì scəchìttə ‘na məndòsə ca nàn zàpə pənzà a nnùddə àltə… à dà scè drìttə drìttə au ‘mbìrnə…)
(nello specchio c’è il diavolo e tu sei solo una vanitosa che non sa pensare a niente altro… devi andare dritto dritto all’inferno…)
Ma mi consolavano di tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della mattina e quella del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo silenzio delle campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a intervalli da “rə tər-ròzzuə”
(quei particolari arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare nell’aria con il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico suono cupo e greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili)
fino allo scampanio a distesa della mezzanotte del sabato santo.
Le due processioni erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede.
L’Addolorata era bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e intriso di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo scultore, ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo ringraziava per tanta bellezza con le parole:
“‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?”
(“in Cielo mi hai vista ché in terra mi hai scolpita?”).
Eri stato proprio tu a raccontarmi questa delicata leggenda la prima volta, lasciandomi incredula e incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno la bellezza di quel volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La Desolata”.
Mi piace anche rivivere con te il racconto tenerissimo, che non conoscevo e che non so se faccia parte della tradizione popolare o della tua fertile fantasia: sta di fatto che raccontavi come, nella tristissima notte “du Scəvədìa Sandə”, il peregrinare della Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del figlio, avesse momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in quanto, uscendo dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il corpo di un giovane: quello di Giuda, il traditore di suo figlio, e con delicatezza gli si avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano...
Quale perdono più grande, dunque: quello di un Dio immenso, che lascia crocifiggere suo figlio, fattosi uomo per redimere l’umanità, o quello di una madre del tutto “umana”, trafitta da tutto il dolore del mondo, che pure bacia con gesto delicato la mano di colui che proprio con un bacio aveva tradito Suo Figlio?
Lei, minuscola donna come tante, con un cuore immenso più dell’immenso Suo Dio...
(Probabilmente è per questo che noi tutti ci rivolgiamo a Lei perché interceda in nostro favore presso il Padre e il Figlio.
Lei: Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile ed alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio..., come recitano i primi versi della preghiera di San Bernardo alla Vergine nel Paradiso dantesco)
<Nella mente si affollano ricordi, lacerti d’infanzia, spaccati di vita paesana, parole in vernacolo in disuso, ma straordinariamente colorite e dense di significato, tradizioni da salvare, da valorizzare perché fanno parte di noi, del nostro sangue e della nostra anima, della nostra cultura contadina e della nostra fede. Della nostra stessa vita. Fatta anche di paura. Quella paura che serpeggiava nell’anima di tutti noi bambini quando entravamo nelle chiese con “scarsa luce e poca aria”, ma piene d’incenso, di lumini rossi, di lupini appena in germoglio. (…) la paura del buio delle chiese con le statue dei santi coperte con i panni viola della penitenza spesso era vinta dallo stupore. Meno piacevole, invece, era la sensazione della “bocca amara di digiuno” durante i riti della Settimana Santa.
“Eri bella come rosa...”: richiamo antico, che mi attanaglia il cuore, ancora oggi, al ricordo di quel volto come petalo lacerato che intensamente aspettavamo di guardare con un misto di venerazione, di pena e di curiosità per quella antica leggenda che voleva quel volto bellissimo causa della morte del suo scultore>.
(eri bella come roosa,/ là di Gerico sul praato./ Or sì mesta, sì pietoosa,/ dal sembiante scolorato/ sembri al suol reciso fioore,/ ricoperto di pallore! …). 
E Vitino, ormai diventato il prof Pasculli, da tutti amato e apprezzato, ne era diventato il direttore musicale, ma io non ero più riuscita ad incontrarlo dopo i nostri anni in via Maggiore angolo via De Rossi.
A mezzanotte, infine, c’era la processione “du Venerdìa Sàndə chə la nàchə d’òrə də Crìstə mùrtə”
(“del Venerdì Santo con culla dorata di Gesù morto”),
“də l’Addóloràtə” (“della Vergine in pianto”) nella vana ricerca del figlio,
e “du Légnə Sàndə” (“del Legno Santo”), tutto luci e fiori.

La piazza alberata, antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era illuminata solo dai falò nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal pomeriggio portavano da casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a quella triste rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con camicia, guanti bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza perché le tre statue non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel quadrilatero. Dopo ogni simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava musiche dolcissime e tristissime come lo Stabat Mater, canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del nostro Tommaso Traetta, e altre sinfonie.
Anche io e Lizia portavamo le sedie per tempo perché tu e la nonna poteste stare comodi fino alla fine della lunghissima processione. Qualche volta anche al riparo dal vento freddo, intabarrati in cappotti e sciarpe per l’atteso inevitabile gelo (dicevate) di ogni venerdì santo, difficilmente riscaldato dal sole
(u vənərdìa Sàndə fàcə sémbə brùttə tìmbə, da quànnə ‘mbrè crìstə sòpə a la cròcə…)
(ad ogni venerdì santo, da quando è morto cristo sulla croce, è sempre brutto tempo…)
Lacrime commozione preghiere
incanto tradizione

[...]

giovedì 9 aprile 2020

Giovedì 9 aprile - Giovedì Santo


Tratto da Le Piogge e i Ciliegi - La storia di un uomo straordinario (Capitolo IV - Pag.100)

[...]
La settimana santa era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva, quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino, suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una chiesa gremita e penitente
(adoramus te christe et benedicimus tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…)
mi ero riconciliata anche col latino lingua di dio…
Tu e la nonna seguivate con profondo trasporto tutte quelle riflessioni e preghiere, che si dilatavano tra le navate in una sorta di cantilena ipnotizzante. Alla fine anche i fedeli più fedeli erano stremati tanto che alle Litaniae Sanctorum la folla, dopo un po’, cominciava a rispondere non più “ora pro nobis”, ma “nobìs” e, infine, “bìs”, pur non avendo alcuna intenzione di bissare…
(kyrie eleison… kyrie eleison… christe eleison… audinos… exaudinos… sancta maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix… ora pro nobis… sancta virgo virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs… sancte paule… nobìs… … sancte andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte vincenti… bìs… …)
Io mi annoiavo. Mi chiedevo che efficacia potessero avere quelle preghiere smozzicate di cui nessuno capiva un’acca. Vagavo con i pensieri, andavo lontano, fantasticavo, mi consolavo. Qualche volta mi distraevo sui volti dei vicini di banco. Cercavo d’indovinarne pensieri e colpe per capire il motivo di tanta sfibrante espiazione.
Durante la mattina del giovedì santo, poi, le strade del paese erano percorse dalla processione del “Misteri” con tutte le statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù durante la via crucis. L’accompagnava la banda con le dolcissime nenie funebri di Carelli, Delle Cese, di Pasquale La Rotella, tutti i grandi musicisti del nostro paese; nenie, che creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la passione di Cristo si compisse.
Il rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al crepuscolo dello stesso giorno ed era un rito che mi piaceva molto: si andava in giro per le strade in un percorso che comprendeva almeno sette chiese da visitare in misteriosa e mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era il sepolcro con vasi colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di germe di grano, illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato, le cui fiammelle rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi d’ombre guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’. Il tempo di guardarmi intorno intimidita e incuriosita, persa nell’ammirazione della bellezza di quei vasi e di quelle luci in una disposizione artistica che differiva da chiesa a chiesa, secondo l’estro del sacerdote, del fioraio e delle bigotte che avevano provveduto all’allestimento. Le donne fuori dalle chiese commentavano: 
“Madónnə, cə jèjrə béllə cùssə ànnə u səbbùlcrə də sàn Səlvìstrə e pórə cùrə də rə Vìrgənə”…
(“Madonna, quanto era bello, quest’anno, il sepolcro della chiesa di san Silvestro e pure quello delle Vergini…”). 
“A mè na’ m’è piaciótə pə nnùddə cùrə də sànd’Andre’, asséjə misirìnə chə dùə strìppuə səccàtə scəchìttə”…
(“A me non è piaciuto per niente quello di sant’Andrea, così misero con quei due rami secchi soltanto”…)
[...]

domenica 5 aprile 2020

Domenica delle Palme e desiderio di Pace

Oggi è la festa dello scambio della Pace.
E io desidero riprendere a scrivere e a comunicare con gli altri dal mio blog, silenzioso per circa sei mesi, e instaurare così il dialogo interrotto bruscamente con i miei lettori il 15 ottobre 2919.
Le vicende dolorose che mi hanno costretta al silenzio sono ormai note ai più. È tempo anche per me di rinascita e di resurrezione. Avrò bisogno ancora di tempo, ma spero di farcela...
Un tempo, "papà Mincuccio", mio nonno, provvedeva per tempo ad andare nei suoi campi a fare provvista di rami d'ulivo che la Domenica delle Palme portava in chiesa, alla messa delle sette, perché venissero benedetti. E così, durante tutto il giorno, era uno scambiarsi affettuoso con parenti e amici dei rametti con la formula francescana "La pace sia con te". E, di rimando: "E con lo spirito tuo". Scambiandosi un abbraccio. Silenzioso. Forte. Vero.
Altri tempi. Altra purezza di cuori e di intenti. Almeno come abbiamo vissuto noi, in famiglia, con i nonni, i riti delle festività religiose. E quelli della Quaresima, che culminavano con la Pasqua, erano particolarmente sentiti e suggestivi.
Oggi non più. E non sto parlando solo di questo tempo oscuro dominato dal coronavirus. Certo, questa Quaresima è stata ed è particolarmente triste, affaticante, insidiosa per la reale paura di prendere il contagio e di perdere la vita e per la stessa reale necessità di una "boccata d'aria", che ci è negata perché non possiamo commettere l'imprudenza di uscire dalle nostre case protettive, ma a lungo andare piuttosto anguste, anche se di tratta di ville e castelli.
E così ci stiamo attrezzando a non disubbidire alle regole emanate dal Governo per vincere la guerra contro questo nemico invisibile e letale a livello planetario.
Le notti, però, sono lunghe per chi come me dorme pochissimo da sempre e i pensieri bui, più delle stesse notti nere, si fanno tarli che rodono la mente. E oggi vorrei sentirmi in Pace con me stessa e con il mondo intero.
Desidero fare una premessa: tutti noi in famiglia, fino alla terza generazione, quella dei nipoti, abbiamo ereditato dal favoloso nonno, di cui amo spesso parlare e scrivere, una "mitezza di cuore" che anche gli altri, in linea di massima, ci riconoscono. Pertanto, non per meriti personali ma per eredità costituzionale e comportamentale, non saremmo in grado di fare del male ad una mosca.
Io sono, per così dire, in "zona protetta da circa sei mesi tra vari ospedali e centri di igienizzazione e di riabilitazione davvero blindati. Ma anche qui le notizie allarmanti incutono paura.
Ecco, vorrei in questo giorno di Pace essere in Pace con me stessa e con il mondo intero (la ripetizione è voluta).
Ritengo, pertanto, di essere una persona accogliente, accomodante, capace di tacere piuttosto che ferire l'altro, pur avendo constatato che il punto di vista dell'altro spesso possa essere talmente, e inevitabilmente direi, legato a valutazioni soggettive da determinare comportamenti alcune volte di irriconoscenza, presumendo di essere nel giusto e, quindi, di avere ragione, sottovalutando o ignorando le buone ragioni di chi non ha potuto o voluto corrispondere a richieste o desideri di difficile o impossibile attuazione, almeno in quel momento.
Belle corrispondenze di cuore e della mente si sono così frantumate, solide amicizie interrotte, senza mai una spiegazione, una revisione oggettiva dei fatti accaduti, di cause e di concause: condizioni di salute, congiunture familiari, convinzioni culturali ed esperienziali diverse da tenere sempre presenti nelle varie controversie tra il nostro pensiero e quello altrui, i nostri comportamenti e quello degli altri. Ma ciascuno di noi spesso guarda "allo suo particolare" e coltiva il "proprio orticello" senza pensare all'altro, e mettersi nei suoi panni...
Secondo me, alla base di questi ottusi egoismi c'è mancanza d'amore, d'affetto sincero, di vera e disinteressata amicizia. Solo l'amore non farebbe mai commettere errori di valutazione. Solo l'amore comprende. Costruisce e non distrugge. Scusa. Protegge. Preserva. Chiarisce o intuisce e salva. In mancanza di questo sentimento si vede nell'altro sempre il male, il nemico che ci ostacola. Solo la mancanza d'amore crea incomprensione, diffidenza e distacco, fino alla rottura. Altrimenti non si potrebbe.
Ho omesso volutamente il verbo perdonare perché per me il perdono ha una accezione e una valenza molto alte. Il perdono crea un dislivello tra chi lo chiede e chi lo riceve. Perché chi lo elargisce sta al di sopra di chi lo riceve. Il primo, infatti, lo fa "per-dono". E questo donare comprensione e redenzione è compito solo di Dio. Solo Lui è al di sopra di tutti noi e ci perdona. Tra noi esseri umani bastano le scuse e non è difficile se siamo innamorati del nostro prossimo e di ogni possibile verità. Ogni verità se confrontata contribuisce a conoscere meglio l'altro e a non condannarlo mai "a priori". Il nostro giudizio deve essere sempre "a posteriori" per non trasformarsi in "pre-giudizio" e, quindi, in assenza di una possibile verità...
In ogni caso, io mi scuso per ogni mio possibile comportamento sbagliato nei riguardi di amici, parenti, conoscenti...
E oggi con il cuore colmo d’Amore, come mi capitava quando ero bambina, offro idealmente il rametto di ulivo benedetto a TUTTI, dicendo francescanamente "la Pace sia con te!".
E sento rinascere una rinnovata Primavera nell'anima...