Oggi, mercoledì, è giorno dedicato a Mercurio, il dio alato, il messaggero di buone novelle, il tramite tra gli dèi e gli uomini, tra il cielo e la terra. E io spero che il suo messaggio beneaugurale giunga a tutti noi che siamo giunti alla fine di questo percorso affascinante nelle pagine del libro I RACCONTI DI ULIVO, in cui abbiamo abbracciato le fantastiche tele di Enzo Morelli e ci siamo commossi ai racconti che cantano questo Altare sacro e umano, il nostro Ulivo, dipinto e vissuto in tanti modi e sul quale è stato facile scrivere. Comincio da quanto ha scritto la carissima Mariateresa Bari subito dopo aver partecipato alla inaugurazione della Mostra delle tele di Enzo Morelli e alla presentazione del libro, nel bellissimo Chiostro del Palazzo di Città di Corato, la sera del 2 ottobre: “Le tele del geniale artista saranno esposte dal primo all’otto ottobre. Gli scatti e i miei versi a raccontare le emozioni per la magica serata! Per le foto, rimando alla mia pagina del 2 ottobre su FB; per la poesia, intitolata “Approdo”, eccola: “Bruco ai bordi del sapere/ in ammirata contemplazione/ Dalle mie ossa nude/ si prolungano radici/ ad abbracciare l’anima/ E sarà immacolata consolazione/ se l’autentico si annida/ cinguetta il cielo alla vita/ È prodigio/ nel celeste fiorito tra i rami/ del mio belare un frullio d’ali.”. E sempre di Mariateresa: “Si può dipingere anche l’invisibile. Si può dipingere la sofferenza, i sogni, l’amore. E Morelli ci riesce benissimo… Commovente il suo incipit: ‘Negli ulivi ho dipinto me stesso, i miei dubbi, le mie ansie, le mie fragilità…’. Grazie Angela per questo approfondimento della sua poetica…”. Ma Mariateresa, riportando le parole di Valentino Losito, e ispirandosi anche ad altri Autori, ha scritto ancora: “Sopraffatti dal rumore fuori e dentro di noi, siamo radici in cerca di silenzio. Il non detto, le parole mute che irrompono nella nostra anima”. “Uomo, torna uomo!”, ha esclamato: “È il grido della nostra Terra. È il grido di tutti noi. E c’è da interrogarsi su questa grande verità!…”. Certo, c’è da interrogarsi! Ed io spero che sul nostro blog se ne parli ancora insieme per un salutare confronto. Ma poi ecco una poesia breve ma intensa e molto profonda, come è nelle corde luminose e dorate di Angela Strippoli: “Vengo dalla zappa del contadino/ Sono figlia delle forbici da pota/ Ho spina dorsale delle vigne/ e i seni ricamati di pizzo/ Per morire ho tempo/ Ora voglio guardare il sole”. E tutto diventa lieve, incantato, di solare voglia di vita. E propongo anche i vari preziosi apporti di Vito Tricarico in prosa e con bellissime immagini dei campi di ulivi di ieri e di oggi (per chi volesse “assaporarle” rimando, ancora una volta, alla mia pagina…): “Ciò che dipinge Enzo Morelli è il miracolo dell’ulivo. È un miracolo che vede protagonista una divinità del mondo antico, venerata nel mondo greco, come anche nella nostra terra: la dea Minerva. Mi sembra bello rammentare la leggenda della sfida tra Atena e Poseidone per diventare la divinità protettrice della città di Atena. Entrambi avrebbero offerto un dono agli Ateniesi per la scelta di quale fosse il migliore. Poseidone piantò a terra il suo tridente facendo scaturire una sorgente d’acqua. Atena, invece, conficcò la sua lancia nella terra e da questa fuoruscì il primo ulivo idoneo ad essere coltivato. Forse a causa del sapore salmastro dell’acqua della sorgente, o pensando giustamente che l’ulivo avrebbe procurato legname, cibo e olio, gli Ateniesi scelsero il dono di Atena, eleggendola a patrona della città. Un albero che ha avuto tante attenzioni, merita di essere raccontato, descritto, esaltato cantato dagli artisti nei diversi campi dell’Arte…”. A questo intervento dettagliato sulla leggenda, che vuole Minerva anche sacra alla città di Bitonto (di cui hanno parlato con altrettanto amore Zaccaria Gallo, Antonio V. Gelormini e altri autori...) ha risposto Cettina Fazio Bonina, mia carissima amica e Presidente dell’ormai famosa Associazione culturale “Porta d’Oriente”: “Vito Tricarico, grazie del contributo che hai portato con questo messaggio, i saperi arricchiscono l’animo!”; “I racconti di Ulivo, un libro di grande valore culturale che coniuga Letteratura e Pittura con competenza e professionalità! Complimenti alla SECOP!…”. Ma anche Zaccaria dice la sua: “Caro Enzo, ho aperto per caso su Facebook oggi e ho trovato questa novità. Sono contento per te e per il tuo sogno che ha preso forma reale. Complimenti e in bocca al lupo.”. E Nicola Patronelli commenta: “Se gli ulivi parlassero, ogni uno di loro raccontassero la loro storia, sarebbe il massimo del fascino esistente sul nostro pianeta.”. E Caterina De Fusco sintetizza efficacemente: “Bravi… Grazie per la vostra dedizione”. E ancora: “Una bellezza non quantificabile in moneta ma ‘in un prendersi cura’”. È così che si fa rete: nell’arricchimento reciproco e nella possibilità di allargare il dialogo e di aprirsi al confronto. E, infatti, Vito Tricarico continua ad arricchirci con la sua esperienza di chi ama l’ulivo fino a coltivarlo nel rispetto delle regole antiche: “Sua maestà l’Ulivo è la pianta tipica del nostro Paese. Gli ulivi che popolano la nostra piana e adornano le nostre colline, come raccontato nel testo odierno, sono fonte di ispirazione per i pittori, fotografi, poeti e scultori. Se non sopraffatti da malattie e da colpevoli incendi, resteranno sempre a testimoniare l’amore per l’essere umano col loro prezioso olio, oltre che essere fonte di ispirazione, ma… Ho avuto il piacere di piantumare molti ulivi novelli, tutti a debita distanza di almeno 6 metri fra ogni pianta. Oggi purtroppo gli ulivi novelli vengono piantati in filari come le viti e crescono con grande spreco di acqua e concimi… Occorrerà, in seguito, ancora più cura dei vecchi ulivi centenari che ornano il nostro territorio, perché le novelle piantagioni, dopo vent’anni, hanno bisogno di essere espiantate…”. Ancora: “Ulivi: fonte di continua ispirazione. Grazie Angela De Leo per la tua disamina artistica… In autunno è un incanto ascoltare la brezza lieve che in silenzioso concerto le foglie d’argento sfiora e i tronchi nervosi ristora.”. E, intanto, mi vengono quotidianamente incontro le poesie di Elina Miticocchio e tutto si colora di gioiose parole che il cielo le detta, fra un volo azzurro di Chagall e un verde prato, dove radici di libri ricamano l’appartenenza al mondo della scrittura, mai dimentica del vento tra gli alberi, del fruscio delle foglie: “Ho deciso di volare in un fresco settembre/ le foglie rosse a tappeto/ ed io seduta su una panchina/ all’ombra di un grande ulivo/ a leggere e studiare./ Sarà così o forse sto sognando/ ma in fondo ad ogni sogno/ trovo la mia verità…”; “Sono neve che scioglie i nodi/ nido che culla me stessa/ imparo un alfabeto nuovo/ mi amo intera/ e in terra lascio le vesti/ e trasparente vado/ per i miei campi/ mi nutro di chiome di alberi/respiro l’ombra di un ricordo/ lo lascio danzare/ sulla mano/ aperta”; “noi siamo le nostre radici/ salde da proteggere/ siamo il suono della terra/ utero// infine siamo Cielo/ che si è fatto pezzetto/ in noi”.
Ed ero convinta di dover chiudere col l’azzurra lievità
trasparente di Elina, ma poi ho letto la pagina imperdibile di Nicola Pice e
non ho potuto fare a meno di rubargliela per postarla qui a conclusione (e che
conclusione!) di questo nostro stare insieme all’ombra luminosa del nostro
imperituro ULIVO.
CRISTEFINGE, UN CANTO POPOLARE DISPERSO
Nello studio di onomasiologia relativo a Opere e
attrezzature della olivicultura e della viticultura scritto da Francesco
Rutigliano sul finire degli anni quaranta e pubblicato nel 1980 nell’ambito
della collana “La nostra Bitonto” a cura della locale associazione turistica
Pro-Loco, la voce ‘Cristəfingə’ è così descritta: “E’ l’atto con cui gli
operai, in segno di letizia, finite le opere della olivicultura e del frantoio,
legano il padrone ad un albero o a un carro agricolo o a una sedia: evidente il
ricordo del Cristo fisso (finge, da figo) alla croce, ricordo che nel parlante
o è svanito o non ha l’ombra della irriverenza”. Nel suo Lessico dialettale del
1957 Giacomo Saracino spiegava a sua volta così la voce Cristəfingə: “Festa che
i contadini e specialmente le contadine fanno, tornando sui carri da campagna,
l’ultimo giorno del raccolto delle olive: *Cristus vincit (canto predominante,
durante la festa)”. In effetti a questo rito, una sorta di saturnali dell’olio,
con il rovesciamento dei ruoli di padrone e servitori di esso, seguiva uno
scomposto corteo di lavoratori, donne e ragazzi, che attraversava il paese
ostentando un tronco d’olivo. Liberamente si cantava da parte della festosa
brigata dei partecipanti. Poi seguiva un banchetto, per lo più modesto, con i
rituali “ziti”: era una sorta di kùnzuə dopo gli estenuanti lavori di campagna.
In questa perduta antica tradizione forse c’è traccia di un rito pagano (impiastricciarsi
il volto con la feccia di vino durante la vendemmia) combinato insieme allo
scherno dei soldati al Cristo legato alla colonna, spesso raffigurato con la
scritta Christus vincit, un motto, che è l’inizio dell’inno cantato dalla
chiesa cattolica nelle solennità, specie nelle messe pontificali. Ritengo che
il nostro Cristəfingə - in evidente assonanza con Christus vincit - possa
ricondursi al verbo latino fingo, ‘immaginare, inventare’, dunque Cristofinto.
Di quella stornellata risultavano sopravvissute solo due quartine di ottonari a
rima baciata, ma nessuna traccia del testo nella sua interezza, sino a quando
una più ampia testimonianza è emersa nel recente testo di Peppino Moretti
“Vətòndə: la vàucə d’ajìrə”, che riporta in appendice proprio il nostro
Cristəfingə. Su questo testo sono intervenuto apportando tutte quelle modifiche
necessarie per una migliore rispondenza alla organizzazione e distribuzione
delle parti tra i vari cantori e ancor più per un miglior accordo con la
struttura compositiva del canto. Esso risulta strutturato in strofe di ottonari
a rima baciata con gli accenti metrici collocati nella terza e settima sillaba,
al fine di una accentazione che facilmente si imprime e meglio si dispone ad
una cadenza cantilenante. Il testo si compone di 138 ottonari: 58 eseguiti da
una voce assolo, 42 da un duetto di voce maschile e voce femminile, 38 da un
coro di campagnoli. Il tutto appare un brioso ‘recitar cantando’ che evoca
vicende gioiose attraverso un gioco di parole contrassegnato dal ricercato
equivoco del doppio senso e dallo scherno irriverente, senza rinunziare ad
esprimere emozioni e sentimenti pregne di sapore, odore e colore. Riappare una
traccia di un mondo contadino perduto, una sorta di specchio di quella realtà
sociale sia pure trasferita a un piano di demistificazione
parodico-caricaturale. La tradizione orale, difatti, racconta di un grosso ramo
di ulivo portato dalla campagna, legato ad una estremità di una verga a
indicare il Cristo. In paese si snodava un lungo corteo di contadini sia uomini
che donne, preceduti dal portatore del suddetto ramo, simbolo di ricchezza e di
allegria. Si creava un clima di intensa allegria, che maturato durante la festa
suggeriva una sorta di realtà alternativa o di mondo alla rovescia, in cui diventava
lecito legare all’albero il padrone. Ungendolo di olio e di vino e legandogli
una fune intorno al petto, fingevano di seviziarlo tra grida e canti per poi
farsi promettere, in cambio della liberazione, un pranzo coi fiocchi: un vero e
proprio rito propiziatorio e liberatorio, le cui radici antropologiche
andrebbero forse ricercate in antiche usanze orgiastiche e feste rituali. Oggi
è completamente dimenticata questa usanza del Cristəfingə, che si poneva a
suggello della festosa conclusione dei lavori della raccolta delle olive. (qui
riporto i primi 42 versi)
Voce assolo
‘Ndoppə màngə e ‘ndoppə mìngə,
s’acchəmmènzə u Cristəfìngə.
Né a patràunə né a patrìunə
u chərròivə né a nəsscìunə.
Vè pə sànghə la natìurə, 5
tènə vòcchə e tènə fìurə.
Anəmèulə, fèmənə e màsquə
vònnə tuttə a gìrə də vàsquə,
e la vàsquə du trappòitə
pe la fèstə vòlə u ‘mbòitə. 10
Uè patrìunə e uè patràunə
tùtt’a sciùchə, cə sə nàunə,
‘mbìcchə sèulə e ‘mbìcchə aciòitə,
nùddə a chiàngə e tùtt’a rròitə.
La paròulə du nagghìirə 15
mèttə u bbàstə au dəcətìirə.
Dəcətìirə a rràgghiə də ciùccə,
l’apərtìurə a ‘mbà Vətùccə.
‘Mbà Vetùccə jè chəmbratàurə,
du patrìunə nu bbùnə trəsàurə. 20
Attaccàmə la canzòunə
e brəndàmə a la patràunə,
u patrìunə vè pə ssòttə.
jèddə rèiscə tùttə rə bbòttə.
Coro
Cristəfìngə, Cristəfìngə, 25
cchiù tə strìngə e cchiù m’avvìngə,
e cə mègghiə tu vu fèuə,
au paràitə u dà prəttèuə.
Duetto
Uèh uèh Marì, uèh uèh Ciccì,
vìine all’àcque au pùzze mì! 30
- Uèh Marì, e ce vìne sòla sàule
T’àgghia ròmbe la rezzàule
- Uèh Ciccì, e ce vìine assule assìule
T’àgghia fa vèive jìnde au rezzìule.
- E ce vìine acchembagnèute 35
T’àgghia ròmbe la pegnèute.
- E ce vìine acchembagnèute
T’agghia jègne la pegnèute.
- E ci vìine de matòine
T’agghia ròmbe u piattòine. 40
- E ci vìine matìne matòine,
trùuv’achìuse u pettegòine.
Voce assolo: Dopo a mangiare e a pisciare, / diamo inizio al Cristofinto. /
Non si offenda il padrone / o la padrona né nessuno. / Nel sangue scorre la
natura / ed ha bocca e versa fiori. / Animali, femmine e maschi / vanno tutti a
giro di vasca, / e la vasca del frantoio / per la festa vuole l’invito. / Ehi,
padrone, e tu, padrona, / tutti a giocare: caso contrario, / poco sale e poco
aceto, / nessun pianto, ma solo riso. / La parola del capo-frantoio / mette
fine alla diceria. / Diceria a raglio d’asino, / l’apertura a compare Vituccio.
/ Compare Vituccio è fattore, / un buon tesoro del padrone. / Cominciamo il
canto / e brindiamo alla padrona, / il padrone va … di sotto, / ma lei regge
ogni …botta.
Coro: Cristofinto, Cristofinto, / più ti stringi e più m’avvinci, / e se
meglio tu vuoi fare / al parete lo devi portare.
Duetto: Uèh uhè Marì, uhè uhè Ciccì, / vieni per l’acqua al pozzo mio!
- Uèh Marì, se vieni sola soletta / ti romperò la brocca
- Uèh, Ciccì, se vieni solo soletto / ti farò bere nella broccola.
- E se vieni accompagnata / ti romperò la pignatta.
- E se vieni accompagnato / ti riempirò la pignatta.
- E se vieni di mattino / ti romperò il piattino
- E se vieni di buon mattino / trovi chiuso il botteghino.
Grazie,
Nicola, per questa preziosa perla recuperata. È la conclusione giusta a I RACCONTI DI ULIVO, in cui tutti ci
siamo immersi e ritrovati, riconoscendoci nelle nostre comuni radici, nel
nostro ESSERE ed ESSERCI, insieme, come in una bella grande famiglia: ieri,
patriarcale; oggi, estesa; domani, interplanetaria. E, alla fine, abbiamo
scoperto, dopo tanta reclusione, che è bello RITROVARSI E ESSERCI! Il nostro “botteghino”
(senza doppi sensi!) è sempre aperto perché gli Ulivi di Enzo Morelli ci
faranno ancora compagnia come i canti e le tradizioni popolari. Fanno parte di
noi e della nostra storia. E tutto rinasce e rivive nell’Amore che ha generato
ogni bellezza, e di Amore parleremo ancora… Angela
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