Con la settimana santa il ricordo va alle
atmosfere pasquali di tanto tempo fa. E allora ecco un altro stralcio del mio
libro Le piogge e i ciliegi.
Ma era la Pasqua
vissuta nella nostra casa che ricordo con grande nostalgia. E ancora prima della
Pasqua la Settimana Santa.
Ho ricordi
vividissimi della Settimana Santa e dei suoi riti perché ero già più
grandicella e perché rendono presente ai miei giorni la fede certa, tua e della
nonna. La vostra fede di straordinaria umanità. Fede generosa e pura.
Ricordo dolcissimo
che si ripropone in un dialogo mai interrotto tra me e te sul nostro paese, le
case, le cose, il colore, il profumo, il sogno, le credenze, che
caratterizzavano la nostra terra di quegli anni: quasi un canto antico,
recupero di parole, di modi di dire, di voci mai spente.
La voce della nonna
che ci esortava ad andare in chiesa per la messa delle sette per il primo
venerdì del mese, con indulgenze plenarie comprese.
“Dobbiamo andare alla messa delle sette che è la prima messa il primo
pensiero deve essere rivolto a gesù cristo…”
“Ma è mai possibile che pure quando è festa a scuola ci devi
costringere ad alzarci presto?”
“Ecco è sempre che lei deve parlare altrimenti non è contenta ho detto
alle sette e alle sette dobbiamo essere in chiesa per guadagnarci il paradiso”….
Poi si doveva andare
in chiesa per la via crucis, per i “sepolcri” e per tutti gli altri riti della
santa Pasqua, attesa non soltanto per sfoggiare l'abito nuovo inno alla
primavera
(trionfo di gonna a
campana di panno-lenci azzurro come la lacca del cielo d’aprile e di gonna
plissettata di un verde prato da far impallidire le siepi del nostro giardino e
camicette bianche come leggere nuvole di orli ricamati),
ma anche per rivivere
quel mistero di morte e di resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni
anno nella commozione del cuore, come esigenza di rinnovato perdono. Per i veri cristiani
la Pasqua era davvero una rinascita d’amore. Un atto di umiltà nella certezza
del perdono.
Squarcio di festosa
serenità era la Domenica delle Palme con gli ulivi benedetti e il bacio
affettuoso di autentica rappacificazione.
Tu portavi in chiesa,
sempre alla messa delle sette, un gran fascio di rami d'ulivo per farli
benedire e per poi distribuirli a parenti, amici, conoscenti, vicinato
(la pace sia con voi… e con il tuo spirito!, ad ogni scambio di bacio
con rametto di ulivo benedetto…).
Nell'aria c'era il
profumo di peschi, mandorli e ciliegi in fiore in netto contrasto con l'intenso
odore d'incenso che respiravo nelle chiese: fuori, esplosione di sole e di vita
a mettermi una pazza allegria nelle vene; in chiesa, la penombra silenziosa e
incombente di un Dio punitore che piegava in ginocchio i miei pensieri di
libertà.
E fiati di donne e
uomini che il digiuno rendeva pesanti.
Per quel perdono
barattavo la mia libertà con una settimana santa densa di genuflessioni e
giaculatorie e rosari.
Ma era sempre nonna
Angelina a sollecitare i miei pentimenti.
La settimana santa
era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva,
quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con
meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il
cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino,
suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una
chiesa gremita e penitente
(adoramus te christe et benedicimus
tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…)
mi ero riconciliata
anche col latino lingua di dio…
Tu e la nonna
seguivate con profondo trasporto tutte quelle riflessioni e preghiere, che si
dilatavano tra le navate in una sorta di cantilena ipnotizzante. Alla fine
anche i fedeli più fedeli erano stremati tanto che alle Litaniae Sanctorum la folla, dopo un po’, cominciava a rispondere
non più “ora pro nobis”, ma “nobìs” e, infine, “bìs”, pur non avendo alcuna
intenzione di bissare…
(kyrie eleison… kyrie eleison… christe eleison… audinos… exaudinos… sancta
maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix… ora pro nobis… sancta virgo
virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs… sancte paule… nobìs… … sancte
andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte vincenti… bìs… …)
Io mi annoiavo. Mi
chiedevo che efficacia potessero avere quelle preghiere smozzicate di cui
nessuno capiva un’acca. Vagavo con i pensieri, andavo lontano, fantasticavo, mi
consolavo. Qualche volta mi distraevo sui volti dei vicini di banco. Cercavo
d’indovinarne pensieri e colpe per capire il motivo di tanta sfibrante
espiazione.
Durante la mattina
del giovedì santo, poi, le strade del paese erano percorse dalla processione
del “Misteri” con tutte le statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù
durante la via crucis. L’accompagnava la banda con nenie funebri dolcissime,
che creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la passione di Cristo si
compisse. Il rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al crepuscolo dello
stesso giorno ed era un rito che mi piaceva molto: si andava in giro per le
strade in un percorso che comprendeva almeno sette chiese da visitare in
misteriosa e mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era il sepolcro
con vasi colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di germe di grano,
illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato, le cui fiammelle
rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi d’ombre
guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’. Il tempo
di guardarmi intorno intimidita e incuriosita. (…)
Dal venerdì, invece,
si entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola che coprivano tutte
le nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti gli specchi (in cui
di sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna Angelina, derivatale
da secoli di medioevo) nelle nostre case.
La mia vanità subiva
un feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio maggiore
era non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio. (…)
Ma mi consolavano di
tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della mattina e quella
del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo silenzio delle
campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a intervalli da “rə tərròzzuə”
(quei particolari
arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare nell’aria con
il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico suono cupo e
greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili)
fino allo scampanio a
distesa della mezzanotte del sabato santo.
Le due processioni
erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede.
L’Addolorata era
bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e intriso
di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo scultore,
ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo ringraziava
per tanta bellezza con le parole:
“‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?”
(“in Cielo mi hai
vista ché in terra mi hai scolpita?”).
Eri stato proprio tu
a raccontarmi questa delicata leggenda la prima volta, lasciandomi incredula e
incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno la bellezza di quel
volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La Desolata”.
Mi piace anche rivivere con te il racconto
tenerissimo, che non conoscevo e che non so se faccia parte della tradizione
popolare o della tua fertile fantasia: sta di fatto che raccontavi come, nella tristissima notte “du Scəvədìa Sandə”, il peregrinare della
Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del figlio, avesse
momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in quanto, uscendo
dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il corpo di un
giovane: quello di Giuda, il traditore di suo figlio, e con delicatezza gli si
avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano...
Quale perdono più grande, dunque: quello di
un Dio immenso, che lascia crocifiggere suo figlio, fattosi uomo per redimere
l’umanità, o quello di una madre del tutto “umana”, trafitta da tutto il dolore
del mondo, che pure bacia con gesto delicato la mano di colui che proprio con
un bacio aveva tradito Suo Figlio?
Lei, minuscola donna come tante, con un cuore
immenso più dell’immenso Suo Dio...
(eri bella come rooosa…). (…)
A mezzanotte, infine, c’era la processione “du Venerdìa Sàndə chə la nàchə d’òrə də Crìstə
mùrtə”
(“del Venerdì Santo
con culla dorata di Gesù morto”),
“də l’Addóloràtə”
(“della Vergine in pianto”) nella vana ricerca del figlio,
e “du Légnə Sàndə” (“del Legno Santo”),
tutto luci e fiori.
La piazza alberata,
antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era illuminata solo dai falò
nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal pomeriggio portavano da
casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a quella triste
rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə
statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con camicia, guanti
bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza perché le tre statue
non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel quadrilatero. Dopo ogni
simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava musiche dolcissime e
tristissime come lo Stabat Mater,
canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del nostro
Tommaso Traetta, e altre sinfonie. (…)
Lacrime
commozione preghiere incanto tradizione
Poi la festosa
Pasqua
Le campane a gloria
della mezzanotte e le mille chiese del nostro paese a salutare “la Rəsòscətə”, (la Resurrezione di
Cristo), e la nostra gioia per l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini.
Noi c'inginocchiavamo per ringraziarLo. La nonna batteva i pugni sul tavolo per
scacciare il diavolo e fare entrare Cristo risorto. E ci baciavamo tutti in
segno di rinnovato amore. Con tenera riconoscenza. A pranzo, tu benedicevi
l'abbondante tavolata e “u bənədìttə”
(il benedetto) col ramo d'ulivo e l'acqua santa, che prendevamo dalla pila
della chiesa e portavamo a casa in una bottiglietta
(e mai il timore di
un'infezione a sfiorarci e mai una malattia a colpirci per la nostra
incoscienza, ben sapendo di tutte le mani, più sporche che pulite, a calarsi
quotidianamente in quella pila per il segno della croce in ingresso e in uscita
dalla chiesa!).
Il benedetto era (e
forse è) la specialità del pranzo pasquale nel nostro paese: uova sode tagliate
a metà, arance con la buccia tagliate a fette (piccoli soli ad illuminare il
giorno del perdono), ricotta dura e salata, salumi vari. E il ragù e l'agnello
e la frutta secca e quella di stagione, e i dolci di Pasqua e il rosolio. E la
lettera sotto il piatto come a Natale e tanta tanta ingenuità tra le mani negli
sguardi nel cuore. Ci sentivamo davvero più buoni. Riconciliati con il mondo
intero e con la vita
(e… buona pasqua a pasqualino/ buona pasqua a
nicolino/ buona pasqua anche a torino/ ah sì bè/ buona pasqua pure a te!/… vedi poi che in fondo in fondo/ fa la pace
tutto il mondo/ fa i capricci/ fa i pasticci/ ma alla fine devi dir…
ah sì bè/ buona pasqua pure a me!
Carosone dalla radio
cantava anche per noi…)
Il giorno dopo era
ancora un giorno di festa, condito di verde spensieratezza. Si andava in
campagna per vivere “u pascəcónə” (la
Pasquetta) con parenti e amici e lunghe tavolate con altri cibi tradizionali,
l’immancabile “vərdéttə”
(non credo sia
traducibile in italiano, ma era una sorta di pastina in ragù d’agnello
allungato in brodo con dentro carne sfilacciata e uova rapprese e piselli…)
e altro buon vino e
chiacchiere e risate.
Tu raccontavi...
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