E continua la mia Prefazione, che ci fa rivivere, nostalgicamente, la Settimana Santa di ieri e ci evidenzia, amaramente, quella dei nostri giorni:
Vincenzo Mastropirro ha fatto del suo
dialetto un fascio di nervi e di sangue per mettere a nudo le piaghe del
passato e quelle del nostro tempo, i suoi dolori e le sue passioni, i suoi
ricordi e le sue emozioni, con un linguaggio ardito, ricco di metafore e, in
alcuni casi, sentenzioso, ironico, duro e mai rassegnato. Notevoli le sue
raccolte di poesie in dialetto (Tretippe e Martidde, 2009; Poèsìa
sparse e sparpagghiote, 2013; Timbe-condra-Timbe, 2016) che
hanno portato la sua e la nostra anima in giro per l’Italia, mietendo allori
dappertutto, e portando con sé anche i suoi inseparabili strumenti a fiato, il
flauto traverso in particolar modo, altra passione incoercibile della sua vita.
Questa volta, però, ha preso a pretesto la Settimana Santa che, nei nostri
paesi del Sud, si veste ancora di riti e di preghiere e chiede al cielo clemenza
per i vivi e per i morti. La prima poesia è quasi una introduzione amara a
tutta la raccolta perché canta tristemente di un mondo rovesciato, quello dei nostri
giorni, che egli guarda dalla cima delle scale di una chiesa deserta, in cui
resistono al tempo solo statue “de
criste e madunne”, che si sono stancate anch’esse di attendere che
qualcosa cambi in meglio. E si nascondono per la vana attesa “jnde a re nicchje aschiure”. Scuro è
anche il cuore del poeta nel vedere il cuore della sua gente “sbiadire” sempre
più. Pensieri disperati si agitano nella sua mente. Ed ecco il miracolo
improvviso e inatteso: le statue, anch’esse addolorate per tanta indifferenza e
desertificazione dei sentimenti di umana pietà, escono dai loro nascondigli e dalla
stessa chiesa per sedersi accanto a lui sul sagrato e insegnargli a pregare.
Tenerissima conclusione: un atto di Carità da parte di Gesù e sua Madre perché
rinasca nel poeta la Fede, e la Speranza. È da questo nuovo monte degli Ulivi
che parte, dunque, la Via Crucis di Vincenzo. E la prima stazione è “la pregissiàune”: un rito antico,
mai spento, nonostante il buio del nostro tempo. Il ritmo lento del suo passare
per le strade del paese è reso vivo e vero dalla cera che si scioglie, mentre
anche la banda suona nenie funebri che commuovono fino al pianto. La gente,
consapevole di essere ben misera cosa al suo cospetto, alza il volto verso il
volto martoriato di Cristo e s’accorge del Suo amore mai capito nella sua
immensità: “pezzecatìdde de meddica
sfritte/ pe’ cunzò laghene
scuotte” (pezzettini di mollica sfritta per condire la pasta scotta). E
la sua Sua infinita solitudine, mentre segue, con tutti gli altri, la scia
delle candele liquefatte lungo le strade da percorrere, e segna “il tempo del
lamento del flicornino”. Ci pervade una tristezza senza fine per il vano
sacrificio di Dio, che si è fatto carne per essere riconosciuto dagli uomini.
E, in questa vana attesa, ha “sprecato” anche il suo amore per l’umanità. Il
prenderne coscienza da parte nostra, è il secondo miracolo, a cui questa Via Crucis di permette di assistere. A
questo proposito, mi vengono in mente alcuni meravigliosi versi di Giorgio Bàrberi
Squarotti: “Forse questo è riuscito a
fare ieri/ il vecchio curatore
delle cose/ del mondo antico, sempre
più sbrecciato/ e maculato: ha anche rivestito/ il corpo tanto candido e ferito/ l’ha posato con cura nel suo vero/ eterno,
gli ha perfino per lui scelto/
la margherita rosa e bianca come/ augurio che rivolse a sé, piangendo,/ nello
spreco infinito dell’amore”. (G.
B. Squarotti, Le voci e la vita,
SECOP edizioni, 2016).
“E il ‘vero eterno’ è l’infinito
amore, l’infinito dolore di un Dio fallibile nella sua infinita umanità, ma
infinitamente divino nella sua indiscussa metafisica spiritualità (…)
profondità abissale dell’amarezza di Dio di fronte alla inaspettata e forse
inarginabile proliferazione del Male nel mondo”. Così scrivevo allora nella
prefazione alla raccolta poetica del grande e compianto critico letterario e
poeta torinese. E potrei, senza ombra di dubbio, sottoscrivere le stesse parole
per i versi di Vincenzo Mastropirro, che ci sta trasportando in un’atmosfera mistica
e misteriosa, attraverso la visione di un Cristo umano e divino insieme, verso
la riscoperta della Fede e della Redenzione. Anche nella terza poesia
assistiamo ad un miracolo: quello dello storpio che, al comando di Dio di
alzarsi e camminare, lo fece “col coraggio addosso” e a lungo camminò. Strabilianti
versi che ripercorrono il dolore antico “sulle strade impolverate del Sud”, dove
“le case si accendono addosso”. Verso superbo, quest’ultimo, di fiamma viva a
ridare colore e calore alla nostra mediterraneità, che sa del profumo in cui
ogni “suono affonda” (“e il naufragar m’è dolce in questo mare”: ci pare di
sentire Leopardi e l’infinito che la sua anima si prefigura e contiene).
E le anafore e le allitterazioni
creano un ritmo incalzante e martellante quasi a inchiodarsi al ricordo della Potenza
e dell’Amore di Cristo. Al suo miracolo. Non così è la stazione del “dolore”.
Qui non c’è miracolo che tenga. La perdita di un figlio è il dolore più straziante
e inarrestabile nella sua infinita durata nel tempo: “u core sckatte addavère” (il cuore scoppia veramente). E i
poveri genitori, morti con il figlio, si riconoscono per lo sguardo spento nel
“niente” che è meno di un vuoto. Solo le lacrime, il sangue e le bestemmie sono
vivi per sempre. È lo stesso dolore di Dio e della Vergine Addolorata per quel
figlio ingannato, tradito, martoriato, ucciso? Non tutti si direbbero
d’accordo. Ma il mistero della morte supera ogni umana comprensione e il dolore
si rifugia nella preghiera o nella imprecazione. Per restituirsi/restituirci
alla vita. Il dolore si fa spine, si fa solitudine, si fa sangue che scorre. E
non c’è partecipazione, non c’è comprensione, non c’è pietà nel cuore
impietrito degli uomini del nostro tempo: pollastri privi di sentimenti.
Pensieri vuoti, dove non alberga alcun senso profondo della vita, dove non si
scorge lo scorcio azzurro di un cielo rabberciato di pietà e di fratellanza.
Solo la corona di spine, conficcata su quel capo sanguinante e umiliato,
conosce il dolore umano di quell’Uomo divino, ad espiare da solo i mali
dell’intera umanità. Così i giorni della Passione scorrono lenti, Cristi e
Madonne si alzano, scuotendosi di dosso la polvere del tempo e mischiandosi alla
folla, che ama ricordare più per tradizione che per fede e si rivolge
soprattutto a “Criste-skjevettòte/
Criste-murte, proprje Idde u cchjù sofferiénde/ u cchjù sìule e u cchjù astemòte
da tutte (Criste-schiodato/ Cristo-morto,
proprio Lui, il più sofferente/ il più solo e il più bestemmiato da tutti)”. Lo
accompagnano “le crestudde”,
cioè i bambini vestiti come Lui. Ma per loro è una festa in contrasto con la
sofferenza e la morte, da cui per fortuna non vengono toccati. Anche per Vincenzo
era giorno di festa nei giorni della sua infanzia innocente e leggera. Ma,
soprattutto, verso il Calvario lo accompagna la Madre, emblema di tutte le
madri con lo strazio nella carne e un accenno di speranza negli occhi. Per un
mondo migliore da restituire a tutti i piccoli che vengono al mondo e hanno diritto
a vivere una vita serena. Di Pace. Questa è, invece, per tanti di noi, la Via Crucis di tutti i giorni: andare
“avanti e dietro”, come fanno re
statuìre (coloro che fanno a gara per portare le statue in processione)
per le nostre strade, forse per cercare un impegno di lavoro o qualcos’altro da
fare; salire e scendere le scale altrui (Tu
proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e
‘l salir per l’altrui scale: la profezia rivolta a Dante dal suo trisavolo
Cacciaguida nel XVII canto del Paradiso) per evitare di ridursi a poveri mendicanti,
ignorati quasi sempre dai
frettolosi passanti. Sono
versi, questi, di Vincenzo Mastropirro,
davvero di una drammaticità straziante, se pensiamo ai nostri emigranti di ieri (partene e bastimènte pe tèrre assài luntàne…) e alla triste realtà degli immigrati di
oggi, in arrivo da altre terre
martoriate su barconi di fortuna per
andare spesso incontro non a una nuova
vita, ma perlopiù alla morte in mare. Nel “nostro” mare Mediterraneo. E l’indifferenza domina sovrana. La diffidenza anche. E l’egoismo, padre di tutti i
mali. Ma il padrone assoluto è
il dio denaro, che si affianca continuamente
al dio potere e quest’ultimo al
dio-sopruso-odio-violenza. Violenza di
un popolo contro l’altro, di un popolo sull’altro. Una sorta di trinità del Male, che
domina il nostro tempo, come
ogni altro tempo. Ma oggi ci
sono “casse di risonanza” a livello mondiale, sconosciute fino a soli cinquant’anni fa.
E i chiodi lunghi e arruginiti della Croce
di Cristo somigliano a quei bambini emarginati solo per il colore della pelle o
per la povertà tra le mani e negli occhi, che spesso volutamente ignoriamo. Le
ultime poesie sono “stazioni” dolorose di “visioni” terribili su quanto male
possa fare il rifiuto, la separazione, il divieto. Lo stesso mare diventa
l’inconsapevole nemico della salvezza, in un destino di onde a sommergere e
negare il futuro a tanti bimbi che non hanno colpa né di essere venuti al modo
né della crudeltà degli uomini o della stessa natura. Perché anche la natura sa
essere crudele.
Versi drammatici, sia in dialetto che
in italiano, che ci riportano alla mente immagini di corpicini lasciati alla
pietà della sabbia e al pianto “cementato” delle madri senza più lacrime. Versi
che avvolgono, stringono al petto, versano lacrime. A che servono le
genuflessioni di chi va in chiesa a battersi il petto senza pregare?
È il grido di Vincenzo di fronte a
tanto strazio, a tanta inveterata ingiustizia che sembra ormai normalità. Il
poeta non può tacere l’orrore di tutti i Calvari del mondo. Lo urla con il
linguaggio dei suoi padri. Quello che non tradisce mai. E Vincenzo Mastropirro,
per salvarsi e per salvarci, lo ripropone come Canto antico di rinnovata
Speranza. Il ricordo dolcissimo dell’antica Via Crucis si ripropone così, in questi versi di tenera pietà ma
anche di lacrime e sangue per aiutarci a rivivere quel mistero di morte e di
resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del
cuore, come esigenza di rinnovato perdono (…) Ma il poeta non sollecita lacrime, commozione,
preghiere, incanto, come da tradizione, per la festosa Pasqua. Si ferma al
Calvario perché, per il momento almeno, non vede spiragli di salvezza. E gli
uomini-belve continuano ancora oggi a mangiare l’agnello “sulla carne di
Cristo”… E non possiamo dargli torto se l’amarezza si fa denuncia e accusa. Ma
un miracolo Cristo continua a farlo: si immola ancora perché la Via Crucis sia uno spiraglio di luce
per quanti credono nella Resurrezione, almeno come anelito dell’anima alla vera
Vita. E noi, compreso l’Autore, siamo fra quelli.
Angela De Leo
U munne sotte-saupe
Assèise ‘ngope a re scole de la chisje
tremìénde u munne sotte-saupe.
Inde, stuonne statue de criste e
madunne
ca s’onne stangote de danne adìénzie
Da-ffore, u munne cange a chelaure ogn-e matèine
ma u core de la gìénde sbiadisce
sìémbe de cchjue.
Mo, me vìédene desperòte e ìéssene
chione-chione
s’assidene au custe e m’ambàrene a
dèisce re reziìune.
Il mondo sottosopra
Seduto in cima alle scale della chiesa
guardo il mondo sottosopra.
Dentro, stanno statue di cristi e
madonne
che si sono stancati di darci retta
e si nascondono in nicchie oscure.
Fuori, il mondo cambia colore ogni
mattina
ma il cuore della gente sbiadisce
sempre di più.
Ora, mi vedono disperato ed escono
piano piano
si siedono a fianco e m’insegnano a
pregare.
che si alzò senza piangere e senza
paura
che s’alzò col coraggio addosso per
camminare
che camminò il più a lungo possibile
sulle strade impolverate del Sud
dove il mondo cambia colore
dove le case si accendono addosso
dove il suono affonda nel profumo.
U delàure
Se more de crépacòre
ce u delàure te sckatte ‘mbitte.
Ce u delàure se chiome figghje
figghjemèje
figliomio
u core sckatte addavère.
Acchessèje onne murte
attone e mamme ca tìénene ùocchjere
‘nzeppote de larme, sanghe e astàime.
Se recanùoscene da cume te
tremìéndene.
Tremìéndene ‘ndìérre e àvetene re
nudde
tremìéndene u vegnàune e aspìéttene
pacendìuse
aspìéttene ca crìésce linde-linde pe’
po’devendò àrue
sènza sapaje ca suotte stuonne
radèisce seccote
sènza sapaje ca chire vegnìune nascene
murte pe’ sìémbe.
Il dolore
Si muore di crepacuore
se il dolore ti scoppia nel petto.
Se il dolore si chiama figlio
figghjemèje
figliomio
il cuore scoppia davvero.
Cosi sono morti
padri e madri che hanno occhi
inzuppati di lacrime, sangue e
bestemmie.
Si riconoscono da come ti guardano.
Guardano a terra e abitano il niente
guardano il virgulto e aspettano
pazienti
aspettano che cresca lentamente per
poi diventare albero
senza sapere che sotto ci sono radici
secche
senza sapere che quei virgulti nascono
morti per sempre.
. Re spèine
… ‘nge vole coragge a tremìénde re
spèine.
La corone de spèine ca stè ‘ngope a
Criste
u coragge u tène. Cure ca nan tenèime
niue.
Sèime quatte pullastre sènza facce
abbandenòte a re chiacchjere vacande.
Pullastre sènza lìéngue e sènza
penzìre
ca ‘ngandene sotte u sanghe ca scuorre
inde u sguarde de ce patisce delìure.
Assalìute chèra corone u sope
ca affùonne saupe a nu ùomene assiule.
Selariule, nasce ‘mmìézze a preghire e
velène
alla-niute, alla-scalzòte, cu le
chjuve arrezzenèite
e u fiòte spezzòte da re resote de la
gìénde.
… ci vuole coraggio a guardare le
spine.
La corona di spine che è in testa a
Cristo
il coraggio ce l’ha. Quello che non
abbiamo noi.
Siamo quattro pollastri senza faccia
abbandonati alle chiacchiere vuote.
Pollastri senza lingua e senza
pensieri
che s’incantano sotto il sangue che
scorre
nello sguardo di chi patisce dolori.
Solo quella corona lo sa
che affonda su un uomo solo.
Solitario, nasce tra preghiere e fiele
nudo, scalzo, con i chiodi arrugginiti
e l’alito spezzato dalle risate della
gente.
Ma è solo qualche esempio del valore
incommensurabile di un libro che ci prende il cuore e ci strazia l’anima, la
quale avverte dentro tutto di sé tutto il subbuglio del bisogno di ritornare a
credere nella possibilità, mai del tutto ignorata, dispersa, cancellata, della
nostra resurrezione con la Resurrezione di Cristo, immolatosi sulla Croce per
la nostra salvezza. Peccato che io non sia riuscita ad inserire le suggestive e preziose opere di grafica che avvolgono con immagini commoventi questi versi che sono chiodi, spade e coltelli a trafiggerci... Buona Pasqua di Resurrezione e di Pace a tutti.
Davvero sanguinanti i versi di Mastropirro. Sanguinano il dolore e l'ingiustizia di tutti i calvari del mondo, come tu dici! E quell'orrorre toglie il sonno, a chi ha non solo occhi per guardare ma anche voce per gridare lo strazio e denunciare.
RispondiEliminaQuesta una piccola poesia scritta da me quasi due anni fa, quando abbiamo ignorato l'esistenza di una nave di profughi nel nostro Mediterraneo, trattenendola in mare per mesi negando asilo e accoglienza. E trasfomandoci in tanti Giuda. Sempre grazie Angela per le tue riflessioni, che infondono speranza.
La nave fantasma
Morde il dolore
incrostato sui volti.
La luna inciampa eterea
nelle urla
e sbianca desideri
ormai appassiti.
Non c'è fiato, non più.
M. Bari
31/7/2019