mercoledì 31 marzo 2021

Mercoledì 31 marzo 2021: ancora da SUD…ario di V. Mastropirro e G. Fioriello…

 E continua la mia Prefazione, che ci fa rivivere, nostalgicamente, la Settimana Santa di ieri e ci evidenzia, amaramente, quella dei nostri giorni:

Vincenzo Mastropirro ha fatto del suo dialetto un fascio di nervi e di sangue per mettere a nudo le piaghe del passato e quelle del nostro tempo, i suoi dolori e le sue passioni, i suoi ricordi e le sue emozioni, con un linguaggio ardito, ricco di metafore e, in alcuni casi, sentenzioso, ironico, duro e mai rassegnato. Notevoli le sue raccolte di poesie in dialetto (Tretippe e Martidde, 2009; Poèsìa sparse e sparpagghiote, 2013; Timbe-condra-Timbe, 2016) che hanno portato la sua e la nostra anima in giro per l’Italia, mietendo allori dappertutto, e portando con sé anche i suoi inseparabili strumenti a fiato, il flauto traverso in particolar modo, altra passione incoercibile della sua vita. Questa volta, però, ha preso a pretesto la Settimana Santa che, nei nostri paesi del Sud, si veste ancora di riti e di preghiere e chiede al cielo clemenza per i vivi e per i morti. La prima poesia è quasi una introduzione amara a tutta la raccolta perché canta tristemente di un mondo rovesciato, quello dei nostri giorni, che egli guarda dalla cima delle scale di una chiesa deserta, in cui resistono al tempo solo statue “de criste e madunne”, che si sono stancate anch’esse di attendere che qualcosa cambi in meglio. E si nascondono per la vana attesa “jnde a re nicchje aschiure”. Scuro è anche il cuore del poeta nel vedere il cuore della sua gente “sbiadire” sempre più. Pensieri disperati si agitano nella sua mente. Ed ecco il miracolo improvviso e inatteso: le statue, anch’esse addolorate per tanta indifferenza e desertificazione dei sentimenti di umana pietà, escono dai loro nascondigli e dalla stessa chiesa per sedersi accanto a lui sul sagrato e insegnargli a pregare. Tenerissima conclusione: un atto di Carità da parte di Gesù e sua Madre perché rinasca nel poeta la Fede, e la Speranza. È da questo nuovo monte degli Ulivi che parte, dunque, la Via Crucis di Vincenzo. E la prima stazione è “la pregissiàune”: un rito antico, mai spento, nonostante il buio del nostro tempo. Il ritmo lento del suo passare per le strade del paese è reso vivo e vero dalla cera che si scioglie, mentre anche la banda suona nenie funebri che commuovono fino al pianto. La gente, consapevole di essere ben misera cosa al suo cospetto, alza il volto verso il volto martoriato di Cristo e s’accorge del Suo amore mai capito nella sua immensità: “pezzecatìdde de meddica sfritte/ pe’ cunzò laghene scuotte” (pezzettini di mollica sfritta per condire la pasta scotta). E la sua Sua infinita solitudine, mentre segue, con tutti gli altri, la scia delle candele liquefatte lungo le strade da percorrere, e segna “il tempo del lamento del flicornino”. Ci pervade una tristezza senza fine per il vano sacrificio di Dio, che si è fatto carne per essere riconosciuto dagli uomini. E, in questa vana attesa, ha “sprecato” anche il suo amore per l’umanità. Il prenderne coscienza da parte nostra, è il secondo miracolo, a cui questa Via Crucis di permette di assistere. A questo proposito, mi vengono in mente alcuni meravigliosi versi di Giorgio Bàrberi Squarotti: “Forse questo è riuscito a fare ieri/ il vecchio curatore delle cose/ del mondo antico, sempre più sbrecciato/ e maculato: ha anche rivestito/ il corpo tanto candido e ferito/ l’ha posato con cura nel suo vero/ eterno, gli ha perfino per lui scelto/ la margherita rosa e bianca come/ augurio che rivolse a sé, piangendo,/ nello spreco infinito dell’amore”. (G. B. Squarotti, Le voci e la vita, SECOP edizioni, 2016).

“E il ‘vero eterno’ è l’infinito amore, l’infinito dolore di un Dio fallibile nella sua infinita umanità, ma infinitamente divino nella sua indiscussa metafisica spiritualità (…) profondità abissale dell’amarezza di Dio di fronte alla inaspettata e forse inarginabile proliferazione del Male nel mondo”. Così scrivevo allora nella prefazione alla raccolta poetica del grande e compianto critico letterario e poeta torinese. E potrei, senza ombra di dubbio, sottoscrivere le stesse parole per i versi di Vincenzo Mastropirro, che ci sta trasportando in un’atmosfera mistica e misteriosa, attraverso la visione di un Cristo umano e divino insieme, verso la riscoperta della Fede e della Redenzione. Anche nella terza poesia assistiamo ad un miracolo: quello dello storpio che, al comando di Dio di alzarsi e camminare, lo fece “col coraggio addosso” e a lungo camminò. Strabilianti versi che ripercorrono il dolore antico “sulle strade impolverate del Sud”, dove “le case si accendono addosso”. Verso superbo, quest’ultimo, di fiamma viva a ridare colore e calore alla nostra mediterraneità, che sa del profumo in cui ogni “suono affonda” (“e il naufragar m’è dolce in questo mare”: ci pare di sentire Leopardi e l’infinito che la sua anima si prefigura e contiene).

E le anafore e le allitterazioni creano un ritmo incalzante e martellante quasi a inchiodarsi al ricordo della Potenza e dell’Amore di Cristo. Al suo miracolo. Non così è la stazione del “dolore”. Qui non c’è miracolo che tenga. La perdita di un figlio è il dolore più straziante e inarrestabile nella sua infinita durata nel tempo: “u core sckatte addavère” (il cuore scoppia veramente). E i poveri genitori, morti con il figlio, si riconoscono per lo sguardo spento nel “niente” che è meno di un vuoto. Solo le lacrime, il sangue e le bestemmie sono vivi per sempre. È lo stesso dolore di Dio e della Vergine Addolorata per quel figlio ingannato, tradito, martoriato, ucciso? Non tutti si direbbero d’accordo. Ma il mistero della morte supera ogni umana comprensione e il dolore si rifugia nella preghiera o nella imprecazione. Per restituirsi/restituirci alla vita. Il dolore si fa spine, si fa solitudine, si fa sangue che scorre. E non c’è partecipazione, non c’è comprensione, non c’è pietà nel cuore impietrito degli uomini del nostro tempo: pollastri privi di sentimenti. Pensieri vuoti, dove non alberga alcun senso profondo della vita, dove non si scorge lo scorcio azzurro di un cielo rabberciato di pietà e di fratellanza. Solo la corona di spine, conficcata su quel capo sanguinante e umiliato, conosce il dolore umano di quell’Uomo divino, ad espiare da solo i mali dell’intera umanità. Così i giorni della Passione scorrono lenti, Cristi e Madonne si alzano, scuotendosi di dosso la polvere del tempo e mischiandosi alla folla, che ama ricordare più per tradizione che per fede e si rivolge soprattutto a “Criste-skjevettòte/ Criste-murte, proprje Idde u cchjù sofferiénde/ u cchjù sìule e u cchjù astemòte da tutte (Criste-schiodato/ Cristo-morto, proprio Lui, il più sofferente/ il più solo e il più bestemmiato da tutti)”. Lo accompagnano “le crestudde”, cioè i bambini vestiti come Lui. Ma per loro è una festa in contrasto con la sofferenza e la morte, da cui per fortuna non vengono toccati. Anche per Vincenzo era giorno di festa nei giorni della sua infanzia innocente e leggera. Ma, soprattutto, verso il Calvario lo accompagna la Madre, emblema di tutte le madri con lo strazio nella carne e un accenno di speranza negli occhi. Per un mondo migliore da restituire a tutti i piccoli che vengono al mondo e hanno diritto a vivere una vita serena. Di Pace. Questa è, invece, per tanti di noi, la Via Crucis di tutti i giorni: andare “avanti e dietro”, come fanno re statuìre (coloro che fanno a gara per portare le statue in processione) per le nostre strade, forse per cercare un impegno di lavoro o qualcos’altro da fare; salire e scendere le scale altrui (Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale: la profezia rivolta a Dante dal suo trisavolo Cacciaguida nel XVII canto del Paradiso) per evitare di ridursi a poveri mendicanti, ignorati quasi sempre dai frettolosi passanti. Sono versi, questi, di Vincenzo Mastropirro, davvero di una drammaticità straziante, se pensiamo ai nostri emigranti di ieri (partene e bastimènte pe tèrre assài luntàne…) e alla triste realtà degli immigrati di oggi, in arrivo da altre terre martoriate su barconi di fortuna per andare spesso incontro non a una nuova vita, ma perlopiù alla morte in mare. Nel “nostro” mare Mediterraneo. E l’indifferenza domina sovrana. La diffidenza anche. E l’egoismo, padre di tutti i mali. Ma il padrone assoluto è il dio denaro, che si affianca continuamente al dio potere e quest’ultimo al dio-sopruso-odio-violenza. Violenza di un popolo contro l’altro, di un popolo sull’altro. Una sorta di trinità del Male, che domina il nostro tempo, come ogni altro tempo. Ma oggi ci sono “casse di risonanza” a livello mondiale, sconosciute fino a soli cinquant’anni fa.

E i chiodi lunghi e arruginiti della Croce di Cristo somigliano a quei bambini emarginati solo per il colore della pelle o per la povertà tra le mani e negli occhi, che spesso volutamente ignoriamo. Le ultime poesie sono “stazioni” dolorose di “visioni” terribili su quanto male possa fare il rifiuto, la separazione, il divieto. Lo stesso mare diventa l’inconsapevole nemico della salvezza, in un destino di onde a sommergere e negare il futuro a tanti bimbi che non hanno colpa né di essere venuti al modo né della crudeltà degli uomini o della stessa natura. Perché anche la natura sa essere crudele.

Versi drammatici, sia in dialetto che in italiano, che ci riportano alla mente immagini di corpicini lasciati alla pietà della sabbia e al pianto “cementato” delle madri senza più lacrime. Versi che avvolgono, stringono al petto, versano lacrime. A che servono le genuflessioni di chi va in chiesa a battersi il petto senza pregare?

È il grido di Vincenzo di fronte a tanto strazio, a tanta inveterata ingiustizia che sembra ormai normalità. Il poeta non può tacere l’orrore di tutti i Calvari del mondo. Lo urla con il linguaggio dei suoi padri. Quello che non tradisce mai. E Vincenzo Mastropirro, per salvarsi e per salvarci, lo ripropone come Canto antico di rinnovata Speranza. Il ricordo dolcissimo dell’antica Via Crucis si ripropone così, in questi versi di tenera pietà ma anche di lacrime e sangue per aiutarci a rivivere quel mistero di morte e di resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del cuore, come esigenza di rinnovato perdono (…) Ma il poeta non sollecita lacrime, commozione, preghiere, incanto, come da tradizione, per la festosa Pasqua. Si ferma al Calvario perché, per il momento almeno, non vede spiragli di salvezza. E gli uomini-belve continuano ancora oggi a mangiare l’agnello “sulla carne di Cristo”… E non possiamo dargli torto se l’amarezza si fa denuncia e accusa. Ma un miracolo Cristo continua a farlo: si immola ancora perché la Via Crucis sia uno spiraglio di luce per quanti credono nella Resurrezione, almeno come anelito dell’anima alla vera Vita. E noi, compreso l’Autore, siamo fra quelli.

                                                 Angela De Leo

U munne sotte-saupe

Assèise ‘ngope a re scole de la chisje

tremìénde u munne sotte-saupe.

Inde, stuonne statue de criste e madunne

ca s’onne stangote de danne adìénzie

Da-ffore, u munne cange a chelaure ogn-e matèine

ma u core de la gìénde sbiadisce sìémbe de cchjue.

Mo, me vìédene desperòte e ìéssene chione-chione

s’assidene au custe e m’ambàrene a dèisce re reziìune.

Il mondo sottosopra

Seduto in cima alle scale della chiesa

guardo il mondo sottosopra.

Dentro, stanno statue di cristi e madonne

che si sono stancati di darci retta

e si nascondono in nicchie oscure.

Fuori, il mondo cambia colore ogni mattina

ma il cuore della gente sbiadisce sempre di più.

Ora, mi vedono disperato ed escono piano piano

si siedono a fianco e m’insegnano a pregare.

 Alzati, cammina e stai zitto!

 Questo disse Cristo allo storpio

che si alzò senza piangere e senza paura

che s’alzò col coraggio addosso per camminare

che camminò il più a lungo possibile

sulle strade impolverate del Sud

dove il mondo cambia colore

dove le case si accendono addosso

dove il suono affonda nel profumo.

 U delàure

Se more de crépacòre

ce u delàure te sckatte ‘mbitte.

Ce u delàure se chiome figghje

figghjemèje figliomio

u core sckatte addavère.

Acchessèje onne murte

attone e mamme ca tìénene ùocchjere

‘nzeppote de larme, sanghe e astàime.

Se recanùoscene da cume te tremìéndene.

Tremìéndene ‘ndìérre e àvetene re nudde

tremìéndene u vegnàune e aspìéttene pacendìuse

aspìéttene ca crìésce linde-linde pe’ po’devendò àrue

sènza sapaje ca suotte stuonne radèisce seccote

sènza sapaje ca chire vegnìune nascene murte pe’ sìémbe.

 Il dolore

Si muore di crepacuore

se il dolore ti scoppia nel petto.

Se il dolore si chiama figlio

figghjemèje figliomio

il cuore scoppia davvero.

Cosi sono morti

padri e madri che hanno occhi

inzuppati di lacrime, sangue e bestemmie.

Si riconoscono da come ti guardano.

Guardano a terra e abitano il niente

guardano il virgulto e aspettano pazienti

aspettano che cresca lentamente per poi diventare albero

senza sapere che sotto ci sono radici secche

senza sapere che quei virgulti nascono morti per sempre.

 

. Re spèine

… ‘nge vole coragge a tremìénde re spèine.

La corone de spèine ca stè ‘ngope a Criste

u coragge u tène. Cure ca nan tenèime niue.

Sèime quatte pullastre sènza facce

abbandenòte a re chiacchjere vacande.

Pullastre sènza lìéngue e sènza penzìre

ca ‘ngandene sotte u sanghe ca scuorre

inde u sguarde de ce patisce delìure.

Assalìute chèra corone u sope

ca affùonne saupe a nu ùomene assiule.

Selariule, nasce ‘mmìézze a preghire e velène

alla-niute, alla-scalzòte, cu le chjuve arrezzenèite

e u fiòte spezzòte da re resote de la gìénde.

 Le spine

… ci vuole coraggio a guardare le spine.

La corona di spine che è in testa a Cristo

il coraggio ce l’ha. Quello che non abbiamo noi.

Siamo quattro pollastri senza faccia

abbandonati alle chiacchiere vuote.

Pollastri senza lingua e senza pensieri

che s’incantano sotto il sangue che scorre

nello sguardo di chi patisce dolori.

Solo quella corona lo sa

che affonda su un uomo solo.

Solitario, nasce tra preghiere e fiele

nudo, scalzo, con i chiodi arrugginiti

e l’alito spezzato dalle risate della gente.

Ma è solo qualche esempio del valore incommensurabile di un libro che ci prende il cuore e ci strazia l’anima, la quale avverte dentro tutto di sé tutto il subbuglio del bisogno di ritornare a credere nella possibilità, mai del tutto ignorata, dispersa, cancellata, della nostra resurrezione con la Resurrezione di Cristo, immolatosi sulla Croce per la nostra salvezza. Peccato che io non sia riuscita ad inserire le suggestive e preziose opere di grafica che avvolgono con immagini commoventi questi versi che sono chiodi, spade e coltelli a trafiggerci... Buona Pasqua di Resurrezione e di Pace a tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 commento:

  1. Davvero sanguinanti i versi di Mastropirro. Sanguinano il dolore e l'ingiustizia di tutti i calvari del mondo, come tu dici! E quell'orrorre toglie il sonno, a chi ha non solo occhi per guardare ma anche voce per gridare lo strazio e denunciare.

    Questa una piccola poesia scritta da me quasi due anni fa, quando abbiamo ignorato l'esistenza di una nave di profughi nel nostro Mediterraneo, trattenendola in mare per mesi negando asilo e accoglienza. E trasfomandoci in tanti Giuda. Sempre grazie Angela per le tue riflessioni, che infondono speranza.

    La nave fantasma

    Morde il dolore
    incrostato sui volti.
    La luna inciampa eterea
    nelle urla
    e sbianca desideri
    ormai appassiti.
    Non c'è fiato, non più.
    M. Bari
    31/7/2019

    RispondiElimina