E dopo la Via Crucis di SUD…ario, riprendo
i ricordi della mia Settimana Santa di tanti anni fa:
Poi la festosa Pasqua. Le campane a gloria della
mezzanotte e le mille chiese del nostro paese a salutare “la Rəsòscətə”, (la
Resurrezione di Cristo), e la nostra gioia per l’avvenuta riconciliazione tra
Dio e gli uomini. Noi c’inginocchiavamo per ringraziarLo. La nonna batteva i
pugni sul tavolo per scacciare il diavolo e fare entrare Cristo risorto. E ci
baciavamo tutti in segno di rinnovato amore. Con tenera riconoscenza. A pranzo,
tu benedicevi l’abbondante tavolata e “u bənədìttə” (il benedetto) col ramo
d’ulivo e l’acqua santa, che prendevamo dalla pila della chiesa e portavamo a
casa in una bottiglietta (e mai il timore di un’infezione a sfiorarci e mai una
malattia a colpirci per la nostra incoscienza, ben sapendo di tutte le mani,
più sporche che pulite, a calarsi quotidianamente in quella pila per il segno
della croce in ingresso e in uscita dalla chiesa!). Il benedetto era (e forse
è) la specialità del pranzo pasquale nel nostro paese: uova sode tagliate a
metà, arance con la buccia tagliate a fette (piccoli soli ad illuminare il
giorno del perdono), ricotta dura e salata, salumi vari. E il ragù e l’agnello
e la frutta secca e quella di stagione, e i dolci di Pasqua e il rosolio. E la
lettera sotto il piatto come a Natale e tanta tanta ingenuità tra le mani negli
sguardi nel cuore. Ci sentivamo davvero più buoni. Riconciliati con il mondo
intero e con la vita (e… buona pasqua a pasqualino/ buona pasqua a nicolino/
buona pasqua anche a torino/ ah sì bè/ buona pasqua pure a te!/… vedi poi che
in fondo in fondo/ fa la pace tutto il mondo/ fa i capricci/ fa i pasticci/ ma
alla fine devi dir… ah, sì bè/ buona pasqua pure a me! Carosone dalla radio cantava
anche per noi…).
Il giorno dopo era ancora un giorno di festa, condito di
verde spensieratezza. Si andava in campagna per vivere “u pascəcónə” (la
Pasquetta) con parenti e amici e lunghe tavolate con altri cibi tradizionali,
l’immancabile “vrədéttə” (non credo sia traducibile in italiano, forse “il
brodetto”, ed era una sorta di pastina in ragù d’agnello allungato in brodo con
dentro carne sfilacciata e uova rapprese e piselli…) e altro buon vino e
chiacchiere e risate.
Tu raccontavi...
Poi, giunse il tempo della Pasquetta con gli amici. E tu
e nonna restavate a casa perché non era più, per voi due, tempo dei lunghi
passi tra l’erba, delle inerpicate sui sassi, delle scampagnate faticose. C’era
ormai la stanchezza di giorni lunghi da portare su spalle più curve e su gambe
sempre più malferme. (‘na ròutə da rəpàrà u səllénə da səstəmà u manùbriə da
addrezzà e u cambanìddə ca dəchiàrə allàrmə còmə a ‘na campàna ròttə e stənàtə…
cə nə məttémə tùttə ‘nzìmə jìndə a la màchənə pə fànnə abbəvèscə nàn jèssə jùnə
bbùnə…) (una ruota da riparare il sellino da sistemare il manubrio da
raddrizzare e il campanello che dichiara allarme come una campana rotta e
stonata… se ci mettono tutti insieme nella macchina del restauro di tanti
vecchi non ne viene fuori neppure uno sano…).
Si spezzò l’incanto...
Uno di quegli anni, proprio durante la settimana santa,
tu eri in chiesa e ad un tratto ti alzasti perché dovevamo andare via, ma ti
accasciasti sul banco con un dolore acuto alla schiena e alla gamba. Furono
costretti alcuni uomini nerboruti a portarti fino a casa con la sedia su cui ti
avevano fatto sedere. Non si riteneva, a quei tempi, di dover chiamare
l’ambulanza per situazioni del genere. Tutto si risolveva con la solidarietà di
parenti, amici e conoscenti. Ma tu rimanesti a letto a lungo e la nonna ti fece
delle iniezioni che il medico ti prescrisse per farti stare meglio. Era
probabilmente il nervo sciatico infiammato. La nonna commentò preoccupata e
scontenta: “Chə cùrə sòrtə də chìtrə ca stèvə jìndə alla chiésjə stémmə tùttə
‘ndəsàtə, pə ffórzə ca nə avèvəna scəcàttəscià rə rèumatìsmə, pórə jè mə səndèvə
tùttə u pìttə chəstəpàtə e d’óssərə chjìnə də dəlórə e rə scənòcchjərə ca nàn zə
chjəchèvənə. Fəgùrətə Məngùccə ca sóffrə də l’àrtrósəchə!” (Con quel gelo che
stava in chiesa stavamo tutti infreddoliti per forza dovevano risentirsi i
reumatismi, pure io sentivo tutto il petto costipato, le ossa piene di dolori e
le ginocchia che non si piegavano. Figuriamoci Mincuccio che soffre
d’artrosi!”).
Da anni andavi a spogliarti e a rivestirti in quella che noi
chiamavamo “la càmərə də rə mənènnə” (la camera delle bambine), cioè quella che
avevate pensato dovesse essere la nostra cameretta; in realtà, mai abitata da
noi perché era la più interna e umida della casa. Cominciò per te e per nonna
Angelina il periodo degli acciacchi dovuti all’età. Tu minimizzavi sorridendo:
“Sono i dolori di quando mai”, dicevi. “Oh, ma quando mai questo dolore! Non
ricordo di averlo mai avuto prima!”. E quei dolori di quando mai divennero i
dolori di sempre.
(ancora dal primo volume de Le piogge e i ciliegi).
E il mio Retino ha catturato su FB una pagina di grande
tenerezza e intensa commozione della mia carissima consuocera e vera poetessa
Francesca Romana Petrucci. Eccola, per leggerla insieme:
LA MIA PASQUA BAMBINA
Ogg mi piace tenere un po’ sul cuore il mio paese
d'origine. Non farà differenza questo periodo di silenzio, per mostrare il suo,
quello ricorrente del Venerdì Santo. Quando venivano legate tutte le campane (a
Montefalco ce ne sono tante e non so ci siano ancora) e le persone, sembrava,
temessero persino di scambiarsi parole, in quelle viuzze selciate e ancora
infreddolite dall'inverno non ancora passato. Semideserte, per non rompere
l'incanto di quel silenzio, di quella attesa. L'attesa di quella gioia, che
sarebbe seguita di lì a poco, nel festeggiare la Pasqua.
Tutto mi appariva gigante, dal mio sguardo di bambina.
Anche quel silenzio era grande, insormontabile, sembrava. Invece, conduceva al
gran fragore della Resurrezione. Il giorno di Pasqua, durante la celebrazione
della messa grande, un gran crocifisso irrompeva in chiesa, di corsa. Il
portone della chiesa si spalanca all'improvviso con gran rumore, come uno
scoppio, quasi un terremoto. Quando la porta si apriva di colpo e vedevo questo
Crocifisso irrompere, quasi giungesse dal centro della terra. Correre lungo la
navata centrale, portato a braccia da alcuni uomini, che io non vedevo.
Correva, sopra le teste dei fedeli, in piedi, come scivolasse sull'acqua. Per
troneggiare, alla fine, al centro dell'altare E tutto ciò accompagnato
dall'improvviso frastuono di tutte le campane, finalmente libere di annunciare
la festa. Facevano tremare il paese intero.
Un' esplosione che prendeva tutto il nostro essere. Noi
bambini, stupefatti, anche un po impauriti da tanta irruente vitalità. Dopo la
messa grande, prima del pranzo, un ultimo incontro nella piazza.
Gli adulti si confrontavano nella pratica della
"cioccetta".
Ciascuno con le sue uova fresche di giornata, selezionate
tra le migliori della posa della mattina pronte per essere confrontate con
quelle dello sfidante, battendole con maestria, le une con le altre, a scoprire
chi avesse l'uovo dal guscio più duro. Cosa si vincesse, non lo so. Ma forse
nulla. Magari per dimostrare chi avesse le galline più sane. Non so dirlo. La
Piazza. Quella degli incontri veri, desiderati, sentiti come bisogno del cuore,
come serpeggiante fratellanza, che tutto coltiva e tutto contiene.
La mia PASQUA BAMBINA.
Ciò che passa dal cuore, tutto resta. Serenità per tutti
Francesca
Petrucci
E mi piace riportare un poema inserito nella raccolta di
poesie Je suis Janette del carissimo giornalista e amico Enzo
Quarto:
Offrimmo all’Altissimo il vitello di Abramo
calpestammo avvinti la terra di Canaan.
Perché non dovremmo essere fratelli?
Più delle parole e dei gesti
vale il seme dei nostri avi
il seme dell’Altissimo
fecondato con Abramo.
È lontana Ur dalla terra di Canaan
ma non è volere della nostra miseria.
il viaggio è necessario
verso le promesse dell’Altissimo
purificate da ogni corruzione.
Abramo ha lasciato le sue cose
ha lasciato casa
ha lasciato le sorgenti dell’Eufrate
ha lasciato l’avere per l’ignoto.
La promessa di Dio è ignota
ma è promessa dell’Altissimo
e la sua parola è il nostro ascolto
che diventa vita.
Per il nostro tempo
e per il tempo dopo di noi
siamo migranti
alla ricerca di una meta promessa.
Migranti ignari,
bisognosi, ma fiduciosi
migranti che bussano
alle porte dei fratelli
migranti che incontrano sguardi
increduli e dubbiosi,
migranti feriti
senza cibo né acqua,
cercatori e sognatori.
Migranti uccisi.
Da Carran alla terra di Canaan
l’anelito ripetuto di pace
risuona nelle ciotole vuote
e negli otri svuotate e flosce.
Da Carran alla terra di Canaan
s’annida la speranza in ogni passo
ed orma dopo orma
la carovana incontra fratelli
altri
e le donne s’apprestano al pane
e i secchi calati nei pozzi
traboccano d’acqua.
Da Carran alla terra di Canaan
il volere di Dio
è il cammino dell’attesa
per tutti
non ci sono certezze.
Il perimetro della casa è senza mattoni
il bisogno resta insoddisfatto
gli imprevisti sono in agguato
ma è il volere di Dio.
Abramo ha creduto all’Altissimo
nonostante le paure.
La paura di distaccarci dalle cose
la paura di avere meno di altri
la paura di non essere ascoltati
la paura dell’ignoto
la paura della morte.
Non c’è vita nella paura della morte
non c’è gioia senza la promessa dell’Altissimo
e nemmeno speranza senza il cammino
da Carran alla terra di Canaan
La serenità della morte
è il dolore per ciò che abbiamo lasciato
la gioia per ciò che possiamo trovare.
È il nostro cammino condiviso
la nostra pace
pregustare le promesse dell’Altissimo.
Finché ho un nemico
non avrò pace
non potrò godere la pace
vivere la pace
condividere la pace
educare alla pace,
la mia stirpe e la mia discendenza
non saranno in pace.
La pace è scritta nella parola
fratello
e nella valle di Giosafat
si ergerà forte la voce degli angeli:
Chi sono i tuoi fratelli?
Cosa hai fatto per loro?
E con loro?
Verrò tra le tue possenti braccia
Padre Misericordioso
a chiederti perdono dei miei peccati infami,
perché ho cercato giustizia
ma l’ho negata ai miei fratelli.
Poggerò il capo sulle tue ginocchia
e attenderò che
la tua materna mano
cancelli il mio passato.
Non mi avvicinerò a te con brama
ma con pazienza aspetterò
il tuo richiamo.
La stessa pazienza con cui hai atteso
il mio pentimento.
Non c’è giustizia
senza la tua infinita Misericordia.
Ma non c’è pace senza giustizia.
Dove è amore e sapienza,
ivi non è timore né ignoranza.
Dove è pazienza e umiltà,
ivi non è ira né turbamento.
Dove è povertà con letizia,
ivi non è cupidigia né avarizia.
Dove è quiete e meditazione,
ivi non è né preoccupazione né dissipazione.
Dove è il timore del Signore a custodire la casa.
ivi il nemico non può trovare via d’entrata.
Dove è misericordia e discrezione,
ivi non è né superbia né durezza.
San Francesco d’Assisi
E solo allora tutt’intorno
sbocceranno tulipani di rubino,
margherite di smeraldo,
magnolie di brillanti,
su di un prato di zaffiri.
E lo zampillio dell’acqua sorgiva
cadenzerà il canto di usignoli.
E arpe angeliche risveglieranno
per sempre
ogni buon dormiente.
Shalom Pax Salam Shalom Pax Salam Shalom Pax Salam
Shalom Pax Salam Shalom Pax Salam Shalom Pax Salam
Shalom Pax Salam Shalom Pax Salam Shalom Pax Salam
E, infine, per augurarvi una serena e Santa Pasqua ecco una mia poesia che parla dell’infinito amore di Cristo per tutti…
Maria di Màgdala
nel lago di Tiberiade sua dimora.
Donna di vento e di sole
e di lacrime di perla amara
a spegnere in seno i sette demoni
che il corpo nutrirono di paura
fino all’incontro agognato
con gli occhi di luce a
illuminare
di perdono la veste scura
come la notte del cuore.
Sciolse d’ambrosia
i suoi lunghi capelli
alla povertà di piedi nudi
che sapevano di rovi ardenti
sui pietrosi sentieri di preghiera.
L’accolsero braccia d’Amore
e il Figlio/Padre ebbe
un intreccio di stelle a indicarle la via
tanto amato e sofferto aveva
nei giorni del silenzio e del canto.
“Apostola degli apostoli”
la chiamarono perché al pianto
di Maria, cuore trafitto
da sette spade,
ebbe mani di tenerezza ad accogliere
il suo dolore infinito di Madre…
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