Questa notte ho riflettuto a
lungo su due parole che amo: POETA e PERSONA.
Ma non amo: la poeta e l’individuo, che fanno capo alle prime due. La prima
parola, pertanto, è POETESSA. E, pur nel rispetto delle scelte altrui, dico il
mio perché sulla mia scelta di continuare a prediligerla: per quanto riguarda il
termine “poeta”, una millenaria tradizione d’uso lo ha declinato al femminile: poetessa.
Poi, verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso (ma già qualche
antesignana si era ribellata alcuni decenni prima), per combattere il “sessismo”
nella nostra lingua, ci fu chi propose, persino a livello ministeriale, di
usare “poeta” per entrambi i generi, anche in riferimento al fatto che poeta,
di derivazione latina (poeta-poetae), aveva già la desinenza femminile pur
avendo significato maschile. Si era ancora in clima di femminismo esasperato e
la proposta venne da più parti accettata, con le dovute eccezioni. Ebbene, io
faccio parte delle eccezioni perché: 1) la poeta o le poete mi sembra poco
calofonico per non dire che è cacofonico e a me piace la bellezza della parola;
2) perché ritengo che “consegnandoci” al termine maschile non facciamo altro
che perpetuare, nell’intento di ribellarci, proprio quel maschilismo non
soltanto linguistico ma anche socio-culturale che vogliamo combattere e
debellare. A rifletterci su mi sembra davvero un paradosso. Certo, so benissimo
che la lingua è un organismo in eterna evoluzione con i tempi e l’uso dei
parlanti, e accetto volentieri i neologismi che sono segno di creatività e di
rinnovamento, ma solo se alla fine abbiano un minimo di coerenza con la
grammatica e la sintassi italiana. Sappiamo del dibattito ancora in corso su
alcune parole come sindaco-sindaca, assessore-assessora e così via, ma qui ci
troviamo di fronte a nomi maschili che non hanno il corrispondente femminile e
quindi, a mio parere, ben vengano al femminile con la desinenza maschile
cambiata in “a”, ma non così per poeta, sacerdote, dottore, professore… E sono
anche note alcune parole, derivanti dal greco, che sono invariabili (acrobata,
pediatra, farmacista, dentista, musicista, pianista, violinista, artista,
concertista ecc. perlopiù legati al mondo dell’arte e dello spettacolo. Necessariamente
valgono per entrambi i generi. Non così poeta, ribadisco. E non è certamente
una “deminutio” dispregiativa conservare la “essa” al femminile solo perché ci
hanno condizionato certi film degli anni Settanta-Ottanta comici e un po’
scollacciati (con Lino Banfi, Alvaro Vitali, Edwige Fenech…), che ironizzavano appunto su “professoressa, dottoressa,
soldatessa”, oppure certe remore di critici letterari un tantino arroganti che
ritenevano sin dai primi decenni dell’Ottocento di scarsa rilevanza letteraria
la poesia delle rare donne che osavano cimentarsi con i versi, perché ritenuta “debole”
in quanto legata al sentimento e al sentimentalismo svenevole di quegli anni. Così
“poetessa”, anche per alcuni critici del Novecento, definisce una fanciulla che
scrive poesie tenui, poco ambiziose e poco efficaci, senza il nerbo della
razionalità, prerogativa - sostenevano e forse sostengono, molto
arbitrariamente - del genio poetico maschile, per cui risultò indigesto conservare
la “essa” a molte poetesse che hanno fatto la storia poetica del Novecento (vedi
- come ha ricordato Maria Pia Latorre alcuni giorni fa nella rubrica quotidiana
che conduce con Ezia Di Monte: Poesia. ‘Pane e… Quotidiano’ - la poetessa russa
Achmatova che preferiva farsi chiamare al maschile). Biancamaria Frabotta, invece,
così scriveva negli anni Ottanta: “poeta o poetessa? Non come te poeta io
sono?/ io sono poetessa e intera non appartengo a nessuno”. Concordo con lei. Dunque,
dipende dalla nostra personalità, dalle nostre convinzioni, dal nostro
retroterra socio-culturale, dalle letture di cui ci siamo nutrite. Ma io
continuerò a scrivere poetessa.
L’altra parola è PERSONA contrapposta a individuo. Perché preferisco persona? Per alcuni motivi che ritengo molto validi. Ma naturalmente è una mia opinione. Persona: è l’uomo nella sua interezza di anima e di corpo (il sinolo aristotelico?), nella sua significazione più profonda di consapevolezza di sé e del proprio destino in rapporto continuo con gli altri. E, visto che ieri nel Retino si è parlato di “ponte”, mi piace definire la persona un ponte, perché presuppone una relazione, un rapporto, un legame un “essere con e per”. “La persona è quel punto particolarissimo in cui si incrociano tutti i fili dell’universo”, qualcuno ha scritto ed è una definizione che mi piace molto. Al di là delle tante teorie teologiche, filosofiche, psicologiche, bioetiche e psico-pedagogiche, oltre che socio-culturali e antropologiche che hanno definito e continuano a definire la persona. Ma non mi azzardo a parlarne per mancanza di conoscenza approfondita, anche se la mia formazione risale alla riflessione condotta sulla persona da Jacques Maritain e al personalismo cristiano di Emmanuel Mounier fino a Martin Buber, Simone Weil, Paul Ricoeur, e tutti filosofi francesi ermeneutici di ultima generazione, per i quali la persona è in continuo divenire nel suo essere “una e molteplice insieme”. E proprio per questo non può essere definita “a priori”. Essa è in continuo mutamento evolutivo, come “fonte di energia e creazione, un movimento incrociato di interiorizzazione e di dono” (vedi Mounier), che attraversa il mondo con il suo bisogno di amore e di tradurre questo suo amore nel fare qualcosa per gli altri, dandosi valori anche trascendentali.
L’individuo, invece, tende a chiudersi in sé stesso perché non ha legami né ideali. Alcuni sostengono che si nasca individui e si diventi persone. Non sono d’accordo. Provengo dalla lezione di Don Gino Corallo, antico e indiscusso docente di Pedagogia dell’Università di Bari negli anni Sessanta-Settanta. Per lo studioso la persona è tale sin dal suo concepimento. So che oggi ci sono molte correnti di pensiero che contraddicono le sue teorie. Sta di fatto che l’individuo è qualsiasi cosa indivisa in sé stessa, ma divisa da ogni altro da sé. In pratica, è una monade senza porte né finestre di leibniziana memoria. È un’isola, mentre la persona è un arcipelago. L’individuo “è un solo unico filo” che si attorciglia su sé stesso; la persona è consapevolezza della sua identità e molteplicità. La persona ha una sua sacralità che l’individuo non possiede. Ecco perché io sono per la persona. Mi piacerebbe confrontarmi col vostro parere riguardo alle due parole da me prese in esame. Serenamente e nel rispetto del pensiero di tutti.
Ed ora vorrei rinfrancarmi e alleggerire quanto detto sin qui riportandovi un bellissimo messaggio che mi è giunto da Mariateresa Bari e che penso ci riguardi tutti: “Quali incantevoli creature si incontrano in questo tuo salotto, Angela! Il mio grazie a Francesca per la sua lettura multisensoriale della lirica di Amelia Rosselli, cui accosterei un ascolto Vivaldiano. La sua famosissima Primavera è il primo dei quattro concerti per orchestra d'archi. Ed è introdotto da un sonetto composto dallo stesso Vivaldi per commentare la musica. Il primo recita cosı̀: Giuntʼè la primavera e festosetti la salutan gli augei con lieto canto; e i fonti allo spirar deʼ zeffiretti con dolce mormorio scorrono intanto. Vengon comprendo lʼaer di nero ammanto, e lampi e tuoni ad annunziarla eletti. Indi tacendo questi, glʼaugelletti tornan di nuovo al loro canoro incanto. E quindi sul fiorito ameno prato al caro mormorio di fronde e piante, dorme ‘l caprar col fido can al lato. Di pastoral zampogna al suon festante danzan ninfe e pastori nel tetto amato di primavera allʼapparir brillante. Ma ciò che costituisce una corrispondenza con la lirica della Rosselli è proprio la musica che si apre con una luccicante e realistica imitazione del cinguettio degli uccelli affidato al violino solista. Improvvisamente delle note ribattute con violenza. È la minaccia di tuoni, fulmini e nuvole nere in lontananza. Avevi ragione. Nulla accade per caso... un abbraccio e sempre grazie!”
Ancora una volta mi spiazzate e mi fate felice con i vostri interventi che integrano meravigliosamente ogni altro intervento tanto da dare un’idea olistica del momento culturale che respiriamo insieme in ogni nostro incontro che mai si conclude, ma è sempre aperto al dischiudersi di nuovi e più ampi orizzonti in un Tutto in cui si muove la nostra esperienza umana. E mi piace ripotare a questo riguardo quanto ha postato sulla sua pagina Valeria Rossini. Quasi una involontaria (involontaria?) risposta al Retino di ieri sera. Parole che costituiscono il mio credo da anni. Fanno persino parte del mio secondo romanzo, III vol., ancora da pubblicare. In funzione di una fine sempre annunciata e mai conclusa perché “per ogni fine c’è sempre un inizio” è il saint-exupéryano (?) e wagneriano leitmotiv dell’intero romanzo: Di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire. Pertanto, dobbiamo fare dell’interruzione un nuovo cammino, della caduta un passo di danza, della paura una scala, del sogno un ponte, del bisogno un incontro (Fernando Pessoa).
Ma ci sono tante altre poesie e tanti altri commenti finiti nel mio blog e nel nostro Retino. Spero di postarli e commentarli un po’ per volta. Per non stancarvi. Io scriverei 24 ore su 24. Scrivere mi rilassa e mi rende felice.
A presto. Buona domenica di quasi primavera…
L’altra parola è PERSONA contrapposta a individuo. Perché preferisco persona? Per alcuni motivi che ritengo molto validi. Ma naturalmente è una mia opinione. Persona: è l’uomo nella sua interezza di anima e di corpo (il sinolo aristotelico?), nella sua significazione più profonda di consapevolezza di sé e del proprio destino in rapporto continuo con gli altri. E, visto che ieri nel Retino si è parlato di “ponte”, mi piace definire la persona un ponte, perché presuppone una relazione, un rapporto, un legame un “essere con e per”. “La persona è quel punto particolarissimo in cui si incrociano tutti i fili dell’universo”, qualcuno ha scritto ed è una definizione che mi piace molto. Al di là delle tante teorie teologiche, filosofiche, psicologiche, bioetiche e psico-pedagogiche, oltre che socio-culturali e antropologiche che hanno definito e continuano a definire la persona. Ma non mi azzardo a parlarne per mancanza di conoscenza approfondita, anche se la mia formazione risale alla riflessione condotta sulla persona da Jacques Maritain e al personalismo cristiano di Emmanuel Mounier fino a Martin Buber, Simone Weil, Paul Ricoeur, e tutti filosofi francesi ermeneutici di ultima generazione, per i quali la persona è in continuo divenire nel suo essere “una e molteplice insieme”. E proprio per questo non può essere definita “a priori”. Essa è in continuo mutamento evolutivo, come “fonte di energia e creazione, un movimento incrociato di interiorizzazione e di dono” (vedi Mounier), che attraversa il mondo con il suo bisogno di amore e di tradurre questo suo amore nel fare qualcosa per gli altri, dandosi valori anche trascendentali.
L’individuo, invece, tende a chiudersi in sé stesso perché non ha legami né ideali. Alcuni sostengono che si nasca individui e si diventi persone. Non sono d’accordo. Provengo dalla lezione di Don Gino Corallo, antico e indiscusso docente di Pedagogia dell’Università di Bari negli anni Sessanta-Settanta. Per lo studioso la persona è tale sin dal suo concepimento. So che oggi ci sono molte correnti di pensiero che contraddicono le sue teorie. Sta di fatto che l’individuo è qualsiasi cosa indivisa in sé stessa, ma divisa da ogni altro da sé. In pratica, è una monade senza porte né finestre di leibniziana memoria. È un’isola, mentre la persona è un arcipelago. L’individuo “è un solo unico filo” che si attorciglia su sé stesso; la persona è consapevolezza della sua identità e molteplicità. La persona ha una sua sacralità che l’individuo non possiede. Ecco perché io sono per la persona. Mi piacerebbe confrontarmi col vostro parere riguardo alle due parole da me prese in esame. Serenamente e nel rispetto del pensiero di tutti.
Ed ora vorrei rinfrancarmi e alleggerire quanto detto sin qui riportandovi un bellissimo messaggio che mi è giunto da Mariateresa Bari e che penso ci riguardi tutti: “Quali incantevoli creature si incontrano in questo tuo salotto, Angela! Il mio grazie a Francesca per la sua lettura multisensoriale della lirica di Amelia Rosselli, cui accosterei un ascolto Vivaldiano. La sua famosissima Primavera è il primo dei quattro concerti per orchestra d'archi. Ed è introdotto da un sonetto composto dallo stesso Vivaldi per commentare la musica. Il primo recita cosı̀: Giuntʼè la primavera e festosetti la salutan gli augei con lieto canto; e i fonti allo spirar deʼ zeffiretti con dolce mormorio scorrono intanto. Vengon comprendo lʼaer di nero ammanto, e lampi e tuoni ad annunziarla eletti. Indi tacendo questi, glʼaugelletti tornan di nuovo al loro canoro incanto. E quindi sul fiorito ameno prato al caro mormorio di fronde e piante, dorme ‘l caprar col fido can al lato. Di pastoral zampogna al suon festante danzan ninfe e pastori nel tetto amato di primavera allʼapparir brillante. Ma ciò che costituisce una corrispondenza con la lirica della Rosselli è proprio la musica che si apre con una luccicante e realistica imitazione del cinguettio degli uccelli affidato al violino solista. Improvvisamente delle note ribattute con violenza. È la minaccia di tuoni, fulmini e nuvole nere in lontananza. Avevi ragione. Nulla accade per caso... un abbraccio e sempre grazie!”
Ancora una volta mi spiazzate e mi fate felice con i vostri interventi che integrano meravigliosamente ogni altro intervento tanto da dare un’idea olistica del momento culturale che respiriamo insieme in ogni nostro incontro che mai si conclude, ma è sempre aperto al dischiudersi di nuovi e più ampi orizzonti in un Tutto in cui si muove la nostra esperienza umana. E mi piace ripotare a questo riguardo quanto ha postato sulla sua pagina Valeria Rossini. Quasi una involontaria (involontaria?) risposta al Retino di ieri sera. Parole che costituiscono il mio credo da anni. Fanno persino parte del mio secondo romanzo, III vol., ancora da pubblicare. In funzione di una fine sempre annunciata e mai conclusa perché “per ogni fine c’è sempre un inizio” è il saint-exupéryano (?) e wagneriano leitmotiv dell’intero romanzo: Di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire. Pertanto, dobbiamo fare dell’interruzione un nuovo cammino, della caduta un passo di danza, della paura una scala, del sogno un ponte, del bisogno un incontro (Fernando Pessoa).
Ma ci sono tante altre poesie e tanti altri commenti finiti nel mio blog e nel nostro Retino. Spero di postarli e commentarli un po’ per volta. Per non stancarvi. Io scriverei 24 ore su 24. Scrivere mi rilassa e mi rende felice.
A presto. Buona domenica di quasi primavera…
Buongiorno, cara Angela! Spalanco gli occhi, come sempre e mi nutro del tuo affondare con le parole nel Sapere. Bellissima la distinzione tra individuo e persona. Ne farò tesoro! In quanto a quella tra poeta e poetessa, mi schiero anch'io a favore del femminile che, da sempre, difendo. C'è una sensibilità, un vissuto, un dolore che è solo donna. Non può essere declinato. Come dice Galimberti, ( che ci descrive come creature vicine al divino, in quanto detentrici del potere della creazione), " l'uomo è uno, la donna è due". E per questo rimando ad una sua interessante lezione sul mito di "Amore e Psiche". Sempre grazie Angela!
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