Ieri ho partecipato alla presentazione di un bellissimo
libro fotografico “Fotosofia” di Giuseppe Tricarico, ottimo
fotografo-pensatore. E io sono tornata indietro nel mio passato magico per
ricordare il primo “incontro” con la fotografia. Ecco ancora uno stralcio del libro
“Le piogge e i ciliegi” di prossima pubblicazione.
Per fortuna, avevo scoperto, andando un giorno con mamma e
babbo in paese, il fotografo Nasillo che ci aveva portato nella camera oscura
dove avevo visto fiorire nell’acqua su cartoncini bianchi, lentamente, volti e
case e alberi e profili di monti e sagome d’animali. E quel prodigio, che mi
aveva esaltato, diventava, quando quelle foto venivano appese con le mollette a
fili di zinco come fazzolettini che sventolavano da un treno lungo lungo, un
addio o un arrivederci. Oppure, come me, erano colombe in cerca di libertà e di
sole, ma trattenute da quelle mollette a tarparne il volo, in quella penombra
semibuia rischiarata da caldi fari per agevolarne l’asciugatura.
Per me, Nasillo era un vero e proprio mago in carne ed ossa
(altro che il mago di Oz!), tanto da far affiorare dal nulla quelle
meravigliose immagini, prima riprese, con un semplice scatto, dalla macchina
fotografica.
Questa era una grande scatola nera a fisarmonica, poggiata
su un trepiedi pure nero in una saletta semibuia. Dietro la scatola c’era un
panno nero, dove spariva la testa del fotografo, e una peretta che lui
stringeva con la mano ogni volta che un lampo attraversava l’enorme occhio
aperto sulle cose e le persone, che sembrava venissero mangiate come se
quell’occhio, che si apriva e si chiudeva, diventasse una enorme bocca vorace.
Improvvisamente quelle cose o persone, mangiate da quell’occhio-bocca,
ricomparivano sui fazzoletti bianchi messi nell’acqua e stesi ad asciugare
davanti alla lampada accesa. Un prodigio, che mi piaceva osservare ogni volta
che ci capitava di passare dal suo studio fotografico.
Il fotografo Nasillo era un prestigiatore-illusionista
da
ammirare incondizionatamente
Fu allora forse che cominciai a non avere più paura del
buio? Forse sì. O, quantomeno, cominciai a scoprire che era nel buio che
avvenivano i prodigi, si compiva il mistero delle cose, si dischiudevano i
sogni, germogliavano i bambini…
Questo ricordo, però, è l’antefatto del mio amore per la
fotografia che mi spinge ora a parlare di “Fotosofia”. Ebbene, ieri sera
abbiamo trascorso in una tenuta dei marchesi Antinori di Firenze, nei pressi di
Minervino Murge, nell’ “incantevole cornice di TORMARESCA Tenuta BOCCA DI
LUPO”, una serata splendida all’insegna dell’Arte nelle molteplici sue
declinazioni: fotografia, filosofia, poesia, musica, canto…
Nella stupenda barricaia Antinori, il nostro bravissimo
fotografo Giuseppe Tricarico ha inaugurato la mostra delle sue foto, racchiuse,
poi, come in due preziosi scrigni, in un video, sapientemente musicato da un
team di amici dell’autore, e in un libro dal titolo suggestivo di “Fotosofia”,
appunto. La coordinatrice della serata, Raffaella Leone, con la sua solita catturante
capacità di mettere a proprio agio protagonisti e ascoltatori dell’Evento e di
creare una corrente empatica tra gli uni e gli altri, ha presentato il
relatore, Pio Meledandri, curatore d’Arte e Direttore del Museo della
Fotografia di Bari, che ha presentato in maniera lusinghiera (per l’autore e
l’editore) il libro, e ci ha illuminato sull’Arte fotografica e sui suoi
segreti, definendola molto opportunamente e poeticamente la “scrittura della luce“. Poi è stata la volta
di Giuseppe Tricarico, timido, visibilmente emozionato, laconico, che via via è
diventato sempre più padrone del dialogo con la coordinatrice, e della scena.
Bravissimi i musicisti e le due cantanti. Eccezionali le loro voci. Infine,
siamo intervenuti io e un artista a tutto tondo, Carlo D’Ambra, carissimo amico
di Giuseppe, a dare la nostra lettura personale di una o più foto che ci
avevano maggiormente emozionato. Carlo ha concluso dopo di me, scherzando
amabilmente con le parole che erano invece molto puntuali e ricche di spunti di
riflessione.
Io sono partita dall’immagine di copertina che mi ha colpito
particolarmente per via di un’opera di grafica molto significativa: due mani
con le dita della mano destra fortemente intrecciate a quelle della mano
sinistra. La prima mostra l’indice ricurvo nell’atto del clic dello scatto e
l’altra ha il palmo aperto a contenere lo spazio dell’obiettivo della macchina
fotografica. Il tutto si intuisce. Il mezzo meccanico non c’è. C’è la forza di
quelle dita che si radicano insieme per realizzare un prodigio:
l’imprescindibile unione della sensibilità artistica con il mezzo che tale
sensibilià trasforma in “immagine dell’anima” più che la realtà dell’oggetto
fotografato. Ed ecco emergere in me la “sofia” della “foto” ossia la
meravigliosa metacognizione di senso e di significato della magia che compie il
fotografo nel cogliere l’attimo della luce, che ferma solo apparentemente
l’immagine con il suo talento d’artista, fiducioso della creatività a cui la
sua macchina fotografica saprà piegarsi, perché è in quell’obiettivo che
trasfonde la sua anima, che va ben oltre il mezzo e la tecnica, per donarsi a
tutti gli altri che più tardi scopriranno, nelle immagini che le sue mani hanno
colto, l’armonia e la bellezza e la storia che le connotano. Dicevo che il
“fermare l’attimo” è solo apparente in quanto, in realtà, esso segna già il
passato “nell’attimo dopo” e conta i giorni a ritroso “nel tempo” man mano che
si proietta verso il futuro perché rimarrà “nel tempo” diametralmente opposto
(una sorte di Giano bifronte) per farsi infinito. Questo è il prodigio che
compie uno scatto fotografico: ferma l’attimo, lo storicizza e lo dona ai nuovi
giorni quasi fosse un eterno presente. Di qui la pertinenza del titolo. La sua
ragione d’essere. E non solo. Il sottotitolo è: “Immagini e pensieri vaganti”
perché quasi tutte le foto sono corredate da didascalie molto profonde sul
senso della vita, che in quelle immagini scorre tra luci ed ombre a darci la
dimensione della realtà in una figura, un paesaggio o un oggetto che non è più
tale (simile alle stelle, il cui chiarore giunge a noi anche dopo migliaia di
anni-luce che si sono spente). E, a mio parere, l’aggettivo “vaganti” è
riduttivo perché, se da un lato sta a significare il dinamismo dei pensieri,
dall’altro toglie l’essenza più vera di quegli stessi pensieri che, come lame,
fendono la realtà per ricavare il sangue e l’humus di ogni verita o della
Verità, che si uncina al divino e ci porta in alto, dove il Cielo è una
trasparenza di forma, dimensione, luce.
L’Arte è sempre la voce divina che s’incarna nell’uomo.
E tutte le foto di Giuseppe Tricarico hanno questo respiro
che palpita di vita, nel fremito di ali di gabbiani in volo che si fanno bianca
luce verso l’alto in gara con la luminosa spuma di mare delle onde che
s’infrangono alla battigia e tu senti la carezza del canto dolce del mare, lo
stridio dei gabbiani, le voci della vita. E, in questa emozionante foto di ali
e di acque che ricamano il mare e accendono il cuore, ecco il contrasto che
definisce meglio il confine tra quotidianità e sensibilità poetica e creativa.
Sullo sfondo un pescatore ignora tanto canto di bellezza e di armonia, di spazi
incontaminati e di libertà, tutto intento nel suo lavoro d’ogni giorno. Di
tutt’altro senso è il suo “obiettivo”: portare il cibo a casa!
E l’incanto si spegne, vinto dalla necessità di tutti i
giorni…
Rimane un libro tutto da guardare e da leggere per scoprire
mondi altri e comprendere che la vita forse è più intensamente vissuta anche in
bianco e nero. Proprio come la fotografia…
La creatività è forse un dono in più che non sempre ci è
dato di cogliere…
Nessun commento:
Posta un commento