sabato 7 aprile 2018

7 aprile 2018: l’incanto della fotografia


fotosofia
Ieri ho partecipato alla presentazione di un bellissimo libro fotografico “Fotosofia” di Giuseppe Tricarico, ottimo fotografo-pensatore. E io sono tornata indietro nel mio passato magico per ricordare il primo “incontro” con la fotografia. Ecco ancora uno stralcio del libro “Le piogge e i ciliegi” di prossima pubblicazione.
Per fortuna, avevo scoperto, andando un giorno con mamma e babbo in paese, il fotografo Nasillo che ci aveva portato nella camera oscura dove avevo visto fiorire nell’acqua su cartoncini bianchi, lentamente, volti e case e alberi e profili di monti e sagome d’animali. E quel prodigio, che mi aveva esaltato, diventava, quando quelle foto venivano appese con le mollette a fili di zinco come fazzolettini che sventolavano da un treno lungo lungo, un addio o un arrivederci. Oppure, come me, erano colombe in cerca di libertà e di sole, ma trattenute da quelle mollette a tarparne il volo, in quella penombra semibuia rischiarata da caldi fari per agevolarne l’asciugatura.
Per me, Nasillo era un vero e proprio mago in carne ed ossa (altro che il mago di Oz!), tanto da far affiorare dal nulla quelle meravigliose immagini, prima riprese, con un semplice scatto, dalla macchina fotografica.
Questa era una grande scatola nera a fisarmonica, poggiata su un trepiedi pure nero in una saletta semibuia. Dietro la scatola c’era un panno nero, dove spariva la testa del fotografo, e una peretta che lui stringeva con la mano ogni volta che un lampo attraversava l’enorme occhio aperto sulle cose e le persone, che sembrava venissero mangiate come se quell’occhio, che si apriva e si chiudeva, diventasse una enorme bocca vorace. Improvvisamente quelle cose o persone, mangiate da quell’occhio-bocca, ricomparivano sui fazzoletti bianchi messi nell’acqua e stesi ad asciugare davanti alla lampada accesa. Un prodigio, che mi piaceva osservare ogni volta che ci capitava di passare dal suo studio fotografico.
                       Il fotografo Nasillo era un prestigiatore-illusionista
                                      da ammirare incondizionatamente          
Fu allora forse che cominciai a non avere più paura del buio? Forse sì. O, quantomeno, cominciai a scoprire che era nel buio che avvenivano i prodigi, si compiva il mistero delle cose, si dischiudevano i sogni, germogliavano i bambini…
Questo ricordo, però, è l’antefatto del mio amore per la fotografia che mi spinge ora a parlare di “Fotosofia”. Ebbene, ieri sera abbiamo trascorso in una tenuta dei marchesi Antinori di Firenze, nei pressi di Minervino Murge, nell’ “incantevole cornice di TORMARESCA Tenuta BOCCA DI LUPO”, una serata splendida all’insegna dell’Arte nelle molteplici sue declinazioni: fotografia, filosofia, poesia, musica, canto…
Nella stupenda barricaia Antinori, il nostro bravissimo fotografo Giuseppe Tricarico ha inaugurato la mostra delle sue foto, racchiuse, poi, come in due preziosi scrigni, in un video, sapientemente musicato da un team di amici dell’autore, e in un libro dal titolo suggestivo di “Fotosofia”, appunto. La coordinatrice della serata, Raffaella Leone, con la sua solita catturante capacità di mettere a proprio agio protagonisti e ascoltatori dell’Evento e di creare una corrente empatica tra gli uni e gli altri, ha presentato il relatore, Pio Meledandri, curatore d’Arte e Direttore del Museo della Fotografia di Bari, che ha presentato in maniera lusinghiera (per l’autore e l’editore) il libro, e ci ha illuminato sull’Arte fotografica e sui suoi segreti, definendola molto opportunamente e poeticamente la   “scrittura della luce“. Poi è stata la volta di Giuseppe Tricarico, timido, visibilmente emozionato, laconico, che via via è diventato sempre più padrone del dialogo con la coordinatrice, e della scena. Bravissimi i musicisti e le due cantanti. Eccezionali le loro voci. Infine, siamo intervenuti io e un artista a tutto tondo, Carlo D’Ambra, carissimo amico di Giuseppe, a dare la nostra lettura personale di una o più foto che ci avevano maggiormente emozionato. Carlo ha concluso dopo di me, scherzando amabilmente con le parole che erano invece molto puntuali e ricche di spunti di riflessione.
Io sono partita dall’immagine di copertina che mi ha colpito particolarmente per via di un’opera di grafica molto significativa: due mani con le dita della mano destra fortemente intrecciate a quelle della mano sinistra. La prima mostra l’indice ricurvo nell’atto del clic dello scatto e l’altra ha il palmo aperto a contenere lo spazio dell’obiettivo della macchina fotografica. Il tutto si intuisce. Il mezzo meccanico non c’è. C’è la forza di quelle dita che si radicano insieme per realizzare un prodigio: l’imprescindibile unione della sensibilità artistica con il mezzo che tale sensibilià trasforma in “immagine dell’anima” più che la realtà dell’oggetto fotografato. Ed ecco emergere in me la “sofia” della “foto” ossia la meravigliosa metacognizione di senso e di significato della magia che compie il fotografo nel cogliere l’attimo della luce, che ferma solo apparentemente l’immagine con il suo talento d’artista, fiducioso della creatività a cui la sua macchina fotografica saprà piegarsi, perché è in quell’obiettivo che trasfonde la sua anima, che va ben oltre il mezzo e la tecnica, per donarsi a tutti gli altri che più tardi scopriranno, nelle immagini che le sue mani hanno colto, l’armonia e la bellezza e la storia che le connotano. Dicevo che il “fermare l’attimo” è solo apparente in quanto, in realtà, esso segna già il passato “nell’attimo dopo” e conta i giorni a ritroso “nel tempo” man mano che si proietta verso il futuro perché rimarrà “nel tempo” diametralmente opposto (una sorte di Giano bifronte) per farsi infinito. Questo è il prodigio che compie uno scatto fotografico: ferma l’attimo, lo storicizza e lo dona ai nuovi giorni quasi fosse un eterno presente. Di qui la pertinenza del titolo. La sua ragione d’essere. E non solo. Il sottotitolo è: “Immagini e pensieri vaganti” perché quasi tutte le foto sono corredate da didascalie molto profonde sul senso della vita, che in quelle immagini scorre tra luci ed ombre a darci la dimensione della realtà in una figura, un paesaggio o un oggetto che non è più tale (simile alle stelle, il cui chiarore giunge a noi anche dopo migliaia di anni-luce che si sono spente). E, a mio parere, l’aggettivo “vaganti” è riduttivo perché, se da un lato sta a significare il dinamismo dei pensieri, dall’altro toglie l’essenza più vera di quegli stessi pensieri che, come lame, fendono la realtà per ricavare il sangue e l’humus di ogni verita o della Verità, che si uncina al divino e ci porta in alto, dove il Cielo è una trasparenza di forma, dimensione, luce.
L’Arte è sempre la voce divina che s’incarna nell’uomo.
E tutte le foto di Giuseppe Tricarico hanno questo respiro che palpita di vita, nel fremito di ali di gabbiani in volo che si fanno bianca luce verso l’alto in gara con la luminosa spuma di mare delle onde che s’infrangono alla battigia e tu senti la carezza del canto dolce del mare, lo stridio dei gabbiani, le voci della vita. E, in questa emozionante foto di ali e di acque che ricamano il mare e accendono il cuore, ecco il contrasto che definisce meglio il confine tra quotidianità e sensibilità poetica e creativa. Sullo sfondo un pescatore ignora tanto canto di bellezza e di armonia, di spazi incontaminati e di libertà, tutto intento nel suo lavoro d’ogni giorno. Di tutt’altro senso è il suo “obiettivo”: portare il cibo a casa!
E l’incanto si spegne, vinto dalla necessità di tutti i giorni…
Rimane un libro tutto da guardare e da leggere per scoprire mondi altri e comprendere che la vita forse è più intensamente vissuta anche in bianco e nero. Proprio come la fotografia… 
La creatività è forse un dono in più che non sempre ci è dato di cogliere…

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