Se si escludono l’alloggio in una caserma e la
frequenza in una scuola elementare in un paesino del Gargano, tra i due estremi
esistenziali dell’infanzia e dell’adolescenza, i principali luoghi della
rievocazione di Angela De Leo, entrambi relativi a Bitonto, la città natia, sono
da un lato la casa in Via Maggiore angolo Via De Rossi e dall’altro l’ampia
abitazione con cortile e dipendenze varie in un palazzotto di Via Generale
Montemar.
La prima casa si trovava nel centro storico di
Bitonto, dove l’autrice ricorda una piazzetta con una fontana di ghisa dell’Acquedotto
pugliese risalente al 1914, chiamata dialettalmente Va(m)masciòulë, voce che però non va riferita solo alla fontanella
e allo slargo, ma soprattutto al rione antico e alla strada, detta ancora oggi Via Maggiore e anteriormente dai conquistatori
spagnoli Rua Mayór. Va(m)masciòulë è appunto l’evoluzione
dialettale del toponimo Via Maggiore.
La seconda abitazione è narrativamente
identificata come «la casa del gelso e delle rose» per la presenza di un
maestoso gelso moro dai frutti rossi «profumati e asprigni» e di appariscenti
rose rampicanti in continua fioritura, che hanno dato il titolo alla già citata
raccolta di poesie Il gelso e le rose.
Via Generale Montemar non è molto lontana dalla piazza in cui dal 1973 si
affaccia la nuova basilica dei Santi Medici e soprattutto si erge l’Obelisco carolino,
a perenne ricordo della battaglia di Bitonto del 1734, un episodio della guerra
di successione polacca, in cui don José Carrillo de Albornoz, allora conte (poi
duca) di Montemar, guidò alla vittoria l’esercito spagnolo contro quello imperiale
austriaco comandato da Antonio Pignatelli, principe di Belmonte. In tal modo il
vicereame austriaco tornò ad essere regno indipendente con Carlo di Borbone. Una
pia leggenda vuole che il generale Montemar, per punire i bitontini che avevano
prestato aiuto agli austriaci e non avevano fatto pronto atto di sottomissione
con un’immediata ambasceria, intendeva saccheggiare Bitonto, ma ne fu miracolosamente
dissuaso dalla provvidenziale apparizione della Vergine Immacolata a difesa
della città.
Nel libro vi sono continui richiami alla
cultura contadina, perché nonno Mincuccio con le sue continue affabulazioni, per
divertire le bambine e il suo uditorio di piccoli e adulti, oltre che dalla
propria esperienza di reduce della Grande Guerra, attingeva a piene mani dalle
tradizioni popolari pugliesi e bitontine tutto un repertorio di giochi
infantili, ninne-nanne, fiabe, proverbi, modi di dire, filastrocche, racconti
di vita, facezie e stramberie. Così l’autrice riporta spesso lacerti del
vernacolo di Bitonto sia nel dialetto arcaizzante, sia nel dialetto di tipo
civile (v. p. 185 e 362).
Qualche esempio lessicale va fatto con termini
particolarmente significativi. A Molfetta abbiamo la voce trusscêndë, riferito a
“persone di bassa lega”. Ebbene, questa parola trova riscontro nel verbo trusscè, che a Trinitapoli significa
“rubare”, e nel sostantivo trussciàndë,
che a San Severo vale “venditore ambulante”, a San Ferdinando “imbroglione” e a
Bitonto “infimo plebeo” e “zingaro”. In particolare, come ci spiega Angela De
Leo, i trussciàndë si insediarono nella
seconda metà degli anni Quaranta del Novecento in alcuni sottani della città
vecchia di Bitonto. Erano individui di origine zingaresca, violenti, scurrili e
blasfemi, che «vivevano in clan, in promiscuità e di elemosina». Oltre a
praticare l’accattonaggio, i truscianti racimolavano
soldi a volte con un pianino ambulante più o meno scordato e più spesso predicendo
ai creduloni di turno la sorte con i bigliettini scelti a caso da un
pappagallino chiuso in una gabbietta e addestrato allo scopo. In quella
variopinta “corte dei miracoli” il capo temuto e incontrastato era un individuo
dal torace muscoloso e seminudo, ma senza gambe, obbligato a spostarsi su una
bassa carretta con rotelline (pp. 111-113, 118 e 371). L’etimologia di trussciàndë va individuata nel francese trucher col valore di “mendicare
fraudolentemente”, derivato da truche,
che dal senso proprio di ‘giara’ si è evoluto furbescamente in quello gergale
di “fagotto, refurtiva”.
I paesi del Sud con la maggior parte dei
contadini residenti in città, anziché in campagna, hanno usanze analoghe.
Angela De Leo ci rammenta la consuetudine dei braccianti agricoli di Bitonto che
a sera si raccoglievano mménzë a
la Pórtë, cioè nella piazza attigua a Porta Baresana, pë sscì (o più arcaicamente sciójë)
a prëmèttë, ossia a dare la parola ai
padroni o ai loro incaricati per l’ingaggio lavorativo riguardante la mattinata
seguente (p. 120). Similmente a Molfetta i braccianti si radunavano sòttë a la Pórtë, cioè nello slargo
corrispondente all’antica porta meridionale verso Terlizzi della seconda cinta
muraria, in cerca di lavoro, anch’essi dando promessa solenne, se la fortuna li
assisteva per l’ingaggio, tanto che dei lavoratori giornalieri senza altra
risorsa che quella delle braccia, una volta si diceva vè a la Pórtë ad acchjà (va alla Porta a cercar lavoro).
Qualche altra simpatica particolarità
linguistica vernacola l’autrice ce la offre con la stuzzicante gastronomia
nostrana. Ci parla, ad esempio, di certe gustosissime pietanze di nonna
Angelina e di mamma Melina, come rë
sckaffùnë au furnë, che lei traduce correttamente come “pasta al forno”, ma
che per gli incontentabili è costituita in prima battuta dagli schiaffoni o rigatoni, ultimamente sopraffatti, almeno nominalmente, dai pàccheri napoletani, senza dire di altri
formati di pasta ugualmente validi con i succulenti ingredienti indispensabili per
le papille gustative di chi ama la buona tavola. Oppure la narratrice ci tenta
e ci strega con u baccalà arraganàtë,
il “baccalà rosolato nel forno”, che propriamente vuol dire origanato, cioè sapidamente spruzzato di
origano.
La molteplicità degli spunti esemplificati o
accennati ci dà almeno un’idea parziale della ricchezza che pervade il romanzo
autobiografico di Angela De Leo Le piogge
e i ciliegi, il quale ha molte pagine di sicuro richiamo, specialmente dove
la prosa è ravvivata a tratti da un diffuso alito di poesia, che raggiunge il
suo culmine nel cuore del libro, al centro del volume con il settimo capitolo,
intitolato La lettera, indirizzata a
natale al nonno, da tempo ormai morto, dalla nipote Lina dopo aver subìto un
terzo e assai complesso intervento a un femore, e l’ottavo capitolo, denominato
Giochi e giocattoli, parole e bugie, “l’uomo
del sacco” e la paura, che alle piccole menzogne, ai giganteschi timori e
alle strane fobie infantili riserva pagine di grande finezza e penetrazione
psicologica.
In tal modo il lettore, attraverso il
labirinto della memoria dell’autrice, inoltrandosi in una sorta di densa saga
patriarcale, è condotto per mano in un viaggio intrigante nel paradiso perduto dell’adolescenza
e soprattutto nel mondo mitico e fantastico dell’infanzia, con risonanze e
suggestioni che non di rado si riconnettono al proprio vissuto.
Molfetta,
Aula Magna del Seminario Vescovile, 24 ottobre 2018
Marco Ignazio de Santis
Grazie, Marco. La tua Relazione sta ricevendo ottimi commenti. Come non essertene grata?Alla prossima, allora! A gennaio verranno pubblicate le fiabe di "papà" Mincuccio e, in primavera, il secondo volume, "I ciliegi", a completamento di questa mia tenerissima storia, vissuta alla sua ombra protettiva e salvifica sempre... Forse per un nuovo inizio...
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