martedì 30 ottobre 2018

"Le piogge e i ciliegi": Relazione completa di Marco Ignazio de Santis (seconda parte)


Se si escludono l’alloggio in una caserma e la frequenza in una scuola elementare in un paesino del Gargano, tra i due estremi esistenziali dell’infanzia e dell’adolescenza, i principali luoghi della rievocazione di Angela De Leo, entrambi relativi a Bitonto, la città natia, sono da un lato la casa in Via Maggiore angolo Via De Rossi e dall’altro l’ampia abitazione con cortile e dipendenze varie in un palazzotto di Via Generale Montemar.
La prima casa si trovava nel centro storico di Bitonto, dove l’autrice ricorda una piazzetta con una fontana di ghisa dell’Acquedotto pugliese risalente al 1914, chiamata dialettalmente Va(m)masciòulë, voce che però non va riferita solo alla fontanella e allo slargo, ma soprattutto al rione antico e alla strada, detta ancora oggi Via Maggiore e anteriormente dai conquistatori spagnoli Rua Mayór. Va(m)masciòulë è appunto l’evoluzione dialettale del toponimo Via Maggiore.  
La seconda abitazione è narrativamente identificata come «la casa del gelso e delle rose» per la presenza di un maestoso gelso moro dai frutti rossi «profumati e asprigni» e di appariscenti rose rampicanti in continua fioritura, che hanno dato il titolo alla già citata raccolta di poesie Il gelso e le rose. Via Generale Montemar non è molto lontana dalla piazza in cui dal 1973 si affaccia la nuova basilica dei Santi Medici e soprattutto si erge l’Obelisco carolino, a perenne ricordo della battaglia di Bitonto del 1734, un episodio della guerra di successione polacca, in cui don José Carrillo de Albornoz, allora conte (poi duca) di Montemar, guidò alla vittoria l’esercito spagnolo contro quello imperiale austriaco comandato da Antonio Pignatelli, principe di Belmonte. In tal modo il vicereame austriaco tornò ad essere regno indipendente con Carlo di Borbone. Una pia leggenda vuole che il generale Montemar, per punire i bitontini che avevano prestato aiuto agli austriaci e non avevano fatto pronto atto di sottomissione con un’immediata ambasceria, intendeva saccheggiare Bitonto, ma ne fu miracolosamente dissuaso dalla provvidenziale apparizione della Vergine Immacolata a difesa della città.
Nel libro vi sono continui richiami alla cultura contadina, perché nonno Mincuccio con le sue continue affabulazioni, per divertire le bambine e il suo uditorio di piccoli e adulti, oltre che dalla propria esperienza di reduce della Grande Guerra, attingeva a piene mani dalle tradizioni popolari pugliesi e bitontine tutto un repertorio di giochi infantili, ninne-nanne, fiabe, proverbi, modi di dire, filastrocche, racconti di vita, facezie e stramberie. Così l’autrice riporta spesso lacerti del vernacolo di Bitonto sia nel dialetto arcaizzante, sia nel dialetto di tipo civile (v. p. 185 e 362).
Qualche esempio lessicale va fatto con termini particolarmente significativi. A Molfetta abbiamo la voce trusscêndë, riferito a “persone di bassa lega”. Ebbene, questa parola trova riscontro nel verbo trusscè, che a Trinitapoli significa “rubare”, e nel sostantivo trussciàndë, che a San Severo vale “venditore ambulante”, a San Ferdinando “imbroglione” e a Bitonto “infimo plebeo” e “zingaro”. In particolare, come ci spiega Angela De Leo, i trussciàndë si insediarono nella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento in alcuni sottani della città vecchia di Bitonto. Erano individui di origine zingaresca, violenti, scurrili e blasfemi, che «vivevano in clan, in promiscuità e di elemosina». Oltre a praticare l’accattonaggio, i truscianti racimolavano soldi a volte con un pianino ambulante più o meno scordato e più spesso predicendo ai creduloni di turno la sorte con i bigliettini scelti a caso da un pappagallino chiuso in una gabbietta e addestrato allo scopo. In quella variopinta “corte dei miracoli” il capo temuto e incontrastato era un individuo dal torace muscoloso e seminudo, ma senza gambe, obbligato a spostarsi su una bassa carretta con rotelline (pp. 111-113, 118 e 371). L’etimologia di trussciàndë va individuata nel francese trucher col valore di “mendicare fraudolentemente”, derivato da truche, che dal senso proprio di ‘giara’ si è evoluto furbescamente in quello gergale di “fagotto, refurtiva”. 
I paesi del Sud con la maggior parte dei contadini residenti in città, anziché in campagna, hanno usanze analoghe. Angela De Leo ci rammenta la consuetudine dei braccianti agricoli di Bitonto che a sera si raccoglievano mménzë a la Pórtë, cioè nella piazza attigua a Porta Baresana, pë sscì (o più arcaicamente sciójë) a prëmèttë, ossia a dare la parola ai padroni o ai loro incaricati per l’ingaggio lavorativo riguardante la mattinata seguente (p. 120). Similmente a Molfetta i braccianti si radunavano sòttë a la Pórtë, cioè nello slargo corrispondente all’antica porta meridionale verso Terlizzi della seconda cinta muraria, in cerca di lavoro, anch’essi dando promessa solenne, se la fortuna li assisteva per l’ingaggio, tanto che dei lavoratori giornalieri senza altra risorsa che quella delle braccia, una volta si diceva vè a la Pórtë ad acchjà (va alla Porta a cercar lavoro).  
Qualche altra simpatica particolarità linguistica vernacola l’autrice ce la offre con la stuzzicante gastronomia nostrana. Ci parla, ad esempio, di certe gustosissime pietanze di nonna Angelina e di mamma Melina, come rë sckaffùnë au furnë, che lei traduce correttamente come “pasta al forno”, ma che per gli incontentabili è costituita in prima battuta dagli schiaffoni o rigatoni, ultimamente sopraffatti, almeno nominalmente, dai pàccheri napoletani, senza dire di altri formati di pasta ugualmente validi con i succulenti ingredienti indispensabili per le papille gustative di chi ama la buona tavola. Oppure la narratrice ci tenta e ci strega con u baccalà arraganàtë, il “baccalà rosolato nel forno”, che propriamente vuol dire origanato, cioè sapidamente spruzzato di origano.
La molteplicità degli spunti esemplificati o accennati ci dà almeno un’idea parziale della ricchezza che pervade il romanzo autobiografico di Angela De Leo Le piogge e i ciliegi, il quale ha molte pagine di sicuro richiamo, specialmente dove la prosa è ravvivata a tratti da un diffuso alito di poesia, che raggiunge il suo culmine nel cuore del libro, al centro del volume con il settimo capitolo, intitolato La lettera, indirizzata a natale al nonno, da tempo ormai morto, dalla nipote Lina dopo aver subìto un terzo e assai complesso intervento a un femore, e l’ottavo capitolo, denominato Giochi e giocattoli, parole e bugie, “l’uomo del sacco” e la paura, che alle piccole menzogne, ai giganteschi timori e alle strane fobie infantili riserva pagine di grande finezza e penetrazione psicologica.    
In tal modo il lettore, attraverso il labirinto della memoria dell’autrice, inoltrandosi in una sorta di densa saga patriarcale, è condotto per mano in un viaggio intrigante nel paradiso perduto dell’adolescenza e soprattutto nel mondo mitico e fantastico dell’infanzia, con risonanze e suggestioni che non di rado si riconnettono al proprio vissuto.
Molfetta, Aula Magna del Seminario Vescovile, 24 ottobre 2018
Marco Ignazio de Santis
Grazie, Marco. La tua Relazione sta ricevendo ottimi commenti. Come non essertene grata?
Alla prossima, allora! A gennaio verranno pubblicate le fiabe di "papà" Mincuccio e, in primavera, il secondo volume, "I ciliegi", a completamento di questa mia tenerissima storia, vissuta alla sua ombra protettiva e salvifica sempre... Forse per un nuovo inizio...

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