Giovanni
Gastel ha una personalità così complessa che sfugge ad ogni definizione perché
è eternamente cangiante, contraddittoria, sorprendente. Ma sono forse proprio
queste peculiarità a renderlo così affascinante e amabile, amato. E tutte le
sue Opere servono a darci di lui una idea veritiera e sempre apparente perché
l’Artista guizza continuamente tra l’essere e il non essere. Ossimoro di sé
stesso sempre.
Così in “Duetto Profano” (SECOP Edizioni,
Corato-Bari), “che dà
voce a due voci (duetto) che dovrebbero andare in sintonia perché sono
strettamente legate al canto “ad una voce” e, invece, divergono per
“estraneità” tra i due mondi in cui vivono e agiscono i personaggi Sono due
voci legate, ma divise. Forse dei protagonisti, forse delle storie narrate.
Forse dello stesso pensiero dell’autore: un giovanissimo, geniale,
diciassettenne che vuole cimentarsi con la scrittura, ma è ancora nella fase
della ricerca di sé in un mondo che lo vuole incasellare nelle regole del bon ton sociale (e la foto di copertina
in bianco e nero, ma con la metà più buia e misteriosa sfumata di rosso, ne è
la straordinaria conferma). In una girandola di
situazioni e di luoghi che ben si addicono alla dispersione/disperazione
adolescenziale, e alla tela di ragno di vite solo all’apparenza tranquille e
appagate, ma quanto distanti dall’ideale di sé nella verità del proprio “Io”
più profondo e quasi sempre ferito e sconfitto.
Di qui l’eterno ritorno nietzschiano all’infanzia e ai
luoghi del cuore: il giardino delle meraviglie, la grande villa silenziosa, la
Milano della domenica e della messa.
Ed era ancora un bambino che guardava il mondo con
occhi spalancati, senza fiabe certo, ma un mondo ancora da scoprire, da vivere.
E, invece, la morte in agguato lo condizionerà per tutti gli anni a venire. Da
quelle immagini in poi nulla sarà come prima. Neppure le parole. Neppure i
silenzi che spesso urlano parole mute. Ma il romanzo non può restare senza
parole. E il romanzo nel romanzo neppure. Il male di vivere corrode le menti
più sensibili.
La quotidianità ha le sue leggi intransigenti sia che
si viva in un mondo dorato sia che ci si arrabatti in un ambiente senza pretese
e senza voli alti.
Anche Dio, nell’uno e nell’altro caso, è un costante
appiglio più per renderlo reo di una sconfitta che àncora di ogni salvezza”.
Dualità
profonda sempre in Giovanni Gastel anche di fronte a Dio che ricerca e rinnega
in ogni suo pensiero, in ogni sua poesia, in ogni scatto ad eternare l’attimo.
Lo stesso
avviene nella raccolta di poesie “Io sono
una pianta rampicante” (Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo-Milano).
“Qui i versi sono
liberi, eppure ricchi di figure
retoriche per un senso innato del bello, che il poeta avverte in sé e
trasferisce nelle parole a rendere, nonostante il continuo disincanto,
un’atmosfera incantata per l’armonia interna che vi regna”. Soprattutto quando
rammemora l’adolescenza e il suo splendore ancora intatto.
Ma è un idillio che non può durare. Le
contraddizioni hanno subito la meglio e quella che sembrava un’età felice si
veste di mille apprensioni e di presentimenti che tolgono smalto e fervore di
vita ai giovanili anni, e tutto diventa cupo, buio, misterioso. Il corpo langue
e la mente è soggiogata da tetri pensieri di morte, ritenuta assassina e
responsabile di tante immense paure.
“Con Gastel è come viaggiare eternamente sulle
montagne russe, niente è scontato e sempre uguale, neppure lo stato d’animo di
un attimo prima corrisponde alla certezza dell’attimo dopo. Tutto viene
affermato e smentito, pur nella realtà del momento, pur nell’incubo che ne
consegue. Il passare del tempo gli procura angoscia, ma anche il dover vivere
ancora una notte gli pesa tanto quanto i demoni a visitarlo, oltre le barriere
del buonsenso e dei freni inibitori per vivere con gli altri, in mezzo agli
altri”. Eppure, non vorrebbe mai una vita regolare, semplice, serena, sarebbe
in antitesi con i tumulti del cuore e della mente: “la storia degli uomini è/
nell’angoscia della foresta”.
Per fortuna, la scrittura. Necessità di vita è
scrivere con le prime ombre della sera per salvare un giorno “vuoto” che
finisce, e per salvarsi da quel vuoto che è voragine e disperazione.
“… ad
addolcire un altro giorno vuoto/ di cui non conserverei memoria/ se non per i
neri segni che a sera/ inciderò su un foglio bianco.
Ed ogni parola, sia pure inconsciamente o
intenzionalmente, è scelta con cura, calibrata nella sua profondità.
“Incidere”, per esempio, è azione molto più “incisiva” più forte e determinata
di vergare o scrivere. I “neri segni”, piuttosto che i segni neri, riguardano
una locuzione che ha una diversa valenza semantica: è una sorta di anastrofe
che rende più leggero il segno e lo connota come scrittura.
Io sono
un disperso (…)
che (…) affida se stesso/ alle parole
che scrive.
Ed è un affidarsi totale, quasi un “naufragare” di
leopardiana memoria.
C’è una sorta di eternità delle parole nelle voci
che ci appartengono, che riconosciamo e teniamo per noi. Ci sembra quasi di
averle dimenticate. Poi, basta un richiamo, una frase, una eco ed ecco
ritornare prepotentemente a farci gioire o soffrire e la nostalgia ci prende,
come per ogni ritorno (nòstos), che è gioia, ma anche dolore (àlgos).
E, del resto, … All’origine
tutto era parola.
E qui il richiamo biblico è forte. E il richiamo al Verbo che era presso Dio ed era Dio. Il
Verbo ha una parola sola. Una sola Verità. Basta riconoscerla. Ma con
presunzione gli uomini la cercano nella scienza, che non possiede verità, ma
parziali porzioni di conoscenza, suscettibili di essere confutare e capovolte,
nel tempo e nello spazio. La cercano nella propria mente, ma non è la
razionalità a dare risposte chiare e definitive. Nel cuore che è un
“guazzabuglio” di sentimenti e di risentimenti. Forse solo “oltre il muro
d’ombra”. Ma forse sarà troppo tardi per credere e per sperare. La fede, unica
ancora di salvezza? Forse. Se avessimo il coraggio di credere. È più facile
negare che ammettere. Dice lo stesso Gastel, in versi, in prosa, con gli scatti
delle sue foto che vibrano di bellezza ma non di verità. Perché ciò accada,
Giovanni Gastel cerca nelle sue modelle l’anima. E l’anima cerca nelle parole.
La cerca in sé stesso. Non si lascia influenzare dalle regole e dalle mode.
Scrive come in quel momento gli detta il sentimento. diversi. E ognuno può
esprimersi come meglio crede purché ci sia emozione, ci sia Poesia.
Credo sia una conquista pluralistica nella
complessità del mondo contemporaneo”. Anche la commistione di generi
artistico-creativi fa parte di questa ricerca del nuovo nel rispetto della
classicità e del sentimento profondo che la sostiene. L’unica ricerca che
potrebbe pacificare il mondo interiore con quello esteriore, in una adesione
reattiva alla società del post postmodernismo e del recupero dell’autenticità
del linguaggio e della vita.
In Giovanni Gastel questo viene messo in atto in
tutte le sue opere, fino a connotare una scrittura narrativa e di comunicazione
sincera e immediata. “Risolvendosi persino nella accettazione delle proprie
ombre per superare i condizionamenti di una cultura familiare, che ancora lo
affascina e lo lega, con lacci d’amore, certo, ma anche con la fragilità che ne
deriva. Si pensi ai mai spenti dialoghi con l’amata madre, con il rimpianto
fratello, perso alla sua vista, ma non al suo cuore.
Bisognerebbe leggere ogni verso per comprendere
l’eccezionale sensibilità etica, affettiva, emotiva ed estetica di Giovanni Gastel
e per comprendere appieno la natura dei suoi tormenti.
‘Io sono
una pianta rampicante’ è uno scrigno prezioso di ritratti di
famiglia, di spazi vuoti (‘i margini di silenzio’ di Paul Eluard?), di luoghi e
date, di poesie perlopiù senza titoli e senza soluzione di continuità. Quasi un
racconto poetico lungo, fatto di improvvise emozioni, percezioni della realtà
ed echi di memorie lontane nel tempo e nello spazio, ma vive più che mai
nell’anima del poeta, in un “infinito presente”, che, nel suo modo e tempo
verbale, azzera ogni passato e ignora ogni futuro per attualizzare, in un unico
istante, tutta una vita.
‘Io sono una
pianta rampicante’: titolo molto suggestivo, ma già di per sé ossimorico”
(come del resto anche il titolo del romanzo e come gli stessi campi semantici
di numerose sue fotografie. Vedi la serie degli ‘Angeli caduti’), connotativo
della stessa personalità dell’Autore, coacervo di laceranti contraddizioni, di
cui la sua Arte e il suo Genio si nutrono…
La cultura familiare, radice profonda e
indistruttibile, e le rigide regole ad essa sottese sono, comunque, gabbie
dorate, troppo strette per i suoi voli pindarici. Voli troppo alti, che avverte
a suo danno: la solitudine dell’“albatros” (Baudelaire) o dei “numeri primi”
(Paolo Giordano), ma anche a suo appagamento per la genialità che gli concede di forare il
cielo e sentirsi incontaminato e compiutamente sé stesso. E tutte le
contraddizioni alla fine si ricompongono in Unità: Giovanni Gastel è tutto
questo e non può essere diversamente. Tutte le sue opere visive e quelle
letterarie firmano la sua genialità. La sua umanità”.
Oggi
Giovanni Gastel è sempre dimidiato tra la libertà del volo nel suo mondo di
sogno e il franare malinconico e disperato nell’abisso di una realtà che fa
male e che vuole dimenticare per non avvertire le ferite e il disinganno. E le
sue Foto e i suoi Scritti ne sono la inconfutabile conferma.
Anche
nel “Catalogo” (curato nei minimi
particolari e con infinito amore da Maria Cristina Brandini), che ha
accompagnato tutta la Mostra delle sue fantastiche fotografie al Broletto di
Como, la stessa immagine di copertina evidenzia tale dicotomia nella sua
innegabile unità: il bianco luminoso delle ali in volo verso spazi sempre più
alti e più ampi, e il nero abissale del tunnel ad avvolgerlo ad ogni contatto
con la terra e con il mondo della realtà e della concretezza. E, al suo
interno, il Teatro gasteliano.
“Le
sue Immagini. Le sue Fantasie. I suoi Personaggi che si raccontano e lo
raccontano. In ogni simbolo. In ogni verità. In ogni passaggio esistenziale e
artistico a descrivere fortemente i suoi percorsi umani e professionali.
La
prima foto non smentisce quanto detto sin qui. Ecco una donna-conchiglia di un
bianco avoriato su sfondo nero, con una particolarità: il volto assorto ed
enigmatico con lo sguardo lontano è diviso a metà dal vortice della conchiglia
che crea trasparenze lunari nella metà che avvolge, lasciando in ombra l’altra
metà. E persino il fiore rosso delle labbra chiuse risente della dimidiazione
tra segreti di voci da riportare all’orecchio in un turbinio di onde senza
fine, e segreti di voci da dimenticare nella penombra scura di ogni tormento
(Gastel e la sua anima di pari passo con la sua Arte). Anche la seconda foto
gioca la sua misteriosa essenza sul bianco e il nero, questa volta non più
divisi, ma sapientemente annodati in volute che labirintano una donna-fiore e
gambo esile su cui esplode un fiore (gardenia o camelia), attraversato da onde
di luce, o una donna-cigno, pronta a spiccare il volo con le sue mani-piume in
una posizione di slancio, frenata appena dalla sospensione di occhi titubanti e
perplessi, in attesa di un vaticinio che la spinga ad osare…
(illusioni sotto le varie maschere che il Teatro
rende vere. Dove la verità solo nella finzione o viceversa? Il dubbio rimane)”.
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