Fino ad oggi, per vari motivi indipendenti dalla mia volontà, non ho
avuto il piacere e la gioia di ascoltare gli interessanti interventi che si
sono succeduti durante le varie serate di presentazione del libro di racconti
di Valentino Losito, insigne giornalista e catturante poeta e narratore. So che,
grazie a relatori dalla indiscussa levatura culturale e umana, ci sono stati
interventi attenti, profondi, estremamente colti. Ho letto soltanto la dettagliata
e brillante presentazione di Lizia De Leo, mia sorella, al Symposium di Bitonto
e, dopo averlo fatto, mi son chiesta, un po’ come il filosofo francese
Baudrillard di fronte ad una realtà culturale che sembrava lasciare più spazio
all’immaginazione: “cos’altro si potrebbe aggiungere che non sia stato già
detto?”. Eppure, lo stesso Baudrillard trovò il modo di ri-scoprire una realtà
completamente nuova e diversa, ridisegnandola iper-realisticamente. Credo che
le risorse umane siano infinite, soprattutto se si colorano di passione, di
emozione e di creatività. A voler rovesciare quanto detto sin qui, potrei
ritenermi fortunata di non aver ascoltato o letto altre relazioni prima di
quella straordinaria ed esaustiva di Lizia (che condivido parola per parola,
avendo io e lei vissuto la stessa infanzia e adolescenza) perché così posso
andare “a ruota libera”, senza la preoccupazione di ripetere concetti, ricordi,
emozioni. Che possono sicuramente essere gli stessi, ma anche quanto diversi,
poiché, come ben sappiamo, ciascuno di noi filtra quanto legge (e anche vive)
attraverso la personale sensibilità, il retroterra culturale, lo stato d’animo
del momento, una sua particolare intuizione.
Dunque, “E la chiamano estate”
richiama subito alla memoria, come ha ben ricordato Lizia, Bruno Martino,
cantante, compositore e pianista degli anni Cinquanta-Settanta dello scorso
secolo, il quale proprio nel 1961 ci deliziò con la sua dolente e fascinosa canzone
da night, uno dei primi tormentoni estivi di quei favolosi anni. Chi ha la mia
età non può assolutamente sottrarsi alla memoria di quelle estati di jukebox,
di balli in terrazza, e villeggiature in famiglia. Già, l’andare al mare era prerogativa
di pochi eletti, e si diceva “villeggiatura”, probabilmente da “villa”, luogo
ameno, dove in un periodo particolare dell’anno, di solito quello estivo, ci si
trasferiva in campagna o al mare per svagarsi e riposarsi (chi non ricorda la
trilogia di Goldoni con le ansie, le smanie, i preparativi, i soggiorni, gli imprevisti
e le conseguenze?).
In copertina lo scorcio realistico di una Santo Spirito (marina di Bitonto)
rivisitata dalle sognanti pennellate di Francesco Speranza tra cieli di nuvole
e aquiloni al vento e barchette che sembrano di carta in un mare azzurro e
solitario. Sul retro-copertina le illuminanti parole di Oscar Iarussi e ancora un
Francesco Speranza con l’antica amata marina per i giochi dei bambini e i voli
degli aquiloni. Il blu dello sfondo fa da contrasto ai colori ridenti e
pastellati dei dipinti.
I racconti sono 38 e sono brevi come un sorriso, un battito di ciglia,
un’ammonizione benevola e ricca di storia fortemente sintetizzata (hein?), un calcio al pallone, il volo
di un aquilone, appunto…
Ma lunghi sono i ricordi che riportano alla memoria individuale e
collettiva: le lunghe controre nella penombra della casa silenziosa col riposo
degli anziani e degli adulti e la noia dei bambini (“Il flusso del tempo durante la controra sembrava fermarsi, così come
cessavano i suoni consueti che scandivano i giorni. Si poteva ascoltare il
frinire delle cicale, il fruscio del vento tra le fronde degli alberi, il
ticchettio dell’orologio a pendolo”); le lunghe sedute operative per
costruire gli aquiloni con papà Lorenzo, paziente e abile, e il lungo filo da
srotolare per farli volare fino al cielo, complice un vento sbarazzino e
capriccioso, ma sempre attento perché non si spegnesse il gioco dei bambini (“Quando un aquilone cadeva, riprendevamo la
corsa lì, dove il vento soffiava più forte, fino a quando, rossi in viso,
vedevamo l’aquilone volteggiare sicuro e accompagnato dal nostro ‘Evviva’”);
i lunghi percorsi del tram colorato d’estiva meraviglia, che percorreva ora
ombrosi ora assolati campi di ulivi per finire la sua corsa ad un passo dal
mare (“Il vecchio tram è rimasto nell’anima,
magico e bello, fa fermate ad ogni fremito di nostalgia, in ogni angolo della
memoria bambina.”); i lunghi giri in bicicletta, mentre il cuore allungava
il suo raggio di azione alla ragazzina col fumetto tra le labbra e una risata
argentina da fare innamorare (“ed era
questo il sogno di noi che pedalavamo in Graziella: poterla abbandonare sopra
il prato e distenderci all’ombra con la ragazza di cui ci eravamo innamorati. Ma
questo restava quasi sempre un sogno. Con la Graziella si andava piano e si
volava solo con la fantasia, con il suo profumo di libertà e l’aria sbarazzina
degli anni’60.”); le lunghe canzoni ascoltate alla radio, che proiettava i
sogni verso un mondo esterno ancora tutto da scoprire (“La radio era il contatto con il mondo esterno che, per mancanza di
immagini e di cronache fedeli, continuava ad essere un mondo di fantasia e
aveva portato le notizie buone e cattive della vita che ricominciava.”); la
lunga canicola e l’improvvisa pioggia con “la
danza delle gocce, i refoli del vento, i lunghi silenzi interrotti da lampi e tuoni”.
E si potrebbe continuare all’infinito con Proust sempre in agguato
dietro il profumo inebriante dei maccheroni al forno sulle lunghe tavolate di
Ferragosto tra gli scogli infuocati e gli allegri ombrelloni a offrire riparo e
ombra fino al comparire delle stelle nel cielo.
Sì, ogni racconto di Valentino è una lunga scia di ricordi, è un lungo
vagare della mente nei luoghi del cuore. È un refolo di parole che ne
richiamano altre ed altre ancora da abbinare alle voci mai dimenticate, che
appartenevano agli anziani, cui non si doveva mancare di rispetto, agli amici
di famiglia, che rendevano movimentati quei giorni di sole e di mare, ai
compagni di giochi e di avventure da passare sotto silenzio per non perdere
quella “libertà vigilata”, di cui sentivano il cappio e la protezione. E la
voce malinconica di Piripicchio, e quella invernale di Ciccillo “u varvjr” e
quella estiva di Emanuele con la “tonsura” completa per andare con le teste
rapate e igienicamente a posto (“Che
nostalgia quei concerti per fisarmonica, mandolini, violini e chitarre che
risuonavano nelle antiche sale da barba.”).
“Sono voci e sentimenti che solo
il cuore bisbiglia e ascolta”.
E mi potrei fermare qui tanto è dolce e carezzevole il suono di queste
parole che ci riporta alle ragioni del cuore “che la ragione non conosce”
(Pascal).
Ma la ragione adulta è oggi guardare con occhi delusi l’abisso di una
società dimentica quasi del tutto delle ragioni del cuore, legata com’è al
mondo “sbrilluccicoso” dell’apparire più che dell’essere. La ragione adulta è
imbattersi quotidianamente in una realtà completamente diversa da quella di
solo cinquant’anni fa perché una rivoluzione di giovani idealisti, ma
impreparati, forse solo indottrinati, con nonni analfabeti e genitori impegnati
a costruire per sé e i propri figli un futuro di benessere materiale e sociale
e, quindi, anch’essi estranei e impreparati al cambiamento, aveva tentato di “rottamare”
il vecchio mondo per renderlo migliore, cadendo però negli antichi errori di
perdere il lume della ragione, che teneva sotto controllo le ideologie per
affermare gli ideali e realizzare i sogni, sfociando così nel terrore
sanguinario e violento che tradì la nostra recuperata innocenza dopo l’Olocausto
della seconda guerra mondiale senza più il volo di una sola poesia ad
assolverci e a redimerci (Th. H. Adorno nel 1966 scrisse: “Dopo Auschwitz,
nessuna poesia, nessuna forma di arte, nessuna affermazione creatrice è più
possibile…”, una sentenza ben più atroce e motivata di quella di Baudrillard). Ben presto si dovettero fare i conti con una
rinnovata società, in cui “Dio è morto” (Nietzsche) e con Dio anche la speranza
e la stessa umanità.
Una società soprattutto diversa per la dominanza assoluta delle tecnologie
più avanzate che hanno reso il nostro pianeta molto più complesso, ma ridotto a
un “villaggio globale”, dove la comunicazione avviene in tempo reale e,
soprattutto senza filtri, sui social,
modificando completamente modi di vivere, di sentire, di percepire le
molteplici realtà compresenti e divergenti, di parlare e di scrivere,
condizionati come siamo più dall’immagine che dalla parola. I tempi vertiginosi
della trasformazione contraggono tutto, anche il linguaggio perlopiù sincopato
per essere aderenti alla fretta dei messaggi da inviare e ricevere senza il
brivido di un’attesa, di un silenzio, di una risata, di una intonazione a
rendere possibile il dimenticato “sentimento della scrittura” (oh le
meravigliose lettere d’amore del tempo che fu!), che è uno scrivere con l’anima
prima ancora che con il corpo e la mente. Oggi adulti e bambini, “affondati” gli
occhi nei tablet, non guardano più il mondo, non provano curiosità per l’altro,
non s’innamorano del mare né si perdono nel mistero del cielo e ignorano le
luci delle lampare e il ricamo luminoso delle smarrite stelle.
Valentino Losito ha il merito non di aver risvegliato in noi la
nostalgia di un impossibile ritorno al passato, ma di averci donato il senso
più vero e profondo di quanto sia venuto a mancarci in termini di semplicità,
onestà, valori legati alla tradizione
(che non sempre è stallo e rifiuto di progresso, ma conservazione di un certo
equilibrio e stabilità in tanta precarietà e dispersione di identità), alla famiglia,
all’amicizia, alla fede, alla solidarietà. E lo ha fatto così, semplicemente,
con una scrittura chiara, limpida, scorrevole come acqua di sorgente, pura e
adamantina, dove si riflettono ancora i buoni sentimenti, l’“allegrezza” del
vivere insieme, della convivialità, della fede dei padri, incrollabile e
sincera; dove è possibile scorgere ancora “la nebbiolina della nube dorata
della poesia” (Quasimodo, se non ricordo male) sulle nostre città ammalate di
indifferenza, di solitudine, di egoismo in una “liquidità dei sentimenti”
(Bauman), a cui fa sempre più riscontro la perdita dei valori e la “desertificazione
del cuore”.
Un respiro di speranza, forse, per le nuove generazioni che hanno
bisogno di scoprire e recuperare le proprie radici perché possano far germogliare
i loro giorni futuri con la libertà verdeggiante delle foglie e il saporito
profumo di nuovi frutti. Riscoprendo lo stupore degli occhi bambini nel primo
giorno del mondo. E, con lo stupore, la curiosità per il mondo e la passione
per la vita.
Grazie, Valentino, per la sapidità poetica, etica ed estetica di ogni
tuo racconto.
E ti chiedo scusa se oggi mi va di paragonarti a quel pastore dei
nostri presepi antichi “stordito, con la
bocca spalancata, le braccia aperte e il cappello in mano, colui che offre al
Gesù Bambino solo il suo stupore, un sentimento così prezioso agli occhi di Dio”.
Angela
De Leo
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