giovedì 14 giugno 2018

“E la chiamano estate” (SECOP Edizioni) di Valentino Losito


Fino ad oggi, per vari motivi indipendenti dalla mia volontà, non ho avuto il piacere e la gioia di ascoltare gli interessanti interventi che si sono succeduti durante le varie serate di presentazione del libro di racconti di Valentino Losito, insigne giornalista e catturante poeta e narratore. So che, grazie a relatori dalla indiscussa levatura culturale e umana, ci sono stati interventi attenti, profondi, estremamente colti. Ho letto soltanto la dettagliata e brillante presentazione di Lizia De Leo, mia sorella, al Symposium di Bitonto e, dopo averlo fatto, mi son chiesta, un po’ come il filosofo francese Baudrillard di fronte ad una realtà culturale che sembrava lasciare più spazio all’immaginazione: “cos’altro si potrebbe aggiungere che non sia stato già detto?”. Eppure, lo stesso Baudrillard trovò il modo di ri-scoprire una realtà completamente nuova e diversa, ridisegnandola iper-realisticamente. Credo che le risorse umane siano infinite, soprattutto se si colorano di passione, di emozione e di creatività. A voler rovesciare quanto detto sin qui, potrei ritenermi fortunata di non aver ascoltato o letto altre relazioni prima di quella straordinaria ed esaustiva di Lizia (che condivido parola per parola, avendo io e lei vissuto la stessa infanzia e adolescenza) perché così posso andare “a ruota libera”, senza la preoccupazione di ripetere concetti, ricordi, emozioni. Che possono sicuramente essere gli stessi, ma anche quanto diversi, poiché, come ben sappiamo, ciascuno di noi filtra quanto legge (e anche vive) attraverso la personale sensibilità, il retroterra culturale, lo stato d’animo del momento, una sua particolare intuizione.
Dunque, “E la chiamano estate” richiama subito alla memoria, come ha ben ricordato Lizia, Bruno Martino, cantante, compositore e pianista degli anni Cinquanta-Settanta dello scorso secolo, il quale proprio nel 1961 ci deliziò con la sua dolente e fascinosa canzone da night, uno dei primi tormentoni estivi di quei favolosi anni. Chi ha la mia età non può assolutamente sottrarsi alla memoria di quelle estati di jukebox, di balli in terrazza, e villeggiature in famiglia. Già, l’andare al mare era prerogativa di pochi eletti, e si diceva “villeggiatura”, probabilmente da “villa”, luogo ameno, dove in un periodo particolare dell’anno, di solito quello estivo, ci si trasferiva in campagna o al mare per svagarsi e riposarsi (chi non ricorda la trilogia di Goldoni con le ansie, le smanie, i preparativi, i soggiorni, gli imprevisti e le conseguenze?).
In copertina lo scorcio realistico di una Santo Spirito (marina di Bitonto) rivisitata dalle sognanti pennellate di Francesco Speranza tra cieli di nuvole e aquiloni al vento e barchette che sembrano di carta in un mare azzurro e solitario. Sul retro-copertina le illuminanti parole di Oscar Iarussi e ancora un Francesco Speranza con l’antica amata marina per i giochi dei bambini e i voli degli aquiloni. Il blu dello sfondo fa da contrasto ai colori ridenti e pastellati dei dipinti.
I racconti sono 38 e sono brevi come un sorriso, un battito di ciglia, un’ammonizione benevola e ricca di storia fortemente sintetizzata (hein?), un calcio al pallone, il volo di un aquilone, appunto…
Ma lunghi sono i ricordi che riportano alla memoria individuale e collettiva: le lunghe controre nella penombra della casa silenziosa col riposo degli anziani e degli adulti e la noia dei bambini (“Il flusso del tempo durante la controra sembrava fermarsi, così come cessavano i suoni consueti che scandivano i giorni. Si poteva ascoltare il frinire delle cicale, il fruscio del vento tra le fronde degli alberi, il ticchettio dell’orologio a pendolo”); le lunghe sedute operative per costruire gli aquiloni con papà Lorenzo, paziente e abile, e il lungo filo da srotolare per farli volare fino al cielo, complice un vento sbarazzino e capriccioso, ma sempre attento perché non si spegnesse il gioco dei bambini (“Quando un aquilone cadeva, riprendevamo la corsa lì, dove il vento soffiava più forte, fino a quando, rossi in viso, vedevamo l’aquilone volteggiare sicuro e accompagnato dal nostro ‘Evviva’”); i lunghi percorsi del tram colorato d’estiva meraviglia, che percorreva ora ombrosi ora assolati campi di ulivi per finire la sua corsa ad un passo dal mare (“Il vecchio tram è rimasto nell’anima, magico e bello, fa fermate ad ogni fremito di nostalgia, in ogni angolo della memoria bambina.”); i lunghi giri in bicicletta, mentre il cuore allungava il suo raggio di azione alla ragazzina col fumetto tra le labbra e una risata argentina da fare innamorare (“ed era questo il sogno di noi che pedalavamo in Graziella: poterla abbandonare sopra il prato e distenderci all’ombra con la ragazza di cui ci eravamo innamorati. Ma questo restava quasi sempre un sogno. Con la Graziella si andava piano e si volava solo con la fantasia, con il suo profumo di libertà e l’aria sbarazzina degli anni’60.”); le lunghe canzoni ascoltate alla radio, che proiettava i sogni verso un mondo esterno ancora tutto da scoprire (“La radio era il contatto con il mondo esterno che, per mancanza di immagini e di cronache fedeli, continuava ad essere un mondo di fantasia e aveva portato le notizie buone e cattive della vita che ricominciava.”); la lunga canicola e l’improvvisa pioggia con “la danza delle gocce, i refoli del vento, i lunghi silenzi interrotti da lampi e tuoni”.
E si potrebbe continuare all’infinito con Proust sempre in agguato dietro il profumo inebriante dei maccheroni al forno sulle lunghe tavolate di Ferragosto tra gli scogli infuocati e gli allegri ombrelloni a offrire riparo e ombra fino al comparire delle stelle nel cielo.
Sì, ogni racconto di Valentino è una lunga scia di ricordi, è un lungo vagare della mente nei luoghi del cuore. È un refolo di parole che ne richiamano altre ed altre ancora da abbinare alle voci mai dimenticate, che appartenevano agli anziani, cui non si doveva mancare di rispetto, agli amici di famiglia, che rendevano movimentati quei giorni di sole e di mare, ai compagni di giochi e di avventure da passare sotto silenzio per non perdere quella “libertà vigilata”, di cui sentivano il cappio e la protezione. E la voce malinconica di Piripicchio, e quella invernale di Ciccillo “u varvjr” e quella estiva di Emanuele con la “tonsura” completa per andare con le teste rapate e igienicamente a posto (“Che nostalgia quei concerti per fisarmonica, mandolini, violini e chitarre che risuonavano nelle antiche sale da barba.”).
Sono voci e sentimenti che solo il cuore bisbiglia e ascolta”.
E mi potrei fermare qui tanto è dolce e carezzevole il suono di queste parole che ci riporta alle ragioni del cuore “che la ragione non conosce” (Pascal).
Ma la ragione adulta è oggi guardare con occhi delusi l’abisso di una società dimentica quasi del tutto delle ragioni del cuore, legata com’è al mondo “sbrilluccicoso” dell’apparire più che dell’essere. La ragione adulta è imbattersi quotidianamente in una realtà completamente diversa da quella di solo cinquant’anni fa perché una rivoluzione di giovani idealisti, ma impreparati, forse solo indottrinati, con nonni analfabeti e genitori impegnati a costruire per sé e i propri figli un futuro di benessere materiale e sociale e, quindi, anch’essi estranei e impreparati al cambiamento, aveva tentato di “rottamare” il vecchio mondo per renderlo migliore, cadendo però negli antichi errori di perdere il lume della ragione, che teneva sotto controllo le ideologie per affermare gli ideali e realizzare i sogni, sfociando così nel terrore sanguinario e violento che tradì la nostra recuperata innocenza dopo l’Olocausto della seconda guerra mondiale senza più il volo di una sola poesia ad assolverci e a redimerci (Th. H. Adorno nel 1966 scrisse: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma di arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile…”, una sentenza ben più atroce e motivata di quella di Baudrillard).  Ben presto si dovettero fare i conti con una rinnovata società, in cui “Dio è morto” (Nietzsche) e con Dio anche la speranza e la stessa umanità.
Una società soprattutto diversa per la dominanza assoluta delle tecnologie più avanzate che hanno reso il nostro pianeta molto più complesso, ma ridotto a un “villaggio globale”, dove la comunicazione avviene in tempo reale e, soprattutto senza filtri, sui social, modificando completamente modi di vivere, di sentire, di percepire le molteplici realtà compresenti e divergenti, di parlare e di scrivere, condizionati come siamo più dall’immagine che dalla parola. I tempi vertiginosi della trasformazione contraggono tutto, anche il linguaggio perlopiù sincopato per essere aderenti alla fretta dei messaggi da inviare e ricevere senza il brivido di un’attesa, di un silenzio, di una risata, di una intonazione a rendere possibile il dimenticato   “sentimento della scrittura” (oh le meravigliose lettere d’amore del tempo che fu!), che è uno scrivere con l’anima prima ancora che con il corpo e la mente. Oggi adulti e bambini, “affondati” gli occhi nei tablet, non guardano più il mondo, non provano curiosità per l’altro, non s’innamorano del mare né si perdono nel mistero del cielo e ignorano le luci delle lampare e il ricamo luminoso delle smarrite stelle.
Valentino Losito ha il merito non di aver risvegliato in noi la nostalgia di un impossibile ritorno al passato, ma di averci donato il senso più vero e profondo di quanto sia venuto a mancarci in termini di semplicità, onestà, valori legati alla  tradizione (che non sempre è stallo e rifiuto di progresso, ma conservazione di un certo equilibrio e stabilità in tanta precarietà e dispersione di identità), alla famiglia, all’amicizia, alla fede, alla solidarietà. E lo ha fatto così, semplicemente, con una scrittura chiara, limpida, scorrevole come acqua di sorgente, pura e adamantina, dove si riflettono ancora i buoni sentimenti, l’“allegrezza” del vivere insieme, della convivialità, della fede dei padri, incrollabile e sincera; dove è possibile scorgere ancora “la nebbiolina della nube dorata della poesia” (Quasimodo, se non ricordo male) sulle nostre città ammalate di indifferenza, di solitudine, di egoismo in una “liquidità dei sentimenti” (Bauman), a cui fa sempre più riscontro la perdita dei valori e la “desertificazione del cuore”.
Un respiro di speranza, forse, per le nuove generazioni che hanno bisogno di scoprire e recuperare le proprie radici perché possano far germogliare i loro giorni futuri con la libertà verdeggiante delle foglie e il saporito profumo di nuovi frutti. Riscoprendo lo stupore degli occhi bambini nel primo giorno del mondo. E, con lo stupore, la curiosità per il mondo e la passione per la vita.
Grazie, Valentino, per la sapidità poetica, etica ed estetica di ogni tuo racconto.
E ti chiedo scusa se oggi mi va di paragonarti a quel pastore dei nostri presepi antichi “stordito, con la bocca spalancata, le braccia aperte e il cappello in mano, colui che offre al Gesù Bambino solo il suo stupore, un sentimento così prezioso agli occhi di Dio”.
                                                                                             Angela De Leo







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