Presentazione de La via
delle vedove di Angela De Leo
Sannicandro, 10 luglio 2018
Castello
Normanno-Svevo di Sannicandro (Bari)
Sera
del 10 luglio
La pietra mi vince e mi esalta nel
lungo salone di archi e volute come insolite nuvole e ali e onde materiche che
salgono al cielo e vibrano e cantano la Bellezza che qui fremita di paesaggi
murgiani. L’ulivo ha un fruscio di foglie, accarezzate dal vento in una
svettante esaltazione d’argento e di verde a smemorarsi sul mare. E capelli di
donne come spighe dorate danzano e spighe come capelli s’intrecciano al primo
sole di luglio e drappi azzurri, trasparenti e leggeri, fluttuano al mito di
una Primavera che cede il passo a Venere in una corsa di giorni da vivere tra
la frenesia delle cicale e un “sogno di mezza estate”. E rossi tramonti di
camini accesi raccontano storie antiche di donne e bambini, di fatica e
bestemmie e mai un sorriso tra bocche cucite su ogni segreto che la vita
insegna e tace. Porte spalancate all’alba che sa di preghiera e finestre con
panni distesi a rapire un rimpianto di notti di deliri vissute senza amore. E
il gallo canta la sveglia dell’ultimo minuto ignaro del tradimento per trenta
denari. Ridono i papaveri per tanta dimenticanza mentre esplode un germoglio di
mandorlo appena fiorito.
M’incanto a questa siepe di dipinti di
rara armonia che fiancheggia la pietra e la rende viva di storie e di stagioni.
E la pietra racconta. Si fa memoria e nostalgia. Si fa corona di così tanto
splendore di immagini e colori e follie che hanno il respiro della nostra
anima. E ritrovo in questa antica pietra e nei dipinti, in cui affondo il mio
sguardo avido di bellezza e di sogno, tante descrizioni, nel bene e nel male,
di questa nostra Puglia, magica e amara. Descrizioni, che hanno arricchito il
mio romanzo La via delle vedove di
tante stagioni che si sono succedute nell’arco degli ultimi cento anni, a
ridosso del nuovo millennio.
Ed è qui, dove perdo occhi e cuore,
che ritrovo le parole.
Quelle di Raffaella che salutano, e
presentano le altre voci della serata e invitano il piccolo ma motivato gruppo
di ascoltatori a seguire una storia fatta di tante storie di donne in una
Puglia che attraversa il “secolo breve” (Eric Hobsbawm) senza avere
consapevolezza di sé e delle rapide trasformazioni in atto. E la narrazione
comincia. Raffaella è un concentrato di bravura, un vulcano in eruzione d’amore
e commozione mentre parla del romanzo La
via delle vedove e di sua madre, cioè io, che ne è l’autrice, poi cede la
parola a Cettina Fazio Bonina, presidente dell’Associazione culturale “Porta
d’Oriente”. Questa splendida Donna ha ricevuto il libro solo due giorni prima e
mi sorprende per la sua lettura attenta e commossa. La ritengo eroica e mi
commuovo anch’io nel ricordo appassionato che lei fa della sua infanzia così
simile alla mia, pur essendo lei più giovane di me ed estranea alla cultura
pugliese di quegli anni da me raccontati.
Le infanzie di tutto il mondo, in
fondo, si somigliano per lo stupore di fronte ad ogni più piccola mollichina da
scoprire; il candore di ogni esperienza vissuta con anima bianca e trasparente
come velo di sposa; i giochi di sempre condivisi, tra saltellante gioia e
furiosi litigi, con gli altri bambini; le regole degli adulti da imparare per
conquistare autonomia e libertà. Per prendere il volo. Ma i nostri voli non
andavano lontano. Non superavano la soglia di casa. Grazie, Cettina carissima,
per le tue meravigliose parole dettate dal cuore e filtrate dalla tua mente
ricca e profonda.
Poi, Valeria, la mia insostituibile
Valeria, di cui mi piace pubblicare la “sapiente” Presentazione, che mi ha
inviato dietro mia richiesta. Merita di essere letta da molte più persone di
quelle che l’hanno sicuramente apprezzata nel magico Castello. Rigorosa, ma
quanto illuminante, soprattutto sul versante psico-pedagogico, e con un occhio
particolare ai bambini dall’infanzia negata. Eccola.
“Questo intenso romanzo si apre con un
riquadro sulle rovine e sull’idea della demolizione, ma in realtà si riavvolge
da subito, tondo e curvo come un gesto di amorevole cura, sul tema del tempo,
«gomma miracolosa» (p. 15) che cancella (truccandoli) colpe e misfatti, in un
tentativo di assoluzione che assomiglia (come diremmo oggi), ai filtri Instagram
che usiamo per apparire più giovani, nell’illusione di ritrovare
quell’ingenuità perduta che solo i pochi anni, e non i molti sconti possono
regalare.
Questo è un romanzo che non pretende
più, o soltanto, di incunearsi nella verità, ma che finalmente cioè la vita – non è menzogna, ma
occultamento e l’occultamento è un processo scientifico tagliente come una
lama, profondo come la linea dell’orizzonte, lacerante come forbici infuocate a
tagliare cielo e mare al tramonto.
La domanda che spinge alla fuga la
protagonista, è cruciale: “ma qual è per me la condizione di vita più
soddisfacente?” Una domanda senza risposta, che traccia il senso della nostra
esistenza e ci inchioda alle nostre responsabilità, soprattutto quando questa
si immette nella sua fase finale, mischiandosi alla paura della morte, alla
fatica e alla solitudine. E qui mi ritorna in mente Heidegger, quando affermava
che «l'esserci compreso nella sua estrema possibilità d'essere, è il tempo
stesso e non è nel tempo». In questa estrema possibilità di essere, le
persone si mostrano ciascuna con la propria maschera, che è l’interpretazione personale
della propria storia. Eva ammette infatti che gli altri «sanno di me quello che
fingo di essere e che racconto di me» (p. 34).
Le prime scene sono girate sul
palcoscenico dell’infanzia. Non possiamo essere adulti felici se non siamo
stati bambini felici. O se non siamo stati bambini. «Quanti giochi interrotti,
quante risate paralizzate sul nascere, quanta paura affiorante nei silenzi e
nelle lacrime […] quante esperienze mancate, quanti tumulti del cuore
soffocati, quanti tormenti nascosti tra pensieri che avevano persino paura di
pensare, che avevano imparato a non pensare, che avevano rinunciato a pensare»
(p. 55). Angela De Leo descrive molto bene la pedagogia nera con cui Alice
Miller ha definito le pratiche autoritarie così diffuse in un passato di fatto
abbastanza recente, e le loro conseguenze sullo sviluppo infantile, disperatamente
racchiuse in una frase famosa della psicoanalista polacca: «il modo in cui
siamo stati trattati da piccoli è il modo in cui tratteremo noi stessi per il
resto della vita».
Insieme al tempo, alla vita e ai suoi
prodromi, anche lo spazio rappresenta una interessante linea di lettura di
questo romanzo. Qui lo spazio è il Sud, come area geografica e metafora di un
abitare misero e sofferente, diabolico e maledetto. Mai come in questi giorni è
drammaticamente vero il passaggio che dipinge il Sud di tutto il mondo come
«l’inferno su questa terra: tutti i mali si concentrano in terre, figlie di un
dio dimentico di una umanità che vive, se vive, nell’indigenza, soglia varcata
di malattia, dolore, morte» (p. 67). Di questi non-luoghi – per citare Augè – il
racconto/ricordo di Eva attraversa con lucidità le vicende che segnano il Novecento,
secolo del bambino, i rapporti tra i generi e tra le generazioni, l’educazione
familiare e scolastica.
Il filo conduttore di questo
itinerario è il concetto di margine e di scarto. Qui, inevitabile è il
riferimento ad Ariès, il quale ha dimostrato chiaramente quanto sia stata forte
in passato la convinzione che bisognasse mettere al mondo parecchi bambini per
conservarne solo qualcuno. Come ha bene ricordato Trisciuzzi, questa forma di
rassegnazione ha finito per plasmare la stessa relazione educativa tra genitori
e figli, e in generale tra adulti e minori.
Fino a un recente passato,
l’atteggiamento di indifferenza verso i bambini, esposti a tutta una serie di
malattie e di incidenti mortali, serviva a tenere a freno il sentimento di
tenerezza che naturalmente i cuccioli dell’uomo ispirano, proprio in attesa
della sorte o del destino. Se non morivano fisicamente, i bambini del tempo
morivano psicologicamente e intellettualmente, dispersi nelle maglie di
un’istituzione scolastica che pretendeva di «fare parti uguali tra disuguali»,
come ha denunciato Don Milani. Parafrasando il bel libro di Edith Wharton, gli
anni Settanta rappresentarono l’età (della perdita) dell’innocenza, e anche della
perdita della ragione, dell’identità e dell’appartenenza, perché gli anni di
piombo riuscirono davvero a crivellare il sé individuale e collettivo, e ciò
che ne seguì fu che «nessuno seppe più chi fosse veramente» (p. 109).
La rivoluzione sessantottina plasmò i
saperi, i poteri, i vizi e gli amori, più o meno dappertutto, tranne che nella via delle vedove e al mare, dove in
effetti «il tempo sembrava essersi fermato su quelle vesti scure e su quei
volti in dispetto con la vita» (p. 111). Vesti e volti di donne forti e fragili
nello stesso tempo, rassegnate e testarde, in grado di tessere pensieri
raffinati sulla trama di una incolpevole ignoranza.
Come zia Vienna, che addirittura fa
del frammento di Eraclito «il carattere dell’uomo è il suo demone», l’essenza
della condizione umana e del suo destino. Del resto la vita degli antenati di
Eva, così priva di amore eppure piena di figli (una reale contraddizione in
termini per noi) rappresenta la conferma dura e cruda di quanto sosteneva
Hillmann sempre a proposito del carattere, che proprio nell’invecchiamento
trova la sua forma più estrema e pura di disvelamento. «Il carattere influisce
sul nostro modo di dare e di ricevere, sui nostri amori e sui nostri figli.
Torna a casa con noi la sera e può tenerci svegli a lungo, la notte».
Questo è accaduto a Eva, che in una notte di girandole tra vita e morte, in una danza incessante tra vivi e morti ha finalmente ritrovato il significato della suo essere nel mondo e del suo romanzo familiare (e criminale). Se ciascuno di noi è Eva, dopo avere letto il libro non possiamo che restare svegli tutta la notte per ottenere qualcosa, e penso alla condizione femminile e alla questione meridionale. Se questo è ciò che vogliamo, e se ciò che vogliamo è giusto, destiamoci e vegliamo insieme, la pioggia ci aiuterà (p. 228)”.
Valeria Rossini
I titoli accademici, le prestigiose
professioni e i tanti incarichi professionali e culturali, ricoperti dalle due
straordinarie relatrici qui non servono: non aggiungono nulla alla loro bravura
e unicità. Volendo, si possono recuperare andando a rileggere la locandina. Per
me sono due persone che mi porto nel cuore: Cettina è un’amica, davvero
impagabile per tante sue doti di grande cultura e umanità; Valeria è la “mia
alunna” di passate stagioni, ma sempre presente ai miei giorni, con tanta amore
e tanta poesia (scrive bellissimi versi anche lei, ma ora pubblica solo puntuali
saggi di Pedagogia!).
Ogni intervento, in verità, ha avuto -
durante - il silenzio, attento e commosso, del pubblico empaticamente
coinvolto, con gli applausi che - a conclusione - sono esplosi coralmente e
sentitamente. In una atmosfera rarefatta e sognante. Davvero abbiamo vissuto
insieme un sogno. Da cui non riesco a destarmi… una mano, per favore! Anche per
poter essere presente ai prossimi incontri...
E che la Bellezza, l’Incanto, la Poesia trionfino sempre!
Grazie, dunque, al pubblico, non numeroso ma sensibile e qualificato.
Un grazie particolare ai Maestri Pittori: Luigi Basile, Cataldo Mastrorilli, Enzo Morelli per averci fatto respirare Armonia, Eleganza di forme e contenuti, Sinfonia di Colori, Raffinatezza.
Grazie, dunque, al pubblico, non numeroso ma sensibile e qualificato.
Un grazie particolare ai Maestri Pittori: Luigi Basile, Cataldo Mastrorilli, Enzo Morelli per averci fatto respirare Armonia, Eleganza di forme e contenuti, Sinfonia di Colori, Raffinatezza.
E un grazie di vero cuore al marito di Cettina Fazio Bonina (e gli chiedo scusa perché non ho memorizzato il suo nome e cognome, ma colmerò sicuramente questa lacuna!), che ha voluto rendere omaggio alla “appassionante serata”, scattando delle foto meravigliose per eternare la nostra femminilità, resa ancora più bella dalla gioia e dalla commozione che illuminava i nostri volti. Alla prossima...
Angela De Leo
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