lunedì 16 luglio 2018

Presentazione de La via delle vedove di Angela De Leo

Presentazione de La via delle vedove di Angela De Leo
Sannicandro, 10 luglio 2018

Castello Normanno-Svevo di Sannicandro (Bari)
Sera del 10 luglio

La pietra mi vince e mi esalta nel lungo salone di archi e volute come insolite nuvole e ali e onde materiche che salgono al cielo e vibrano e cantano la Bellezza che qui fremita di paesaggi murgiani. L’ulivo ha un fruscio di foglie, accarezzate dal vento in una svettante esaltazione d’argento e di verde a smemorarsi sul mare. E capelli di donne come spighe dorate danzano e spighe come capelli s’intrecciano al primo sole di luglio e drappi azzurri, trasparenti e leggeri, fluttuano al mito di una Primavera che cede il passo a Venere in una corsa di giorni da vivere tra la frenesia delle cicale e un “sogno di mezza estate”. E rossi tramonti di camini accesi raccontano storie antiche di donne e bambini, di fatica e bestemmie e mai un sorriso tra bocche cucite su ogni segreto che la vita insegna e tace. Porte spalancate all’alba che sa di preghiera e finestre con panni distesi a rapire un rimpianto di notti di deliri vissute senza amore. E il gallo canta la sveglia dell’ultimo minuto ignaro del tradimento per trenta denari. Ridono i papaveri per tanta dimenticanza mentre esplode un germoglio di mandorlo appena fiorito.
M’incanto a questa siepe di dipinti di rara armonia che fiancheggia la pietra e la rende viva di storie e di stagioni. E la pietra racconta. Si fa memoria e nostalgia. Si fa corona di così tanto splendore di immagini e colori e follie che hanno il respiro della nostra anima. E ritrovo in questa antica pietra e nei dipinti, in cui affondo il mio sguardo avido di bellezza e di sogno, tante descrizioni, nel bene e nel male, di questa nostra Puglia, magica e amara. Descrizioni, che hanno arricchito il mio romanzo La via delle vedove di tante stagioni che si sono succedute nell’arco degli ultimi cento anni, a ridosso del nuovo millennio.
Ed è qui, dove perdo occhi e cuore, che ritrovo le parole.
Quelle di Raffaella che salutano, e presentano le altre voci della serata e invitano il piccolo ma motivato gruppo di ascoltatori a seguire una storia fatta di tante storie di donne in una Puglia che attraversa il “secolo breve” (Eric Hobsbawm) senza avere consapevolezza di sé e delle rapide trasformazioni in atto. E la narrazione comincia. Raffaella è un concentrato di bravura, un vulcano in eruzione d’amore e commozione mentre parla del romanzo La via delle vedove e di sua madre, cioè io, che ne è l’autrice, poi cede la parola a Cettina Fazio Bonina, presidente dell’Associazione culturale “Porta d’Oriente”. Questa splendida Donna ha ricevuto il libro solo due giorni prima e mi sorprende per la sua lettura attenta e commossa. La ritengo eroica e mi commuovo anch’io nel ricordo appassionato che lei fa della sua infanzia così simile alla mia, pur essendo lei più giovane di me ed estranea alla cultura pugliese di quegli anni da me raccontati.
Le infanzie di tutto il mondo, in fondo, si somigliano per lo stupore di fronte ad ogni più piccola mollichina da scoprire; il candore di ogni esperienza vissuta con anima bianca e trasparente come velo di sposa; i giochi di sempre condivisi, tra saltellante gioia e furiosi litigi, con gli altri bambini; le regole degli adulti da imparare per conquistare autonomia e libertà. Per prendere il volo. Ma i nostri voli non andavano lontano. Non superavano la soglia di casa. Grazie, Cettina carissima, per le tue meravigliose parole dettate dal cuore e filtrate dalla tua mente ricca e profonda.
Poi, Valeria, la mia insostituibile Valeria, di cui mi piace pubblicare la “sapiente” Presentazione, che mi ha inviato dietro mia richiesta. Merita di essere letta da molte più persone di quelle che l’hanno sicuramente apprezzata nel magico Castello. Rigorosa, ma quanto illuminante, soprattutto sul versante psico-pedagogico, e con un occhio particolare ai bambini dall’infanzia negata. Eccola.
“Questo intenso romanzo si apre con un riquadro sulle rovine e sull’idea della demolizione, ma in realtà si riavvolge da subito, tondo e curvo come un gesto di amorevole cura, sul tema del tempo, «gomma miracolosa» (p. 15) che cancella (truccandoli) colpe e misfatti, in un tentativo di assoluzione che assomiglia (come diremmo oggi), ai filtri Instagram che usiamo per apparire più giovani, nell’illusione di ritrovare quell’ingenuità perduta che solo i pochi anni, e non i molti sconti possono regalare.
Questo è un romanzo che non pretende più, o soltanto, di incunearsi nella verità, ma che finalmente   cioè la vita – non è menzogna, ma occultamento e l’occultamento è un processo scientifico tagliente come una lama, profondo come la linea dell’orizzonte, lacerante come forbici infuocate a tagliare cielo e mare al tramonto.
La domanda che spinge alla fuga la protagonista, è cruciale: “ma qual è per me la condizione di vita più soddisfacente?” Una domanda senza risposta, che traccia il senso della nostra esistenza e ci inchioda alle nostre responsabilità, soprattutto quando questa si immette nella sua fase finale, mischiandosi alla paura della morte, alla fatica e alla solitudine. E qui mi ritorna in mente Heidegger, quando affermava che «l'esserci compreso nella sua estrema possibilità d'essere, è il tempo stesso e non è nel tempo». In questa estrema possibilità di essere, le persone si mostrano ciascuna con la propria maschera, che è l’interpretazione personale della propria storia. Eva ammette infatti che gli altri «sanno di me quello che fingo di essere e che racconto di me» (p. 34).
Le prime scene sono girate sul palcoscenico dell’infanzia. Non possiamo essere adulti felici se non siamo stati bambini felici. O se non siamo stati bambini. «Quanti giochi interrotti, quante risate paralizzate sul nascere, quanta paura affiorante nei silenzi e nelle lacrime […] quante esperienze mancate, quanti tumulti del cuore soffocati, quanti tormenti nascosti tra pensieri che avevano persino paura di pensare, che avevano imparato a non pensare, che avevano rinunciato a pensare» (p. 55). Angela De Leo descrive molto bene la pedagogia nera con cui Alice Miller ha definito le pratiche autoritarie così diffuse in un passato di fatto abbastanza recente, e le loro conseguenze sullo sviluppo infantile, disperatamente racchiuse in una frase famosa della psicoanalista polacca: «il modo in cui siamo stati trattati da piccoli è il modo in cui tratteremo noi stessi per il resto della vita».
Insieme al tempo, alla vita e ai suoi prodromi, anche lo spazio rappresenta una interessante linea di lettura di questo romanzo. Qui lo spazio è il Sud, come area geografica e metafora di un abitare misero e sofferente, diabolico e maledetto. Mai come in questi giorni è drammaticamente vero il passaggio che dipinge il Sud di tutto il mondo come «l’inferno su questa terra: tutti i mali si concentrano in terre, figlie di un dio dimentico di una umanità che vive, se vive, nell’indigenza, soglia varcata di malattia, dolore, morte» (p. 67). Di questi non-luoghi – per citare Augè – il racconto/ricordo di Eva attraversa con lucidità le vicende che segnano il Novecento, secolo del bambino, i rapporti tra i generi e tra le generazioni, l’educazione familiare e scolastica.
Il filo conduttore di questo itinerario è il concetto di margine e di scarto. Qui, inevitabile è il riferimento ad Ariès, il quale ha dimostrato chiaramente quanto sia stata forte in passato la convinzione che bisognasse mettere al mondo parecchi bambini per conservarne solo qualcuno. Come ha bene ricordato Trisciuzzi, questa forma di rassegnazione ha finito per plasmare la stessa relazione educativa tra genitori e figli, e in generale tra adulti e minori.
Fino a un recente passato, l’atteggiamento di indifferenza verso i bambini, esposti a tutta una serie di malattie e di incidenti mortali, serviva a tenere a freno il sentimento di tenerezza che naturalmente i cuccioli dell’uomo ispirano, proprio in attesa della sorte o del destino. Se non morivano fisicamente, i bambini del tempo morivano psicologicamente e intellettualmente, dispersi nelle maglie di un’istituzione scolastica che pretendeva di «fare parti uguali tra disuguali», come ha denunciato Don Milani. Parafrasando il bel libro di Edith Wharton, gli anni Settanta rappresentarono l’età (della perdita) dell’innocenza, e anche della perdita della ragione, dell’identità e dell’appartenenza, perché gli anni di piombo riuscirono davvero a crivellare il sé individuale e collettivo, e ciò che ne seguì fu che «nessuno seppe più chi fosse veramente» (p. 109).
La rivoluzione sessantottina plasmò i saperi, i poteri, i vizi e gli amori, più o meno dappertutto, tranne che nella via delle vedove e al mare, dove in effetti «il tempo sembrava essersi fermato su quelle vesti scure e su quei volti in dispetto con la vita» (p. 111). Vesti e volti di donne forti e fragili nello stesso tempo, rassegnate e testarde, in grado di tessere pensieri raffinati sulla trama di una incolpevole ignoranza.
Come zia Vienna, che addirittura fa del frammento di Eraclito «il carattere dell’uomo è il suo demone», l’essenza della condizione umana e del suo destino. Del resto la vita degli antenati di Eva, così priva di amore eppure piena di figli (una reale contraddizione in termini per noi) rappresenta la conferma dura e cruda di quanto sosteneva Hillmann sempre a proposito del carattere, che proprio nell’invecchiamento trova la sua forma più estrema e pura di disvelamento. «Il carattere influisce sul nostro modo di dare e di ricevere, sui nostri amori e sui nostri figli. Torna a casa con noi la sera e può tenerci svegli a lungo, la notte».
Questo è accaduto a Eva, che in una notte di girandole tra vita e morte, in una danza incessante tra vivi e morti ha finalmente ritrovato il significato della suo essere nel mondo e del suo romanzo familiare (e criminale). Se ciascuno di noi è Eva, dopo avere letto il libro non possiamo che restare svegli tutta la notte per ottenere qualcosa, e penso alla condizione femminile e alla questione meridionale. Se questo è ciò che vogliamo, e se ciò che vogliamo è giusto, destiamoci e vegliamo insieme, la pioggia ci aiuterà (p. 228)”.
Valeria Rossini



I titoli accademici, le prestigiose professioni e i tanti incarichi professionali e culturali, ricoperti dalle due straordinarie relatrici qui non servono: non aggiungono nulla alla loro bravura e unicità. Volendo, si possono recuperare andando a rileggere la locandina. Per me sono due persone che mi porto nel cuore: Cettina è un’amica, davvero impagabile per tante sue doti di grande cultura e umanità; Valeria è la “mia alunna” di passate stagioni, ma sempre presente ai miei giorni, con tanta amore e tanta poesia (scrive bellissimi versi anche lei, ma ora pubblica solo puntuali saggi di Pedagogia!).
Ogni intervento, in verità, ha avuto - durante - il silenzio, attento e commosso, del pubblico empaticamente coinvolto, con gli applausi che - a conclusione - sono esplosi coralmente e sentitamente. In una atmosfera rarefatta e sognante. Davvero abbiamo vissuto insieme un sogno. Da cui non riesco a destarmi… una mano, per favore! Anche per poter essere presente ai prossimi incontri...
E che la Bellezza, l’Incanto, la Poesia trionfino sempre!
Grazie, dunque, al pubblico, non numeroso ma sensibile e qualificato.
Un grazie particolare ai Maestri Pittori: Luigi Basile, Cataldo Mastrorilli, Enzo Morelli per averci fatto respirare Armonia, Eleganza di forme e contenuti, Sinfonia di Colori, Raffinatezza.

E un grazie di vero cuore al marito di Cettina Fazio Bonina (e gli chiedo scusa perché non ho memorizzato il suo nome e cognome, ma colmerò sicuramente questa lacuna!), che ha voluto rendere omaggio alla “appassionante serata”, scattando delle foto meravigliose per eternare la nostra femminilità, resa ancora più bella dalla gioia e dalla commozione che illuminava i nostri volti. Alla prossima... 

Angela De Leo

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