L'ultimo anelito assiste informe/ al suo principio che è fine./ Chiassosa
come il mare spettinato dal vento/ come il tumulto di un cuore/ che ripudia
l'inverno/ come un calcio al vuoto/ che inscatola luoghi e non luoghi./ Fiorire
cui sempre la sera assiste./ Come il morire/ Si gioca al risparmio arginando i
prati verdi del cielo./ Morsi di fiele a svezzare il mare/ appena nato in culle
di miele./ Sul fondo di sguardi prosciugati/ strizzo ciottoli cerei di vita./
In punta di piedi varco la soglia/ di una parola che non oso./ Per me è ancora,
nel varcarla, sfiorare l'abisso. Un abbraccio, Angela!
Mia carissima Mariateresa, è una poesia che mi lascia senza parole, tanto
s’inabissa nella mia anima che in questi giorni va in cerca di luce. Spero di
trovare le parole giuste. Solo una raccomandazione che vale per tutti voi che
mi inviate poesie: per favore, mettete bene in evidenza la scansione dei versi.
Sapete benissimo quanto importante essa sia per una possibile giusta
interpretazione: una parola che apre il verso ha un significato diverso dalla
stessa parola se quest’ultima lo chiude. Gli spazi a volte risultano
fondamentali per dare profondità, ampiezza, libertà e volo ad una parola. Paul
Èluard (l’accento è acuto e non grave, ma non so utilizzare a dovere tutti i
simboli grafici, pardon!) scrive dei “margini bianchi” che parlano più di ogni
altro silenzio… E io prima di azzardare un commento ho bisogno di tutte queste
“garanzie” (ricordare le premesse fondamentali: la “nominazione, la
“derivazione” o “ricerca-azione” o indagine, la
“significazione”, e quanto detto in questa sede). Mi ci provo, nella
speranza di aver suddiviso bene i versi:
Già nel titolo la “fine” diventa un fiore che germoglia e si schiude su sé
stesso. Anche l’anelito, che è il respiro affannoso e incerto, tremulo,
insicuro e stentato del moribondo, “assiste”, come visione di un film, senza alcuna
definizione di sé, al suo inizio che contiene in sé già la fine. Ogni nascita,
in un essere mortale, si risolve in un conto alla rovescia verso l’epilogo
(banalmente, nasciamo per morire). Segue un lungo verso, che ritengo davvero
splendido nella sua insolita asserzione: la fine è “chiassosa” come: “il mare
spettinato dal vento” (e mi riporta a Dylan Thomas: nessuna onda può
pettinare il mare, ma il vento può spettinare le sue onde!). Similitudine
che è preludio ad altre originali e anaforiche sue consorelle: “come il tumulto
del cuore che ripudia l’inverno” (l’inverno metafora di morte, gelo, silenzio,
immobilità); “come un calcio al vuoto che inscatola luoghi e non luoghi” (in
continuità dei non luoghi di cui si è parlato in precedenza). E gli altri due
versi ne sono la conferma: “Fiorire cui sempre la sera assiste./ Come il
morire”: inizio e fine sempre. Il verso seguente, poi, rivela una punta di
scetticismo nei riguardi dell’animo umano che “gioca al risparmio” persino
“arginando i prati verdi del cielo”: e gli “argini” al cielo, che pure dovrebbe
avere “prati verdi” sconfinati, indicano la nostra umana imperfezione, così
chiusi come siamo nelle nostre esperienze terrene, fatte di delusioni e
tormenti tanto da avvelenare (e il verbo “svezzare” è un valore aggiunto) tutto
l’azzurro e la vastità del mare, “appena nato in culle di miele”, in cui lo
stesso cielo si specchia capovolto: due versi superbi per costrutto interno e
per le coraggiose metafore a mettere a nudo la nostra incapacità di conservare il
“miele” dell’inizio della nostra alba (le culle) per trasformarlo via via nel
“fiele” di ogni risentimento, di ogni aspettativa delusa. Il sogno in frantumi.
Nonostante i doni iniziali. Troppo crudele l’inciampo sui “lividi ciottoli”
della vita. Eppure all’inizio fu il Verbum, fu la Parola a connotarci come
esseri umani, dotati di pensiero “sapiente” (homo sapiens sapiens), ma
pronunciarla significa ancora per l’autrice avvertire il timore di “osare
varcare” la “soglia” del coraggio per la paura di “sfiorare l’abisso”. Tanto è
sacra per lei la Parola. Non a caso ci rende simili agli dèi…
E per oggi mi fermo qui. Non ho promesso di imparare ad essere più breve?
Ci sto provando. E anche le altre poesie inviatemi o catturate col mio Retino
via via troveranno spazio sul mio blog. Serena domenica “di sereno” a tutti. A
martedì con nuove parole e nuovi commenti. Ciao. Angela
Angela ancora tanta commozione...! Il mio cuore non regge! Grazie, grazie, grazie!
RispondiEliminaGrazie, Angela! Straordinario questo atteggiamento dei poeti di fronte alla parola. Essi sanno bene che la parola è contemporaneamente il tramite per il salto al sovraumano e il fine di una precisa e connotata esperienza poetica, il suo hic et nunc.
RispondiEliminaAllo stesso modo essa è significante di realtà ma significato di contemplazione poetica. Questa ambivalenza è la croce e la delizia del poeta.
Grazie sempre! Buona domenica!
A sintesi eccelsa del mio precedente commento"... Dalla tua testa dalla tua carne
RispondiEliminadal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole cariche di te
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole, amica.
Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole
erano uomini." (Nazim Hikmet)