E riprendo, come promesso, con alcuni versi sull’Anima e la Speranza di Giovanni Gastel e Gjeke Marinaj. Venerdì, in una diretta un po’ sfortunata, per problemi di connessione subentrati dopo poche parole di inizio e ripresa dopo cinque minuti (una eternità a confermarmi che il tempo è una misura relativa che, se vissuta a livello psicologico, dilata o accorcia il tempo reale), ho cercato in qualche modo di calmare l’ansia, inevitabile per una come me che ha bisogno di tempi distesi e di atmosfere serene altrimenti va in tilt,e ho commentato in qualche modo una poesia di Gastel e stralci di due poesie di Marinaj senza poter chiarire le caratteristiche molto diverse della poesia dell’uno e dell’altro poeta pur nella loro innegabile bellezza e profondità. Cerco di porre rimedio oggi: Giovanni Gastel non mette mai i titoli alle sue poesie; Gieke Marinaj sempre e a caratteri cubitali; Gastel conclude sempre con il luogo e la data di quando la Musa è andato a visitarlo, Marinaj parla dei luoghi e dei tempi all’interno dei suoi componimenti poetici: luogo e data spesso fanno parte della narrazione. Per Gastel si tratta di un continuum di emozioni che culminano ad un certo punto nella necessità di tradursi in parole; per Marinaj sono momenti della vita che occorre raccontare per condividere con gli altri le gioie e i dolori vissuti. Entrambi amano la narrazione, lo stile discorsivo. In Giovanni le poesie sono quasi sempre brevi, essenziali, malinconiche per la nostalgia della purezza dell’infanzia e per l’assenza fisica di tante persone amate: spesso si passa dal monologo al dialogo, dal dubbio alla riflessione, con versi quasi sempre brevi o brevissimi. In Gjeke i versi sono perlopiù lunghissimi, a volte amari e cupi, altre volte luminosi e tenerissimi. In entrambi il dolore nostalgico per un impossibile ritorno al passato. Metafore ardite in entrambi. Molto più ricorrenti ed effusive in Gjeke. Entrambi fuori dagli schemi. Insoliti. Ironici e malinconici. Entrambi geniali. Giovanni alla ricerca continua di Dio. Gjeke alla ricerca continua dell’umanità nell’uomo.
E in queste poesie ogni lettore può trovarne conferma:
“Se come neve potesse
la pace del cuore
scendere su di noi.
Se il vuoto accogliesse
il nostro dolore
le nostre assenze
e restituisse presenze
e gioia…”
Così mi hai detto
appoggiata alla notte.
E io non ho saputo rispondere
ma ho pregato lo spirito del dolore
di alleggerire il nostro cammino:
Come angeli caduti
vaghiamo nel mondo
aspettando il Dio che ritornerà
a placare questa terribile solitudine
dell’anima
Basterà una sua carezza a dare
senso ad ogni cosa. (Milano 2020)
Anche questa poesia comincia con un “se”, ma più che
dubitativo è un “se” ottativo che la compagna di vita, “appoggiata alla notte”
(verso meraviglioso che ci riporta alla notte del cuore a cui la donna sembra
appoggiarsi per trovare sostegno e conforto al suo desiderio di venirne fuori,
di superare insieme il buio), interrogandosi, cerca di comunicare al nostro
poeta quel suo desiderio in un tentativo di dialogo e di riflessione in due. E
subito ecco una similitudine dolcissima: “come neve”, che in questo caso è
morbida, silenziosa, leggera perché è rivolta alla “pace del cuore”. E ancora
un altro “se” anaforico, che accentua il ritmo incalzante della preghiera
accorata affinché ogni vuoto possa riempirsi di “dolore e di assenze” per
restituire "presenze e gioia". Il poeta non sa rispondere, oppresso
egli stesso da quel buio e da quel dolore, ma innalza una preghiera proprio
allo “spirito del dolore” per rendere meno greve “il nostro cammino” perché
“come angeli caduti/vaghiamo nel mondo”: visione molto presente
nell’immaginario artistico-poetico di Giovanni Gastel che ha fotografato una
intera serie, davvero meravigliosa, di Angeli caduti sulla terra per punizione
divina e costretti a vagare in molteplici situazioni di ribellione o di paura,
dispersione di sé o anche disperazione in quanto sono senza la speranza del
perdono di Dio. E senza Dio è impossibile “placare la solitudine dell’anima”.
gli ultimi due versi sono di una dolcezza estrema che è Certezza più che
Speranza: “Basterà una sua carezza a dare/ senso ad ogni cosa”. E qui il poeta
abbina l’anima, deserta di Dio, ad una “terribile solitudine”.
Non la filosofia
o l’esempio
o i lunghi discorsi.
Sono le quasi invisibili cose:
Il leggero tremore delle mani
la linea discendente delle labbra
la curva pura del dorso
la ciocca dei capelli che ricade sulla fronte.
Questo mi manca
e taglia l’anima come una lama
in questa solitudine che sale
inarrestabile come una marea. (Milano 2017)
Stesso tema scopriamo nei seguenti versi che cominciano con
una negazione perentoria per risolversi in un’affermazione di tutto quello che
al poeta manca e che darebbe senso alla sua vita: “le quasi invisibili cose”.
Alla numerazione precedente di tutto quello che non serve per vivere bene segue
la numerazione di quanto all’autore manca: il lieve tremore delle mani, la
linea discendente delle labbra tristi, la curva levigata e perfetta del dorso,
“la ciocca dei capelli che ricade sulla fronte”. È l’assenza di tutto questo
che “taglia l’anima come una lama” e la restituisce a una “inarrestabile
solitudine”, come appunto avviene con l’alta marea. Questi ultimi versi ci
rivelano l’arcano che io mi prefiguro come uno sguardo in andata o di ritorno
per “vedere” tutto quanto elencato e di cui il poeta avverte la mancanza. Cioè
la presenza dell’altro che è in grado di osservare le “quasi invisibili cose” e
di capire e comprenderle. Sia che si tratti del poeta nei riguardi degli altri,
sia che si tratti degli altri nei riguardi del poeta stesso. Mancano le persone
care, i parenti, gli amici o quanti abbiano la sensibilità di scoprire
sentimenti ed emozioni nel linguaggio del corpo, di tutto quello che si prova e
non si ha magari il coraggio di dire. Per pudore, per timore, per un disagio
esistenziale o sociale, per dissonanza culturale e così via. L’anima è qui
abbinata soprattutto alla solitudine e alla mancanza di acutezza (intuitu
personae) empatica e di sensibilità emotiva di tante, troppe persone. In
realtà, Giovanni Gastel è un affascinante, generoso eroe del nostro tempo.
Esempio di raffinatezza mista a grande umiltà e profondo altruismo. Ma anche di
grande sofferenza per un senso di appartenenza/non appartenenza alla sua nobile
famiglia e al suo mondo dorato e al mondo esterno, fatto di bellezza ma anche
di fango, in cui è chiamato (vocato) a contaminarsi per sopravvivere. Per
fortuna la sua vocazione poetica è anche per lui salvifica.
Gjeke Marinaj
SENZATETTO AMERICANO
Come anima dispersa cammini,
oltre i vitrei sguardi
dei manichini ben vestiti
nelle vetrine dei negozi,
dietro i vetri con le membra al caldo
in questa decantata America.
Cammini con le piante vescicose
lungo le assi marce del mito
le tue lacrime come schegge in cui inciampi.
La tua sentenza non porta firma,
ma sento l’eco della tua tristezza
anche qui, nel vuoto scavato
del mio cuore pieno di nostalgia.
In questa amara poesia, l’anima è quella “dispersa” del
senzatetto che va per le ampie strade di un’America opulenta e stracciona,
piena di mille contraddizioni. Il pover’uomo cammina guardando le vetrine con i
manichini ben vestiti e confortati dal calore di un luogo protetto, mentre a
lui è toccato in sorte il freddo del gelido inverno. Il poeta coglie il
contrasto tra il povero clochard e i manichini simili a uomini
eleganti e al riparo dietro le vetrine. E biasima il mito americano che si
regge su “assi marce” su cui il senzatetto poggia i suoi piedi scalzi e pieni
di vescicole doloranti, mentre inciampa nelle schegge taglienti e acuminate
delle sue stesse lacrime. Quello che sei non è un abito firmato, pare dica il
poeta che accoglie nel profondo del suo cuore tutta la tristezza del povero vecchio,
mentre prova tanta nostalgia per la sua terra lontana più povera di beni
materiali sicuramente, ma ricca di quell’umanità che ci fa sperare in un futuro
migliore. E poi ecco una poesia colma ancora di tanta tanta tenera nostalgia.
A MIA MADRE
La nostalgia di te
Dalla nostalgia di te sono devastato.
Rimpianto vasto come il mare
Sono gabbiano con le ali spezzate
Se non odi che tuo figlio è morto
cercami sulla soglia della prima alba
Ma se a un flauto io dovessi somigliare
allora per amor mio, madre - anima mia,
abbandona meravigliose visioni e lacrime febbrili
Perché ultimamente sono angosciato anche nei miei sogni
Alla ricerca di te, perdo la strada in qualche baratro
sconosciuto
Nel mio straziante volo grido il tuo nome
E l’incubo mi lascia attraversando una finestra rotta.
Di Gjeke Marinaj ecco una poesia intensa, straziante,
evocativa, dedicata alla madre lontana, anima stessa del poeta (“anima mia”).
Ed è subito “nostalgia di te”, ricordo dolcissimo e dolore acuto, sia pure
velato di malinconia: νόστος e άλγος = dolore del viaggio o
viaggio del dolore o, meglio, il ritorno del dolore o dolore che ritorna. Il
ricordo del passato che non può tornare si fa cocente nostalgia, tristezza,
rimpianto. Ma il “rimpianto” è meno crudele e non è neppure un dolore: è
dispiacere che perdura nel tempo per quanto non sia stato possibile realizzare
in passato. Infatti, per Gjeke la nostalgia è “devastante”, il rimpianto è
“vasto come il mare”, si slarga e si stempera nella vastità del mare, ma non
ferisce e non fa sanguinare come la nostalgia. (Almeno secondo me. Mi
piacerebbe incontrare il vostro pensiero). Il poeta, pertanto, si paragona al
“gabbiano”, uccello di mare per eccellenza che ci affascina col suo volo, ma
qui ha “ali spezzate”. E subito il suo pensiero corre alla possibilità di non
poterla più rivedere, sua madre, a causa magari non della sua, ma della propria
morte: “Se non odi che tuo figlio è morto”: ecco, quel “non” rivela quasi il
rifiuto da parte del poeta che la sua morte possa realmente accadere. Se non ti
giunge voce della mia morte, “cercami sulla soglia della prima alba”: verso
stupendo, in cui avvertiamo l’invocazione accorata “cercami” quando l’alba è
appena un filo di luce che già vince il buio e il dolore e si fa chiarore e
speranza appena “sulla soglia”. E ricompare ancora la soglia, bellissima
parola, di cui abbiamo già parlato. “Ma se a un flauto io dovessi somigliare”:
e subito riprende con l’avversativa “ma”, quasi a presagire e temere un destino
avverso, e dovesse giungere a lei quasi suono di flauto (e mi sovviene che nel
“Flauto magico” di Mozart il dolcissimo quanto dolente e nostalgico suono si
vena di significati anche negativi e misteriosi, a cui Gjeke Marinaj potrebbe
aver fatto riferimento), allora la prega di non abbandonarsi né a “meravigliose
visioni” né a “lacrime febbrili”: di non lasciarsi andare né alla gioia del suo
ritorno né al pianto convulso e irrefrenabile della sua perdita. E di farlo per
“amor suo” (“Se mi ami non piangere” è l’invocazione/esortazione/consolazione
di Sant’Agostino), “madre - anima mia”: tenerissimo vocativo già da me
evidenziato come totale unitaria identità di “madre/figlio”. Gli ultimi quattro
versi sono difficilissimi da leggere senza perderci il cuore perché sono rivelatori
della segreta e cogente motivazione del poeta a scrivere questa poesia alla
madre con infinita nostalgia e straziato/straziante dolore: il ricorrente
incubo notturno di cercarla fino allo spasimo ma di essere ostacolato
nell’arduo ritorno da un dirupo “sconosciuto”, imprevisto, nel quale precipita
gridando il suo nome e svegliandosi mentre attraversa “una finestra rotta” e
dunque pericolosamente tagliente. Che lascia ferite e pericolo (presentimento?)
di morte. Ma per sua e nostra fortuna Gjeke è ancora vivo ed è al culmine della
sua luminosa affermazione come poeta e saggista, docente universitario, mentre
la sua teoria filosofica, socio-antropologica e spirituale sta affascinando il
mondo intero...
A martedì 26 gen. h. 19. Ciao
Angela cara, quanti temi, ardenti si è toccato in queste righe... Così intense da richiedere un Tempo di riflessione. Il Tempo sacro di una naturale metabolizzazione, per riuscire a staccare i piedi da terra e guardare le cose dall'alto. A presto! E sempre grazie 😘💓
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