mercoledì 6 gennaio 2021

La magia delle FINESTRE: 6 gennaio 2021

Nei ricordi di mio nonno, quella verità che gli aveva attraversato la pelle e il sangue, trafitto il cuore "ma nel cuore/ nessuna croce manca// È il mio cuore/ il paese più straziato" recita ora il poeta solo per me perché anch’io ricordo il suo racconto, che celava, in un sorriso tenero e pacato e nel vortice di un Cielo di neve di quel 1917, lo strazio per non aver potuto afferrare i riccioli dorati delle sue bimbe falciate, in appena due giorni, da una pertosse assassina.
Ma la cronaca di quei giorni ignorò del tutto il cuore straziato di mio nonno. Ignorò il soldato che scappò sotto quella neve perché era a due passi da casa e venne fucilato come disertore ed aveva solo diciotto anni (uno dei tanti ragazzi del ’99, mandati a morire come capretti, sottratti ai campi e alla casa, e del tutto ignari del significato stesso di Guerra, di esercito, di nemico da ammazzare), e gli era rimasto negli occhi uno stupore senza nome e senza preghiera. "Cosa ho fatto di male lungo il sentiero che mi stava solo riportando a casa mia?", ebbe appena il tempo di dire rivolto al Cielo che era tenero di piume e avaro di pietà. Certo, sembravano fiabe quei racconti interminabili di mio nonno, scampoli di verità di quei fatti lontani e ancora vivi nella sua anima benché ascoltati da noi nipoti col lo stupore di bambini ignari della cattiveria del mondo. Protetti dal cuore di nostro nonno, che ogni sera accendeva solo per noi tutte le stelle perché potessimo imparare a sognare per superare la paura e il disincanto, dato che prima o poi la vita ci avrebbe ingoiati nei buchi neri delle sue contraddizioni e avremmo dovuto fare i conti con la violenza, i lutti, il pianto...
E oggi sempre più spesso io mi rifugio in quelle sere sotto le stelle per ricordare il suo raccontarci le verità vere dei giorni passati e di quelli presenti e futuri. Sì, ora sempre più ho bisogno di quelle antiche certezze per ritrovarle ancora intatte e non avere più paura del presente così devastante e del futuro così precario e incerto per l'umanità intera. Devo partire da quelle lontane parole, le uniche che avessero per noi profumo di verità... Mia nonna sgranava gli occhi di bambina e s'accontentava di ascoltare il suo uomo e di scoprire il piccolo mondo che palpitava di vita appena fuori dalla sua casa. Lei sapeva accontentarsi. Era semplice e viveva di cose semplici. Non sapeva leggere né scrivere, come la maggior parte delle donne del suo tempo. Ebbe lunghi dolori di figli perduti alle sue braccia, confidando nel buon Dio che donava e toglieva, secondo il suo “ricamo”, di cui noi vedevamo solo il rovescio sotto la volta del Cielo, e lunghe risate a lenire quel dolore che nessun cronista avrebbe mai raccontato o racconterebbe mai. Era un mondo semplice e quasi piatto, il suo, che neppure un semplice e onesto cantastorie avrebbe mai acceso d'amore. Mio nonno sì, aveva fatto palpitare e vivere quel loro mondo di sacrifici, silenziose rinunce, quotidiana preghiera e lo aveva acceso di gioia e di memoria, facendo rivivere il passato e prevedendo il futuro, che è solo il “passato capovolto” per chi lo sa inventare...
Le parole dei vecchi, dunque, sono le sole parole vere di cui possiamo fidarci? Le uniche in cui credere? Purtroppo, no. Non hanno filtri i vecchi, né velleità di apparire. Vogliono solo consegnare ai nipoti la tradizione ricevuta dai racconti dei loro nonni, forse per fermare il tempo, prima che scappi via e li lasci deserti di memoria, svuotati di ricordi e di parole perse nel tempo, di voci spente nella voce del vento.
Nelle loro parole, la rinnovata identità di noi stessi, della nostra appartenenza, questo sì, ma contengono la “verità storica” dei “fatti”? Purtroppo, no. Ciascuno ha la sua verità. Che è sicuramente la propria verità, ma non può essere assunta a “verità storica”. E ogni verità è frutto di personalità, di passioni, sentimenti, emozioni. La stessa realtà ha migliaia di volti e voci e parole e percezioni, incanti e disincanti diversi. Ecco perché i ricordi non si fanno mai memoria collettiva. Confluiscono forse nella grande Storia, ma spariscono senza lasciare traccia. La grande Storia è appannaggio dei re, dei condottieri, dei grandi generali.
Significativa la poesia di Bertolt Brecht “Domande di un lettore operaio”:

Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi.

Il giovane Alessandro conquistò l'India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui?

Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?

Tante vicende.
Tant
e domande.


Giusto. Tante vicende, disseminate in senso diacronico e sincronico sul nostro pianeta, e tante domande che, come Brecht (fortemente impegnato a lottare con il suo Teatro e le sue poesie contro l’analfabetismo dei sentimenti dei ricchi, sempre intenti a perpetrare e perpetuare soprusi contro la povera gente spesso attanagliata solo da quell’analfabetismo strumentale che ne decretava l’ignoranza e ne strangolava rivendicazioni e libertà), avremmo dovuto o dovremmo porci, prima di accettare per vera la Verità storica e la stessa memoria. Ma noi ci accontentiamo dei libri di storia, delle lezioni dei cattedratici, dei saggi dei grandi studiosi, infiocchettati di retorica, inneggianti il ritrovamento dei documenti, inoppugnabili sulla loro veridicità, e dimentichiamo questi dubbi elementari, ma essenziali, che potrebbero condurci per mano a riscoprire il senso profondo dell’arroganza del sapere e quello più innocente della purezza dell’umiltà di chi scopre quotidianamente di non sapere tanto è l’abisso, in cui sprofondano i suoi perché, e consapevole  della impossibilità di conoscere un solo frammento dello scibile umano. Già, l’umiltà! Virtù praticata dai nostri nonni e oggi completamente ignorata dai più, convinti di avere l’abracadabra per aprire tutte le porte del sapere o di tirare fuori dal cilindro la carta vincente, la colomba che vola, il coniglio impaurito che suscita sempre e comunque meraviglia e battimani negli sprovveduti spettatori. Quanti “Io sono il migliore, nessuno può essere meglio di me. Sono io la luce che rischiara le tenebre degli altri!”. Sarebbe più giusto affidarsi alla velleità del dubbio piuttosto che all’arroganza della conoscenza e ripercorrere lungo i viottoli impolverati dei campi, un tempo rigogliosi e oggi dimenticati, i canti di uomini e donne abituati alla frugalità delle parole e dei sentimenti non urlati, ma mai dimentichi di innalzare un inno di Gloria per il Creato e tutte le sue Creature. Grati sempre al buon Dio del dono della semplicità e della vita.
Ed è così che, di generazione in generazione, sopravvivono voci e parole e valori fino a che la ribellione dei nuovi nati non sradichi la tradizione per proporre altri ideali, idee, comportamenti, pensieri. Nel tentativo di rinnovare la società. L’errore dei giovani, però, è sempre in agguato, data la loro inesperienza: purtroppo azzera il passato trovandolo obsoleto, non tenendo conto del prezioso dono della saggezza antica che va conservata nei suoi valori di sempre e rinnovata in tutto ciò che è necessario cambiare per naturale evoluzione e inevitabile trasformazione.
In realtà, tutto cambia e tutto si ripropone. Basta conservare memoria del passato, riproponendolo con tutte le modifiche e correzioni dovute al tempo presente in funzione di quello futuro.
Il passato: una brutta copia sgualcita, rimessa a nuovo non più con carta e penna e inchiostro, né con la macchina da scrivere Olivetti lettera 32 di mia felice memoria, ma con tablet, computer, cellulare di ultimissima generazione per rincorrere il tempo che non dà tregua, proiettato come un’astronave spaziale verso nuovi orizzonti e nuovi cieli.
Di qui la “nostalgia del futuro”, ossia dell’ansia di rinascita continua nella riproposizione di nuovi domani. Con solidi e mai del tutto scompaginati ancoraggi al passato. Per riconoscerci, riscoprirci, ritrovarci in un tempo che non è più il nostro tempo eppure tutti ci contiene nella sua eternità.
E mi piace concludere con una pagina del secondo volume del mio ultimo romanzo, Le piogge e ciliegi, (SECOP edizioni - Corato/Bari) dedicato appunto a mio nonno, leggendario e concreto eroe della mia vita.
“… Per riconoscerci, dunque, è necessario scoprirsi, accendere i fari sui ritrovati ricordi perché si facciano memoria di noi e degli altri, individuale e universale, in un andare a ritroso in quella galleria personale, dove spazio e tempo si azzerano per sconfinare in un “luogo” che ci spaurisce perché cela il mistero di noi e lo attualizza con spietata crudeltà. I fari illuminano quanto avevamo a fatica dimenticato, quanto ci eravamo illusi di azzerare, quanto ci era sembrato giusto soffocare nelle spire della “camera oscura”, dove si aggirano le nostre ombre. Quelle del passato e quelle del presente, in una confusa sarabanda di tempi luoghi azioni situazioni.
                                   Soprattutto le ombre
                 (analizzate a fondo da Carl Gustav Jung),
che avevano reso buio il nostro cielo, condizionato comportamenti nel nostro personale naufragio, in uno scrosciare di pianto da non dire. Occorre imparare a convivere con le nostre ombre se vogliamo salvarci dai sensi di colpa e dai rimorsi. E le lacrime non devono fare rumore se vogliamo essere accettati dagli altri. Se vogliamo accettarci. Per questo le ascoltiamo di notte. Le accogliamo e soffochiamo nel cuscino. Eppure sarebbe bello scoppiare in lacrime di fronte al mondo e dire ecco la mia fragilità, ecco il mio coraggio
(“e quanto è bello chiagnere”, dirà Filumena Marturano dopo una vita di lacrime ingoiate e occhi di ostinato silenzio).
E oggi sono convinta che si può scrivere con autenticità solo delle esperienze vissute in prima persona. Ed essere credibili. Altrimenti è solo una costruzione logica o fantastica, ma priva di verità. Ed è quest’ultima che rende universale la nostra storia privata. Soprattutto quando fa male perché ognuno può ritrovare sé stesso in quella ferita. In quel pianto. Tutto il resto è letteratura per mentire e mentirsi. Divertendosi e divertendo anche. Indicando mondi irreali perché si imparino gli sconfinati spazi della creatività, della fantasia e della immaginazione. E sono stata e sono la prima ad inchinarmi alla grandezza immaginifica dell’uomo. Ma sconfiniamo anche dalla realtà. Che è tanto più vera quanto più ci appartiene e appartiene alla gente che si dibatte in mille contraddizioni e si riconosce nelle qualità e nei limiti, nelle conquiste e negli errori, nell’ideale di quello che vorrebbe essere, e nel reale di ciò che è. E i ricordi servono anche a questo. A darci la nostra giusta dimensione nel tempo e nello spazio.
                    Nella nostra anima che non conosce confini
Ci sono, però, ricordi luminosi che non abbiamo mai dimenticato, che mettono in fuga le nostre ombre e ci aiutano a riafferrare il senso della vita con maggiore gioia di vivere. Soprattutto quando gli anni sono tanti. E ci sorprende come ladro di sogni il disincanto.
È bene, allora, farci illuminare e riscaldare dalla tenerezza di quei ricordi, se vogliamo rinascere e non solo sopravvivere a noi stessi:
                                             volti voci richiami
per mettere in fuga la pioggia che batte con piede cattivo sui nostri pensieri e fare spazio all’arcobaleno che ogni scrosciare d’acque porta con sé.
                 E ogni notte si fa Alba Mattino Tramonto Sera
Poi, si ricomincia. In una scia di luci-ombre-luci… senza fine… (…)
Nella consapevolezza di un tempo che non può tornare, ma può far sentire nel profondo del cuore la necessità di recuperare quanto di buono abbiamo dimenticato per farne nuovo seme per nuovi domani. Con nuovi mezzi nuove modalità nuovi passi nuove strade nuovi volti nuove voci
                                           su antichi richiami.
Ogni domani è il passato capovolto come il cielo in una pozzanghera. Come chiome d’alberi che hanno radici. Come occhi di bimbo ancorati agli occhi della sua mamma. E i domani si sognano prima di realizzarli.
E il sogno non vive e si alimenta nel fondo più profondo della nostra anima?
                 La Nostalgia è Sogno che viene da lontano e va lontano
    È Ricordo che si specchia nel Futuro. Memoria della nostra Umanità!
                             È Tenerezza che Accoglie Protegge Ama”.
I ricordi…
Oggi è il 6 gennaio, giorno di Epifania che tutte le feste porta via. Non è il caso di parlare dell’Epifania e del suo significato teologico con l’arrivo dei Re Magi e dei simboli dell’oro, dell’incenso e della mirra. Ma desidero parlare di un ricordo tenerissimo legato alla Befana.
Sempre, anche se non ci credevamo più da un pezzo, tu ci facevi trovare tra il muschio del presepe qualche sorpresa in dono. Uno di quegli anni t’inventasti un viaggio che non avevi mai fatto e l’incontro con la Befana sul treno. Ce la descrivesti con una tale dovizia di particolari che sembrava che per davvero avessi fatto quel viaggio e quell’incontro. E noi ti guardavamo al colmo della meraviglia, della tenerezza e dell’ammirazione. Ci dicesti, infine, che ti aveva consegnato per noi delle stecche di cioccolato belle e grandi, di cui soprattutto io ero molto ghiotta.
Il 6 gennaio si vestì di cioccolato, di rinnovata fiaba, di mai spenta complicità tra noi (la befana vien di notte/ con le scarpe tutte rotte/ il cappello alla romana/ viva viva la befana!)
                  Tu sempre attento a non farci perdere lo stupore e l’incanto…
A domani con i bellissimi commenti che mi avete inviato. Grazie. Abbraccissimo. Angela

1 commento:

  1. Il primo commento al libro di poesie Alle radici dell'erba, collana I Girasoli, Secop Edizioni 2020"giunge oggi inaspettato da Giovanni Romano che ringrazio per sintesi e contenuto.
    Lo riporto qui di seguito:

    "Ho letto questo libro nel momento migliore per apprezzarlo: la tranquillità e il silenzio della tarda serata, prima di andare a dormire. Quando gli impegni e gli affanni della giornata sono finiti, o quanto meno si lasciano dietro di sé.

    Fa bene all'anima leggere questi versi. Fa bene all'anima sapere che esiste chi sa custodire e donare la meraviglia e la bellezza del mondo, la gratitudine per l'affetto che ha ricevuto, i colori e gli spazi immensi per farci volare nella sua fantasia.

    Non mi stancavo di assorbire questa voce, di seguirla in silenzio nel suo mondo incantato. È la voce di una poetessa sempre più consapevole della propria arte fino a trovare una splendida sintesi per definire che cos'è la propria poesia, e quale effetto opera:

    "La carezza che porta / al disgelo delle palpebre".


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