Oggi è
giornata da non dimenticare mai. La giornata gloriosa di una Vittoria
clamorosa: quella che pose fine al tremendo conflitto della Prima Guerra Mondiale
a Vittorio Veneto, dopo la terribile disfatta di Caporetto e la perdita di
tantissimi nostri giovanissimi soldati. I “ragazzi del ‘99”.
La vittoria
del 4 novembre del 1918 segnò i confini finalmente di una Italia unita con
Trento e Trieste finalmente italiane.
Ed è
bellissima la V di vittoria in maiuscolo.
Visualizza
due dita divaricate, l’indice e il medio, esultanti.
Visualizza
due ali in volo ed è già cielo, oltre ogni confine. È già fratelli in una
patria più ampia che è il mondo intero, l’intero nostro pianeta. Deve essere
così, vogliamo che sia così. Dobbiamo adoperarci tutti, ciascuno con i propri
mezzi, perché ciò accada.
A cento
anni da quella V dispiegata a darci l’euforia di una patria, l’Italia, che non
si rivelò mai, da Nord a Sud, anche “matria” (usato per la prima volta da Italo
Svevo? Curzio Malaparte? Ripreso da Sandro Veronesi nel parlare di Malaparte e
Pasolini? Non ricordo più. So, però, che è il titolo del cortometraggio di
Alvaro Gago, vincitore a Trieste a luglio del 2018 del premio ShorTS). Infatti, mentre al Nord si era
fieri dei Savoia e dei Piemontesi, al Sud si imprecava contro nuove tasse e
gabelle imposte dal loro Governo.
E “matria”
ha per me un significato bellissimo: è il luogo più intimo, profondo, oscuro e
misterioso che ci lega alle nostre radici, alla terra in cui sono sepolti i nostri
avi, alla tenerezza che ci vince ogni volta che pensiamo di avere una patria/matria
e di essere da questa accolti, difesi, protetti, amati.
Ma è,
poi, davvero così?
Oggi,
facciamo i conti con una nazione che spesso ha deluso le nostre aspettative,
che ha ignorato i nostri progetti, che ci ha considerato figliastri piuttosto
che figli.
Di qui
il disinganno e il disincanto. Di qui la fuga all’estero dei migliori nostri
cervelli. Di qui la confusione. Il pressappochismo. Il tira a campare. Il rifiuto
della storia. L’ignoranza sulle motivazioni profonde di alcuni spiriti
illuminati che vollero un’Italia unica e indivisa. Con uno sguardo di speranza
all’Europa per consolidarci nella nostra dignità di “popolo”. Non più “volgo disperso
che nome non ha” (Manzoni).
E da
questa ignoranza o dimenticanza, le scelte sbagliate. I voti dispersi. E nuove
arroganze, le supponenze disgregatrici, che ci stanno di nuovo dividendo e
disperdendo e isolando. Ci stanno rendendo “volgo” per la volgarità di gesti e
di parole. Di intenti. Di promesse fittizie. Di inganni a buon mercato.
Di chi
la colpa? Di quanti l’impegno disatteso?
Ritengo
che siamo un po’ tutti colpevoli. Per innumerevoli motivi che sarebbe troppo lungo elencare, ma che ognuno può cercare e riconoscere nella propria coscienza.
Ma,
forse, siamo anche un po' vittime di un momento storico-socio-culturale difficile perché
complesso, planetario, super tecnologizzato, velocissimo nei suoi tempi
evolutivi, che non ci offrono una identità stabile o un adattamento graduale e
duraturo al cambiamento, almeno nell’arco di una generazione.
E il
sacrificio dei nostri padri rischia una sconfitta più disastrosa di quella di
Caporetto. E, ai primi del Novecento, quantomeno si trattava di un “popolo” per il novanta per cento analfabeta
che scappava “disperso” e senza consapevolezza della propria e dell'altrui “identità” davanti al nemico o lo affrontava con gli scarsi mezzi a disposizione; oggi,
si tratta di cittadini che dovrebbero essere colti e consapevoli, ma che soni affetti, purtroppo, da un “analfabetismo di ritorno” devastante e pericoloso per il presente e
soprattutto per il futuro, non soltanto dell’Italia ma dell’intero pianeta. Ed hanno mezzi di comunicazione e diffusione sempre più sofisticati e dalle impensabili e spesso ingestibili conseguenze a livello planetario.
Pessimista
io?
Penso
che, almeno per una volta, io sia semplicemente realista.
E, a questo proposito,
mi sembra utile riproporre qui una paginetta tratta dal mio ultimo romanzo “Le
piogge e i ciliegi” (SECOP edizioni 2018), di cui spesso scrivo e parlo. Anche per
promuoverlo e diffonderlo. Per i valori di sempre che vivono e rivivono dentro.
E l’interlocutore è, come si sa, mio nonno.
“Durante quella
terribile guerra, dicevi, ti eri reso conto che spesso i nemici non erano
quelli che stavano oltre la trincea, ma gli stessi vostri superiori. Parlavi
dell’intransigenza impietosa del generale Cadorna che tra voi soldati
chiamavate ‘carogna’ per via dei compagni che non facevano più ritorno dopo
essere stati accusati di ‘alto tradimento’ perché scappavano davanti al
pericolo non sapendo neppure perché dall’altra parte ci fossero altri uomini
che bisognava considerare nemici e bisognava uccidere. Molti scappavano e
basta. Per paura e senza avere il benché minimo sospetto di tradire la patria. ‘Disertore’
era per tutti voi una parola sconosciuta.
Era, invece, la
patria a tradirli nelle vesti del generale Cadorna che non perdonava né la
paura né l'ignoranza né la giovanissima età di molti ragazzi che, dopo la
disfatta di Caporetto, furono mandati ad ostacolare l’avanzata dell’esercito
tedesco e siccome arretravano invece di avanzare, furono condannati alla
decimazione. I particolari è superfluo riportarli qui. Sta di fatto che alcuni
avevano poco più di sedici anni e ancora ‘la bocca di latte’. I famosi ragazzi
del ’99. Capretti mandati al macello da una patria imperiosa. Impietosa.
‘Finivano davanti al
plotone di esecuzione’, dicevi rattristandoti. ‘Almeno quella era la voce che
correva fra di noi, tra maledizioni, bestemmie e qualche preghiera per le loro
povere anime’.
Quanto ingiusta la
guerra di sempre!
(pórtənə rə pèitə au parètə sémbə rə fìghhjə du cànə màzzə…)
(ne fanno le spese e
soccombono sempre i figli di chi ha già patito tanto per la fame e altre
miserie…)”
Dobbiamo
augurarci una nuova Vittoria con la V maiuscola per riportarci alla dignità alla
solidarietà e alla speranza, che furono vessillo di umanità, di unità e di pace
per i nostri nonni e bisnonni.
Che non possiamo né dobbiamo dimenticare…
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