Sostiene Marc Augé, che ha “inventato”
l’espressione “non luogo”: “Quando il pensiero è incapace di pensare la fine
del tempo, cerca sempre di rappresentarsela in termini spaziali. Di qui la
possibilità di pensare l’aldilà come un non luogo”.
Un non luogo, dunque, uno spazio
senza identità e senza memoria, che l’uomo si finge perché non sa pensare il
nulla. Ma il non luogo assoluto non esiste - sostiene ancora Augé - dato che “in
qualsiasi spazio c’è sempre, almeno potenzialmente, la possibilità di un
incontro”.
Il Camposanto è, pertanto, un “non
luogo”, che ha uno spazio delimitato: il campo. E una connotazione ben
definita: santo o sacro. E il “campo” è una possibilità d’incontro. “Santo” o
sacro circoscrive un mistero, il senso del divino. Inviolabile e
incommensurabile.
Mentre, campo senza aggettivi dà l’idea
di un campo di battaglia, di lotta, di sovraesposizione di forza e di vita, di
violenza. Il campo, però, può indicarci, è vero, il
rosso del sangue, ma anche quello dei papaveri nel verde pacificato dell’erba,
il giallo generoso del grano, il marrone bruciato delle stoppie.
“Campo” è anche uno spazio
recintato, dove uomini liberi, in quanto uomini, perdono con la propria terra
senza confini la libertà di vivere come uomini. Un campo recintato può essere
anche un “campo profughi”, anche lì un “non luogo”, dove esseri umani perdono
terra e memoria di sé e luoghi cari e persone amate e libertà di essere e di
vivere. Sicuri. Sereni. Rispettosi di sé e degli altri.
Il campo, perciò, è anche silenzio
e solitudine. Dolore.
Nel suo perimetro proliferano numeri
di uomini ridotti ad un numero.
Se, poi, il campo è santo, allora,
nel suo perimetro di silenzio e di morte si distendono tombe, fioriscono
preghiere. Nel suo spazio delimitato si respira la sacralità di ciò che ci
sfugge e ci incute timore, paura, quasi a rendere visibile l’assenza, il vuoto,
il nulla. Esiste e resiste, perciò, il sacro senso del pianto che
prodigiosamente non scende a bagnare la terra, ma s’innalza a cercare il Cielo,
quell’aldilà che deve avere un suo tempo e un suo spazio infinito. Come è
infinita l’anima che non ha dimora nella tomba, ma spazia nel suo “non luogo”
immenso.
Il cimitero, allora, con le sue
tombe, è un luogo che rende visibile l’assenza, e offre uno spazio misurabile
al “non luogo” dell’assenza, presente solo in un nome sotto un volto. Nome e
volto riempiono lo spazio vuoto tra due date: nascita e morte. Quel nome e quel
volto, quando ci sono, quelle date, quando ci sono, fermati nel tempo e in quel
piccolo spazio, sono l’identità di una vita. Dipanano una storia. Che per molti
non ha più senso (“sic transit gloria mundi”). Per altri ha ancora senso. Perché
un uomo è un uomo sempre. Lascia una traccia di sé in chi lo ha amato, in chi
lo ama. E spesso il dialogo muto con le tombe vede chi va a piangere il proprio
amore/dolore di spalle. Di spalle l’amore/dolore, perché non ha volto né voce l’amore/dolore.
È nel cuore il luogo/non luogo dell’amore/dolore. Immobile è l’amore/dolore. Immobile
è seduto e arreso è l’amore/dolore nei cimiteri. L’amore/dolore piegato in
ginocchio. Paziente. È un amore/dolore mai dimenticato, che non dimentica. È paziente
attesa dell’incontro l’amore/dolore dei cimiteri. Mai rassegnato. Mai vinto.
Ma l’amore/dolore che abita dentro
è certezza e speranza. Non è seduto, non è di spalle. Non è immobile. Macchia scura
di vesti nere.
È tenerezza di dialogo quotidiano.
È dolcezza di parole. È carezza dell’anima all’anima.
E, nel dialogo muto che muta il
dolore in preghiera, fiorisce la consolazione.
E l’anima diventa un campo sacro
di fiori di ogni specie, calici assetati di luce a ricordare la vita. I mille
luoghi della consolazione sono racchiusi nell’unico luogo che ci conforta
davvero: la nostra anima.
Nel cimitero, i cipressi alti si
contendono, con le anime, il cielo…
My name was…
Anche per questo non amo i
cimiteri. E per molto altro ancora…
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