venerdì 30 novembre 2018

Il profumo e la dolcezza de "Le piogge" - L'attesa e l'allegria de "I ciliegi"


Mamma mia! Mio carissimo Nicola, sono rimasta senza parole! Durante la serata di presentazione non tutte le tue meravigliose annotazioni mi sono giunte chiare all’orecchio! Ma oggi, dopo aver ricevuto il tuo file, che SPLENDORE!!!! Non riesco a formulare altro. Devo metabolizzare tutto incanto per poterne parlare. Lo farò a breve. Dopo aver postato nel mio blog, in due puntate, il tuo straordinario Intervento. Perché ora è tempo di leggere e rileggere parola per parola, un po' come le ciliegie, una tira l'altra, e ne senti il profumo, la dolcezza, l'allegria, l'attesa e il compimento. il PRODIGIO del loro canto, che era/è ringraziamento e preghiera.
Nicola, che gioia immensa l’altra sera, ma ancor di più stamattina. E non faccio altro davvero che leggere e rileggere per riconoscermi e riconoscerti e riscoprire le antiche radici comuni che fanno di noi quelli che siamo. Con quel pizzico di autenticità, di poesia, di amore per le cose belle, la vita, gli altri... In una sintesi armoniosa, che ci viene da lontano e ci connota. Ed è bello scoprirlo insieme. Saperlo. Ti abbraccio con tutto il mio cuore. Lina

Io ringrazio Lina per questo suo romanzo. Innanzitutto per l’emozione che esso riesce a produrre: in fondo le radici di Lina sono le radici di una generazione come la mia che ha avuto padri contadini, una generazione che oggi può dirsi fortunata per aver vissuto quel sogno dell’infanzia e della giovinezza, per non aver conosciuto la noia, per aver visto la luce scivolare sugli alberi e lungo l’arco del cielo, per aver sperimentato la onestà, la generosità, la dignità, l’amore per la vita, l’amore per gli altri: un tempo cadenzato dal suono della lingua dialettale e come segnato da una dimensione profetica, come intriso da una dimensione umana che sapeva di sudore e di rinunce, di attese e di speranze, di giornate grigie, ma anche di giorni che ti facevano respirare una gioia leggera nell’aria, pregna di un profumo che sapeva di ulivo e di sapone, talvolta sfumante nel fiabesco, giorni segnati nell’anima dal sapersi aprire agli altri e resi luminosi dagli occhi dei nostri padri e delle nostre madri che sapevano parlarsi, gli occhi dei nostri padri instancabili e muti che ci amavano senza parole e gli occhi delle nostre madri che avevano le mani coperte di farina o di schiuma.
E il romanzo  di Lina si fa memoria del cuore, perché la memoria comincia dal rumore di un cuore, e si fa voce dell’anima, ovvero si fa racconto di questo viaggio nel tempo a ritroso, con sequenze filmiche che hanno come campo scenico via Maggiore angolo via De Rossi e il cortile di via Montemar dominato da un maestoso gelso rosso: su questo campo scenico si succedono immagini che hanno il tocco di leggerezza, immagini che man mano che scorrono danno la consapevolezza del nostro esistere e tracciano il filo che delinea una traiettoria esistenziale, mentre ci si dispone alla ricerca di sé e si esalta l’ancestrale armonia con gli affetti più cari.
La casa di via Maggiore: “una casa austera, ricca di scale, di travi a vista, di archi e sottoscala, di inesplorati anfratti” dove riporre provviste di olio, grano, vino.
Il cortile di via Montemar ovvero la casa del gelso e delle rose: l’albero del gelso rosso svettante come metafora della vita nel suo rigoglioso e generoso espandersi per offrire ombra e rifugio, accanto una scalinata in pietre bianchissime con grandi lastroni laterali sormontati da un arco a proteggere ballatoi e verdeggianti fioriere, le rose rampicanti, il pergolato, un tripudio di colori e di profumi in uno spazio che sa di paradiso terrestre.
Sono, dunque, il canto e la memoria a costituire la trama di questo romanzo armonioso e complesso che si fa narrazione di una storia a più dimensioni, ora autobiografia ora diario ora vicende degli altri, una storia narrata con vitalità dirompente e attraversata da luci fosforescenti.
La costruzione narrativa si snoda in pagine di coinvolgente liricità, generate dalla coscienza dei molteplici fili, invisibili quanto tenaci, che uniscono il proprio vivere al racconto che senza soste l’autrice intesse. Lo scorrere della propria vita fa e disfa le varie storie, le loro simmetrie, le loro risonanze, senza il bisogno di inventare nulla, storie che si dipanano come le anse di un fiume, le ramificazioni di un delta, le nervature di una foglia.
Il romanzo si apre alla storia di sé e alle storie degli altri: di Francesca (alta, magra, segaligna e brontolona) che, con suo figlio Michelino (che studiava e insegnava filastrocche) e con il marito Agostino (sempre assente), abitava al piano di sopra in via Maggiore e accudiva una mamma vecchissima confinata in un letto (la sua faccia era cerea come di creta bianca, sempre avvolta in un silenzio surreale); poi di Sabellina, una donna gioviale, con un figlio Vitino che realizza il teatrino di legno e di cartapesta in cui far muovere i suoi burattini e amante del clarinetto, e un marito calzolaio, col suo deschetto scuro e pure sagrestano della chiesa di san Giovanni, è mèst Pèpp du càzz, una macchietta gustosissima; di Annìn- St-ddùzz- dai capelli bianchi scarmigliati, instancabile nel bisbigliare parole sconnesse e nel battere il pugno della destra sul palmo aperto della mano sinistra; delle signorine Lanzisera con i loro dolci e caramelle sul bancone stile liberty e i pettinini d’osso nei capelli; di Janna Sànd- d- r- mmìir-, rubiconda nella sua botteguccia impregnata di forte odore di mosto.
Tutte donne ingenue, ignoranti, semplici, tristi o ciarliere, tutte timorate di Dio: “Sembrava non avessero ansie né dubbi. Vivevano come respiravano. Accettavano la vita così come veniva. Senza ribellioni. Senza ripensamenti. Donne senza tempo. Senza età. Senza storia. Ma sempre pronte a portare sulle loro fragili spalle il mondo, sempre pronte a farsi un segno di croce per propiziarsi Dio per sé e soprattutto per gli altri”.
Sono le donne vestite di nero del nostro romanzo. Statuarie, come lo statuario Luigi u tròmb-  destinato a divenire pure lui “un abisso di silenzio, seduto per terra davanti ad un portone con lo sguardo perso nel nulla e la barba bianca incolta”.
Il romanzo di Lina per tutto ciò non puoi non dirlo un romanzo storico e un romanzo di memorie, multiforme e appassionante, nato dalla consapevolezza di possedere saldamente un bagaglio di esperienze umane e dal bisogno di raccontare la propria vita, di raccontare la realtà.
Ti fa pensare a quei forzieri orientali dai molti cassetti incastrati, dove al più interno si arriva solo dopo averne aperti alcuni secondo un ordine preordinato. E tu finisci preso dal desiderio di continuare ad aprire, di riandare indietro, di frugare, di inseguire visioni di cose che senti come tue, di scoprire vicende di persone che hai l’impressione di averle pure tu da sempre conosciute.
Scorre il tempo che passa: il tempo come misura interna agli eventi narrati, come oggetto di rappresentazione diretta, come tema stesso di riflessione.
Il romanzo di Lina legato al ricordo e al suo impossibile recupero ingloba presenze ed incontri e approfondisce il solco che la memoria scava fra i momenti di un passato felice e un presente che spesso si scopre vuoto e smarrito.

Spetta al tocco leggero della narrazione della rimembranza e alla suggestiva potenza lirica delle immagini con la loro valenza metaforica intensificare e dilatare i sentimenti. (fine prima parte)


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