Mamma mia! Mio carissimo Nicola,
sono rimasta senza parole! Durante la serata di presentazione non tutte le tue meravigliose
annotazioni mi sono giunte chiare all’orecchio! Ma oggi, dopo aver ricevuto il
tuo file, che SPLENDORE!!!! Non riesco a formulare altro. Devo metabolizzare
tutto incanto per poterne parlare. Lo farò a breve. Dopo aver postato nel mio
blog, in due puntate, il tuo straordinario Intervento. Perché ora è tempo di
leggere e rileggere parola per parola, un po' come le ciliegie, una tira
l'altra, e ne senti il profumo, la dolcezza, l'allegria, l'attesa e il
compimento. il PRODIGIO del loro canto, che era/è ringraziamento e preghiera.
Nicola, che gioia immensa l’altra
sera, ma ancor di più stamattina. E non faccio altro davvero che leggere e
rileggere per riconoscermi e riconoscerti e riscoprire le antiche radici comuni
che fanno di noi quelli che siamo. Con quel pizzico di autenticità, di poesia,
di amore per le cose belle, la vita, gli altri... In una sintesi armoniosa, che
ci viene da lontano e ci connota. Ed è bello scoprirlo insieme. Saperlo. Ti
abbraccio con tutto il mio cuore. Lina
Io ringrazio Lina
per questo suo romanzo. Innanzitutto per l’emozione che esso riesce a produrre:
in fondo le radici di Lina sono le radici di una generazione come la mia che ha
avuto padri contadini, una generazione che oggi può dirsi fortunata per aver
vissuto quel sogno dell’infanzia e della giovinezza, per non aver conosciuto la
noia, per aver visto la luce scivolare sugli alberi e lungo l’arco del cielo, per
aver sperimentato la onestà, la generosità, la dignità, l’amore per la vita,
l’amore per gli altri: un tempo cadenzato dal suono della lingua dialettale e
come segnato da una dimensione profetica, come intriso da una dimensione umana
che sapeva di sudore e di rinunce, di attese e di speranze, di giornate grigie,
ma anche di giorni che ti facevano respirare una gioia leggera nell’aria,
pregna di un profumo che sapeva di ulivo e di sapone, talvolta sfumante nel
fiabesco, giorni segnati nell’anima dal sapersi aprire agli altri e resi
luminosi dagli occhi dei nostri padri e delle nostre madri che sapevano
parlarsi, gli occhi dei nostri padri instancabili e muti che ci amavano senza
parole e gli occhi delle nostre madri che avevano le mani coperte di farina o
di schiuma.
E il romanzo di Lina si fa memoria del cuore, perché la
memoria comincia dal rumore di un cuore, e si fa voce dell’anima, ovvero si fa
racconto di questo viaggio nel tempo a ritroso, con sequenze filmiche che hanno
come campo scenico via Maggiore angolo via De Rossi e il cortile di via Montemar
dominato da un maestoso gelso rosso: su questo campo scenico si succedono
immagini che hanno il tocco di leggerezza, immagini che man mano che scorrono
danno la consapevolezza del nostro esistere e tracciano il filo che delinea una
traiettoria esistenziale, mentre ci si dispone alla ricerca di sé e si esalta
l’ancestrale armonia con gli affetti più cari.
La casa di via
Maggiore: “una casa austera, ricca di scale, di travi a vista, di archi e
sottoscala, di inesplorati anfratti” dove riporre provviste di olio, grano,
vino.
Il cortile di via
Montemar ovvero la casa del gelso e delle rose: l’albero del gelso rosso
svettante come metafora della vita nel suo rigoglioso e generoso espandersi per
offrire ombra e rifugio, accanto una scalinata in pietre bianchissime con
grandi lastroni laterali sormontati da un arco a proteggere ballatoi e
verdeggianti fioriere, le rose rampicanti, il pergolato, un tripudio di colori
e di profumi in uno spazio che sa di paradiso terrestre.
Sono, dunque, il
canto e la memoria a costituire la trama di questo romanzo armonioso e
complesso che si fa narrazione di una storia a più dimensioni, ora
autobiografia ora diario ora vicende degli altri, una storia narrata con
vitalità dirompente e attraversata da luci fosforescenti.
La costruzione
narrativa si snoda in pagine di coinvolgente liricità, generate dalla coscienza
dei molteplici fili, invisibili quanto tenaci, che uniscono il proprio vivere
al racconto che senza soste l’autrice intesse. Lo scorrere della propria vita fa
e disfa le varie storie, le loro simmetrie, le loro risonanze, senza il bisogno
di inventare nulla, storie che si dipanano come le anse di un fiume, le
ramificazioni di un delta, le nervature di una foglia.
Il romanzo si
apre alla storia di sé e alle storie degli altri: di Francesca (alta, magra,
segaligna e brontolona) che, con suo figlio Michelino (che studiava e insegnava
filastrocche) e con il marito Agostino (sempre assente), abitava al piano di
sopra in via Maggiore e accudiva una mamma vecchissima confinata in un letto
(la sua faccia era cerea come di creta bianca, sempre avvolta in un silenzio
surreale); poi di Sabellina, una donna gioviale, con un figlio Vitino che
realizza il teatrino di legno e di cartapesta in cui far muovere i suoi
burattini e amante del clarinetto, e un marito calzolaio, col suo deschetto
scuro e pure sagrestano della chiesa di san Giovanni, è mèst Pèpp du càzz, una macchietta
gustosissima; di Annìn- St-ddùzz- dai capelli bianchi scarmigliati, instancabile
nel bisbigliare parole sconnesse e nel battere il pugno della destra sul palmo
aperto della mano sinistra; delle signorine Lanzisera con i loro dolci e
caramelle sul bancone stile liberty e i pettinini d’osso nei capelli; di Janna
Sànd- d- r- mmìir-, rubiconda nella sua botteguccia impregnata di forte odore
di mosto.
Tutte donne
ingenue, ignoranti, semplici, tristi o ciarliere, tutte timorate di Dio:
“Sembrava non avessero ansie né dubbi. Vivevano come respiravano. Accettavano
la vita così come veniva. Senza ribellioni. Senza ripensamenti. Donne senza
tempo. Senza età. Senza storia. Ma sempre pronte a portare sulle loro fragili
spalle il mondo, sempre pronte a farsi un segno di croce per propiziarsi Dio
per sé e soprattutto per gli altri”.
Sono le donne
vestite di nero del nostro romanzo. Statuarie, come lo statuario Luigi u
tròmb- destinato a divenire pure lui “un
abisso di silenzio, seduto per terra davanti ad un portone con lo sguardo perso
nel nulla e la barba bianca incolta”.
Il romanzo di
Lina per tutto ciò non puoi non dirlo un romanzo storico e un romanzo di
memorie, multiforme e appassionante, nato dalla consapevolezza di possedere
saldamente un bagaglio di esperienze umane e dal bisogno di raccontare la
propria vita, di raccontare la realtà.
Ti fa pensare a
quei forzieri orientali dai molti cassetti incastrati, dove al più interno si
arriva solo dopo averne aperti alcuni secondo un ordine preordinato. E tu
finisci preso dal desiderio di continuare ad aprire, di riandare indietro, di
frugare, di inseguire visioni di cose che senti come tue, di scoprire vicende
di persone che hai l’impressione di averle pure tu da sempre conosciute.
Scorre il tempo
che passa: il tempo come misura interna agli eventi narrati, come oggetto di
rappresentazione diretta, come tema stesso di riflessione.
Il
romanzo di Lina legato al ricordo e al suo impossibile recupero ingloba
presenze ed incontri e approfondisce il solco che la memoria scava fra i
momenti di un passato felice e un presente che spesso si scopre vuoto e
smarrito.
Spetta al tocco leggero della narrazione della rimembranza e alla
suggestiva potenza lirica delle immagini con la loro valenza metaforica
intensificare e dilatare i sentimenti. (fine prima parte)
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