Ed è proprio la memoria, come fuoco che non può essere
spento, ad aprire la via alla riscoperta di sé, della propria identità che si
fa mondo. “Vogliamo dimenticare - No, vi sbagliate, ricordare bisogna”:
continuamente ribadisce Lina come l’indimenticabile Elia del film “Il bene mio”
di Pippo Mezzapesa, perché è la memoria che può riportarci ai valori primari di
accoglienza, di solidarietà, di apertura verso gli altri. Scopri allora
attraverso questo recupero della memoria che essa non è qualcosa di archeologico,
bensì è seme per creare il futuro.
“Raccontare per non dimenticare”, tu dici, “perché la nostra
storia non è cominciata con i giorni conosciuti, ma con tutti quelli ignorati e
da altri vissuti prima del nostro affaccio al mondo. … E il passato attraversa
il presente per farsi futuro. E nel presente affondano/affiorano i ricordi”.
Allora questo romanzo della memoria si rivela un archivio
dei ricordi felici e infelici, arcani e dolorosi, fragili e crudeli, effimeri
ed ostinati, un archivio riattraversato dal tempo interiore dell’io che si è
venuto articolando nel passato, un passato anch’esso riattraversato dalle
emozioni e passioni che ha prodotto nell’animo di Lina, che ne recupera le
immagini, le esperienze, le speranze, i sorrisi e i gesti che hanno riempito le
stagioni della sua infanzia, della sua giovinezza, della sua maturità.
Così, riallineandosi i fili del lungo processo della
memoria, il lettore è come condotto per mano a inoltrarsi in una galleria di
immagini, suoni e persone con illuminazioni diverse.
Sono pagine piene di luce, non prive di una elettricità
simbolica che mostra un piccolo mondo antico con una chiarezza integrale e
umilmente magnificente. Una successione di momenti epifanici che agganciano la
nostra immaginazione, la saturano in maniera incredibile con questo risalire
all’indietro e raccontare destini con articolate e luminose dimensioni di
spazio e di tempo densi di energia.
Lina è una grande colorista, la sua lingua conosce il pastiche ricco
e frastagliato e sa inseguire con un rigoroso entusiasmo i vari cromatismi,
mettendo in scena una lingua fluida, arguta, divagante, istrionica, non
trascurando le più diverse variazioni del paesaggio della natura o urbano o del
cuore umano, non senza una punta di compiacimento o di preziosismo estetico
fine a se stesso. Una lingua ricca, la sua, sempre a fuoco, pronta a
dispiegarsi per descrivere il rapporto intercorrente tra lo stato delle cose e
lo stato di coscienza, pronta a cogliere il particolare, il dettaglio
momentaneo che riassume una vita, che a volte la rivela, che sempre la
coinvolge. Una lingua che si apre spesso all’uso del dialetto, perché il
dialetto è la lingua della memoria, è la lingua di casa, la lingua
dell’amicizia, della vicinanza.
Le storie si intricano come rami di un albero, segno
dell’inestricabile complessità del mondo, del legame profondo di ogni cosa, di
ogni persona con la sua vita, con la sua capacità di vedere dentro e di saper
vedere oltre. E come i rami si innestano, così sparse nella narrazione si
innestano con discrezione ma cadenzata necessità allusioni letterarie atte a
creare un concerto di suggestioni illuminanti sia per l’autrice sia per il
lettore, allusioni che incrociano e interrogano la nostra vita e mirano a dare
senso e prospettiva ai comuni passaggi del destino.
Allora puoi capire anche la foglia bagnata di pioggia posta
in copertina: una immagine metafora della scrittrice immersa nel ricordo dei
giorni antichi e trasportata nel vento, un richiamo dell’infanzia che fa
pensare ai versi di Sujata Bhatt: “Sono quella / che va via, sempre / via con
la casa / che può restarmi dentro il sangue / - la mia casa che non ha posto /
in nessuna geografia”.
Spunta la nostalgia, ma una nostalgia che non è solo
restaurazione di un passato perduto, bensì alimento di speranza e memoria del
futuro, in quanto capace di indurre a riconsiderare la nostra vita alla luce
degli infiniti sconfinamenti dal passato al futuro e da questo a quello. Lina
ci sprona a guardare dentro di noi, a riscoprire quello che ci unisce agli
altri, a non temere di inoltrarci negli abissi della nostra interiorità. Questa
nostalgia ha una funzione etico-paideutica: essa ha la potenzialità di far
rinascere dal passato momenti di vita perduti che riescono a rinascere in noi
una volta adulti, animati di speranze e di slanci altrimenti irraggiungibili.
Ecco l’epicità della figura di nonno Mincuccio, un uomo
"un po' eroe e un po' cantastorie, un po' contadino e un po' principe, un
po' adulto e un po' bambino, un uomo di forte tempra, capace di far apparire
tra le mani ingenui prodigi e di nascondere nel cuore immensi dolori, capace di
raccontare favole e fiabe, nonché di mirare all'Amore e saperlo donare come le
ciliegie, appena colte, in un paniere ancora intatto di stupore:
“Tu incarni e universalizzi il senso dell’Uomo. Nella sua
accezione più bella. Uomo-spiga di sole e luna di pane, girandola d’arcobaleni,
svolazzo di cieli, sorriso di onde, riserva di granai, misura di bilance,
chiarezza di pianure, altezza di monti, abbraccio di ponti, crocevia di genti”:
queste tue denominazioni riferite alla figura di nonno Mincuccio sembrano
epiteti omerici o nomi-appellativi coloriti dei vecchi indiani, i quali
sceglievano il nome in base al proprio spirito.
Di qui il piacere e la dolcezza che comunicano questi
itinerari di Lina, itinerari dell’anima pregni di freschezza e del sapore di
quell’intimità segreta che ti insegna a custodire il passato per incontrare il
futuro. E ti spieghi la pioggia come metafora di un mistero che ci avvolge e ci
sovrasta, ci mette in contatto con i nostri limiti, i nostri muri interiori, le
nostre paure più profonde. Ma la pioggia sussurra parole lontane e fa salire
dal basso profumo di terra tra un inno di gelsi rossi e di rose che esalta e
rincuora: “nasco / nell’odore che la pioggia / sospira dai prati / di erbe
vive”, cantava il grande Pasolini. E la pioggia fa sentire meno soli e fa
rispuntare dentro di noi un’ansia di altri tempi. Senza dimenticare che la
pioggia, “oltre che lavare ferite, ricucire progetti, ricamare nuovi
arcobaleni”, ci riportava (o ci restituiva?) i padri al tepore domestico, e le
ciliege ci davano il senso mai perduto dell’attesa e mettevano in moto tutte le
fibre del nostro essere, animati dalla speranza e dalla prospettiva della gioia
per le ciliege in arrivo.
“Guardiamo il mondo una volta, nell’infanzia. / Il resto è
memoria” scrive la poetessa Louise Gluck: ed è un guardare che ci segna e
disegna una forma di apprendimento indelebile nella nostra mente: la mappa
del nostro immaginario, la filigrana della nostra sensibilità. È la voce
dell’infanzia che ci richiama a un mondo di cose e persone che non è più. Di
qui la sua natura elegiaca. L’epica favolosa dell’infanzia, per
effetto della distanza, fatalmente si sfrangia e si sfalda in una elegia, a
volte asciutta, a volte dolorosa, sempre però tenuta a freno da una sapienza
stilistica che risolve in metafore e immagini piene di empito sentimentale.
Il tempo appare sospeso come in una immobilità di sogno.
E con esso i gesti dei personaggi, in un silenzio irreale, rotto solo dal
rumore della pioggia, la cui violenza sembra tuttavia bandita dal chiuso della
casa, tenuta a bada dalla figura di nonno Mincuccio e ingentilita dalla
presenza di nonna Angelina, lui odore di terra e profumo di pioggia, lei odore
di pane impastato col segno della croce e profumo di casa.
E le loro figure continuano a vivere nello spazio sacro del
ricordo che fatalmente ci risucchia e risuona nel cuore. Perché in fondo il
romanzo di Lina specifica che la memoria comincia / dal rumore del cuore.
E lei scrive per non dimenticare il sogno vissuto nello spazio-luce
dell’infanzia, inverando le parole del grande Pier Paolo Pasolini: “La
più grande attrazione di ognuno di noi / è verso il Passato, perché è l’unica
cosa / che noi conosciamo ed amiamo veramente. / Tanto che confondiamo con esso
la vita. / È il ventre di nostra madre la nostra meta”.
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